ALFABETO
. Caratteristiche della scrittura alfabetica. - Per una lunga serie di secoli l'antichità ha conosciuto varî sistemi di scrittura (v.), ciascuno dei quali, sia che fosse sorto e si fosse sviluppato indipendentemente, sia che avesse subito l'influsso di altri sistemi, è giunto dalla primitiva fase pittografica (in cui ogni segno riproduce, in forma più o meno semplificata, l'oggetto di cui lo scrivente vuol comunicare ad altri la rappresentazione) a un grado più evoluto e più complicato, nel quale promiscuamente al persistente elemento pittografico e ideografico (che non è se non una variante di quello) si sviluppa l'elemento fonetico. Si arriva così a sistemi del genere di quelli della scrittura cuneiforme (v.) della Mesopotamia e della scrittura geroglifica (v.) dell'Egitto, in cui determinati segni acquistano, indipendentemente dalla loro forma, un valore fonetico, che nella scrittura cuneiforme è soltanto sillabico, mentre in quella geroglifica può assumere anche il valore di una semplice consonante (p. es. &mis3;Q = n).
Siamo così alla soglia della scrittura alfabetica. Se non che questa ha delle caratteristiche sue proprie che mancano tanto alla scrittura cuneiforme quanto alla geroglifica. Anzitutto queste offrono un sistema misto di ideogramni e di segni fonetici, mentre la scrittura alfabetica è esclusivamente fonetica; in secondo luogo i segni fonetici cuneiformi hanno sempre valore sillabico, quelli geroglifici talora sillabico talora consonantico, mentre nella scrittura alfabetica ogni segno rappresenta in origine un'unica consonante (o, più tardi, anche una vocale: v. oltre); infine, i caratteri cuneiformi e gerogliflci sono polisemantici, ossia il medesimo segno può aver valore ora ideografico ora fonetico e, nell'ultimo caso, rappresentare molteplici suoni (ciò vale specialmente per il sillabario cuneiforme): nella scrittura alfabetica, invece, ogni segno ha un valore costante e invariabile. Solo in epoca tarda, per il mantenersi dell'ortografia tradiaionale di contro all'evoluzione fonetica, il medesimo segno alfabetico può assumere anch'esso valori diversi: tale è il caso (per citare un esempio prossimo a noi) delle consonanti c, g, che hanno in italiano suono diverso a seconda che si trovino dinnanzi alle vocali a, o, u, oppure e, i, mentre nella fase più antica (latina) ciascuna di tali consonanti aveva un suono unico e costante. Sempre in epoca tarda, e a causa di particolari circostanze storiche, si ha anche il caso di un suono unico il quale viene espresso mediante un complesso di più segni alfabetici: così il suono rappresentato in italiano da sc (sci innanzi ad a, o, u), in francese da ch, in inglese da sh, in tedesco da sch è in realtà una consonante unica, che in altre lingue, anche moderne (p. es. nelle lingue slave), viene espresso mediante una sola lettera dell'alfabeto. Prescindendo quindi dalle eccezioni recenti, la scrittura alfabetica può definirsi "la scrittura in cui ogni segno ha un valore fonetico costante e invariabile".
I. Origine e sviluppo dell'alfabeto.
Le origini. - Nell'antica Grecia era molto diffusa la tradizione che l'alfabeto fosse stato introdotto dai Fenici, e che tale introduzione si riconnettesse con la migrazione dell'eroe fenicio Cadmo a Tebe: le lettere dell'alfabeto stesso vennero perciò chiamate ϕοινίκια γράμματα o καδμεῖα γράμματα. La veridicità di tale tradizione trovò più tardi conferma nel confronto con l'alfabeto ebraico, essendo nota fin dall'antichità la stretta parentela tra gli Ebrei e i Fenici: non solo la forma delle 22 lettere dell'alfabeto ebraico può essere raccostata a quella delle prime 22 lettere dell'alfabeto greco, ma anche i nomi ebraici delle lettere sono analoghi a quelli greci e il loro ordine di successione è il medesimo. Ma soltanto in seguito allo sviluppo preso dall'epigrafia fenicia da un lato, da quella greca dall'altro la stretta parentela dei due alfabeti ha potuto essere esaurientemente provata. D'altra parte anche gli altri alfabeti semitici, e in particolar modo quelli settentrionali (oltre all'ebraico, le diverse varietà dell'aramaico e l'arabo), ma anche, nonostante notevoli diversità (sulle quali v. oltre) quelli meridionali (l'arabo meridionale e l'etiopico) si rivelano derivati anch'essi dall'alfabeto fenicio, sicché questo sarebbe in realtà il più antico degli alfabeti e quello donde derivano tutti gli altri alfabeti del mondo antico e moderno.
Tuttavia, se l'origine fenicia della scrittura alfabetica sembra indubitabilmente accertata (per ipotesi contrastanti con ciò che precede, v. oltre), l'età e il modo con cui essa si formò e si diffuse, i modelli ai quali essa si ispirò sia per le forme delle singole lettere sia per il sistema fonetico, non sono ancora del tutto chiaramente noti. Dopo che, dalla metà del sec. XIX in poi, varie ipotesi vennero emesse al proposito, sembra accertato che la scrittura alfabetica debba la sua origine a una semplificazione del sistema geroglifico egiziano. In questo, come è stato detto sopra, accanto ai valori ideografici e sillabici si erano andati sviluppando anche dei valori semplicemente consonantici, e ciò specialmente coll'applicazione del principio dell'acrofonia, consistente in ciò, che un determinato segno ideografico assume il valore fonetico corrispondente alla propria consonante iniziale: p. es. l'ideogramma della "mano", d.t, viene a prendere il valore della consonante d, quello della "bocca", r-, viene a prendere il valore della consonante r, ecc. (per maggiori particolari, v. geroglifici). In tal modo l'egiziano sarebbe potuto arrivare, eliminando tutti i valori ideografici e sillabici dei geroglifici e mantenendo solo i valori consonantici, a una scrittura puramente alfabetica, composta peraltro di sole consonanti, poiché la scrittura geroglifica non suole esprimere le vocali. T'uttavia gli Egiziani non giunsero a compiere questa trasformazione radicale del loro sistema tradizionale di scrittura, e continuarono a usare i segni geroglifici coi valori promiscui di ideogramma, sillaba, consonante. Il passo decisivo fu compiuto ssltanto da popolazioni semitiche.
La prova di ciò, che fino ad alcuni anni or sono era soltanto un'ipotesi, sembra esser data dalla scoperta, fatta nel 1905 dall'egittologo Flinders Petrie ma valorizzata soltanto a partire dal 1916, di un particolare tipo di scrittura offerto dalle cosiddette "iscrizioni sinaitiche" o "paleosemitiche", delle quali si conosce finora una dozzina e che vennero tutte trovate nella località odierna di Serābīṭ al-Khādim nella penisola del Sinai, in prossimità di antiche miniere di lapislazzulo che venivano sfruttate fin dai tempi della 18ª dinastia egiziana (sec. XVI-XV a. C.). Queste iscrizioni presentano una scrittura identica a quella geroglifica, benché di lavorazione più rozza, ma che è indecifrabile qualora si tenti di leggerla come egiziano, mentre, applicando il principio dell'acrofonia al valore ideografico dei segni in lingua semitica, si giunge a identificare qualche parola. Così, p. es., il segno &mis4;C "casa" ha in egiziano il valore ideografico e sillabico p'; il segno &mis4;D "occhio" ha il valore ideografico ἰr.t ecc.; in semitico "casa" e "occhio" si dicono rispettivamente bayt e ‛ayn, sicché tali segni furono letti, nelle iscrizioni sinaitiche, come b e ‛. Se le interpretazioni ottenute con questo metodo sono esatte (occorre dire che finora si è riusciti a spiegare soltanto qualche parola isolata: i tentativi fantastici di taluni dotti che hanno letto nelle iscrizioni sinaitiche cose meravigliose - perfino il nome di Mosè! - non meritano di essere presi sul serio), occorre ammettere che un gruppo di Semiti abitanti il Sinai (dove sappiamo anche da altre fonti che essi realmente risiedettero al tempo del Nuovo impero egiziano) adottò per l'uso della propria lingua il metodo egiziano dell'acrofonia, scegliendo tra i geroglifici quelli più adatti a rappresentare i valori delle consonanti semitiche; questi Semiti furono pertanto i primi e veri inventori della scrittura alfabetica. Più tardi i Fenici, o un altro popolo semitico prossimo ad essi, avrebbe modificato la forma dei singoli segni alfabetici, pur mantenendo invariato il sistema: così per la prima lettera, ' (spirito dolce), si sarebbe adottata la testa del "toro", chiamato in semitico aleph; per la seconda al carattere egiziano rappresentante in pianta una casa si sarebbe sostituita la pianta della "tenda" (bayt significa l'una e l'altra cosa) triangolare propria dei nomadi; per g si sarebbe adottato il profilo del "cammello" (gamal); per d la "porta" (dalet), ecc. (fig. 1). È tuttavia possibile che l'alfabeto sinaitico rappresenti soltanto uno di varî tentativi, fatti in luoghi e tempi diversi, di trasportare nella lingua semitica il sistema acrofonico egiziano, e che pertanto l'alfabeto fenicio derivi direttamente dai geroglifici, senza il medio del sinaitico: soltanto eventuali nuove scoperte potranno dare la soluzione del problema. Se veramente l'alfabeto fenicio è stato preso direttamente dall'Egitto, è verosimile che il suo centro di diffusione sia stata l'antica città di Byblos sulla costa fenicia, che fin dal 3° millennio a. C. fu sottomessa al predominio igiziano e costituì l'emporio del commercio tra la Siria e l'Egitto, commercio di cui uno degli elementi più cospicui era appunto il papiro, il materiale scrittorio per eccellenza, tanto che i Greci diedero al "libro" (byblos, biblos) il nome stesso della città.
