Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Alexander Pope è uno dei massimi esponenti dell’era augustea, tipico rappresentante e critico aspro della vita politica e culturale inglese dei primi decenni del XVIII secolo. Poeta satirico e didattico, mondano e moralista, filosofo e traduttore, i suoi versi conservano un’eleganza e una leggerezza che li rendono memorabili anche per una sensibilità di altra impronta e formazione.
Premessa
Per VoltaireAlexander Pope è il poeta “più elegante, più corretto e più armonioso che abbia l’Inghilterra”; per Algarotti pecca “di troppo sangue” perché non “dà tempo al lettore, non gli dà sosta, ammonticchia pensieri sopra pensieri, immagini sopra immagini”; per Samuel Johnson presenta in ugual misura genio e buon senso: la sua mente è “attiva, ambiziosa, avventurosa, sempre indagatrice”. Ma in età romantica Pope diventa l’emblema di tutto quello che la poesia non dovrebbe essere, anche se Byron nutre per lui particolare ammirazione. E la definizione di Matthew Arnold, secondo il quale Pope è un gran maestro, ma in prosa e non in poesia, riscuoterà una fortuna che si deve in parte alla felicità del paradosso e in parte alla concezione che Pope ha della poesia, differente dalla nostra e ancor di più da quella ottocentesca.
Ma già nel 1944 T.S. Eliot dichiarerà che se non si è capaci di gustare l’opera di Pope, è impossibile comprendere la poesia inglese. E di recente si è giunti a scorgere in Pope una complessità da cui scaturisce un ritratto diverso da quello tradizionale: non più soltanto il tipico rappresentante, sicuro e soddisfatto di sé, dell’era cosiddetta augustea – che culmina con il regno della regina Anna – ma anche il suo maggiore fustigatore, un poeta in cui l’ottimismo è mitigato dal pessimismo, la piana esposizione della bontà dell’ordinamento umano e divino convive con la satira feroce e un disgusto per i suoi contemporanei che è secondo solo a quello di Swift. Lo spirito satirico di Pope è tuttavia diverso da quello di Swift: egli, infatti, non attacca l’umanità nel suo complesso, ma singoli individui, che ritiene corrotti o sciocchi, senza assumerli come emblema della società in generale o della condizione umana. Ed è possibile tracciare una distinzione fra le prime opere, quelle ispirate a un ottimismo di fondo, e quelle successive alla morte della regina Anna e all’ascesa di Sir Robert Walpole, primo ministro a partire dal 1721, nelle quali la satira si fa più aspra, il tono più duro e la visione più cupa.
Se c’è un verso di Pope che più di altri gli si addice è quello nel quale egli dichiara che la cosa più importante per un poeta o per un critico è trattare di “what oft was thought, but ne’er so well expressed” (“ciò che è spesso pensato, ma mai bene espresso”).
Per essere all’altezza di questo ideale, Pope impiegherà in quasi tutte le sue opere il distico eroico, o heroic couplet, già usato da Dryden e dal traduttore inglese di Ovidio, George Sandys.
Pope, tuttavia, lo porterà alla perfezione, piegandolo alle esigenze del suo argomentare, dotandolo di estrema varietà ritmica, rendendolo conciso e complesso, armonico e disarmonico a seconda delle circostanze e dello stile più appropriato a ogni opera.
A ogni sua opera, infatti, corrisponde uno stile che le dà un tono caratteristico, pur se non rigidamente omogeneo: Saggio sulla critica presenta uno stile piano, quale si addice a una discussione fra persone colte; nel Ricciolo rapito troviamo un linguaggio sublime e parodico, perfettamente adeguato a un poema eroicomico; in Eloisa e Abelardo, il tono è melodrammatico, teatrale, mentre in Saggio sull’uomo è grave, adatto a una discussione su temi elevati, con un ampio uso di figure retoriche; e se infine nelle Imitazioni di Orazio il linguaggio è semplice e diretto, la traduzione dell’Iliade e dell’Odissea peserà sulla tradizione poetica successiva con un frasario che in Pope conserva ancora una certa leggerezza o risponde a esigenze precise, ma che diventerà nei suoi imitatori meccanico e gravoso, e di cui si libererà solo Wordsworth, quasi un secolo dopo.
