PICCOLOMINI, Alfonso II
PICCOLOMINI, Alfonso II. – Nacque con ogni probabilità a Napoli il 10 marzo 1499 da Alfonso I, duca d’Amalfi, e Giovanna d’Aragona.
Era stato suo nonno, Antonio Todeschini Piccolomini, nipote ex sorore di papa Pio II, ad aprire alla famiglia, di origini senesi, la via del noblessement nel Regno di Napoli, grazie al matrimonio con Maria d’Aragona, figlia naturale del re Ferdinando I, che aveva portato in dote il ducato d’Amalfi e le insegne della casa regnante su Napoli. Da allora sia Antonio sia suo figlio Alfonso I Piccolomini d’Aragona furono sempre fedeli alla causa aragonese, sia durante la turbolenta fase di transizione dinastica sia nel corso delle guerre franco-spagnole, ricoprendo entrambi la carica di maestro giustiziere del Regno di Napoli e di generale luogotenente d’arme. Grazie al prestigio e ai meriti acquisiti con gli incarichi politici e sui campi di battaglia essi videro crescere nel breve volgere di qualche decennio il proprio patrimonio in sostanze, titoli e onori, affermandosi come una delle maggiori casate del Regno, titolare di un vasto e compatto Stato feudale esteso tra il Principato Citra (Amalfi, Ravello, Scala, Minori, Maiori, Tramonti, Conca, Furore) e l’Abruzzo Ultra, nelle contee di Celano, Capestrano e Deliceto.
Appena raggiunta la maggiore età, Piccolomini subentrò al padre, morto prima che egli nascesse, nel ducato di Amalfi e nelle altre cariche. Nel 1517 sposò Costanza d’Avalos, figlia di Innico marchese di Pescara e del Vasto e di Laura Sanseverino, dei principi di Bisignano. Nei primi anni la coppia stabilì la propria residenza tra il palazzo dei Piccolomini nella regione di Nido, a Napoli, le proprie corti feudali di Amalfi e Celano e quella di Ischia degli Avalos, rivaleggiando in lusso e raffinato tenore di vita con gli altri potenti lignaggi con loro variamente imparentati. Educata dalla omonima zia tutrice Costanza d’Avalos duchessa di Francavilla, la sposa di Piccolomini fu come lei al centro del vivace cenacolo intellettuale del castello di Ischia, accanto a Vittoria Colonna e a Giulia Gonzaga, con le quali intorno agli anni Trenta del secolo condivise, oltre alla passione per la poesia, anche le tensioni spirituali mistico-ascetiche del circolo spirituale di Juan de Valdés.
Dal matrimonio tra Piccolomini e Costanza d’Avalos, che i cronisti dell’epoca ricordarono soprattutto per le numerose infedeltà di lui, nacquero sette figli, tre femmine e quattro maschi. Tra loro i due primogenti, Costanza e Antonio, morirono entrambi in giovane età. Vittoria sposò nel 1539 Marcantonio Doria del Carretto principe di Melfi. Il secondogenito Innico fu, dopo la morte del fratello e del padre, quarto duca di Amalfi e gran giustiziere del Regno. Pompeo divenne vescovo di Tropea e Giovanni fu barone di Scafati.
Come i suoi avi Piccolomini si distinse per il valore militare e la lealtà politica alla Corona e, impegnato sul fronte delle guerre dell’imperatore Carlo V, lasciò in mano a uno stuolo di luogotenenti e governatori locali il governo dei feudi, causa non ultima di un progressivo indebitamento del patrimonio familiare, che nei decenni successivi avrebbe assunto proporzioni preoccupanti. Nel 1528, quando Napoli fu al centro della guerra che si combatteva tra gli eserciti ispano-imperiale e quello francese per il dominio in Italia, Piccolomini fu tra i membri del Consiglio di guerra del Regno che affiancarono il viceré Filiberto di Chalons principe d’Orange nell’organizzazione della difesa della città. Si occupò personalmente della ristrutturazione delle città a lui infeudate di Amalfi, Ravello e Scala, e del potenziamento dei loro armamenti secondo una logica difensiva di tutta la linea costiera del golfo di Salerno.
