Alessandro VIII
Appartenente a una stirpe originaria di Padova o della Dalmazia, Pietro Ottoboni nacque a Venezia il 22 aprile 1610 da Marco e Vittoria Tornielli. Gli Ottoboni erano "cittadini originari" di Venezia ed occupati ai sommi gradi nelle magistrature cittadine riservate a non patrizi. Il padre Marco fu il terzo tra i cancellieri grandi che il clan annoverò. Destinato dalla strategia familiare (era il più giovane tra i maschi) alla carriera ecclesiastica, compì gli studi a Padova per poi addottorarsi "in utroque iure" a Roma, dove si trasferì nel 1630. Qui rimase i primi tempi sotto la protezione del decano degli auditori di Rota G.B. Cuccini, che gli ottenne la nomina a referendario delle due Segnature, primo gradino della prelatura, e sotto il meno produttivo patronato del cardinale veneziano F. Cornaro. Dopo inizi alquanto sofferti, affrontati soprattutto grazie al denaro inviatogli regolarmente dai familiari veneziani (l'apporto regolare di costoro alla sua carriera, non solo in termini finanziari, ma anche nel delineare minuziosamente ogni mossa da compiere per garantirsi il successo, è testimoniato da un corposissimo epistolario), Pietro fu governatore di Terni nel 1639, di Rieti nel 1640 e di Città di Castello nel 1641. Il 13 novembre 1643 fu nominato da Urbano VIII auditore della Sacra Rota.
Nel quotidiano esercizio di questo ufficio, tenuto per circa dieci anni, Ottoboni rivelò un'autentica vocazione giuridica (le sue consulte, meritatamente famose, vennero raccolte e pubblicate: Decisiones Sacrae Rotae Romanae coram R.P.D. Petro Otthobono [...], Romae 1657), maturando una larga e approfondita esperienza canonistica che restò poi sempre, sostanzialmente, a fondamento di tutta la sua attività di Curia e della stessa sua concezione della Chiesa, intesa, prima che come realtà spirituale, come organismo giuridico saldamente impiantato in un corpo di dottrine e di diritti da custodire e difendere inflessibilmente nella sua integrità.
In Venezia, intanto, la famiglia Ottoboni viveva un grave momento di crisi. Nel 1646 la Serenissima aveva deliberato, al fine di reperire denaro utile allo sforzo bellico contro il Turco che aveva attaccato il possedimento di Candia, di aggregare al patriziato coloro che fossero stati in grado di versare alle casse pubbliche la somma di 100.000 ducati. Gli Ottoboni, malgrado la tentazione, non credettero di potersi sottrarre all'impegno e reperirono la somma richiesta indebitandosi fortemente. I beni della famiglia erano amministrati secondo il sistema veneziano della "fraterna", che li voleva distribuiti in parti uguali tra i componenti del clan, ma gestiti in comune, alla stregua dei beni di una società commerciale. I contrasti violenti tra i quattro fratelli Ottoboni - Marcantonio si affiancò a Pietro contro Agostino e Giovan Battista - portarono il gruppo familiare al trauma della divisione dei beni. Qualche decennio più tardi, nei primi anni Ottanta, la grave situazione debitoria dei figli del fratello Agostino, Marco e Antonio, portò alla ricostituzione unitaria del patrimonio che tornò interamente nelle mani di Pietro.
L'acquisizione del patriziato veneziano, che gli garantì gli uffici della Serenissima, l'attività svolta alla Rota, i frequenti contatti con le Congregazioni romane e i vari ambienti di Curia gli valsero il 19 febbraio 1652 la nomina a cardinale e, due anni dopo, il 7 dicembre 1654, a vescovo di Brescia. In realtà Pietro accettò la nomina a malincuore, perché avrebbe desiderato rimanere in Roma ed avanzare nella prelatura. I suoi tentativi di ottenere il permesso di rinunciare quella diocesi sono documentabili fin dal tempo della designazione.