Alexander Pope
Lettera di Eloisa ad Abelardo
Eloisa ed Abelardo
Eterna solitudine di queste grandi mura,
prigione sempiterna, pinnacoli sottili
che coronano queste nere cupole ingombre
di musco, arcàli tetri dove il giorno s’oscura,
finestre a cupi vetri che fondono penombre
e barbagli solenni! Un tempo, luce a fiotti
e sovrumana calma diffusero i tuoi occhi
fra queste mura, un tempo: mi guardasti e divenne
tutto lo spazio vampa di gloria: come duole,
- mie lacrime, pallore - del tuo volto l’assenza,
io senza gioie, senza la bocca tua d’amore...
Oh dolce amico vieni, tu sposo, tu fratello,
oh padre, alla tua figlia ritorna: io son la schiava
che ai tuoi piedi si umilia, e germana ti sono,
donna di sangue al sangue. Laggiù, su la cimasa
dei ronchi, neri pini stanno in ondeggiamenti
solenni, la bufera un lamentoso tuono
dalle fronde ricava; c’è vena di fluenti
acque - laggiù - che a mezzo dei clivi riscintilla,
e s’effonde quel murmure - a stilla - in una grotta;
la frescura dei venti palpita nella folta
ramura del querceto fino a morir... s’impiglia
la breva ne coppa dell’acque e la divaga.
Natura, oh meraviglia! e il mio cupo delirio
più non levi e riposo non doni alle mie ciglia.
L’eco delle navate alto-profonde, l’ombre
nei cespi, le caverne dove la notte dorme,
lo spazio fra le tombe, sono un riflesso enorme
della Melanconia che nera io spando in cerchio
a silenzio di morte per la funerea via.
È morte ogni mio sguardo: intristiscono i fiori,
ogni verde s’abbruna, più profonda la schiuma
dei torrenti precipiti, il murmure diviene
più cupo, e orrendo brivido ai boschi nelle vene.
Questa la mia dimora per sempre, sempre: tomba
d’un amore fedele: immobili catene
che morte solamente può spezzare. Quel giorno
dal mio cenere freddo, pura di fiamme, sgombra
di colpe, io sorgo a cerca di te nelle supreme
sfere e Innocenza sciolga l’anime nostre insieme.
in Orfeo. Il tesoro della lirica universale, a cura di V. Errante e E. Mariano, Firenze, Sansoni, 1974
“This long disease, my life”
Pope nasce a Londra il 21 maggio 1688, da una famiglia cattolica e benestante. Il padre, mercante di stoffe, è costretto a dare al figlio un’educazione privata perché i cattolici sono sottoposti a gravi restrizioni. Lo studio eccessivo e il gusto per la lettura nuocciono alla salute delicata del ragazzo che a 12 anni contrae la tubercolosi ossea in forma così grave da renderlo deforme. Se da una parte la religione gli impedisce un corso di studi regolare, dall’altra gli consente una rapida ascesa nei circoli cattolici – nei quali viene accolto a soli 17 anni – e l’incontro con i maggiori intellettuali del tempo. Inizialmente si lega ai Whigs della generazione precedente, come il poeta William Walsh e il commediografo William Congreve. Walsh, in particolare, lo incoraggia a intraprendere la carriera poetica.
Dopo anni di dura disciplina in cui perfeziona il proprio stile, Pope pubblica nel 1709 le Pastorali, scritte qualche anno prima. Si tratta di composizioni convenzionali, riscattate dalla scioltezza del verso e dalla padronanza del distico eroico, dalle quali traspare la posizione di Pope nel dibattito critico dell’epoca: egli dirà in seguito che non si dovrebbe descrivere la natura qual è o qual è stata, ma quale si immagina che sia stata, così come i pastori descritti non devono essere quelli attuali, ma quelli di un’immaginaria età dell’oro.