L 'allabeto fenicio e la sua diffusione (fig. 2). Precisamente a Byblos, dove recenti scavi hanno rivelato l'esistenza di grandiosi templi e sepolcreti di stile egiziano, è stato scoperto il più antico monumento dell'alfabeto fenicio, l'iscrizione funeraria del re Aḥīram, da collocarsi verosimilmente nel sec. XIII a. C. Il carattere della scrittura appare già completamente sviluppato e, nonostante il suo aspetto di maggiore arcaismo, è sostanzialmente identico a quello delle iscrizioni più recenti. Di età un po' posteriore sono altre due iscrizioni egualmente di Byblos; anche più tarda (sec. X) un'iscrizione incisa su un vaso di bronzo di cui varî frammenti furono trovati a Cipro; finalmente l'iscrizione del re moabitico Mesa (che praticamente può considerarsi fenicia per l'assoluta identità della scrittura) e quella del re aramaico Kalammu o Kilammu scoperta a Zengīrlī (Siria settentrionale), sono sicuramente del sec. IX. Grandi analogie nel tipo della scrittura presentano con queste ultime alcuni frammenti di Nora (Sardegna). Già in queste più antiche iscrizioni, ma anche maggiormente in quelle più recenti, l'alfabeto fenicio presenta la caratteristica di essere una scrittura tendente al tipo corsivo piuttosto che a quello lapidario: è evidente che essa dovette essere usata principalmente per scrivere, col pennello o col calamo, a inchiostro su papiro (materiale deperibile e del quale pertanto non si conserva traccia al di fuori dell'Egitto), anziché per incidere con lo scalpello sulla pietra. Del resto alcune iscrizioni a inchiostro, che si sono trovate su frammenti di coccio, confermano tale caratteristica dell'alfabeto fenicio.
Si comprende facilmente come un'invenzione così pratica come quella dell'alfabeto, che permetteva di scrivere qualunque testo coll'uso di soli 22 segni di significato non equivoco, mentre i sistemi geroglifico e cuneiforme impiegavano centinaia di segni e offrivano dubbi e oscurità intorno alla loro interpretazione, dovesse avere rapida e vasta fortuna. Tuttavia la forza della tradizione, e probabilmente anche il carattere sacrale attribuito alla scrittura, fecero sì che tanto in Egitto quanto nella Mesopotamia si conservassero ancora a lungo i sistemi di scrittura indigeni. La nuova invenzione fu invece sollecitamente adottata da tutti quei popoli giovani che appunto nella seconda metà del 2° millennio a. C. occuparono, migrando dal mezzogiorno, la vasta regione intermedia tra la Mesopotamia e l'Egitto, trasformandosi di nomadi in sedentarî e creando, coll'assimilare gli elementi delle civiltà più antiche trasformandoli secondo la loro propria indole, nuove civiltà che trovarono una delle loro più insigni espressioni culturali precisamente nell'uso della scrittura alfabetica. Tali popoli sono, oltre ai Fenici propriamente detti, gli Ebrei, gli Aramei, e certamente anche altre popolazioni di stirpe affine che si stanziarono anch'esse nelle regioni dell'Asia anteriore, quali i Moabiti, gli Ammoniti, gli Edomiti, ecc., ma delle quali soltanto per i Moabiti, con la già citata iscrizione del re Mesa, è attestata finora la conoscenza dell'alfabeto.
L'espansione dei Fenici verso il Mediterraneo occidentale, gl'inizî della quale possono farsi risalire alquanto più addietro del 1° millennio a. C., portò la conoscenza e l'uso dell'alfabeto ben oltre i confini geografici dell'Asia anteriore. Non vi può esser dubbio che i Greci, le cui relazioni coi Fenici sono attestate dai poemi omerici, abbiano tratto da essi il loro alfabeto, così come vuole la tradizione (v. sopra): le più antiche iscrizioni greche, del principio del sec. VII, presentano una somiglianza, che è quasi identità, con l'alfabeto fenicio per tutte quante le lettere, le quali si limitano, in quell'epoca, alle 22 dell'alfabeto fenicio. A dir vero, la scoperta delle scritture minoiche (v. creta), avvenuta nel primo quarto del nostro secolo, ha indotto taluni scienziati a ritenere che il processo di trasmissione dell'alfabeto sia stato l'inverso di quanto è detto sopra: che cioè l'alfabeto greco derivi dai caratteri minoici e che i Greci lo abbiano trasmesso ai Fenici. Ma tale ipotesi è insostenibile, sia perché i nomi delle singole lettere dell'alfabeto greco sono di origine semitica e non greca, sia perché il trapasso del valore di alcuni segni da consonanti gutturali e semivocali in fenicio a vocali in greco (v. sotto) è agevolmente spiegabile, mentre non si spiegherebbe il trapasso contrario, sia finalmente perché la recente scoperta delle iscrizioni sinaitiche permette di seguire fin dall'origine, come s'è detto, lo svolgimento organico dell'alfabeto fenicio dal sistema geroglifico egiziano.
Mentre dall'alfabeto greco hanno tratto origine tutti gli alfabeti occidentali (latino, italico, etrusco, forse anche iberico), nonché quelli dell'Asia Minore (lidio, cario, ecc.), l'alfabeto fenicio si è diffuso nell'occidente anche in maniera diretta, attraverso Cartagine e le sue colonie. La scrittura punica (la quale, oltre che nel territorio africano, è attestata a Malta, in Sardegna, in Sicilia, in Spagna) non si distingue dalla fenicia propria se non per piccole differenze nella forma delle lettere, che assumono un carattere di maggiore regolarità e una tendenza sempre più spiccata verso il corsivo (fig. 3). Dal punico si sviluppa più tardi, specialmente nell'età romana, il cosiddetto neopunico, tipo di scrittura che in alcune regioni degenera in forme grossolane, mentre in altre, soprattutto in Tripolitania, assume carattere di bella e regolare scrittura lapidaria, non forse senza influsso dell'epigrafia romana; accanto, si hanno tracce di una scrittura corsiva, che dovette essere la più comune nell'uso corrente, ma della quale, per la deperibilità del materiale su cui essa era vergata, si conosce molto poco. Anche l'alfabeto numidico, largamente attestato nell'Africa settentrionale e la cui decifrazione è ormai quasi completa (v. numidia), sembra sicuramente derivare dal fenicio, ma il modo e le circostanze di tale derivazione sono ancora oscuri. Parallelamente all'evoluzione dell'alfabeto punico in Africa, si ha un'evoluzione dell'alfabeto nella Fenicia propria e a Cipro (dove la scrittura fenicia, introdotta almeno fin dal sec. X a. C., si mantenne a lungo accanto al sillabario cipriota indigeno e all'alfabeto greco). Nel corso dei secoli la forma delle lettere subisce varie modificazioni, finché, nell'età ellenistica, il prevalere della cultura greca da un lato, di quella aramaica dall'altro, portano alla scomparsa come della lingua così anche della scrittura fenicia, della quale non si hanno più tracce dopo la fine del sec. II a. C.; in occidente, invece, la scrittura neopunica si mantiene ancora per varî secoli, certamente fino alla fine del sec. III d. C. e forse anche più avanti.