A Brescia Ottoboni restò invece dieci anni, reggendo comunque la diocesi con impegno. Particolare interesse portò alla questione dei pelagini di val Camonica, un gruppo di quietisti che svolgeva intensa azione di proselitismo nella diocesi bresciana. Ottoboni cominciò con le ammonizioni e le intimazioni a sciogliere gli oratori, quindi passò, in perfetta collaborazione con l'Inquisizione bresciana, alla repressione diretta e, nel giro di due anni (1655-1657), liquidò il gruppo quietista, i principali esponenti del quale furono arrestati, processati, costretti ad abiurare e quindi confinati in vari luoghi del territorio della Repubblica veneta. In questo primo contatto con ambienti e dottrine eterodosse, Ottoboni manifestò grande energia e decisa volontà di estirpare dal corpo della Chiesa ogni escrescenza ereticaleggiante che ne potesse minimamente incrinare l'organica solidità e compattezza. Si cominciò a delineare così chiaramente l'orientamento generale di Ottoboni in tutto ciò che concerneva la dottrina e la disciplina della Chiesa: estrema intransigenza nella difesa dei principi che ne costituivano il fondamento, e in conseguenza lotta ad oltranza contro quietismo, regalismo, giansenismo.
Nel 1664 Ottoboni lasciò, con l'approvazione di Alessandro VII, il governo della diocesi e si trasferì definitivamente a Roma. In Curia aveva già acquistato un certo prestigio, legandosi agli influenti cardinali Azzolini e Albizzi che dirigevano il cosiddetto "squadrone volante", un gruppo di cardinali che tendeva a sottrarre la politica della Chiesa all'eccessiva influenza delle grandi potenze cattoliche. Al suo ritorno a Roma, Ottoboni riannodò i vecchi legami, del resto mai del tutto interrotti, e nel conclave del 1667 fu posta addirittura la sua candidatura, anche se subordinatamente a quella di Giulio Rospigliosi che, divenuto papa, lo creò datario, uno dei ruoli curiali più ambiti. Nel corso del breve pontificato di Clemente IX l'influenza di Ottoboni crebbe considerevolmente ed una non isolata scrittura satirica del tempo, dal titolo significativo di Il colloquio delle volpi, definiva il veneziano e il cardinale D. Azzolini - le due volpi, appunto - come i dominatori assoluti delle vicende curiali.
Il ruolo di Ottoboni divenne, però, soprattutto determinante solo nel corso del pontificato di Innocenzo XI. Elemento di punta della Congregazione del Sant'Uffizio, della quale era anche segretario, intervenne autorevolmente in tutte le più importanti questioni dottrinali e disciplinari dibattute in quegli anni.
Oltre a contribuire ad affossare il progetto antinepotista del pontefice, e ad ostacolare tutti i progetti di riforma della struttura curiale sostenuti da Innocenzo XI (alla cui biografia si rimanda), Ottoboni partecipò alla speciale Congregazione cardinalizia convocata (marzo 1687) per giudicare il padre P.M. Romiti e i suoi compagni dell'Oratorio di Matelica, accusati di quietismo. Il giudizio fu di piena condanna. Parte ancora più rilevante ebbe nella Congregazione incaricata (giugno 1687) di esaminare il caso del cardinale P.M. Petrucci, del quale il 5 febbraio 1688 mise all'Indice le opere. In seno alla Congregazione Ottoboni mantenne sempre la posizione più rigida anche nei confronti dello stesso Innocenzo XI che chiedeva moderazione. E fu proprio per la sua insistenza che si arrivò alla ritrattazione del Petrucci alla presenza del pontefice e dello stesso Ottoboni, che intanto dal Sant'Uffizio assestava altri formidabili colpi a tutto il movimento quietista, condannando numerosi altri suoi esponenti minori. Non meno importante l'azione da lui svolta nell'ambito dell'altra Congregazione speciale, istituita da Innocenzo XI nel 1678 per trattare la questione della "régale". Anche in questa sede la posizione di Ottoboni fu quanto mai decisa, nell'assoluta opposizione al tentativo di Luigi XIV di estendere il diritto di regalia su tutte le chiese di Francia. Una linea di condotta, questa, che sarà seguita da Roma, sostanzialmente, per tutto il corso della controversia. Il costante atteggiamento intransigente di Ottoboni irritò fortemente Luigi XIV, che tentò, senza risultato, di ridurlo a più miti consigli, facendo pressioni su Venezia. L'intransigenza di Ottoboni non fu tuttavia quella del moralista o del dottrinario: la sua forma mentis restò sempre essenzialmente quella del giurista, geloso custode di un prezioso patrimonio giuridico, ma al tempo stesso quanto mai attento a cogliere tutte le sollecitazioni che gli venivano dalla realtà delle particolari situazioni in cui fu chiamato a operare. L'intransigenza sui principi si accompagnò così sempre in lui a duttilità ed elasticità nella ricerca dei modi e dei mezzi più adatti alla loro concreta attuazione. Negli ultimi anni del pontificato di Innocenzo XI, lo zelo che Ottoboni dimostrò nel perseguire i quietisti, indebolendo con ciò fortemente la figura del pontefice, riavvicinò il cardinale veneziano a Luigi XIV.