Allo stesso tipo di ispirazione si può far risalire il poemetto La foresta di Windsor, pubblicato nel 1713 ma composto in precedenza, in cui a descrizioni paesaggistiche e toni preromantici si accompagnano riflessioni geografiche e storiche. La foresta di Windsor non viene particolarmente gradito dalla cerchia intellettuale che faceva capo ad Addison, che al contrario aveva accolto benevolmente un’altra opera di diversa ispirazione, pubblicata due anni prima: Saggio sulla critica.
Essay on Criticism
In questa opera in versi, scritta intorno al 1709 e pubblicata nel 1711, Pope espone e sintetizza le principali idee critiche del suo tempo. Il dibattito sulla critica si era fatto molto aspro in Europa e anche in Inghilterra, a giudicare dalla dichiarazione di Dryden secondo la quale il critico nasce dalla corruzione del poeta. C’erano stati in precedenza, in particolare nella seconda metà del XVII secolo, dei tentativi di scrivere un equivalente inglese dell’ Arte poetica di Boileau, ma nessuno di essi poteva dirsi riuscito. Pope prende una posizione moderata, riscuotendo un grande successo e assicurandosi le lodi di Addison, di cui diventa amico, tanto da riuscire a pubblicare nel 1712 sullo “Spectator” l’ecloga sacra Il Messia. Il suo tentativo di dare all’Inghilterra una Ars Poetica degna di quella di Orazio deve molto alla trasparenza e all’eleganza dei versi in cui Pope esprime argomenti tratti principalmente dai critici francesi.
L’originalità, come si può comprendere, non è una dote fondamentale nell’estetica di Pope: lo stile ha certamente maggiore rilevanza.
Nella prima parte dell’opera, Pope mette in evidenza il ruolo centrale del gusto e del buon senso nell’attività critica, toccando argomenti quali il rapporto fra arte e natura e l’importanza degli antichi. “Natura” è a volte sinonimo di buon senso, ma più spesso indica un ideale supremo e immutabile da seguire. Le norme critiche, di conseguenza, sono già date, non devono essere “inventate” ma “scoperte” a partire da quelle limitazioni che la natura stessa si è posta. Dato che i grandi scrittori del passato, e in particolare Omero e Virgilio, hanno seguito la natura, è giusto imitarli: se la natura e i due poeti sono la stessa cosa, to copy Nature is to copy them (“copiare la Natura è copiare loro”).
Nell’ambito di una teoria prevalentemente neoclassica si fa strada però la possibilità che le regole siano eluse dal genio, che può permettersi di offendere gloriously le norme senza che il critico osi manifestare la propria riprovazione.
Nella seconda parte dell’opera Pope parla delle cause che offuscano il giudizio dell’uomo, prima fra tutte l’eccessivo orgoglio, seguito dalla scarsa erudizione.
Nella terza parte indica infine le norme che deve seguire la critica, unendo gusto, giudizio e cultura a verità e candore. Il Saggio sulla critica si conclude con una rapida storia della critica, che da Aristotele giunge fino a William Walsh, definito “the Muse’s judge and friend” (“giudice e amico della Musa”).
Nell’opera, accanto alle disquisizioni teoriche, compare anche il ritratto satirico di uno dei suoi contemporanei, primo dei numerosi che Pope comporrà in seguito: John Dennis, il drammaturgo e critico bersagliato, rimarrà particolarmente ferito e in seguito attaccherà Pope, mettendone in ridicolo la deformità.
Il ricciolo rapito e la traduzione di Omero
Il successo di Saggio sulla critica viene confermato dalla successiva opera, Il ricciolo rapito, un poemetto eroicomico che nella sua versione definitiva ci è giunto in cinque canti.
