ALFA e OMEGA (Α-Ω)
L'Apocalisse giovannea accenna in tre passi (I, 8; XXI, 6; XXII, 13) alla filiazione divina del Cristo, presente accanto al Padre ab aeterno e sino alla consumazione dei secoli. Ma il concetto è anche più comprensivo; e si allude non soltanto all'eternità del Cristo, ma alla sua opera nella creazione come Verbo, e nella fine come giudice. Questi due momenti sono incisivamente indicati mediante la prima e l'ultima lettera dell'alfabeto greco. Ecco il passo più completo: ἐγὼ τὸ ἄλϕα καὶ τὸ ὦ, ό πρῶτος καὶ ὁ ἔσχατος, ἡ ἀρχὴ καὶ τὸ τέλος, Ap., XXII, 13: "Io sono l'alfa e l'omega, il primo e l'ultimo, il principio e la fine". Le due lettere finirono per assumere poi - come nella letteratura rabbinica il simbolo &mis4;B א ('aleph-tau; cfr. Schoettgen, Horae Hebraicae et Talmudicae, p. 1086 segg.), - un carattere simbolico, sacro e misterioso.
La letteratura cristiana dei primi tre secoli contiene, però, solo rarissimi accenni a questo simbolo, che nelle iscrizioni cemeteriali e nell'arte cristiana fa la sua comparsa nel sec. IV. Se, infatti, non è da escludere che qualche titulus non datato possa risalire al sec. III (cosa molto difficile ad accertare), osserviamo che delle iscrizioni chiaramente riferibili ai secoli II e III nessuna, fra quelle note fino ad oggi, reca tale simbolo. Invece nei secoli IV e V le due lettere apocalittiche ricorrono con grande frequenza, unitamente al chrismon, o monogramma costantiniano, e continuamente e ovunque ricordano e mettono sotto gli occhi dei fedeli il concetto della eternità e della divinità del Cristo.
Tra gl'innumerevoli monumenti, accenneremo solo ai principalissimi. Nelle monete imperiali l'introduzione del simbolo è avvenuta nell'anno successivo alla morte di Costantino (una medaglia di questo imperatore, con l'Α e l'Ω, il chrismon e la dicitura Victoria maxima, sembra falsa) cioè nel 338. Troviamo questo tipo in una medaglia d'oro di Costante; Costanzo II lo adottò a sua volta. A partire da Magnenzio e Decenzio (350-353) i simboli si moltiplicano; poi cominciano a rarefarsi. Si ritrovano però nelle monete di Giustino I e di Giustiniano I, e in quelle dei re merovingi Dagoberto d'Austrasia (623-639), Sigeberto III (634-656), Clodoveo III (639-657). In queste monete barbariche l'omega è rovesciato sulla cima della croce, e l'alfa si deve immaginare. In una moneta di papa Adriano I è da leggersi R-M, non Α-Ω. Nel sacramentario gelasiano del sec. VII, conservato nella biblioteca vaticana, le lettere dell'alfa e dell'omega sono formate dai pesci.
Il simbolo, con un'allusione specifica all'apparizione della Croce a Costantino e alla sua vittoria su Licinio, si trova, intagliato nel marmo, accompagnato dal chrismon e con l'iscrizione in hoc signo sirici (sic. = vinces?), su di un loculo del cimitero di S. Agnese fuori le mura, in Roma, e su di un titolo della Siria centrale, ripetuto due volte e con l'iscrizione ΤΟΥΤΩ ΝΙΚΑ. Anche tegole, mattoni, musaici, sigilli, avorî, pietre incise, miniature ecc. ripetono a sazietà il monogramma con l'Α e l'Ω, o talvolta anche le due lettere sole. Rabano Mauro (De laudibus S. Crucis, in Patrol. latina, CVII, col. 154) introduce una terza lettera, M: in cruce namque quae iuxta caput posita est sunt tres litterae, hoc est Α et Μ et Ω, quod significat initium et medium et finem. Gli eretici usarono pure variamente il simbolo, ripetendo le lettere, come nella gnostica Pistis Sophia, dove il nome dell'immortale (non senza intenti magici, che richiamano l'uso affine del nome divino 'Ιαώ), è ΑΑΑ-ΩΩΩ (v. C. Schmidt, Kopthch-gnostische Schriften, Lipsia 1905). Un antico inno dell'antifonario di Bangor, in uso nella liturgia celtica, reca le strofe:
Alpha et omega
ipse Christus dominus
venit, venturus
iudicare homines,
nel quale è evidente il significato escatologico del simbolo, rafforzato dall'allusione alla frase di S. Paolo (I Corinzî, XVI, 22): Maran atha ("Il Signor nostro viene"). Anche nella liturgia mozarabica le allusioni al simbolo sono frequenti.
Bibl.: F. Cabrol e H. Leclercq, in Dict. d'archeol. chrét. et de liturgie, I, s. v.; N. Müller, in Realencykl. für protest. Theologie und Kirche, I, s. v.