alfabeto
L’alfabeto italiano è l’insieme dei segni grafici o ➔ grafemi (o in termini usuali, lettere) che servono a trascrivere la lingua italiana. L’alfabeto italiano prosegue l’alfabeto della lingua latina, che era composto di 23 grafemi, comprendendo in più k, x e y e mancando del segno u; la v rappresentava, infatti, anche la semiconsonante e la vocale u (vinum, ivstitia, avxilium, vxor). Nell’alfabeto italiano, la distinzione tra u e v si impone soltanto tra Seicento e Settecento, benché già nel Cinquecento Gian Giorgio Trissino ne avesse sostenuto l’uso (ancora oggi restano fossili della mancata distinzione: si pensi alla grafia Istitvto della Enciclopedia Italiana).
Come l’italiano, sono trascritte in alfabeto latino le altre lingue neolatine (francese, provenzale, spagnolo, catalano, portoghese e rumeno, per il quale l’alfabeto latino è adottato dal tardo XVIII secolo in luogo del cirillico) e anche lingue europee di ceppo germanico come il tedesco e l’inglese. L’alfabeto latino è, inoltre, stato adottato in Turchia dal 1928, in seguito alle riforme di Kemal Atatürk. Oggi è l’alfabeto più utilizzato, a conferma della sua efficienza e della sua diffusione su larga scala, dovuta anche a ragioni di politica e di prestigio (si pensi, nell’antichità, all’espansione dell’Impero Romano, più recentemente al colonialismo e, da ultimo, alla globalizzazione).
Oltre a quello latino esistono anche altri alfabeti: ad es., l’alfabeto cirillico, usato per la trascrizione di molte lingue slave come il russo, il bulgaro e il serbo; l’alfabeto greco, molto simile a quello del greco antico; l’alfabeto arabo, il più usato dopo quello latino, diffuso in molti paesi di lingua araba dell’Asia e dell’Africa e, in Europa, a Malta; l’alfabeto ebraico, rinato, con la lingua ebraica moderna, tra fine XIX e inizio XX secolo.
Molte lingue scritte in alfabeto non latino hanno anche un sistema di traslitterazione in caratteri latini, mediante cui ogni simbolo dell’alfabeto originale viene ricondotto al suo più vicino equivalente nell’altro sistema: dal XIX secolo, ad es., l’alfabeto cirillico è traslitterato secondo le norme dell’International Scholarly System. In numerosi paesi (per es., in Serbia) è poi in uso la doppia trascrizione, nell’alfabeto locale e in quello latino. Per le lingue scritte in grafia non alfabetica, come il giapponese o il cinese, la traslitterazione è invece impossibile e le parole sono trascritte secondo la pronuncia.
Le lettere dell’alfabeto italiano sono in tutto 21: 16 per i suoni consonantici (b, c, d, f, g, h, l, m, n, p, q, r, s, t, v, z) e 5 (a, e, i, o, u) per i suoni vocalici. La lettera h, in realtà, non rappresenta mai un suono (a parte la realizzazione facoltativa dell’aspirazione in interiezioni come ah, eh, ehm, oh) ed è il segno diacritico per eccellenza; la lettera i, invece, rappresenta in alcuni casi la vocale, ma può avere semplice funzione diacritica in digrammi (➔ digramma) e trigrammi e rappresentare la semivocale nei dittonghi (➔ dittongo). Altri 5 segni (j, k, w, x, y), alcuni dei quali non autoctoni, sono utilizzati per le parole di origine straniera o con funzione espressiva per conferire una patina ‘esotica’ ai termini.
Come in tutti gli alfabeti formatisi per accumulo di convenzioni, anche nell’alfabeto italiano si nota la mancanza di completa corrispondenza tra suoni e simboli. La pronuncia, infatti, si è evoluta più velocemente della grafia, che riflette spesso uno stadio anteriore di lingua. Proprio il mancato sincronismo nell’evoluzione spiega la non-biunivocità tra segni e suoni che si registra nell’alfabeto italiano (basti dire che in esso solo undici grafemi identificano univocamente un solo suono) e negli alfabeti di lingue come il francese o l’inglese, dotate di un’➔ortografia ben meno trasparente di quella italiana.