Impegnato in questi ruoli complessi e delicati, in seguito alla sospensione delle relazioni diplomatiche tra Venezia e la Santa Sede a partire dal dicembre 1678, Ottoboni si trovò nell'insolito compito di informale rappresentante della Serenissima presso il pontefice. Ciò durò fino al gennaio 1684.
Nei suoi puntuali dispacci, alla cui lettura nei consigli deputati venivano espulsi i "papalisti", ovvero i patrizi che avessero parenti prossimi ecclesiastici, Ottoboni descriveva puntualmente quanto avveniva in Curia e trattava delle sue discussioni col papa che voleva da Venezia maggior impegno nella lotta contro i Turchi o dei contrasti sulle nomine di taluni vescovi del Dominio veneto cui le autorità marciane si opponevano. Anche quale legato (sia pure come detto informale) della Serenissima, il cardinale conduceva dunque la sua opposizione al papa e questi dispacci, anzi, ci rivelano molto dei contenuti del suo contrasto con Innocenzo XI. In primo luogo, il vecchio curiale paventava la concentrazione di poteri nelle mani del pontefice - ai danni dell'influenza della Curia - cui sembravano inevitabilmente ricondurre i tentativi di riforma. "Tutte le risolutioni sono tarde, né si sa con chi trattare e negotiare, nessun Cardinale ha confidenza et i ministri [...] non possono cosa alcuna", riferiva il cardinale al Senato di Venezia (B.A.V., Ottob. lat. 3281, c. 176).
Alla morte di Innocenzo XI, la grande dottrina canonistica, la profonda esperienza della vita della Chiesa in generale, la consumata abilità nel risolvere le più spinose questioni dottrinali e disciplinari con energia e tempestività e, soprattutto, il ruolo avuto nel condurre la reazione curiale ai tentativi fortemente riformisti di papa Odescalchi, mettevano Ottoboni in una posizione assolutamente preminente rispetto a tutto il Collegio cardinalizio. La sua candidatura in conclave apparve perciò ben presto la sola possibile al forte raggruppamento degli zelanti guidato dal Chigi. Questo stato di fatto preoccupò Luigi XIV, che al suo inviato speciale al conclave duca di Chaulnes (le relazioni diplomatiche tra Roma e Parigi erano allora ufficialmente interrotte) raccomandò più volte di fare il possibile per evitare l'elezione del principale collaboratore di Innocenzo XI, che nell'azione politica aveva mostrato così tenaci tendenze antifrancesi.
Di diverso parere furono invece il duca di Chaulnes e l'autorevole cardinale de Bouillon che, resisi conto della consistenza della candidatura di Ottoboni, iniziarono trattative allo scopo di condizionarne in qualche modo la futura politica. Ottoboni si prestò abilmente al gioco, mostrandosi, pur senza fare alcuna specifica promessa, molto conciliante e ben disposto verso Luigi XIV. Fu così assicurato l'appoggio dei cardinali francesi malgrado l'opposizione iniziale di Luigi e le sue successive esitazioni, mentre venivano contemporaneamente vinte anche le perplessità degli Imperiali, che avrebbero preferito puntare su altro candidato. Cosicché, il 6 ottobre 1689, Ottoboni ottenne in conclave i voti di tutti i cardinali presenti.
