ALFONSO V d'Aragona, IV di Catalogna, I di Napoli, il Magnanimo
Alfonso V, nato nel 1396, succedette a suo padre Ferdinando I, il 2 aprile 1416, nei regni d'Aragona, Valenza, Maiorca, Sicilia, Sardegna e nella contea di Barcellona. Richiamò subito dalla Sicilia il fratello Giovanni, ambizioso di farsene re, e lo sposò con Bianca di Navarra, erede di questo stato. Si assicurò poi il possesso della Sardegna, già da anni ribelle sotto la guida del visconte di Narbona e con la protezione di Genova. Mosse anche ad occupare la Corsica, su cui la corona d'Aragona vantava diritti per l'antica donazione di Bonifacio VIII; ma aveva appena preso la piazza di Calvi, che la flotta genovese lo obbligò a toglier l'assedio da Bonifacio (1421). Abbandonò del tutto l'impresa, quando fu chiamato a Napoli. Verso la Chiesa seguì in quel primo tempo una politica non del tutto chiara, perché, pur schierandosi a Costanza in favore di Martino V, tollerò che l'antipapa Benedetto XIII rimanesse nel castello di Peñíscola in Aragona. Il suo pensiero si volse definitivamente all'Italia, quando Giovanna II di Napoli invocò il suo aiuto contro Luigi III d'Angiò. Adottato dalla regina come figlio, fatto duca di Calabria e designato come successore alla corona, gli riuscì di conquistare gran parte dello stato e di farsi riconoscere da papa Martino, mediatore di tregua tra Aragonesi ed Angioini (1422). Se non che, l'opposizione di Filippo Maria Visconti, duca di Milano e signore di Genova, e l'insofferenza di Giovanna contro la prepotente invadenza dell'Aragonese nel governo dello stato, determinarono lo scoppio della lotta tra Giovanna stessa e lui. A. muoveva per catturare la regina, quando una terribile rivolta della capitale, guidata dallo Sforza, lo costrinse a chiudersi in Castel Nuovo, ove fu cinto d'assedio (30 maggio 1423); e sebbene in seguito potesse riprender l'offensiva e impadronirsi nuovamente di Napoli, tuttavia, resosi conto dell'instabilità della sua posizione, si decise a rimpatriare, lasciando a Napoli il fratello Pietro (ottobre) e saccheggiando durante il viaggio di ritorno Marsiglia, la città più ricca del suo rivale, l'Angioino. Quest'ultimo poté allora rioccupare Gaeta, Napoli e finalmente la Calabria.
Nel frattempo la reggenza dello stato spagnolo era stata tenuta dalla regina Maria, figlia di Enrico III di Castiglia e sorella di Giovanni II, allora re di Castiglia, contro il quale avevano lottato Giovanni ed Enrico, fratelli di A., per impadronirsi del governo. A. prese parte alla contesa, e già si stava per venire al decisivo conflitto, quando l'intervento di Maria portò ad una tregua (1430). Nel 1424 e nel 1432 A. compiva altre due spedizioni contro l'isola di Gerba, la prima diretta dal principe Pietro, la seconda da lui personalmente; ma il suo sguardo non si distoglieva dalla monarchia napoletana, ove la successione al trono, per la mancanza di discendenti della regina, offriva facile occasione a interventi. Per spianarsi la strada, si riaccostò a Genova (1426) e a Milano, ed entrò in relazioni col re d'Inghilterra; ma, sul punto di stringere nuovi accordi con Giovanna, urtò nella recisa opposizione di papa Eugenio lV (1432) e dovette abbandonare l'impresa. Pur tuttavia, la morte della regina (1435), che lasciava suo erede Renato d'Angiò, fratello di Luigi III, rimise sul tappeto la questione. Contro A. e in favore di Isabella, che governava in nome del marito Renato prigioniero del duca di Lorena, si schierarono il papa, Milano, Venezia, Genova, Firenze, ecc. L'Aragonese, accorso ad assediare Gaeta, chiave del regno, fu battuto presso l'isola di Ponza dalla flotta genovese, il 5 agosto 1435, e cadde prigioniero insieme con i fratelli Giovanni, re di Navarra, ed Enrico e gran parte della nobiltà spagnola. Genova cedette al Visconti il suo illustre prigioniero; e si credeva già finita la contesa, quando, con sorpresa, si vide libero il re che riprese la guerra, trasse a sé il baronaggio napoletano, e, dopo aspra lotta e romanzesche vicende su cui lavorò poi la fantasia popolare, poté entrare in Napoli il 12 giugno 1442. Sullo strano gesto del Visconti, già nimicissimo