Gli alfabeti semitici.
a) L'alfabeto ebraico (fig. 3). - Pochissimi sono gli avanzi rimastici dell'antica scrittura ebraica, il cui uso dovette essere tuttavia molto antico e che andò a poco a poco sostituendo la scrittura cuneiforme, dapprima largamente adoperata in tutto il territorio palestinese. Le sole iscrizioni finora conosciute, a tacere di alcuni sigilli recanti soli nomi di persona e di alcune brevi iscrizioni a inchiostro su anfore, sono il cosiddetto "calendario agricolo di Gezer" (IX sec. a. C.?), e l'iscrizione di Siloah (principio del sec. VII), sulle pendici meridionali della collina di Gerusalemme, che riferisce l'escavazione di una galleria per conduttura di acqua. Il tipo della loro scrittura è similissimo al fenicio. Molto più recenti sono le iscrizioni di monete, dall'età del regno Maccabeo (sec. II a. C.) fino all'ultima grande rivolta giudaica sotto Adriano (132 d. C.). Dall'antico alfabeto ebraico deriva quello samaritano, usato in iscrizioni e in manoscritti; l'alfabeto invece che oggi si chiama ebraico, e che in quanto tale è tuttora in uso, non rappresenta la scrittura nazionale degli Ebrei, ma proviene invece dall'alfabeto aramaico.
b) L'alfabeto aramaico e l'alfabeto arabo (fig. 4). - Anche questo tipo di scrittura, i cui inizî si possono osservare nelle grandi iscrizioni dei re di Sam'al e del re di Hamah (v.), presenta in origine un'identità quasi completa col fenicio. Sua caratteristica spiccata è la maggiore regolarità in confronto con quest'ultimo: le lettere tendono ad assumere una posizione verticale anziché inclinata verso sinistra e a diventare tutte di altezza eguale, sopprimendo le lunghe code caratteristiche della scrittura fenicia. La straordinaria diffusione della lingua e della cultura degli Aramei (v.) nell'Asia anteriore, culminante alla fine del sec. VI a. C. con l'adozione dell'aramaico come lingua ufficiale dell'impero persiano a occidente dell'Eufrate (compresovi anche l'Egitto), fecero sì che anche l'alfabeto aramaico diventò predominante in quelle regioni e fu adottato, tra gli altri, anche dagli Ebrei, che finirono con l'abbandonare la loro scrittura nazionale. In Egitto sono stati trovati in gran numero papiri in scrittura aramaica provenienti da colonie giudaiche colà stanziate, i più antichi dei quali appartengono al sec. V a. C.; da tale scrittura si sviluppa la cosiddetta ebraica quadrata, il cui più antico documento è del sec. II a. C. e che è divenuta la scrittura comune tra gli Ebrei, quella in cui sono composti i manoscritti e le edizioni del testo biblico e degli altri libri ebraici. Un'ulteriore evoluzione della quadrata è data dalla minuscola rabbinica (a partire circa dal sec. XI d. C.) e dalla corsiva moderna, di cui si hanno attualmente alquante varietà (tedesco-polacca, levantina, africana, ecc.). La rinascita dell'ebraico come lingua viva, promossa specialmente da Ebrei di origine polacca o russa, ha dato in questi ultimi anni un grande impulso alla prima di queste varietà, la quale è divenuta la scrittura corsiva corrente dell'ebraico moderno, mentre per la stampa si è conservata la scrittura quadrata e, più raramente, la rabbinica.
Dall'antico alfabeto aramaico si sono diramate numerose altre varietà di scrittura, la cui molteplicità è derivata dal gran numero di comunità politiche e religiose indipendenti sorte in seno alla nazione aramaica, non poche delle quali, alla loro volta, esercitarono il loro influsso culturale su altri popoli e trasmisero ad essi il proprio alfabeto, che questi poi modificarono e diffusero ulteriormente. Sicché può dirsi che l'influenza e l'estensione degli alfabeti aramaici in Oriente è pari, se pur non la supera, a quella degli alfabeti greco-latini in Occidente. Molto simile all'alfabeto ebraico quadrato è il palmireno, che dovette il proprio sviluppo (a partire dal sec. I a. C.) al sorgere dell'effimera, per quanto rigogliosa, civiltà di Palmira (v.) e cessò col decadere di essa, alla fine del sec. III d. C. Più vitale fu l'alfabeto dei Nabatei (v.), il popolo di carovanieri e di trafficanti dell'Arabia settentrionale, che da circa il sec. III a. C. in poi esercitò una potente azione culturale sui popoli ancor barbari della penisola araba (fig. 5). Da questo alfabeto, nel quale si afferma sempre più forte la tendenza alla scrittura corsiva, con frequenti legamenti delle lettere e semplificazione della forma di esse, si sviluppa, a partire da circa il sec. V-VI d. C. (l'esempio più antico finora conosciuto è del 512) l'alfabeto arabo (v. arabi: Lingua), il quale, in procedere di tempo, dovette introdurre un nuovo elemento per distinguere l'una dall'altra varie lettere che le successive semplificazioni delle forme originarie avevano rese identiche: i cosiddetti punti diacritici, posti sopra o sotto le singole lettere (così, p. es., il segno &mis4;1 assume il valore di ben cinque lettere diverse a seconda del numero e della disposizione dei punti: &mis4;2 b, &mis4;3 t, &mis4;4 th, &mis4;5 n, &mis4;6 y). L'enorme espansione dell'islamismo, a partire dal sec. VII, non solo portò, insieme con la lingua, anche l'alfabeto arabo fino alla Spagna e all'Africa occidentale da una parte, all'altipiano iranico e ai monti Tauri dall'altra, ma fece adottare la scrittura araba anche a quasi tutti i popoli musulmani di lingua diversa, e segnatamente ai Persiani. Questi, alla loro volta, diedero il loro alfabeto ai popoli islamizzati da essi, all'India musulmana (lingua urdū o hindustānī) e ai Turchi, e dai Turchi esso passò a Tartari, Armeni, Slavi della Bosnia-Erzegovina, soppiantando gli alfabeti nazionali (i quali furono peraltro conservati dai Cristiani di quelle nazionalità). Naturalmente l'alfabeto arabo si presta assai poco a rendere i suoni di lingue tanto differenti, nonostante l'introduzione di nuovi punti diacritici per esprimere consonanti ignote all'arabo (p. es. la p sorge dalla &mis4;2 b araba con l'aggiunta di altri due punti, &mis4;7).
I più lontani esempî dell'uso dell'alfabeto arabo per la scrittura di altre lingue sono costituiti verso oriente dal malese, verso occidente e mezzogiorno dal berbero e dal suaḥilī.
Non minore estensione, almeno nello spazio, ebbe un altro ramo dell'alfabeto aramaico, sorto nelle regioni orientali della Mesopotamia e della Babilonide, anch'esso, come il nabateo-arabo, con una spiccata tendenza al corsivo: di esso i principali rappresentanti sono il siriaco (cui la chiesa di Siria diede un notevole sviluppo), il mandeo (limitato alla setta gnostica dei Mandei nella Babilonide meridionale) e la scrittura manichea. Questi tre tipi di scrittura debbono la loro differenziazione alla circostanza di essere stati adottati ed elaborati da tre confessioni religiose diverse: il primo e il terzo di essi, attraverso la propaganda missionaria, presero la via dell'Asia centrale, spingendosi fino all'Estremo oriente, e diedero origine alla scrittura dei Turchi Uiguri, dei Mongoli, dei Manciuri. Da un tipo di alfabeto egualmente aramaico, ma in una fase più antica che non le scritture siriaca e manichea, trae origine la scrittura pahlavica, o medio-persiana (v. pahlavi), che ebbe anch'essa larghissima diffusione, specialmente sotto la dinastia dei Sassanidi (224-644 d. C.).
Finalmente anche gli alfabeti indiani, le diramazioni dei quali sono numerosissime, sembrano sicuramente derivati da quello aramaico, benché né l'età né il modo della trasmissione risultino finora sufficientemente chiari all'indagine scientifica (v. india).
c) L'alfabeto arabo meridionale ed etiopico (fig. 6). - L'imponente civiltà dell'Arabia Meridionale ci ha tramandato in numerosissime iscrizioni un suo proprio alfabeto, di tipo elegantemente lapidario, nelle varietà del mineo, del sabeo, del himyaritico e altre minori. La stretta connessione di esso con gli altri alfabeti semitici è evidente, ma non meno evidenti sono le differenze nella forma di alcune lettere, ed è singolare, specialmente, che esso rappresenti con segni particolari anche le sei consonanti che la lingua araba possiede in aggiunta alle 22 del fenicio e dell'aramaico e che l'alfabeto arabo settentrionale, derivato dal nabateo che solo quelle 22 conosce, rappresenta mediante l'aggiunta di punti diacritici. Tutto ciò ha indotto alcuni studiosi a supporre che l'alfabeto arabo meridionale non derivi direttamente dal fenicio, ma sia soltanto parallelo a esso, e tale ipotesi sembra confortata dalla recente scoperta delle iscrizioni sinaitiche (v. sopra) che ha rivelato l'esistenza di una fase prefenicia della scrittura alfabetica. Altri tuttavia sostengono che le differenze e le aggiunte che si riscontrano nell'alfabeto meridionale possono spiegarsi mediante una evoluzione interna di esso. Comunque sia, l'alfabeto arabo meridionale si diffuse oltre i confini originarî: le colonie minee che ragioni di commercio e di politica fecero sorgere nell'Arabia settentrionale introdussero colà anche la scrittura, e ne restano le tracce in iscrizioni (per lo più graffiti) che si trovano abbondantissime specialmente negli antichi centri commerciali di Dedān (odierna el-‛Öla) e di Hegra (odierna al-Ḥiǵr-Madā'in Ṣāliḥ) sull'antica via carovaniera cui attualmente corrisponde la linea ferroviaria Ma‛ān-Medina, e nella regione desertica di aṣ-Ṣafā a SE di Damasco. In tali iscrizioni l'alfabeto arabo meridionale, distinto nelle tre varietà del liḥyānitico, del thamūdeno e del ṣafaitico, è usato per scrivere la lingua araba settentrionale, in un'età anteriore all'adozione da parte degli Arabi dell'alfabeto nabateo (v. sopra, lettera b). Ma molto maggior importanza ha l'introduzione dell'alfabeto arabo meridionale in Etiopia, dove esso, leggermente modificato, ha dato origine, verso il sec. III d. C., all'alfaheto etiopico, il quale è tuttora in uso in tutta l'Etiopia: anche questo alfabeto ha introdotto (oltre la vocalizzazione, sulla quale v. sotto) speciali modificazioni nella forma di alcuni caratteri per esprimere suoni peculiari a talune lingue d'Abissinia (specialmente dell'amarico).