Il quadro seguente (da Maraschio 1994: 140) presenta, accanto ai grafemi dell’alfabeto italiano, i referenti fonologici:
a /a/
b /b/
c /ʧ/ /k/
d /d/
e /e/ /ε/
f /f/
g /ʤ/ /g/
h resto etimologico (in ho) o segno diacritico (in chiave)
i /i/ /j/ (semivocale nei dittonghi) e segno diacritico (in ciambella, giallo)
l /l/
m /m/
n /n/
o /o/ /ɔ/
p /p/
q /k/ (sempre seguito da u eufonica; raddoppiato solo in soqquadro; altrove, raddoppiato con c: acqua)
r /r/
s /s/ (sorda: silenzio), /z/ (sonora: risata)
t /t/
u /u/ /w/ (semivocale nei dittonghi, vocale eufonica dopo q)
v /v/
z /ʦ/ (sorda: condizione) /ʣ/ (sonora: zio)
Si noti che ad alcune lettere corrisponde più d’un suono: sono i «grafemi polivalenti» (come li chiama Serianni 1997: 27). Per es., c o g possono indicare un diverso suono a seconda del contesto: /k/ in cane, ma /ʧ/ in cesta, /g/ in gusto, ma /ʤ/ in angelo. Per rappresentare certi suoni, invece, non esiste un’unica lettera ed è necessario ricorrere a combinazioni di due o tre segni, i digrammi e i trigrammi. Per es., la nasale palatale /ɲ/ viene trascritta col digramma gn + a, e, i, o, u (come in prugna, mignolo), la laterale palatale /ʎ/ con il nesso gl + i (come in maglie, coniglio), le affricate /ʧ/ e /ʤ/, in certe sequenze, coi digrammi ci + a, o, u e gi + a, o, u (come in ciliegia, pancia).
L’alfabeto italiano continua l’alfabeto latino che deriva, a sua volta, da quello greco, formatosi intorno al 750 a.C. I greci avevano adattato il sistema sillabico fenicio aggiungendo segni per le vocali e svincolando i simboli dagli oggetti del mondo a cui rinviavano, realizzando così, per la prima volta, la corrispondenza un suono-un segno (la A, per es., è quanto resta di un muso di bue rovesciato: cfr. Givón 1989; Gelb 1993: 244). Secondo studiosi come Olson (1994) e Havelock (2005), questo processo di astrazione ha avuto importanti conseguenze cognitive rendendo possibile un nuovo modo di riflettere sul linguaggio e di valutare il proprio pensiero attraverso la scrittura.
Questo sistema scrittorio efficiente ed economico arriva in Italia probabilmente attraverso la colonia di Cuma e ad esso si sono ispirati gli Etruschi per trascrivere la loro lingua (il più antico documento alfabetico della penisola italica è una tavoletta etrusca del VII secolo a.C.). Dall’alfabeto della lingua etrusca si sono sviluppati gli alfabeti osco, umbro e latino, diretto antecedente di quello italiano: i segni dell’alfabeto latino, infatti, saranno usati per scrivere i volgari italiani, con prevedibili lacune nella trascrizione dei suoni nuovi (come le affricate palatali /ʧ/ e /ʤ/).