di A., gettano luce ora i documenti pubblicati dal Bognetti. L'8 ottobre 1435, tra gli Aragonesi e il duca furono stipulati due trattati: nel primo, palese, nulla si disse che potesse sembrare contrario al patto conchiuso qualche giorno prima tra il Visconti e Isabella, imponendosi ad A. l'obbligo della fedeltà; ma nel secondo, segreto, il duca s'impegnava a rinunziare ad ogni pretesa sul regno di Napoli, promettendo celati aiuti per la sua conquista e dichiarandosi estraneo ad ogni rapporto del re con la Chiesa. Otteneva in compenso da A. la promessa che, ricevuta l'investitura, avrebbe soddisfatto agli obblighi contratti, in cambio, col papa, purché non fossero in contrasto con gli accordi presi col Visconti; che non avrebbe invaso lo stato pontificio senza suo permesso; e che sarebbe stato sempre pronto a correre in suo aiuto, con precisi obblighi nei riguardi dello Sforza e delle conquiste che avrebbe potuto compiere in Italia. In tal modo il duca credette di attrarre nella sua orbita il monarca aragonese e di servirsene contro il temuto Sforza, senza nulla cedere di proprio; forse fu tratto a piegarsi in favore di A., che dovette sembrargli meno pericoloso, in quei tristi giorni, che non il principe francese, anche da ragioni sentimentali, oltre che da motivi di opportunità politica. Senza dubbio il Visconti cooperò con intermediarî genovesi alla conquista della capitale del regno; il 15 settembre 1442 rinnovò il trattato segreto del 1435; e il 30 novembre seguente stipulò con Alfonso una lega contro lo Sforza, alleato dell'Angioino e di Firenze e ben veduto da Venezia. Quanto al papa, il re, che a Basilea si era barcamenato tra Eugenio IV e l'antipapa Felice V, finì per accordarsi col primo per la mediazione di Alfonso Borgia (il futuro Calisto III); e così A., entrato trionfalmente nella capitale del suo nuovo regno il 26 febbraio 1443, poté dirsene legittimo signore, dopo l'investitura pontificia (pace di Terracina del 14 giugno e bolla di Eugenio IV del 15 luglio 1443).
Da allora in poi non ritornò più in patria, ove il governo della Valenza e dell'Aragona, e poi anche della Catalogna, fu tenuto per lui dal fratello Giovanni, mentre continuava la lotta contro la Castiglia e s'iniziavano le prime rivolte catalane contro il fiscalismo e l'assolutismo del sovrano, sempre bisognoso di denaro, nemico delle libertà locali e odiato anche per le sue origini castigliane. Invece A. s'ingolfò sempre più nelle vicende italiane, tentando inoltre una vasta politica mediterranea. Dal 1442 al 1447, e cioè durante la vita del Visconti, fu quasi sempre amico del duca e combatté lo Sforza nelle Marche, sebbene con scarsi risultati e con poco entusiasmo. In realtà egli mirava a succedere a Filippo Maria; e sembra che questi - altra questione molto dibattuta - lo desiderasse come erede. Ma alla morte del duca, A., travolto nella lotta per il possesso dello stato milanese (1447-50) e nella guerra contro lo Sforza (1450-54), cui pose fine la pace di Lodi, nessun beneficio ritrasse dalla lunga contesa. Fu battuto sotto Piombino dai Fiorentini (1448) e per mare dai Veneziani (1449), che poi gli si allearono (1450). Le sue finanze ebbero un fiero colpo. Ratificò la pace soltanto il 26 gennaio 1455, e anche con ritardo accedette alla lega italica, riservandosi una certa libertà. Ma poi, premuto dalla sorda ostilità di Venezia, di Genova, di Firenze sostenitrice dell'Angioino, del papa, si strinse allo Sforza e ottenne la mano di Ippolita per il figlio del duca di Calabria, il futuro re Alfonso II. Particolare interesse ha la sua politica in Albania, ove sostenne vigorosamente, almeno per alcuni anni, lo Scanderbeg in lotta con i Turchi; inoltre strinse relazioni con gli stati africani del Mediterraneo e con l'Abissinia. Negli ultimi anni disegnava di ritornare in patria e di preparare al tempo stesso una grande crociata; ma si limitò a riaprire l'inutile conflitto con Genova. Morì il 27 luglio 1458, lasciando come erede del regno di Napoli il figlio illegittimo Ferdinando duca di Calabria, da lui legittimato già nel 1443; e come erede delle altre corone il fratello Giovanni II.