La rappresentazione delle vocali negli alfabeti semitici. - Probabilmente per influsso della scrittura egiziana, nella quale le vocali non sono mai espresse, anche l'alfabeto fenicio consta di sole consonanti (si badi a non scambiare per una vocale la prima lettera, aleph, che rappresenta invece una leggera emissione di fiato simile allo "spirito dolce" del greco). Le vocali devono essere supplite dal lettore, sicché p. es. il gruppo di tre lettere mlk deve pronunciarsi, a seconda del contesto, malk "re", malkī "il mio re", malák "egli regnò", malakā "essa regnò", malakū "essi regnarono". Sono ovvî gli inconvenienti di tale sistema, ed è noto che i Greci, adottando l'alfabeto fenicio, sentirono il bisogno (più impellente, data l'indole della lingua greca, di quanto esso fosse per le lingue semitiche) di una espressione esplicita e costante delle vocali, che essi ottennero impiegando a tale scopo quei segni dell'alfabeto fenicio che erano inutili alla lingua greca, poiché indicavano semivocali o consonanti gutturali ad essa ignote: così ' fu adoperato per α, h per ε, ḥ per η, y per ι, ‛ per o, w per υ (v. sotto).
Un procedimento presso a poco simile, ma assai meno sviluppato e conseguente, si osserva anche negli alfabeti semitici: a poco a poco alcune delle lettere sopra dette, il cui suono è vicino alla base fonica delle vocali, furono usate per esprimere alcune vocali lunghe, pur mantenendo, contemporaneamente, il loro ufficio di consonanti. Tracce di tale procedimento si hanno già nel fenicio, anche più frequenti nell'ebraico e nell'aramaico; ma esso è stato svolto in maniera conseguente soltanto dall'arabo, in cui le tre vocali lunghe ā, ī, ū sono sempre espresse mediante le lettere ', y, w. Anche più in là si sono spinte le scritture di alcuni dialetti aramaici orientali i quali rappresentano, anche dal lato linguistico, una profonda alterazione del tipo semitico primitivo: il talmudico babilonese e il mandeo esprimono mediante le semivocali e le gutturali quasi tutte le vocali, anche le brevi.
Tuttavia il metodo al quale gran parte delle scritture semitiche hanno avuto ricorso, in una fase più recente, per indicare le vocali è stato del tutto diverso dal precedente: mantenendo inalterato l'aspetto consonantico delle singole parole (tranne l'indicazione di alcune vocali lunghe nel modo detto sopra), le vocali vengono espresse mediante segni particolari (punti e linee, isolati o variamente combinati) che si scrivono al disopra, al disotto o nel mezzo delle consonanti cui si riferiscono. Questo sistema (detto "puntuazione") varia per la sctittura di ciascuna lingua, e anzi nelle singole lingue si presenta talvolta in diversi tipi; ma tutte le varietà si riconducono a un prototipo unico, che quasi certamente è dato dall'alfabeto siriaco, il quale, verso il sec. V d. C., adottò, trasportandolo a diverso uso, il sistema di punteggiatura dei manoscritti greci. Dal sistema siriaco (un ramo della scrittura siriaca, quello in uso presso i Giacobiti, adottò più tardi addirittura le vocali della scrittura minuscola greca, scrivendole ibridamente al disopra e al disotto delle lettere del proprio alfabeto) derivano i sistemi di puntuazione vocalica ebraico e arabo. L'impulso a introdurre una notazione precisa delle vocali fu dato da un bisogno religioso: quello di avere una guida non equivoca alla lettura liturgica dei testi sacri.
Anche diverso, e del tutto originale, è il sistema di vocalizzazione dell'alfabeto etiopico: in esso le vocali sono espresse mediante piccole alterazioni della forma delle consonanti, sicché in questo alfabeto ogni lettera, oltre alla propria forma pura, ne ha altre sei.
Bibl.: Le classiche opere di J. Taylor, The Alphabet: an account of the origin and development of letters, 2ª ed., Londra 1899 e di Ph. Berger, Histoire de l'écriture dans l'antiquité, Parigi 1891, ancora utili come raccolta di materiali, sono oggi invecchiate in seguito alla scoperta delle iscrizioni sinaitiche. Aggiornato è il volume di H. Jensen, Geschichte der Schrift, Hannover 1925; per studî più recenti sulle iscrizioni sinaitiche v. R. F. Butin, nella Harvard Theological Review, XXI (1928), pp. 9-68; sull'antichissima iscrizione fenicia di Byblos, S. Ronzevalle, nei Mélanges de l'Université de St.-Joseph, X (1928).
Alfabeti greci.
Già nell'età micenea i Greci usarono indubbiamente la scrittura: sia quella ideografica, a noi del tutto incomprensibile, ch'essi appresero dai minoici, sia l'altra, sillabica, che i Peloponnesî stanziati nell'isila di Cipro ricevettero, secondo ogni probabilità, dai vicini Ittiti. Queste due fogge di scrittura scomparvero però del tutto, senza esercitare alcun influsso sulla nuova scrittura, fonetica ed alfabetica, che i Greci impararono ad usare dai Fenici. L'antichità stessa, accanto ad una tradizione che attribuiva l'invenzione dell'alfabeto all'uno o all'altro personaggio mitico greco (come Prometeo, Palamede, Orfeo, Museo, ecc.), ne conosceva un'altra, assai più autorevole, che affermava l'origine fenicia delle lettere greche, chiamate perciò Φοινικήϊα, ϕοινικήϊα γράμματα (Erodoto, V, 56; Inscr. Gr. antiq., 497 b, 37 segg.; cfr. Diodoro, III, 67; V, 74; Tacito, Ann., XI, 54) e fatte risalire naturalmente a Cadmo. Questa tradizione corrisponde evidentemente al vero: ne fanno fede l'identità delle forme e dei nomi delle più antiche lettere greche con quelle fenicie (v. sopra). Intorno all'epoca dell'accoglimento dell'alfabeto fenicio fra i Greci non abbiamo notizie sicure, e dobbiamo contentarci di conclusioni approssimative: finché i documenti più antichi scritti in alfabeto fenicio apparivano non anteriori al sec. X non si poteva risalire più addietro per la data dell'adozione di quell'alfabeto fra i Greci. Ma da quando nuovi documenti hanno mostrato che l'invenzione della scrittura alfabetica in Fenicia risale a un'età molto più antica, non può escludersi che anche la diffusione di essa fra i Greci dell'Ellade orientale e dell'Arcipelago possa essere anteriore al sec. X, per quanto, come è noto, i più antichi documenti della scrittura greca finora conosciuti appartengano soltanto al principio del sec. VII a. C.
L'alfabeto fenicio al tempo del suo passaggio in Grecia può essere rappresentato dalle forme più arcaiche, quali sono riprodotte nella fig. 2.
L'evoluzione successiva dell'alfabeto greco ha modificato, in maggiore o minor grado, tutte le forme delle lettere, e alcune così profondamente da renderne a prima vista irriconoscibile il rapporto di dipendenza dal modello fenicio. Ciò è dovuto, in primo luogo, al "rovesciamento" dei singoli segni prodotto dal cambiamento di direzione della scrittura, mutatasi da sinistrorsa in destrorsa. Questo cambiamento avvenne in modo graduale: mentre le iscrizioni più antiche sono tutte sinistrorse, compaiono presto quelle bustrofediche (v.), in cui le lettere delle righe destrorse sono rivolte anch'esse verso destra, e l'aspetto che esse assumono si mantiene naturalmente quando la direzione della scrittura è uniformemente a destra. Un'altra causa di modificazione delle forme arcaiche, di tipo fenicio, consiste nella tendenza, che è caratteristica nell'evoluzione dell'alfabeto greco, a conferire ai singoli segni un aspetto simmetrico e una posizione ortostatica, in opposizione al ductus irregolare e inclinato verso sinistra della scrittura fenicia (si confronti p. es. &mis3;8 fenicio con &mis4;A greco). È stato osservato che le lettere dell'alfabeto greco nella sua fase definitiva (ionica) hanno tale conformazione che possono essere tutte iscritte entro un quadrato e che, immaginandole nell'aspetto di figure solide, esse si reggerebbero quasi tutte in piedi in equilibrio stabile. In questo modo di comportarsi verso il modello straniero può ravvisarsi un sintomo di quello spirito di armonia e di equilibrio che distingue i Greci dagli orientali.