Assunto il nome di Alessandro VIII, si preoccupò subito d'intavolare trattative per risolvere l'annosa questione francese. I suoi passi gli valsero un primo felice risultato: Luigi XIV rinunciò spontaneamente alle immunità dell'ambasciata francese in Roma, la cui difesa a oltranza aveva portato poco prima all'interruzione delle relazioni diplomatiche, e procedette alla restituzione di Avignone e del Contado Venassino occupati al tempo della rottura con Innocenzo XI. Era un gesto di buona volontà che doveva aprire la strada alla soluzione di problemi ben più scottanti. Le trattative tra A. e Luigi vennero infittendosi, senza però che nessuno dei due si mostrasse disposto a cedere sulle questioni di fondo. A. comunque replicò al gesto conciliante di Luigi con l'elevazione alla porpora di un uomo di stretta fiducia del re, il vescovo di Beauvais, Forbin-Janson, la cui nomina era stata in passato inutilmente sollecitata da Luigi. Tale atto, tuttavia, non bastò a stabilire un'atmosfera diversa tra i due antagonisti: Luigi XIV, anzi, irritato per il mancato invio da parte di A. delle bolle di conferma dei vescovi designati per le diocesi francesi vacanti, assunse di nuovo un atteggiamento ostile, accusando il pontefice di parteggiare per l'imperatore, alleato in quel momento con l'eretica Inghilterra contro la Francia. A., dopo aver tentato in tutti i modi, anche facendo ricorso alla mediazione di Madame de Maintenon, di ottenere da Luigi l'abrogazione dei quattro articoli dell'assemblea del 1682, si orientò verso un atto unilaterale ma risolutivo. Sul letto di morte dispose così per la pubblicazione della costituzione Inter multiplices (31 gennaio 1691), già da tempo discussa e approntata, con cui cassava e annullava gli atti dell'assemblea del 1682, l'editto reale che ne prescriveva l'insegnamento, e le disposizioni del Parlamento che ne ordinavano l'esecuzione.
A. - è necessario sottolinearlo ancora - si sforzò durante il breve corso del suo pontificato di salvaguardare le posizioni di Roma in Francia, senza arrivare a una rottura con Luigi XIV. Lo stesso atteggiamento possibilista ostentato alla vigilia della sua elezione non costituì solo una mossa tattica per assicurarsi l'appoggio dei cardinali francesi: in realtà A. tese a una rapida composizione del conflitto con Luigi XIV, in considerazione della particolare situazione religiosa della Francia, come della generale situazione politica europea. In Francia, perdurando difficile la situazione ecclesiastica per il differimento della conferma papale alle nomine vescovili compiute dal re, le dottrine gallicane trovavano sempre più diffusione, e una rottura con Parigi non sembrava il modo migliore per arginarle. D'altra parte, la guerra che infieriva in tutta Europa non poteva non preoccupare A., per l'alleanza tra l'Impero e la protestante Inghilterra contro il re Cristianissimo: motivo questo costantemente e non senza efficacia agitato da Luigi XIV; come ancora preoccupava il pontefice la scarsa energia opposta contro il Turco da parte di Vienna, distolta dal settore balcanico per il conflitto con la Francia. A questo duplice ordine di motivi, politici e religiosi, A. riferì l'accordo con Luigi, ma, impegnato nel realizzarlo, finì col guastarsi anche l'imperatore che si sentiva troppo sacrificato alla politica francese della Santa Sede. Se l'elevazione al cardinalato del Forbin-Janson aveva irritato Leopoldo, al quale A., fra l'altro, lesinava gli aiuti finanziari promessi dal suo predecessore per la guerra contro il Turco, la concessione della porpora, nel Concistoro del 13 novembre 1690, ad altri due ecclesiastici ben noti per la loro tendenza filofrancese portò alla rottura diplomatica tra Vienna e Roma.