Il problema dalla resa grafica dei volgari italiani con l’alfabeto latino e le varie soluzioni adottate dagli scriventi aprirono, già a partire dall’Alto medioevo, la strada ai dibattiti sull’alfabeto italiano che accompagneranno la ➔ questione della lingua in Italia fino al XX secolo. Tra l’VIII e il XII secolo, i documenti mostrano come per la trascrizione dei volgari fossero usati grafemi che, in seguito, diventarono via via meno familiari all’alfabeto italiano. A tal proposito va ricordato che fino al Cinquecento non c’erano grammatiche dell’italiano a sanzionare o a autorizzare certi usi scrittori e a sancire l’inclusione o l’esclusione di una data lettera nell’alfabeto. È, ad es., significativo il caso del s egno k, presente anche nella formula del Placito Capuano del 960 (la prima testimonianza scritta in cui il volgare italiano è consapevolmente contrapposto al latino):
Sao ko kelle terre, per kelle fini que ki contene, trenta anni le possette parte sancti Benedicti (cit. in Migliorini 200712: 90).
Migliorini osserva che «dove l’affinità con il vocabolo latino era ancora fortemente sentita era ovvio che si tendesse a rimanere alla grafia latina: il che con il significato di pronome relativo è reso con que» (ivi: 93), mentre negli altri casi si ricorreva alla lettera k, massicciamente impiegata nelle scritture notarili almeno fino al Trecento in luogo della c per rappresentare l’occlusiva velare sorda.
Per tutto il medioevo e oltre, la composizione dell’alfabeto italiano non fu, quindi, affatto stabile, soprattutto per quanto riguarda il suono attribuito alle diverse lettere. In particolare, erano oscillanti i corrispondenti grafici dei suoni assenti nel latino, come le affricate: i suoni /ʦ/ e /ʣ/, che il latino classico indicava con z solo nei grecismi, nelle carte medievali si trovano resi con z, zi, zz, tz, tzi, tztz, cz, coi latini ti e ci e con altre varianti minori, tra le quali, soprattutto nell’Italia centro-settentrionale, il segno ç, oggi scomparso dall’uso italiano; le palatali /ɲ/ (variamente trascritta: come gn, ni, ngn, ecc.), /ʎ/ (gli, gl, lgl, li, lli, ecc.) e /ʃ/ (sc, ss, si, sgi e gi per la sonora in Toscana e persino x nella scripta ligure, come si legge nella Dichiarazione di Paxia, testo in volgare ligure del XII secolo).
Fu solo nel Cinquecento, epoca della primaria codificazione dell’italiano, che si ebbe una pressoché definitiva stabilizzazione dell’alfabeto. Individuato nel fiorentino di Dante, Petrarca e Boccaccio il modello di riferimento, i diversi volgari italiani iniziarono un lento e mai concluso processo di approssimazione alla norma. Più tardi, la riduzione e la diffusione dei caratteri operata dalla stampa e la nascita delle grammatiche giocarono un ruolo decisivo nella fissazione dell’alfabeto italiano. Proprio nell’opera grammaticale di un correttore di testi in tipografia, Lodovico Dolce, autore delle Osservationi nella volgar lingua (1550), l’alfabeto italiano era così descritto, con qualche differenza rispetto a quello attuale:
dirò solo […] la lettera esser la minor parte della parola: la qual lettera (sì come presso ai geometri il punto) in niuna parte si può dividere. come a b c e le altre dall’ALFABETO: che sono ventidue, a b c d e f g h i l m n o p q r s t u x y z (Dolce 2004: 260).
L’inclusione di alcune lettere e il loro impiego rimasero, infatti, oscillanti per secoli. Ad es., sull’uso della lettera j, che già il Dolce escludeva, si sono alternate le abitudini: dopo il fallimento del tentativo cinquecentesco di usarla come semivocale nei dittonghi (pjede), la si trova ancora nella quinta edizione del Vocabolario della Crusca (sospesa, incompleta, nel 1923) come compendio di -i nel plurale dei termini in -io (studio, studj). Luigi Pirandello la usa ancora in parole come guajo, ajuto, sajo, ecc. In varianti come Jugoslavia o Jole, poi, la j è arrivata fino ai giorni nostri.