In qualunque modo si voglia spiegare l'ordine delle singole lettere nella serie alfabetica fenicia, è indubbio che questa fu adottata tale e quale dai Greci; com'è dimostrato dalla forma identica delle lettere, dall'uso di queste come numeri, al posto regolarmente corrispondente a quello da esse tenuto nella serie alfabetica, dalla direzione verso sinistra, o al più bustrofedica, della scrittura.
L'alfabeto fenicio, come gli altri alfabeti semitici, era però sprovvisto di segni per le vocali; non potevano invece rinunziarvi i Greci, nella lingua dei quali le vocali sono elemento essenziale: d'altra parte nell'alfabeto fenicio si trovavano lettere che non avevano corripondenti nella lingua greca. Di qui una serie di modificazioni introdotte nell'alfabeto fenicio, successivamente al suo accoglimento in Grecia. Per rappresentare le vocali si adottarono anzitutto i segni delle laringali fenicie aleph, he, ‛ayn, superflue per i Greci, cui bastava, per lo spirito aspro, l'ottavo segno (ḥeth); poi anche le semivocali yōd e wau, indicanti suoni che già erano scomparsi o stavano scomparendo dalla maggior parte dei dialetti greci. I primi tre segni vennero così ad indicare rispettivamente le vocali A E O; gli altri due, le vocali I Y. Siccome però alcuni dialetti greci conservavano ancora il suono del wau, così non si poté lasciare l'alfabeto sprovvisto di un segno anche per esso; né si poté trasferire questo segno in posto diverso da quello originario (il sesto), essendo wau già usato come segno numerico (per "sei"). Si trasportò allora la vocale Y all'ultimo posto, dopo tau, e per il suono wau si introdusse un segno nuovo, &mis2;F o &mis3;N, chiamato poi "digamma" per la sua somiglianza con un doppio gamma e formato, probabilmente per semplice differenziazione, dal vicino segno di he, privato dell'asta inferiore.
Un'altra modificazione dové essere contemporaneamente imposta dalla ricchezza dell'alfabeto fenicio in sibilanti: esso offriva per queste, quattro segni (zayn = s dolce; samek = s aspra; sade = s enfatica; šīn = sc), eccessivi per il greco. Mentre sade fu lasciata cadere (se ne ha qualche esempio isolato in iscrizioni di Alicarnasso e della Panfilia, con la forma &mis4;F o &mis4;G), fu adoperata zayn per la consonante doppia ds (zeta); e mentre samek fu usata (soltanto però nella metà orientale del mondo greco e nell'Argolide) per la consonante doppia ks (xi), per il suono semplice di s (san, sigma) si adottò la fenicia šīn, cambiando però la posizione del segno (invece di &mis???;, &mis1;Y o &mis1;R). La forma &mis1;Y troviamo predominante a Creta, nelle isole doriche, in parte del Peloponneso (Acaia, Elide, città dell'Istmo) e della Grecia centrale (Focide); la forma &mis1;R, invece, nell'Asia minore, nelle isole doriche, in Attica, Beozia e nel resto della Grecia peninsulare, nella Laconia e in Arcadia. È per altro da tener presente che la questione dell'adozione e delle trasformazioni delle sibilanti fenicie nell'alfabeto greco fu oggetto di lunghe controversie, che le soluzioni proposte furono molteplici e che sarebbe arrischiato affermare che l'una o l'altra di esse possa riguardarsi come in tutto conforme al vero: chi voglia esseme informato, non avrà che da consultare la bibliografia che è data alla fine di questa voce.
Con ciò fu costituito l'alfabeto greco comune più antico, quale ci è conservato nelle iscrizioni arcaiche di Melo, di Tera e di Creta, le quali non conoscono altre lettere che le seguenti:
Se i Greci avevano avuto larga comodità di scelta fra le sovrabbondanti sibilanti fenicie, non trovavano invece nel nuovo alfabeto sufficienti segni per rappresentare i loro suoni aspiranti. La dentale enfatica ṭeth, superflua per i Greci, fu da essi adoperata per esprimere la dentale aspirata ϑ, ma essi da principio la scrissero e in un gruppo occidentale (Grecia centrale meno l'Attica, Eubea, Tessaglia, Peloponneso, Sicilia, Italia), mentre l'Attica fece parte da sé. Gli alfabeti del gruppo orientale usarono: &mis4;J = &mis???;&mis1;V (chei), &mis1;U = &mis???;&mis1;R (psei); gli alfabeti del gruppo occidentale, invece, adottarono il segno &mis4;J per esprimere il gruppo ks (xei), per il quale i Greci orientali usavano la fenicia samek, mentre con &mis1;U rappresentarono il gruppo kh, rinunziando a un nuovo segno con valore di ps. L'Attica stette (insieme con le Cicladi ionie) col gruppo orientale per l'uso di &mis1;C e &mis4;J, ma seguitò a rappresentare con &mis4;J&mis1;R e &mis1;C&mis1;R i suoni ks e ps. Tale differenziazione nell'uso dei nuovi segni viene spiegata in vario modo, ritenendosi dai più che l'uso di essi nel gruppo orientale sia più antico e che i Greci dell'altro gruppo, ricevendoli dai primi, li abbiano adottati erroneamente. I tre nuovi segni furono collocati alla fine della serie alfabetica, dopo la ypsilon, e cominciano a comparire, fin dal sec. VII, nelle iscrizioni del mondo greco, all'infuori che in quella di Tera, Melo e Creta, che non li adottarono prima del sec. V. Tale differenziazione fra i varî gruppi di alfabeti doveva essersi già compiuta quando, verso la meta del sec. VIII, cominciò a disegnarsi la corrente migratoria verso il Mediterraneo occidentale; perché tutte le colonie ivi fondate conservarono i diversi alfabeti delle città greche d'origine.
Un po' più tardi, sempre però nel corso del sec. VII, gli Ioni d'Asia e dell'Egeo introdussero un'altra modificazione nel loro alfabeto. Poiché nel loro dialetto era ormai scomparsa l'aspirazione iniziale (spirito aspro), così anche il segno &mis1;V era divenuto superfluo: si adoperò allora questo segno per rappresentare la e lunga (η); e, quasi contemporaneamente, dal segno &mis1;o si formò, per semplice differenziazione, quello di &mis1;T, per rappresentare il suono della o lunga (ω): esso fu collocato alla fine della serie alfabetica. Frattanto anche digamma e koppa venivano meno nell'uso e nella scrittura.
Nei secoli dal VII al V la forma delle lettere subì, nei numerosi alfabeti locali, molteplici modificazioni, avvicinandosi però, in genere, sempre più alla forma comune epigrafica in uso negli ultimi secoli dell'èra volgare e rimasta di poi quasi immutata. In progresso di tempo tutti gli alfabeti locali, così dell'uno come dell'altro gruppo, come anche quelli di Tera, Creta e Melo, furono sostituiti dall'alfabeto ionico: questa sostituzione era dovunque avvenuta alla metà del sec. IV. Particolarmente importante è la evoluzione compiuta dall'alfabeto attico, che le numerosissime iscrizioni hanno permesso di studiare meglio di tutte le altre: il primo stadio di essa a noi noto è quello offertoci da un'iscrizione vascolare (Corp. inscr. Att., IV, 492 a) le cui lettere si distinguono appena da quelle fenicie; l'accoglimento ufficiale dell'alfabeto ionico in Atene - già molto usato, del resto, dai privati - fu decretato nell'anno 404-3 (arconte Euclide).
La serie alfabetica ionica, divenuta, dal sec. IV in poi, comune a titto il mondo greco, fu la seguente:
L'alfabeto greco venne fatto proprio dai popoli costieri dell'Asia minore con alcune modificazioni rese necessarie dalla struttura fonetica delle loro lingue. Da esso derivano inoltre, o ne hanno subìto l'influenza, l'alfabeto slavo, l'armeno, il georgiano, il gotico e il runico (v. slavi, lingua; armenia, lingua; georgia, lingua; goti, lingua; rune).
Bibl.: J. Franz, Elementa epigraphices Graecae, Berlino 1840; Fr. Lenormant, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiq. grecq. et rom., I, Parigi 1875, pagine 188-218; A. Kirchhoff, Studien zur Geschichte des griech. Alphabets, 4ª edizione, Gütenloh 1887; S. Reinach, Traité d'épigraphie grecque, Parigi 1885; Szanto, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl., I, 1894, col. 1612 segg.; W. Larfeld, Griechische Epigraphik, 3ª ed., Monaco 1914 (Müller, Handb. der klass. Altertumswiss., I, 5); Taylor, The history of the Alphabet, 2ª ed., 1899; J. Beloch, Griechische Geschichte, 2ª ed., I, i, p. 224 segg.; B. L. Ullman, The origin and development of the alphabet, in Amer. Journal of Archaeology, s. 2ª, XXXI (1927), p. 311 segg. Istruttivo anche l'articolo Schrift, nel Reallexikon der Vorgeschichte, in cui la parte greca è del Hiller von Gärtringen.
Alfabeti italici.
