FALCONIERI, Alessio
Nacque a Roma nel 1746 circa nella parrocchia di S. Caterina della Rota. Era figlio, insieme con Lelio, Mario e Giuliana (futura principessa Santacroce), di don Orazio e di Mobilia Muti.
Il palazzo dei Falconieri, ramo dell'antica ed illustre famiglia fiorentina trapiantato a Roma nel Seicento era sito al numero 1 di via Giulia; qui il F. trascorse la sua infanzia finché non divenne convittore del collegio "Nazareno", tenuto in Roma dagli scolopi. Risale a questi anni di studio la sua prima pubblicazione, il De Christi Domini resurgentis gloria (Roma 1766), un'orazione latina tenuta "in sacello pontificio" il 1° apr. 1766.
Pronunziata in occasione della Pasqua, è preceduta da una dedicatoria a Clemente XIII, dove il F. esprime la sua riconoscenza al pontefice per le restaurate solenni celebrazioni dell'antenata s. Giuliana Falconieri. L'argomento è quello del trionfo del Cristo risorgente, "agnus sine macula", che, fattosi uomo, diviene il maggior stimolo alla fede e la più forte remora al peccato. Il latino del F. è scorrevole, con modico uso di artifici retorici.
Monsignore di Curia, il F. appartenne, già prima del 1781, alla congregazione della Sacra Consulta, dicastero di raccordo tra il governo centrale e le amministrazioni locali, organo interpretativo e giudiziario per ogni causa civile, criminale e di foro misto relativa ai ricorsi contro feudatari e governatori. In particolare fu ponente di Consulta, cioè uno dei prelati che avevano competenza esclusiva ciascuno su una ripartizione del territorio statale, denominata "ponenza": dal 1775 al 1777 per San Severino, Loreto e Montalto; nel 1778 per Ferrara, Urbino e loro luoghi baronali, Fano; nel 1779 per Rieti, Todi, Farfa, Otricoli, Piediluco, Marra, Scandriglia, Monte Castello. Non è possibile ricostruire la sua attività di ponente perché il fondo dell'Archivio di Stato di Roma relativo alla Consulta è andato quasi completamente perduto, fatta eccezione per qualche busta relativa al sec. XIX. Nel 1785 il F. fu inquisitore di Malta presso il gran priore dei giovanniti.
Con il nome di Floridante Treicio aderì, secondo il costume del tempo, all'Arcadia sotto la custodia generale di G. Brogi. Aderì poi all'Accademia degli Aborigeni, istituita presso il Quirinale da Francesco Maria Turris nel 1777. Nell'Accademia, alla quale appartennero anche P. Metastasio e V. Monti, il F. fu acclamato tra i dodici "viri urbani" nel corso dell'adunanza generale del 20 giugno 1780 in onore di Pio VI, con il nome di Datame Cario.
Una prosa di Datame Cario compare nella seconda parte delle Rime degli Aborigeni (Roma 1780), recitate in onore di Pio VI e pubblicate in occasione del primo lustro del suo pontificato. Il panegirico rievoca la malattia del papa, la temuta perdita e la gioia per la salute ritrovata con un'esasperazione di toni che ben si conforma alla generale enfasi ricercata dall'Accademia.
Nel 1781, in occasione delle nozze tra Costanza Falconieri, sua nipote, e Luigi Braschi Onesti, nipote del papa, celebratesi a Roma il 4 giugno, il F. indirizzò agli sposi un'elegia latina che confluì nel volume degli Aborigeni, curato dall'abate S. Garofoli, Componimenti poetici dedicati agli eccellentissimi signori conte don Luigi Braschi Onesti e donna Costanza Falconieri in occasione delle loro acclamatissime nozze (Roma 1781).
L'ossequio al papa, più che l'augurio agli sposi, è il tema di fondo dell'intera raccolta (pubblicata proprio il giorno del ritorno di Pio VI dalla bonifica pontina), al quale si attiene anche il componimento del F. che, rivolgendosi alla nipote ("nova nupta"), la esorta ad esser degna della stirpe dei Braschi.
Non fu un prelato modello il F., se dobbiamo prestar fede alle pungenti satire che circolavano al tempo; certo a Roma nel Settecento la calunnia dell'alcova era considerata un vezzo così come il libello sfrontatamente e gratuitamente mordace divertiva il gran mondo cittadino, avvezzo in generale a non serie occupazioni. Ma il F. compare troppo insistentemente in questi componimenti frivoli e diffamatori. Uomo molto sensibile, nonostante l'abito talare, alla bellezza muliebre, balza fuori, dalle Elegie romane di J. W. Goethe, come uno fra i più celebri e temuti dongiovanni della città.
Nel Trionfo del dio di Lampsaco - satira manoscritta conservata nella collezione di L. Vicchi a Fusignano - è dipinto come "zoppo sdrucito", posto in coda al componimento a chiudere "la bella... festa del dio Priapo". Nella Galleria esprimente le bellezze romane accorse all'accademia notturna del marchese Zagnoni bolognese, dove si fa strazio dell'onore di ogni dama recatasi alle feste notturne che diede il marchese alla villa Barberini Sciarra a Porta Pia in varie serate estive del 1787, il F. è additato come drudo accompagnatore di madama Armellini. Tutti questi ed altri documenti del tempo concorrono a fornirci un'immagine del F. come "zoppo lascivo mentovato in tutte le satire più luride" (Vicchi, V. Monti..., p. 435).
Il F. morì a Roma il 24 maggio 1813; il giorno dopo il suo corpo fu esposto more nobilium nella chiesa di S. Giovanni dei Fiorentini e poi tumulato nel sepolcro dei Falconieri.
Fonti e Bibl.: Roma, Arch. stor. del Vicariato, Parrocchia di S. Caterina della Rota, Libro dei morti, maggio 1813; J.W. Goethe, Elegie romane, a cura di F. Fertonani, Milano 1989, p. 37; L. Vicchi, V. Monti, le lettere e la politica in Italia dal 1750 al 1830, II, Fusignano 1885, pp. 25, 66, 421, 428, 435; C. Bandini, Roma e la nobiltà romana nel tramonto del sec. XVIII, Città di Castello 1914, p. 212; P. Romano, Pasquino e la satira in Roma. Pasquino nel '700, Roma 1934, passim; C. P. Planca Incoronati, La chiesa degli Incoronati in Roma, in Arch. della Soc. romana di storia patria, s. 3, LXI (1938), p. 234; A. M. Giorgetti Vichi, Gli Arcadi dal 1690 al 1800, Roma 1977, pp. 130, 318.