Le discussioni sull’alfabeto stimolarono anche la nascita di un genere letterario, marginale ma senz’altro curioso: quello dei componimenti dedicati alla difesa o all’accusa di certe lettere. Come si legge in Diringer (1969: XXI), si tratta di un genere presente già nel mondo classico con Luciano di Samosata. Questa ‘satira alfabetica’ compare spesso nella tradizione italiana, soprattutto nell’ambito delle secolari polemiche in versi contro le scelte fiorentiniste dell’Accademia della Crusca; una per tutte la farsa teatrale Il piato dell’H di Pier Jacopo Martello (1723), controversia in cui la h risulta vincitrice e conserva il diritto di stare nell’alfabeto italiano, ma non nella pronuncia italiana (l’attacco era alla ➔ gorgia toscana, per la quale le occlusive tenui intervocaliche spirantizzano, per es. /la éχasa/).
Fino al XIX secolo, il dibattito intorno all’alfabeto italiano rimase vivace. A contrapporsi erano, in primo luogo, gli etimologisti, che propendevano per una grafia aderente all’etimo latino e i fonetisti, che invece proponevano riforme ortofoniche basate sull’aggiunta di segni all’alfabeto italiano per identificare i suoni privi di riferimento univoco nella grafia (cfr. Maraschio 1994: 211). Questi tentativi attraversano tutta la storia della lingua italiana: si pensi che nel Cinquecento Gian Giorgio Trissino propone di indicare con ε la e aperta e con ω dapprima la o aperta poi la o chiusa (ritenendo questa la pronuncia del greco); oppure, nell’Ottocento, Policarpo Petrocchi che suggerisce di indicare con ʃ e con ʒ la s e la z sonore. E le proposte si spinsero fino all’ideazione di alfabeti parzialmente ortofonici, antenati del moderno Alfabeto fonetico internazionale, come quello inventato nel 1584 da Giorgio Bartoli per trasporre i trentacinque suoni del toscano. Tuttavia, l’alfabeto italiano si rivelò sostanzialmente refrattario alle innovazioni: per trascrivere i suoni privi di un grafema di riferimento si ricorrerà sempre a combinazioni di lettere.
Sull’origine dei nomi delle lettere dell’alfabeto italiano non si hanno notizie sicure. È però diffusa l’opinione che, diversamente dai greci, già i latini chiamassero le lettere col loro suono, reso pronunciabile, nel caso delle consonanti, dall’aggiunta di una o più vocali. Lo stesso meccanismo si ha nell’alfabeto italiano, dove le prime lettere sono lette a, bi, ci, di, e, effe, ecc. Quanto al genere dei nomi delle consonanti, l’uso è tuttora incerto tranne che per zeta, femminile per via della desinenza (ma k, ugualmente uscente in -a, continua a oscillare tra il / la kappa); si può dire, quindi, il b e il c, ma anche la b, la c e così via, sottintendendo al maschile «segno» e al femminile «lettera». Quest’annosa oscillazione si riscontra nelle Prose della volgar lingua di Pietro ➔ Bembo (1525) in cui, dalla maggioranza di lettere menzionate al femminile, si differenziano «il B» e «il D».
Lo stesso termine alfabeto (lat. alphabetum) non si affermò subito in italiano. Attestato per la prima volta nel III secolo d.C. in Tertulliano (i greci classici parlavano di grámma, «le lettere»; alfábetos entrò nell’uso più tardi, per influsso del latino), dovette competere col toscano abbiccì, come si evince alla voce alfabeto della prima edizione del Vocabolario della Crusca (1612):
nome del raccolto degli elementi de’ linguaggi, detto così dalle due prime lettere greche α. β. e noi al nostro, più comunemente, dalle tre prime sue lettere gli diciamo a bi ci (Vocabolario, rist. 1974: 37)
Ancora nelle Avventure di Pinocchio di Carlo Collodi (1883) sarà l’Abbecedario scolastico (da abbiccì, con riflesso della pronuncia toscana dei nomi delle lettere be, ce, de, ge, pe, te, ve) a rappresentare l’emblema dei tentativi di scolarizzare il burattino.