Gli alfabeti che, a cominciare dal sec. VII a. C., furono adoperati dalle popolazioni abitanti la penisola italica (ad esclusione dei Greci Italioti) derivano tutti, come quello greco, dall'alfabeto fenicio: non però direttamente, bensì attraverso gli alfabeti greci, perché essi possiedono ed usano anche le quattro lettere aggiunte dai Greci all'alfabeto fenicio; e cioè: υ ξ ϕ χ. Si può ricordare, a questo proposito, la leggenda, riferita da Tacito (Annali, XI, 14), del corinzio Demarato che avrebbe introdotto l'alfabeto greco in Etruria.
Si possono classificare undici alfabeti distinti, ma non sostanzialmente diversi, usati dalle popolazioni dell'Italia antica.
1) L'alfabeto dei Veneti. Usato in tutto il territorio a nordest di Vicenza, Este e Padova fin nella Carinzia e nella Stiria; Este ne ha dato i monumenti più numerosi e notevoli. La scrittura è retrograda o bustrofedica. Il suono di f è dato da ???S-78??? ???, come nelle più antiche epigrafi etrusche o latine ; &mis4;J = ϑ si trova soltanto negli alfabeti e sillabarî di Este, ma non in vere e proprie iscrizioni; mancano le medie, mentre vi sono le aspirate; compaiono le consonanti doppie, non soltanto fra vocali ma anche dinnanzi ad altre consonanti; spesso le lettere sono precedute e seguite da punti, dei quali è incerto il significato, dovendosi però escludere ch'essi servano ad indicare la divisione delle sillabe.
2) Il cosiddetto alfabeto sabehico, i cui scarsi monumenti vennero alla luce nella regione delle Marche meridionali e del versante adriatico dell'Abruzzo. La scrittura è bustrofedica; mancano le aspirate, e comparisce invece un nuovo segno di vocale: &mis4;L = ê. È usata, benché non regolarmente, la collocazione di un punto al di sotto delle singole lettere; non si ha esempio di scrittura delle consonanti doppie.
3) Il cosiddetto alfabeto di Sondrio, rappresentato da pochissime epigrafi, rinvenute fra Tresivio (Sondrio) e Rotzo (altipiano di Asiago); la scrittura è retrograda, le medie sono rappresentate.
4) Il cosiddetto alfabeto di Bolzano, designato anche come etrusco settentrionale: esso è infatti affine all'alfabeto etrusco propriamente detto, e le epigrafi ad esso pertinenti rivelano un'accentuata fisionomia etrusca; se ne sono rinvenute in buon numero nelle valli alpine, e si possono distinguere in due gruppi: l'orientale che abbraccia la regione a nord di Verona sino a Matrai, sopra Innsbruck; l'occidentale, che comprende il territorio di Lugano e la Lombardia occidentale. Le iscrizioni dei due gruppi rivelano, nell'alfabeto, differenze insignificanti; le orientali sono ordinariamente retrograde, le occidentali sono ora retrograde ora bustrofediche; lettere caratteristiche sono &mis4;J = t, &mis1;U =χ; mancano le medie in ambedue i gruppi; in più, all'alfabeto occidentale mancano i segni di z, h, ϑ, ϕ, χ, a quello orientale i segni di z, h, ϑ; le consonanti doppie non sono segnate. I due alfabeti, di Bolzano e di Lugano, si rivelano discendenti da un prototipo etrusco, che generalmente si ritiene essere l'alfabeto etrusco della Toscana del sec. VI, ma che, secondo altri (Pareti), sarebbe piuttosto un alfabeto arcaico, anteriore alla conquista etrusca della valle Padana nel sec. VI.
5) L'alfabeto etrusco propriamente detto. È quello usato nell'Etruria propria, non solo, ma anche in tutte le regioni della penisola alle quali si allargò il dominio etrusco, nella grande fioritura del sec. VII e del VI. Lo ritroviamo perciò in tutte le iscrizioni dell'Etruria, rinvenute in maggior copia nei territorî di Chiusi e di Tarquinia; ma poi anche nell'Umbria (Todi), nella Campania - la quale, oltre le brevi iscrizioni su vasi fittili di Nola e di Capua, ci diede la famosa epigrafe di Capua (la più lunga delle iscrizioni lapidarie etrusche a noi note) - nel territorio di Felsina (Bologna) e di Marzabotto, in quel di Pesaro, nel Piacentino (si ricordi il fegato bronzeo iscritto), e, ancora più a ovest, nella regione di Saluzzo (iscrizione di Busca): un complesso di circa 9000 iscrizioni, delle quali però appena una decina di notevole lunghezza. Per la conoscenza dell'alfabeto etrusco arcaico sono della massima importanza i tre alfabeti di Marsiliana d'Albegna, di Veio (Formello) e di Caere (fig. 7): il primo graffito in senso retrogrado su una tavoletta eburnea da scrivere (conservata nel R. Museo archeol. di Firenze); gli altri due incisi su vasi d'impasto nero (conservati a Roma, rispettivamente nel Museo di Villa Giulia e nel Museo etrusco-gregoriano): tutti e tre gli alfabeti risultano del sec. VII, quello della Marsiliana però rivelandosi più antico degli altri due, che si palesano evidenti derivazioni dal primo, con poche varianti di carattere locale. L'alfabeto etrusco arcaico consta di 26 lettere e cioè delle 22 fenicie e delle 4 aggiunte dai Greci, ma non fu usato tale e quale dagli Etruschi, come apparisce dal materiale epigrafico giunto fino a noi: la necessità di armonizzare la scrittura con la fonetica etrusca condusse, in progresso di tempo, a varie soppressioni e modificazioni. Nelle epigrafi posteriori alla riforma ortografica, compiuta, a quel che pare, all'inizio del sec. V, notiamo la mancanza della vocale o e delle medie b, g, d, oltre che del "samek" , di &mis???; e di &mis1;U; è aggiunto invece il segno &mis4;M per f. L'alfabeto è quindi ridotto a venti lettere, e cioè: le vocali a, i, e, u, ; le consonanti c, ch, h, t, th, s, z, p, ph, f, v, l, r, m, n:
La direzione della scrittura è ordinariamente retrograda; indizî di età arcaica sono: la scrittura bustrofedica o serpentiforme, la mancanza di distacco fra le parole e la interpunzione con tre o anche con quattro punti. Nelle iscrizioni più recenti si nota l'influsso del latino sulla forma delle lettere.
6) L'alfabeto campano-etrusco. Ce ne rimangono due esemplari su due tazze di Nola; un terzo esemplare, comprendente però le lettere soltanto fino alla n, ci è conservato su una brocca pure nolana. Parecchie iscrizioni sono scritte con questo alfabeto, che non presenta differenze sostanziali da quello etrusco comune. Alcune lettere (a, m, n, p, s) si avvicinano per la forma a quelle corrispondenti dell'alfabeto osco; manca il segno di q; per f è usato il segno &mis4;K &mis???;, invece di quello &mis4;M, comunemente adottato dalle epigrafi etrusche seriori.
7) L'alfabeto umbro. Rappresentato principalmente dalle ben note tavole di Gubbio (Tabulae Eugubinae), oltre che da altri minori monumenti epigrafici. Delle aspirate usa soltanto la &mis???;, delle medie solo la &mis4;S; il suono f è rappresentato, come nell'etrusco, da &mis4;M; possiede due segni nuovi: &mis???;, per una peculiare modificazione del suono d (resa in latino, nella trascrizione delle tavole eugubine, con rs); ⅾ, per indicare un suono sibilante risultante da k seguita da i ed e. In complesso l'alfabeto umbro consta di 21 lettere; non usa le consonanti doppie; la scrittura è, come nell'etrusco, regolarmente retrograda.
8) L'alfabeto osco, che conosciamo principalmente dalla iscrizione votiva di Agnone, da una convenzione sacra fra Nola ed Abella e da altre epigrafi minori. Notevole il segno &mis4;N per d, venuto in uso (derivando da &mis???;) quando ormai il segno &mis4;O si adoperava per r; vi si ritrova, come nell'etrusco e nell'umbro, il segno &mis4;M. L'alfabeto osco comprende, come l'umbro, 21 lettere; ma, a differenza di quello, fa largo uso delle consonanti doppie. La scrittura è retrograda.