Pubblicata per la prima volta nel 1712 e rivista radicalmente nel 1714, anche se alcune parti saranno aggiunte in edizioni successive, l’opera prende spunto da un episodio reale, il taglio del ricciolo di Miss Arabella Fermor (cui l’opera è dedicata) da parte di Lord William Petre, atto che scatena l’inimicizia fra le due famiglie. Sembra che con il suo poemetto Pope voglia sdrammatizzare la situazione, senza peraltro riuscirvi. A parte l’occasione contingente, tuttavia, a Pope interessa elevare un episodio frivolo e insignificante conferendo a esso un tono epico e rappresentando in questo modo usi e costumi del suo tempo con solennità e magniloquenza. I richiami all’ Iliade, all’ Eneide e al Paradise Lost non fanno altro che accentuare la distanza fra l’argomento scelto e lo stile con cui viene trattato. Ne deriva un’opera originale, in cui si fondono ironia e arguzia, sottintesi sessuali e critica velata alla società, vago senso di malinconia e richiami inascoltati al buon senso. “Il piccolo è trasformato in grande”, scriverà Hazlitt un secolo dopo, in piena età romantica, “e il grande in piccolo. Non si riesce a decidere se ridere o piangere. È il trionfo dell’insignificante, l’apoteosi della frivolezza e della stravaganza. È la perfezione dell’eroicomico”.
Nell’opera sono rispettate le convenzioni dell’epica, ma trasposte su un piano completamente diverso di stilizzazione eroicomica: viene invocata la Musa, sono descritte guerre che si svolgono al tavolo da gioco, gli eroici scontri riguardano dame e cicisbei, le armi letali sono ventagli, prese di tabacco e sguardi di fuoco. Non mancano gli esseri soprannaturali, aggiunti da Pope nel 1714: ma invece che dèi, angeli o demoni, Pope ricorre a spiriti dell’aria e della terra, incaricati di vegliare sulla protagonista ma incapaci di salvare il suo ricciolo.
Di diversa ispirazione sono alcune delle opere contenute nella Raccolta delle poesie giovanili del 1717, quali Elegia in memoria di una donna sfortunata ed Eloisa e Abelardo. La prima, una delle poche composizioni di Pope apprezzate in età romantica dal momento che mette in primo piano la passione della protagonista, è il lamento di una donna che ha commesso suicidio per amore ed è costretta a vagare sulla terra in forma di fantasma.
Anche da Eloisa e Abelardo traspare una passionalità romantica, seppur contenuta, e una malinconia di fondo che si fa risalire a un amore infelice del poeta, per il quale sarebbe stato particolarmente congeniale il tema patetico dell’amore impossibile.
Intorno al 1712, intanto, Pope si stacca dal gruppo di intellettuali frequentati in precedenza e stringe amicizia con scrittori di diversa ispirazione politica, legati al partito tory, quali Jonathan Swift, John Arbuthnot, medico della regina e scienziato, e John Gay.
Con loro fonda nel 1714 lo Scriblerus Club, che si propone di mettere alla berlina i vizi dei letterati e dei pedanti. Dopo la morte della regina Anna e il ritorno al potere dei Whigs, il gruppo si disperde, per tornare a riunirsi brevemente nel 1726, in occasione del soggiorno di Swift in Inghilterra. Le scarse produzioni collettive si riducono a Memorie di Martinus Scriblerus, pubblicato nel 1741, e Peri bathous, o l’arte di inabissarsi in poesia, ma l’attività del gruppo influenza sia le opere di Swift e di Gay sia La zucconeide di Pope.