La tradizione grammaticografica (➔ storia della linguistica italiana) colloca tradizionalmente la conoscenza dell’alfabeto al primo posto. Già nel I secolo d.C., Quintiliano indicava lo studio delle lettere come preliminare nell’istruzione del bambino, raccomandando esercizi per la memorizzazione: far riconoscere ai bambini le lettere in ordine sparso, dare loro «littererum formas» (Quintiliano 2007: 28), cioè lettere in avorio o in altri materiali con cui potessero imparare giocando, allenarli a tracciare lettere facendoli ricalcare un’incisione. In seguito, le grammatiche confermeranno l’importanza primaria dell’apprendimento dei grafemi: da quando, a partire dal Seicento, la suddivisione della materia nei testi di grammatica iniziò a stabilizzarsi secondo l’ordine grosso modo conservato anche oggi (➔ ortografia; ➔ morfologia; ➔ sintassi), la descrizione dell’alfabeto cominciò a occupare i paragrafi iniziali.
Naturalmente, da un testo all’altro, a seconda dei tempi e degli autori, cambia il modo di proporlo. L’alfabeto può essere presentato come mero elenco di simboli, ma può anche riflettere gli orientamenti culturali del periodo. Pensando alla grammaticografia italiana novecentesca, non è difficile, ad es., individuare nella Grammatica degl’italiani di Ciro Trabalza e Ettore Allodoli (1934) una connotazione fortemente idealista nell’introdurre l’alfabeto italiano:
La parola è riunione o, meglio, sintesi d’idea o suono. Ogni parola è pertanto un piccolo organismo, che possiamo rappresentare graficamente, facendo corrispondere ad ogni o all’unico suono elementare che lo costituisce, un segno, una lettera (Trabalza & Allodoli 1934: 3).
Diversamente, nella Grammatica italiana di Salvatore Battaglia e Vincenzo Pernicone, altro importante testo del XX secolo, ma posteriore di circa vent’anni (1951), è adottato un approccio strettamente linguistico-strutturalista. In essa l’alfabeto italiano è presentato come «la serie sistematica dei segni che traducono i suoni in forma grafica e visiva» (Battaglia & Pernicone 19632: 13).
Quanto sia ritenuta culturalmente prioritaria la conoscenza dell’alfabeto lo testimonia il termine analfabeta, che identifica chi è privo dei minimi livelli di istruzione e, quindi, della competenza linguistica di base. Il termine analfabeta è comunemente usato anche come sinonimo di ignorante in senso lato, con forte sfumatura spregiativa. Per contro, imparare l’a b c di una disciplina, non necessariamente di una lingua, è diventata un’espressione idiomatica efficace a rendere l’idea dell’acquisizione delle conoscenze di base. Secondo i dati di un’indagine (De Mauro 2004), pare che il tasso di analfabetismo in Italia agli inizi del XXI secolo sia del 5% circa, intendendo con analfabeti le persone incapaci di leggere una frase come il gatto miagola. Il 33% è, invece, in condizioni di semianalfabetismo e non va oltre alla lettura di frasi del tipo il gatto miagola perché ha fame.
L’analfabeta, però, è anche trasfigurato in personaggio letterario nella poesia del Novecento. Guido Gozzano, infatti, nella poesia “L’analfabeta”, ispirata all’anziano custode della sua villa, loda, o meglio finge di lodare, «la parola non costretta / di quegli che non sa leggere e scrivere» (Gozzano 2008: 54). L’analfabeta si trasforma, quindi, in figura grandiosa, libera da falsi intellettualismi e portatrice di valori autentici.
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Quintiliano, Marco Fabio (2007), Istituzione oratoria, a cura di S. Beta & E. D’Incerti Amadio, Milano, Mondadori, 2 voll. (1a ed. 1997-1998).
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