9) L'alfabeto latino. L'uso della scrittura presso i Latini ci è testimoniato per il sec. VII a. C.; ma il monumento più antico che conserviamo è quello comparso sotto il cosiddetto lapis niger del Foro: un'iscrizione bustrofedica contenente probabilmente un regolamento religioso del sec. VI o del V. I documenti epigrafici latini seguitano tuttavia ad essere molto rari per il sec. V e il IV, e si fanno più numerosi e importanti soltanto dalla metà del sec. III in poi. Da questi possiamo rilevare l'alfabeto arcaico latino, il quale consta di 21 lettere:
Verso la metà del sec. I furono introdotte le due nuove lettere &mis4;Y e &mis4;Z, necessarie per la trascrizione delle parole greche: il nuovo alfabeto, di 23 lettere, rimase invariato per tutto il periodo imperiale, salvo le modificazioni nel disegno delle lettere, quali risultano dall'annessa tavola. Devesi anche ricordare che l'imperatore Claudio introdusse nell'alfabeto latino tre nuovi segni, i quali del resto non si trovano usati se non nelle epigrafi del suo tempo; essi sono: &mis???;, o digamma inversum, per esprimere la V consonante; &mis???; o antisigma, per esprimere il suono ps; ⊢, semi-aspirata, destinata a rappresentare il suono intermedio fra V e I (come in optumus e in lubido). Parallelamente alla scrittura epigrafica monumentale, i Latini usarono largamente una forma di scrittura più popolare, che possiamo chiamare corsiva, e che ci è anch'essa largamente testimoniata da monumenti dell'epoca imperiale: numerosissime e ben note sono le iscrizioni corsive di Pompei. La scrittura corsiva latina deriva direttamente dall'alfabeto arcaico repubblicano, e non tiene conto, perciò, degli abbellimenti introdotti, nel disegmo delle lettere, fin dagl'inizî dell'impero: essa non presenta che le lievissime modificazioni apportate dalla necessità di rendere più spedito e più facile il tracciato dei segni (fig. 8).
10) L'alfabeto falisco, rappresentato da alcune iscrizioni rinvenute nel Lazio settentrionale: una varietà, appena distinta, di esso, si può riconoscere nell'alfabeto capenate-falisco, quale ci è mostrato dalle leggende di alcuni piccoli vasi provenienti da Capena. Il vero alfabeto falisco consta di 20 lettere: mancano la b e la y, e manca anche la G latina; invece, per influsso latino, la v sostituita da V. Peculiare dell'alfabeto falisco è il segno &mis4;T = f; si notino ancora &mis4;N =a, &mis4;N = r, ???S-75??? o &mis4;U = z, &mis4;J o &mis4;V = t. Le consonanti doppie non sono scritte: la scrittura è retrograda.
11) L'alfabeto messapico. Si conoscono finora circa due centinaia di iscrizioni messapiche; le più antiche delle quali sono scritte in un peculiare alfabeto pre-euclideo. Di un alfabeto messapico, rinvenuto probabilmente presso Vasto, possediamo una copia poco diligente di Luigi Cepolla: in esso alcuni (Pauli e Mommsen) avrebbero riconosciuto il vero e proprio alfabeto messapico, altri (Kirchhoff) soltanto il "modello tarentino" dell'alfabeto messapico. L'alfabeto messapico possiede la Ä; la u è sostituita dalla o; H è = h; le consonanti doppie sono di solito scritte. Nelle epigrafi più tarde si diffonde l'uso della scrittura greca comune; parecchie lettere assumono anche forma latina.
La derivazione dell'alfabeto etrusco e degli alfabeti italici ad esso più affini (cioè di quelli elencati sotto i numeri 4, 5, 6, 7, 8) dall'alfabeto delle colonie calcidesi della Campania era già stata riconosciuta e dimostrata dal Kirchhoff, e fu dipoi generalmente ammessa; fu di recente riconfermata dal Minto nei riguardi dell'alfabeto della Marsiliana d'Albegna. A questa teoria sono state mosse obiezioni dal Grenier, il quale ha sostenuto che l'alfabeto etrusco della Marsiliana si rivela indipendente da quello di Cuma, soprattutto per l'uso delle lettere fenicie samek e ṣade , mancanti nelle epigrafi cumane; e che pertanto esso riproduce l'alfabeto greco in uno stadio molto antico, anteriore alla separazione tra alfabeti greci orientali e occidentali e alla colonizzazione greca in occidente. Le conclusioni del Grenier sono state recentemente combattute dal Pareti, specie con l'argomento che negli alfabeti-modello compariscono ordinariamente lettere che poi non risultano praticamente usate nelle iscrizioni: fatto che si verifica per gli alfabeti etruschi arcaici e che poteva egualmente verificarsi per gli alfabeti calcidesi dagli Etruschi presi a modello.
Dagli alfabeti di questo gruppo si distinguono quelli latino e falisco (numeri 9 e 10), in quanto essi rappresentano il suono di f con &mis???; anziché con &mis4;M; onde il Kirchhoff aveva supposto ch'essi fossero derivati dal calcidese in un tempo, o almeno in una corrente diversa dagli alfabeti precedenti. In realtà, così i più antichi monumenti epigrafici etruschi come quelli latini (e presumibilmente anche quelli falisci) rappresentano egualmente con &mis4;X &mis???; la labiospirante dentale; in seguito l'etrusco e gli alfabeti degli Umbri e degli Oschi (evidentemente derivati da quello etrusco in un tempo in cui esso possedeva ancora le medie) ridussero il gruppo &mis4;X &mis???; a &mis4;X, tosto modificato in &mis4;M, mentre i Latini e i Falisci preferirono, per la rappresentazione del suono f, il secondo segno del gruppo.
Quanto alla direzione della scrittura, Etruschi, Umbri, Oschi e Falisci si attennero a quella appresa dai Calcidesi (da destra a sinistra); invece i Latini adottarono più tardi - forse dopo la metà del sec. IV e certamente in seguito ai contatti sempre più frequenti con la cultura greca - la direzione da sinistra a destra.
Meno sicura è la derivazione dell'alfabeto sabellico: il Pauli sostenne dapprima (nel primo volume della sua opera Altitalische Forschungen) l'affinità di esso con quelli di Este e di Sondrio, formando un gruppo di alfabeti ch'egli chiamò "adriatici" e che ritenne discendere non dal calcidese, bensì da un alfabeto greco affine a quelli dei Locresi Ozolî, dei Laconi, degli Arcadi, degli Elei; più tardi (nel vol. III della stessa opera) il Pauli avanzò la ipotesi che i tre alfabeti fossero distinti fra loro anche nell'origine, e distinti del pari dagli altri alfabeti italici. Altri ritiene invece (Deecke) che l'alfabeto calcidese debba riguardarsi come capostipite anche di questi tre alfabeti.
L'alfabeto messapico, infine, fu spiegato dal Kirchhoff come derivazione del tarentino; il Deecke invece preferì ricondurlo a un alfabeto del primo gruppo del Kirchhoff, e il Pauli a un alfabeto del secondo gruppo della classificazione stessa, probabilmente a quello dei Locresi Ozoli o degli Epizefirî.
Bibl.: Per lo studio delle origini e dei rapporti reciproci degli alfabeti italici, sono di capitale importanza le seguenti opere: Mommsen, Die unteritalischen Dialekte, Lipsia 1850; Kirchhoff, Studien zur Geschichte des griech. Alphabets, 4ª ed., Gütersloh 1887; Pauli, Altitalische Forschungen, I-II, Lipsia 1885-94; III, Lipsia 1891. Ottimi riassunti delle varie questioni si possono vedere negli articoli Alphabetum di Fr. Lenormant, in Daremberg e Saglio, Dictionnaire des antiquités grecques et romaines, I; e Ital. Alphab. di Joh. Schmidt, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., I, 1894, coll. 1616-29.
Per le varie questioni concernenti l'alfabeto etrusco, si vedano le seguenti opere recenti: A. Minto, Marsiliana d'Albegna, Firenze 1921, p. 236 segg.; A. Grenier, L'alphabet de Marsiliana et les origines de l'écriture à Rome, in Mélanges d'archéologie et d'histoire, 1924, p. 3 segg.; P. Ducati, Etruria antica, 1925, I, p. 62 segg.; L. Pareti, Le origini etrusche, Firenze 1926, p. 168 segg.; A. Neppi Modona, in Rend. dei Lincei, cl. di scienze morali, s. 6ª, II (1926), pagina 492 segg.
Per la storia dell'alfabeto latino e per la bibliografia relativa, vedi R. Cagnat, Cours d'épigraphie latine, 4ª ed., Parigi 1914.
II. L'Alfabeto nell'insegnamento.
Intorno al libro, che fissa e trasmette nozioni e tradizioni, si organizzava la scuola nel mondo antico e nel Medioevo. E sviluppatasi, attraverso la Rinascita e con l'Illuminismo, la fede nell'azione liberatrice del sapere mediante la moltiplicazione dei libri, la questione d'una educazione di tutto il popolo s'impose soprattutto, nella sua elementarità, come questione dell'alfabeto. E si continua anche oggi la lotta contro l'analfabetismo.
Ma il fanciullo iniziato alla scrittura, da un lato è messo sulla via d'una possibile vita piena del linguaggio (e dell'intelligenza); dall'altro è esposto all'invadenza del morto passato, o ad un sempre più tirannico sostituirsi ai suoi proprî degli sforzi personali altrui di esperienza e di pensiero.
E il pericolo che la lettura favorisse sin dal suo inizio pigri e sterili verbalismi era segnalato, al sorgere della riflessione didattica moderna (ad es. dal Comenius), quando appunto la stampa veniva a diffondere sempre più i libri.
Di qui il rinnovarsi dei tentativi per una didattica scolastica fondata - contro la verbale libresca - nell'intuizione, nell'azione, nel lavoro, nella poesia dei fanciulli.