Intorno al 1715, però, Pope è impegnato in un’altra impresa, che gli permetterà di diventare il primo poeta in grado di mantenersi con le proprie opere, senza bisogno di mecenati: la traduzione delle opere di Omero. Fin da giovane Pope si era dedicato, come apprendistato alla poesia, alla traduzione di poeti latini e alla riscrittura delle opere di Chaucer in un inglese più moderno. Nel 1715 inizia a pubblicare la sua traduzione dell’ Iliade che termina nel 1720. L’opera, venduta per sottoscrizione, ha un immenso successo e gli permette di acquistare una casa con un grande giardino a Twickenham, dove vivrà in totale indipendenza economica fino alla morte. Le opere di Omero sono al centro del conflitto fra antichi e moderni su cui si dibatte in Europa da anni. Il successo della versione di Pope deriva dalla posizione moderata che egli prende all’interno di quel dibattito: Pope esalta Omero e il suo genio ma ne racchiude l’opera in una versificazione neoclassica e in una dizione che è all’opposto di quella semplicità severa che trovano nel poeta greco i suoi estimatori. La traduzione di Pope dell’ Iliade, come quella successiva dell’ Odissea pubblicata in cinque volumi fra il 1725 e il 1726, è in primo luogo una versione poetica, molto più importante da un punto di vista storico e linguistico che come traduzione in sé. È famoso, a questo proposito, il commento che avrebbe fatto un classicista dell’epoca, Richard Bentley: A fine poem, Mr. Pope, but you must not call it Homer (“un bel poema, signor Pope, ma non lo chiami Omero”).
Essay on Man
Contemporaneamente alla traduzione dell’ Odissea, Pope prepara un’edizione delle opere di Shakespeare che viene accolta con scarso entusiasmo. Offeso dalle accuse, Pope reagisce con una satira dal titolo La zucconeide, uscita anonima nel 1728, che prende di mira lo studioso shakespeariano Lewis Theobald, accusato ingiustamente di eccessiva pedanteria. La zucconeide viene rivista e ripubblicata 15 anni dopo, ma è dalla sua prima versione che si fa iniziare il periodo delle maggiori satire in versi di Pope. La sua carriera di poeta didattico e filosofo, inaugurata con il Saggio sulla critica, raggiunge invece il culmine con il Saggio sull’uomo e i cosiddetti Saggi morali.
Composto di quattro epistole dedicate a Henry St. John, visconte di Bolingbroke, ispiratore delle idee del saggio, e pubblicato fra il 1733 e il 1734, il Saggio sull’uomo si propone di creare un equivalente mondano e filosofico del grande quadro religioso fornito da Milton nel Paradiso perduto. In un linguaggio poetico che fa uso di toni diversi passando dalla dignità formale alle inflessioni colloquiali, ma mantenendo intatta un’eleganza di fondo, Pope espone il posto occupato dall’uomo nella grande catena dell’essere, che unisce Dio a ogni essere vivente. L’idea che ogni cosa nel cosmo sia inserita in un’armonia superiore di cui l’uomo non sempre riesce a cogliere il senso non è un’invenzione di Pope, che tuttavia è il primo in Inghilterra a dare ad essa una forma poetica coerente. Nella prima epistola si parla dell’ordine dell’universo e del posto che l’uomo occupa al suo interno. Nella seconda si esorta l’uomo a imitare l’armonia superiore, temperando l’amore di sé e le passioni con la ragione. Nella terza si parla dell’ordine politico ideale, descrivendo il passaggio dell’uomo attraverso la superstizione e la tirannia, fino alla ricostituzione dell’ordine politico.
Il quadro esposto da Pope, a differenza di quello di Hobbes, è fondamentalmente ottimista e cristiano: per lui lo stato di natura è il regno di Dio, dove regnano l’amore e la comunanza fra gli uomini, e dal quale è esclusa ogni forma di orgoglio.L’ordine politico non è quindi artificiale, ma rappresenta una restaurazione, per quanto imperfetta, dell’ordine naturale. Nella quarta epistola si tratta della felicità che si può ottenere tramutando l’amore di sé in amore per gli altri e per Dio.
Strettamente connessi al Saggio sull’uomo, ma dal tono satirico più che didattico, sono le quattro epistole in versi note come Saggi morali (1731-1735). In esse si tratta del carattere degli uomini e delle donne, oltre che del cattivo uso delle ricchezze, e si attacca direttamente la politica economica del primo ministro Walpole. Il linguaggio diventa qui semplice e prosastico ma sempre nitido ed elegante.
