Astruc, Alexandre
Regista, romanziere, critico cinematografico e letterario francese, nato a Parigi il 13 luglio 1923. Raffinato autore di film spesso di ispirazione letteraria, è considerato un antesignano della Nouvelle vague in virtù di una concezione del cinema come strumento di scrittura duttile e poliedrico, affrancato dai miti avanguardisti della purezza del visivo e affidato all'originalità di un autore che, vero responsabile del discorso affrontato dal film, può esprimervi qualsiasi forma di pensiero, nei modi del romanzo come in quelli del saggio filosofico o scientifico. Concezione che A. espresse sia nei suoi film, soprattutto in quelli realizzati a cavallo degli anni Cinquanta e Sessanta, sia in un famoso articolo pubblicato il 30 marzo 1948 su "L'écran français" (nr. 144) e intitolato Naissance d'une nouvelle avant-garde: la caméra-stylo, al quale soprattutto è legato il suo nome nelle storie del cinema. Dopo una collaborazione come aiuto regista di Marc Allégret per il film Blanche Fury (1947; Stirpe dannata), fu attore in La valse de Paris (1950; Il valzer di Parigi) di Marcel Achard, e autore di diverse sceneggiature, fino all'esordio nella regia con Le rideau cramoisi (1952; La tenda scarlatta). Mediometraggio di ambientazione ottocentesca, il film è tratto da uno dei racconti di Les diaboliques di J.-A. Barbey d'Aurevilly, ed è interpretato da una ventenne Anouk Aimée, al suo terzo film. La Aimée fu protagonista anche del successivo Les mauvaises rencontres (1955), lungometraggio di ambientazione contemporanea, in cui è già presente l'intellettualismo raffinato che caratterizzerà la produzione successiva di A. e che motiverà le accuse di freddezza e manierismo che gli verranno mosse dalla critica. Attratto dalla letteratura, A. adattò G. de Maupassant per Une vie (1958; Una vita. Il dramma di una sposa) e si ispirò a G. Flaubert per L'éducation sentimentale (1962; L'educazione sentimentale), liberamente tratto dal romanzo del 1845 ma ambientato alla metà del Novecento. Tra i due, girò La proie pour l'ombre (1961), considerato uno dei suoi film migliori. Seguirono due mediometraggi di un certo spessore: Le puits et le pendule (1963), dal racconto di E.A. Poe e Evariste Galois (girato nel 1964 e uscito tre anni dopo). A. tornò quindi al lungometraggio con un film sulla Resistenza, La longue marche (1966; La lunga marcia), che narra dei 250 chilometri percorsi nelle Cevennes da un gruppo di partigiani braccati dai tedeschi nel giugno del 1944. A questo tentativo non riuscito di fondere film d'azione e dramma psicologico seguì nel 1968 l'ultimo lungometraggio dell'autore, Flammes sur l'Adriatique (La battaglia del Mediterraneo), ambientato durante la Seconda guerra mondiale. Successivamente, A. si dedicò al giornalismo, alla letteratura e alla televisione, per la quale realizzò documentari, tra cui spicca Sartre par lui-même (1976), con la co-regia di Michel Contat. L'idea di cinema prospettata nell'articolo sulla caméra-stylo fa leva su una pratica autoriale, su un processo di scrittura personale e libero in cui le figure del regista e dello sceneggiatore coincidono. Il cinema, dice A., è ormai un linguaggio maturo, con il quale si può esprimere qualsiasi cosa, passioni, idee, metafisica, psicologia, riflessioni filosofiche, realizzando ogni tipo di prodotto, dal romanzo al saggio di matematica, di storia, di critica letteraria. La diffusione delle tecniche leggere, in particolare del 16 mm, e l'avvento della televisione, hanno avuto e avranno sempre più un ruolo decisivo, secondo A., nel processo che ha reso il cinema un equivalente della letteratura e della scrittura saggistica. La caméra-stylo, "mezzo di scrittura flessibile e sottile al pari del linguaggio scritto" (trad. it. in Leggere il cinema, a cura di A. Barbera, R. Turigliatto, 1978, p. 313), rappresenta per A. il superamento del cinema delle attrazioni, della "tirannia del visivo" e del montaggio breve che avevano caratterizzato le estetiche e le pratiche delle avanguardie storiche. E realizza lo stadio in cui il cinema "diventa un lin-guaggio così rigoroso che il pensiero potrà scriversi direttamente sulla pellicola" (p. 314). Ne nasceranno, sottolinea A., opere equivalenti ai romanzi di W. Faulkner o di A. Malraux e ai saggi di J.-P. Sartre o di A. Camus. Gli esempi sono gli stessi della tradizione da cui uscirà la Nouvelle vague e che saranno proposti dai "Cahiers du cinéma" di André Bazin: La règle du jeu (1939; La regola del gioco) di Jean Renoir, Les dames du Bois de Boulogne (1945; Perfidia) di Robert Bresson, L'espoir ‒ Sierra de Teruel (1945) di André Malraux, i film di Orson Welles. La duttilità di questo linguaggio, ormai interamente padrone di sé stesso, e la sua accessibilità, grazie al 16 mm e alla televisione, permettono di abbandonare un concetto monolitico e chiuso di cinema come arte particolare e di parlare di una pluralità dinamica di cinema, per di più fruito quotidianamente da uno spettatore che, in un tempo non lontano, osserva A. con una brillante anticipazione dell'epoca dei videoregistratori domestici, "potrà disporre a casa sua di apparecchi di proiezione e noleggerà dal libraio all'angolo film scritti su qualsiasi soggetto, di qualsiasi forma" (p. 314).