L'azione di A. in difesa dell'ortodossia investì anche le altre tre grandi controversie religiose e teologiche del secolo: quietismo, lassismo e giansenismo.
Così, tolse al Petrucci il governo della sua diocesi, concludendo con quest'ultimo atto un quarantennio circa di energica e implacabile azione di repressione del movimento quietista. Il 24 agosto 1690 condannò due proposizioni lassiste, delle quali una negava la necessità dell'atto esplicito di amore di Dio e l'altra ammetteva la possibilità del cosiddetto peccato filosofico, e il 7 dicembre 1690 trentuno proposizioni rigoriste, sostenute da teologi di Lovanio, relative alla penitenza, alla giustificazione, alla Vergine, al battesimo, all'autorità della Chiesa. S'interessò anche al caso del teologo lovaniense Gommaire Huygens, cercando, attraverso il nunzio nei Paesi Bassi, di ottenere una ritrattazione delle sue tesi gianseniste, e in ogni caso di tenerlo lontano dalla facoltà teologica di Lovanio dalla quale era stato precedentemente estromesso.
Il pontificato di A. vide una rigogliosa rinascita del nepotismo, è anzi possibile affermare che A. fu l'ultimo grande pontefice nepotista. Appena eletto papa nominò Giovan Battista Rubini, figlio di una sua sorella, segretario di Stato; Pietro Ottoboni, figlio del nipote Antonio, fu cardinal nepote, vicecancelliere di Santa Romana Chiesa, legato di Avignone, ecc. Il nominato Antonio, figlio del fratello del pontefice Agostino, fu generale della Chiesa e comandante delle truppe pontificie; per il fratello di questi, Marco, fu acquisito il ducato di Fiano e riservata la carica di soprintendente alle fortezze marittime e alle galee pontificie.
Nell'amministrazione dello Stato della Chiesa A. cercò di andare incontro, più del suo predecessore, ai bisogni delle popolazioni. Ordinò importanti sgravi fiscali, liberalizzò il commercio dei grani, abolì la gabella della carne e quella del grano macinato in Roma, provvide alla salute dei cittadini e al decoro di Roma con alcune ordinanze sulla peste e sulla pulizia delle strade. Non vanno poi sottaciute le benemerenze acquisite dal pontefice in campo culturale: si pensi alla sua passione di collezionista di manoscritti e libri rari (acquistò nel maggio 1690 la biblioteca di Cristina di Svezia, che versò nella Vaticana, ed ebbe in dono la biblioteca altempsiana, che passò invece nelle mani del cardinal nepote) e alla sua adesione alla nuova accademia, l'Arcadia, sorta appunto durante il suo pontificato. A. morì il 1° febbraio 1691, per una risipola alla gamba presto degenerata in cancrena. Lo sfarzoso monumento funebre che si ammira nella navata sinistra della basilica di S. Pietro gli fu eretto dal cardinal nepote.
fonti e bibliografia
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Sulla sua carriera curiale, cfr.: J. Bignami Odier, Premières recherches sur le fonds Ottoboni, Città del Vaticano 1966; Ead., Les collections d'un pape juriste, Bologna 1967; A. Menniti Ippolito, Ecclesiastici veneti, tra Roma e Venezia, in Venezia e la Roma dei papi, Milano 1987, pp. 209-34; Id., 'Amor proprio' e 'amor di patria' in due epistolari seicenteschi: le lettere di Pietro Basadonna e Angelo Correr a Pietro Ottoboni, in Studi veneti offerti a Gaetano Cozzi, Venezia 1992, pp. 261-74; Id., Politica e carriere ecclesiastiche nel secolo XVII. I vescovi veneti fra Roma e Venezia, Bologna 1993, ad indicem; Id., Fortuna e sfortune di una famiglia veneziana nel Seicento. Gli Ottoboni al tempo dell'aggregazione al patriziato, Venezia 1996; G.V. Signorotto, Lo 'squadrone volante'. I cardinali 'liberi' e la politica europea nella seconda metà del XVII secolo, in La Corte di Roma tra Cinque e Seicento. "Teatro" della politica europea, a cura di Id.-M.A. Visceglia, Roma 1998, ad indicem.