E di qui anche tutti i moderni problemi didattici circa l'alfabeto. E cioè:
a) Quanto al posto da farsi all'iniziazione all'alfabeto nell'ordine delle discipline educative elementari: sicché s'è potuta ripresentare non solo in Rousseau e in Fichte, ma in parecchi psicologi e didatti odierni (dal Dewey allo Scherer e al Ferretti) la preoccupazione, che Platone già esprimeva, rispetto all'alfabeto come possibile causa di degenerazione culturale. E sicché, se già da spiriti tradizionalisti e restauratori si era giunti alla esaltazione del senno dell'ignorante e dell'analfabeta contro il superficiale illuminismo letterario del popolo, ora anche ai fini d'una reale educazione all'autonomia s'è potuto chiedere che si ritardi al possibile, che non si cominci prima dei sette anni, l'avviamento all'alfabeto.
b) Quanto al metodo dell'iniziazione alfabetica: per la quale si è ricercata una via sempre più schiettamente psicologica, atta a favorire l'esplicazione inventiva del fanciullo, di contro ai vecchi metodi schiavi di astratte presunzioni logiche.
Infatti nel primo sviluppo storico dei metodi per insegnare l'alfabeto prevalse l'esigenza di far passare dal logicamente più semplice o elementare al più complesso. E così prima si fecero imparare ordinatamente i nomi tradizionali delle lettere, e li si fece connettere con le lettere e coi loro suoni nella lettura, e quindi nella scrittura, ricorrendosi per tutto ciò talvolta anche ad associazioni giocose ma estrinseche (metodo alfabetico); poi (tra il '500 e il '600) si cercò di far corrispondere a singoli suoni singole lettere (metodo fonico) o si partì (specie sulla fine del '700) da vocali e da consonanti ad esse unite (metodo sillabico). E si cercò, via via, di rendere simultanee, per ogni lettera, la lettura e la scrittura, pur sempre passandosi da una lettura e scrittura meccanica, fatta di pazienti e imposti allenamenti o abituazioni, ad una lettura e scrittura sensata o espressiva. Così si costituivano e perfezionavano quelli che furono detti "metodi sintetici", o di aggiunzione successiva, di aggregazione combinatoria degli elementi della parola scritta.
Ma, facendosi sempre più prevalente e critica l'esigenza di un ordine psicologico - di fondarsi cioé sull'interesse, l'intelligenza, l'inventività del fanciullo - si pervenne (tra la fine del 1700 e la prima metà del 1800, con Gedike, Jacotot, Lambruschini, Vogel) al metodo consistente nel partire da parole intere fornite di senso e fonicamente tipiche, ed anche da proposizioni fatte leggere intere, e poi fatte scomporre ai fanciulli nelle loro lettere ricorrenti. Così si costituirono il metodo delle parole normali e il proposizionale come cosiddetti "metodi analitici".
Sulla fine del '800 e sul principio del '900 la psicologia pedagogica sperimentale s'impadronì alla sua volta del problema (dal Lattel ad Erdmann e Dodge, al Neumann), e confermò il fatto che nel leggere gli adulti decifrano le singole lettere in base alla forma totale e caratteristica delle parole e di complessi di parole. E trovò una tale tendenza operosa anche nei fanciulli analfabeti, che, p. es., copiano con relativa facilità quelle parole intere di cui sono inabili a ritrarre le singole lettere, e che sono attratti, nel disegnare in genere, dal rendere insiemi caratteristici, e non dal copiare fedelmente singole parti. Così il metodo analitico veniva esaltato sul sintetico, mentre si tendeva a togliere ogni valore di processi e di gradi distinti ai varî aspetti - meccanico, intelligente, espressivo - dell'avviamento al leggere e scrivere. E si insisté nel far precedere l'iniziazione alfabetica da esercizî di disegno (ad es. con la Montessori).
Ma si rimaneva così, pur sempre, nei limiti e tra le suggestioni d'un'astratta psicologia individuale, anche mentre veniva riattuando nuovi sviluppi positivi la psicologia delle menti associate.
Intanto il problema era stato posto con riferimento vichiano alla psicologia dei popoli e alla storia della cultura, già sulla fine del '700, dal Hulamann, che si chiedeva se non fosse il caso di far accedere il fanciullo all'alfabeto per la via per cui vi giunse l'umanità. Ed oggi, mentre può risultare evidente che, all'ingrosso, dall'antichità classica in giù, i metodi di lettura e scrittura si sono sviluppati in ordine inverso a quello della scoperta umana della scrittura, il progresso dei metodi da sintetici ad analitici e le ultime ricerche psicologiche han manifestato un involontario e sempre più efficace ritorno dal metodo dell'insegnamento al metodo della scoperta. Un passo risoluto in questo senso è stato compiuto da Gino Ferretti, il quale (1910-1919) non si limitava a far precedere, con i pedagogisti più avanzati, il disegno alla scrittura, e poi ad associare, in base a parole normali, lettura e scrittura, ma conduceva i fanciulli, costituiti nella scuola in società, a rivivere l'esigenza d'una scrittura (ideografica e poi fonografica) come sviluppo del disegno (della pittografia), e infine a riscoprire attivamente da sé i valori fonici della scrittura vigente nella loro società e nel loro tempo.
Bibl.: C. Hey, Methoden der Schreibunterricht in ihrer gesch. Entwicklung, in Kehr, Gesch. d. Methodik, ecc., Gotha 1889; Platone, Fedro, verso la fine; J. G. Hamann (anche nella trad. di Scritti e frammenti dell'Assagioli, Napoli 1908, pp. 137 e 16-17); Fichte, Reden an die deutsche Nation, cap. IX; Hegel, Encycl., § 459; H. Gutzmann, Prakt. Anwendungen d. Sprachphysiol., Lipsia 1897; L. F. Goebelbecker, Unterrichspraxis, Wiesbaden 1904, I, pp. 143-291; E. Neumann, Exp. Paed., Lipsia 1907, II, 14; M. Montessori, Met. della pedagogia scientif., Città di Castello 1909; Lombardo-Radice, Didattica, Palermo 1913; Catalano, in Riv. pedag. del 1924; G. Ferretti, L'alfabeto e i fanciulli, Firenze 1919, e Scienza come poesia, Roma 1928, cc. 9, 14, 16, 17, 27.
III. Alfabeto musicale.
Nelle epoche antiche i suoni musicali vennero, quasi certamente, rappresentati graficamente soltanto con le lettere dell'alfabeto. Nel sistema ellenico, infatti, fiorito prima dell'èra cristiana, le due notazioni musicali usate, la strumentale e la vocale, furono alfabetiche; e quando, durante l'epoca imperiale romana e nei secoli successivi, perdurò l'influenza della musica greca, nonostante il fiorire delle tendenze nuove e il sorgere di nuove notazioni, non si dimenticò l'uso, o per lo meno la conoscenza, della scrittura musicale letterale. Questa, però, subì modificazioni varie nel corso del primo millennio dell'èra attuale e sino all'epoca guidoniana. Nel sec. X essa era sensibilmente ristretta e comprendeva soltanto le prime sette lettere dell'alfabeto latino; e per quelle lettere prendevano nome e figura le note dell'ottava.
Poiché questa però, seguendo la tradizione greca, s'iniziava, nei tempi antecedenti all'epoca guidoniana (sec. XI), col suono ch'è oggi chiamato la, le lettere dall'A al G corrispondevano ai suoni dal la al sol della prima ottava, mentre, per la ottava successiva, le stesse lettere erano ripetute, ma nella forma minuscola (fu anche tentato, nei secoli del primo Medioevo, di dare ai quindici suoni della scala generale ellenica i nomi delle lettere dall'A al P; e il tentativo fu attribuito a Boezio). Poco prima dei tempi di Guido d'Arezzo fu aggiunta al grave la nota sol, cui venne dato il nome della lettera greca Gamma, mentre altri quattro suoni erano aggiunti all'acuto della scala; ed allora questa (che può esser detta la scala guidoniana) si presentò nella seguente forma e con questi nomi:
Venuta intanto del tutto in uso, per la musica vocale, la scrittura neumatica, l'alfabetica cadde in abbandono. Essa servì, allora, per l'insegnamento nelle scuole e per la registrazione del monocordo, finché non venne adottata per la musica strumentale. Nell'uso di questa rimase poi per alcuni secoli, finché la crescente tecnica strumentale non obbligò i compositori e gli strumentisti ad uniformarsi al genere di scrittura usata per le voci. È da aggiungere che, molto tempo dopo Guido d'Arezzo, per effetto della istituzione del sistema esacordale e dell'invenzione dei nomi dei suoni dell'esacordo (ut, re, mi, fa, sol, la), ai nomi delle sette lettere latine e del gamma furono aggiunte le sillabe guidoniane nell'ordine segnato dalla disposizione dei suoni nell'esacordo. Si ebbero allora le denominazioni: Alamiré, Bfa, Bmi, Cisolfaut, Dlasolre, ecc., le quali rimasero nell'uso sin quasi ai tempi attuali. È da aggiungere, in fine, che tracce dell'antica scrittura alfabetica sussistono ancora nella scrittura attuale; esse si trovano, in specie, nei segni delle chiavi e in quelli degli accidenti.