Narra la Cronaca di S. Antonino che A., sul punto di morire, raccomandò al figlio di allontanare dal regno gli Spagnoli, perché odiati, e di servirsi invece per il governo di elementi italiani, di alleggerire il carico tributario; di tenersi in pace col papa e con i principi italiani. In questi consigli che, del resto, a lui aveva già suggeriti Borso d'Este suo parente, l'Aragonese riassumeva l'esperienza di quattordici anni di governo: amara esperienza che lo aveva convinto della fallacia di tutta la sua politica estera e interna. La prima, dopo l'occupazione di Napoli, nulla gli aveva fruttato, la seconda aveva determinato la bancarotta dello stato, gli aveva alienato le simpatie del Mezzogiorno e aveva contribuito ad accrescere la forza del baronaggio, senza per altro conquistarne l'appoggio. Allorché aveva convocato il parlamento del regno (28 febbraio 1443), dopo il suo ingresso trionfale nella capitale, e questo aveva accettato Ferdinando come principe ereditario, A. si era affrettato a far promesse, aveva riformato la Gran corte della Vicaria, e, sulla base della numerazione dei fuochi, creato un nuovo sistema tributario. Ma, sin d'allora, aveva preso a favorire i baroni, concedendo loro il "mero e misto impero"; poi, bisognoso di denaro per le continue e impopolari guerre, aveva sempre più largheggiato in concessioni, gettando il peso fiscale sui comuni; aveva fatto vendite disastrose di feudi e di "tratte"; imposto "collette" straordinarie, e, per dar ordine alla dogana delle pecore nel Tavoliere di Puglia (1° agosto 1447), vincolato a pascolo enormi estensioni di terre, con gravi conseguenze che rivoluzionarono l'economia agraria del Mezzogiorno. Né il re seppe mai far dimenticare la sua origine di straniero conquistatore; perché - oltre a circondarsi di Catalani, di Aragonesi, e più di Castigliani, come i d'Avalos, i Guevara, i Cavaniglia, i Cardenas, i Siscar, i Centelles, i Cardona, gli Ayerbe, i quali s'imparentarono con famiglie napoletane, occupando le cariche maggiori e minori, impadronendosi del commercio, scalzando i precedenti banchieri genovesi, fiorentini, veneziani - trapiantò sul suolo napoletano istituzioni spagnole, come il Sacro regio consiglio già esistente in Valenza e posto subito sotto la direzione di quel vescovo, il futuro Calisto III. Spagnola, specialmente castigliana, fu anche la letteratura volgare della sua corte, abbandonandosi quasi del tutto l'italiano. Come naturale conseguenza, anche il re fu odiato insieme con questi stranieri, condannati per le loro "superbie, mali modi e tirannie grandissime", come riferiva Borso d'Este; e il baronaggio, per natura ribelle, dalla offensiva diffidenza mostrata dal monarca trasse giustificazione per rivoltargli contro intere provincie, dando l'esempio Antonio Centelles in Calabria e Giosia Acquaviva, duca d'Atri, negli Abruzzi (1444-45). Per rafforzare la posizione sua e del figlio A. fece sposare quest'ultimo con Isabella di Chiaromonte, nipote del principe di Taranto, il più potente barone del regno (maggio 1445); ma, in realtà, egli lasciò uno stato fallito economicamente e malsicuro sia per le rivolte locali, sia perché permaneva insoluta la doppia legittimità della dinastia aragonese e della successione nel suo seno: onde Ferdinando, in condizioni rese più gravi dall'isolamento politico del suo regno in Italia, dovrà ingaggiare fiera lotta contro Giovanni d'Angiò e contro i baroni, e i suoi successori si vedranno privati del trono dapprima dall'erede del principe francese, Carlo VIII, e poi dal nipote di A., Ferdinando II.