Per la lotta contro il quietismo e la sua complessiva attività inquisitoriale, cfr.: P. Guerrini, Quietisti e pelagini in Valle Camonica ed a Brescia, "Brixia Sacra", 3, 1912, pp. 30-48; P. Dudon, Le quiétiste espagnol Michel Molinos (1628-1696), Paris 1921, passim; P. Guerrini, I Pelagini di Lombardia, "La Scuola Cattolica", ser. V, 23, 1922, pp. 364-65, 368; A. Battistella, Un processo di eresia presso il S. Officio di Brescia, "Archivio Storico Lombardo", ser. VI, 52, 1925, pp. 362-68; M. Petrocchi, Il quietismo italiano del Seicento, Roma 1948, passim; F. Nicolini, Su Miguel de Molinos e taluni quietisti italiani, "Bollettino dell'Archivio Storico del Banco di Napoli", 1959, nr. 13, pp. 237-42; G.V. Signorotto, Inquisitori e mistici nel Seicento italiano. L'eresia di S. Pelagia, Bologna 1989, ad indicem.
Per la sua partecipazione alle Congregazioni sulla "régale", cfr. M. Dubruel, Innocent XI et l'extension de la régale d'après la correspondance confidentielle du cardinal Pio avec Léopold Ier, "Revue des Questions Historiques", n. ser., 37, 1907, pp. 101-37; Id., Les congrégations des affaires de France sous le pape Innocent XI, "Revue d'Histoire Ecclésiastique", 22, 1926, pp. 273-310; 23, 1927, pp. 44-64, 502-22.
Per la collaborazione con Innocenzo XI in generale, cfr.: F. De Bojani, Innocent XI, sa correspondance avec ses nonces, II, Rome 1910, pp. 467-79; III, 1, ivi 1912, passim.
Per il conclave e il pontificato, Ch. Gérin, Alexandre VIII et Louis XIV, "Revue des Questions Historiques", 22, 1877, pp. 135-210; E. Michaud, La politique de compromis avec Rome. Le pape Alexandre VIII et le duc de Chaulnes, Berne 1888; L. Wahrmund, Das Ausschliessungsrecht (Jus exclusivae) der katholischen Staaten Österreich, Frankreich und Spanien bei den Papstwahlen, Wien 1888, pp. 158-66; S. von Bischoffshausen, Papst Alexander VIII. und der Wiener Hof (1689-1691), Stuttgart-Wien 1900; M. Dubruel, Le pape Alexandre VIII et les affaires de France. Le conclave de 1689, "Revue d'Histoire Ecclésiastique", 15, 1914, pp. 282-302, 495-514; M. Langlois, Madame de Maintenon et le Saint-Siège, ibid., 25, 1929, pp. 56-63.
Per le condanne delle proposizioni lassiste e rigoriste, cfr. Dictionnaire de théologie catholique, I, Paris 1923, s.v., coll. 747-63.
Per la figura complessiva, L. von Pastor, Storia dei papi dalla fine del Medio Evo, XIV, 1-2, Roma 1932, passim; C. Donati, La Chiesa di Roma tra antico regime e riforme settecentesche (1675-1760), in Storia d'Italia, Annali, 9, La Chiesa e il potere politico, a cura di G. Chittolini-G. Miccoli, Torino 1986, ad indicem. Hierarchia catholica [...], V, a cura di R. Ritzler-P. Sefrin, Patavii 1952, p. 15; P. Richard, Alexandre VIII, in D.H.G.E., II, coll. 244-51; E.C., I, s.v., coll. 803-05; Dizionario storico del Papato, a cura di Ph. Levillain, I, Milano 1996, s.v., pp. 36-8.