Nell’estate del 1529 Piccolomini fu nominato capitano generale delle armi della Repubblica di Siena. L’antica città repubblicana era da diversi decenni dilaniata dalle lotte fazionarie interne e dalle tenaci aspirazioni dei pontefici e delle famiglie cardinalizie a ‘farsi Stato’. Tali turbolenze avevano portato alla destabilizzazione dei suoi antichi ordinamenti comunali e all’affermazione prima della signoria dei Petrucci e ora di un governo oligarchico non scevro da altre microconflittualità intestine. La nomina di Piccolomini, esponente di spicco di un’antica famiglia del patriziato senese e al contempo grande feudatario del Regno di Napoli, e lo stanziamento entro la cerchia delle mura cittadine di una guarnigione spagnola ai suoi ordini a difesa del territorio, ebbero il sostegno dei popolari e del partito filoimperiale rafforzatosi in seno alla Repubblica dopo i successi ottenuti da Carlo V con la stipula dei trattati di Cambrai e di Barcellona.
Il rientro dei fuoriusciti noveschi nella città e il riacutizzarsi delle faide e dei particolarismi locali costrinsero Piccolomini a rientrare a Napoli, per ordine di Carlo V nel 1531, ma già nel maggio del 1532 fu richiamato a Siena con lo stesso incarico di generale delle armi, acclamato dalla parte popolare della città. Da allora, per l’arco di quasi un decennio, fino cioè al 1541, anno del suo definitivo allontanamento da Siena, Piccolomini mediò tra le opposte fazioni e le alterne unioni dei monti e delle fazioni cittadine nel governo della Repubblica. Svolse funzioni di governatore imperiale nelle cerimonie pubbliche che nel 1532 videro il passaggio per Siena del nuovo viceré di Napoli Pedro de Toledo, in viaggio da Ratisbona per prendere possesso del suo nuovo incarico e, nel 1536, dello stesso Carlo V al rientro dalla spedizione di Tunisi e dal trionfale soggiorno a Napoli e a Roma. Il presidio militare della guarnigione spagnola ai suoi ordini e l’azione di mediazione politica incessantemente svolta sottrassero la piccola Repubblica alla fine degli anni Trenta alle velleità di papa Paolo III, finendo con il traghettarla di fatto verso il suo definitivo assetto nell’orbita del potere della corona spagnola. Nel 1538 procurò il matrimonio di suo figlio Innico con Silvia Piccolomini, la ricca erede del ramo senese della famiglia. Il suo richiamo a Napoli, nel 1541, maturò con ogni evidenza nell’ottica della strategia imperiale complessiva proprio per la volontà di spezzare i legami fin troppo stretti venutisi a creare tra Siena, il suo territorio e il governo cittadino, e il prestigio e il potere personale capitalizzato da Piccolomini nel corso della sua decennale presenza.
A Napoli Piccolomini dovette fare i conti con il rafforzarsi dell’assolutismo del viceré de Toledo e la politica da questi avviata di disciplinamento e ridimensionamento del peso politico e militare delle grandi casate aristocratiche come la sua. Ma la fedeltà e lo spirito di lealtà di Piccolomini alla Corona, se non all’intera linea politica toledana, rimasero indubbi, nonostante all’epoca circolassero voci di sue presunte trame cospirative con i francesi.
Nel 1553 acquistò l’isola di Nisida, iniziandovi la costruzione di un magnifico castello, che nelle sue intenzioni avrebbe dovuto emulare quello degli Avalos a Ischia e la villa di de Toledo a Pozzuoli, sia dal punto di vista strategico-difensivo della linea costiera del golfo di Napoli, sia quanto a lusso e raffinatezza del tono della vita aristocratica. I lavori assorbirono gran parte della sua già critica liquidità patrimoniale, costringendolo anche a vendere parte della ricca argenteria di famiglia. Come gli altri lignaggi del clan aragonese con il suo variamente imparentati, Piccolomini fu anche mecenate di artisti, poeti e scrittori, tra cui va annoverato Antonino Castaldo, che gli dedicò qualche lirica.
Il coronamento della sua carriera politica nel Regno di Napoli si ebbe con la nomina a consigliere del Consiglio collaterale, il 1° aprile 1554.
Piccolomini morì nel castello di Nisida il 17 febbraio 1559 a causa di un aggravarsi della gotta di cui soffriva da tempo.
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