Al di fuori del regno napoletano, la Sicilia conservò immutata la sua precedente costituzione. In Sardegna si affrettò la trasformazione in legge comune della Carta de logu de Arborea, e s'introdussero molte istituzioni catalane. Ma particolarmente difficile divenne la situazione negli stati spagnoli, mancanti d'intima coesione e mossi da interessi spesso contrastanti. Specialmente in Catalogna si accrebbe il malcontento contro il governo, invischiato in guerre lontane come le italiane, o in lotte puramente dinastiche, come quelle contro la Castiglia, mentre l'assenza del re e le contese scoppiate nel seno della reggenza rendevano di difficile soluzione alcuni conflitti scoppiati con il conte di Foix e con Carlo VII di Francia. Sì che anche qui si preparavano giorni tristi, e Giovanni II a fatica riuscirà a vincere la rivolta catalana, che era favorita dall'intervento francese.
Ma sarebbe grave errore, che generalmente si commette, limitarsi a dare questo giudizio negativo sull'opera di A., anche se trova riscontro con i sentimenti di scarsa simpatia che nutrirono per lui i suoi sudditi in genere. Napoli gli deve, nel campo intellettuale, un rinnovamento culturale e artistico che raggiungerà pieno sviluppo con Ferdinando, resosi principe italiano; nel campo amministrativo, l'inaugurazione di un sistema di severo controllo finanziario che, se nocque per ragioni fiscali, rafforzò peraltro il principio dell'autorità statale, al cui rinvigorimento molto contribuirà il suo successore; nel campo politico, la ripresa della politica balcanica, interrotta dai Durazzeschi dopo secoli di vicende spesso fortunate, e il notevole incremento dato alla politica italiana. Che se quest'ultima non riuscì a dare al regno il primato nella penisola, quale sperava A., deve trovarsene la ragione nelle peculiari condizioni dell'Italia, che rendevano impossibile a tutti i suoi principi il raggiungimento di tal fine, tanto più ad un sovrano che, per l'origine del suo proprio dominio, era costretto a tener sempre pronte le armi per difenderlo. Molto più ancora deve la Spagna a un principe che favorì in ogni occasione Catalani e Castigliani, assicurando ai primi il monopolio commerciale e finanziario nel Mezzogiorno e contribuendo all'incremento dei loro traffici nel Mediterraneo; e che, spezzando una secolare tradizione dinastica d'incultura, divenne, per il primo, principe amante delle lettere e delle arti e mecenate di artisti e letterati spagnoli, sì che anche nei regni ereditati si ebbe una profonda rinascenza intellettuale. E inoltre, sovrano per eredità di uno stato non omogeneo, ove l'autorità del governo era resa debolissima dalle autonomie locali, egli, principe castigliano di un paese essenzialmente catalano, iniziò la fusione dei due popoli, inaugurò una politica accentratrice e, continuando la tradizione catalana di espansione nel Mediterraneo, cercò trovare in Italia, oltre che nuovi sbocchi di vita per il suo povero paese, un centro più solido, perché più omogeneo e più ricco, per il suo governo. sogno che parve chimera allora; ma che fu tradotto in atto, più tardi, da Ferdinando II, la cui politica non è che la continuazione di quella dello zio.
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