Identiche caratteristiche si possono ritrovare nelle Imitazioni di Orazio (1733-1738). Il termine “imitazione” deriva da Dryden, che l’aveva distinta dalla traduzione e dalla parafrasi, in quanto essa si distacca dalla composizione originale per creare un’opera più adatta ai tempi in cui vive il suo autore. Pope traduce alcuni testi di Orazio e riscrive due satire di John Donne, ma aggiunge anche satire scritte alla maniera di Orazio, senza riferimenti precisi alle opere del poeta latino. La più nota fra esse è la Epistola al Dr. Arbuthnot, in cui l’abilità retorica di Pope si dispiega pienamente fra la descrizione del poeta assalito dagli scribacchini e alcuni pungenti ritratti di contemporanei.
The Dunciad
Al 1743, un anno prima della morte, risale l’edizione definitiva di La zucconeide. Il poema eroicomico passa attraverso diversi stadi, ma nell’ultima edizione quello che era nato come un violento attacco ai nemici dell’autore si trasforma in un lamento inasprito dalla satira (l’unico genere che ormai Pope ritiene appropriato per la sua epoca) sulle sorti della cultura in Inghilterra. Bersaglio principale dell’opera è ora il drammaturgo Colley Cibber, noioso e stupido pedante che con il nome di Bays viene incoronato dalla dea Dulness re degli zucconi.
Carente nell’intreccio, ma elegantissima nello stile anche quando la satira indulge in descrizioni scurrili, l’opera attacca violentemente Bays e i suoi seguaci, rappresentanti di tutto ciò che Pope teme e combatte: la volgarizzazione del gusto e dell’arte, la nascita e la diffusione di giornali popolari e scandalistici, lo spirito commerciale che sta invadendo la nazione. Gli sciocchi e i pedanti che dominano la scena letteraria hanno fatto scempio del sapere e i loro atti assumono proporzioni cosmiche, tanto che nel finale assistiamo al trionfo del caos e della barbarie. Con questa visione apocalittica, influenzata dal pessimismo di Swift più che dall’ottimismo che aveva caratterizzato parte della sua poesia precedente, si conclude in modo anomalo ma non sorprendente l’ultima opera di Pope.
Pope muore il 30 maggio 1744, dopo aver trascorso gli ultimi anni di vita principalmente nella sua villa di Twickenham, intento fra l’altro a manipolare il proprio epistolario per tramandare un ritratto ideale di sé. Molti fanno risalire agli anni della sua formazione, come ragazzo cattolico e quindi emarginato, e al suo aspetto fisico, di cui gli avversari non mancano mai di sottolineare le deformità, gli aspetti sgradevoli del suo carattere, e in particolare la sua ambizione giovanile in campo letterario, il suo amore per l’intrigo (“Non beveva neanche una tazza di tè senza ricorrere a stratagemmi” disse di lui Lady Bolingbroke), e la violenza e la malignità, a volte sproporzionate, con cui reagisce agli attacchi e alle critiche dei suoi detrattori.
Pope vive in un’epoca in cui i letterati assumono per la prima volta un ruolo di rilievo nei circoli di corte, ponendosi spesso al servizio di particolari interessi politici e facendosi coinvolgere in prima persona nelle diatribe dell’epoca. In questo contesto, egli riesce a conquistarsi un’indipendenza economica che gli permette una libertà concessa a pochi altri fra i suoi contemporanei.
In passato si è dato molto rilievo agli aspetti negativi del carattere di Pope, fino a presumere che egli sia stato un semplice portavoce poetico delle idee dei suoi compagni di fede politica. Di recente è prevalsa invece una tendenza critica diversa, che lo vede affermare orgogliosamente, pur non senza contraddizioni e lacerazioni interiori, la propria indipendenza spirituale e poetica e raggiungere la perfezione formale anche quando la materia delle sue composizioni è particolarmente ostica.