VAGNONE, Alfonso
VAGNONE (Vagnoni, Vagnonus, Vanhoni), Alfonso. – Nacque a Trofarello (Torino) nel gennaio del 1568 (Archivum Historicum Societatis Iesu, ARSI, JapSin, 134, c. 303, Mediol., 47, cc. 108v, 132v), secondogenito di Niccolò dei Vagnoni, conte di Trofarello e Celle.
Suo fratello primogenito fu Bernardino, suo nonno Lorenzo sposò Catterina Benzi di Cellarengo e Menabò, consolidando i legami della famiglia con l’aristocrazia piemontese di più alto lignaggio (Sulle famiglie nobili della monarchia di Savoia, IV, Torino 1857, pp. 665, 695).
Fece il suo ingresso nella Compagnia il 24 ottobre 1584 (ARSI, Mediol., 47, c. 24v); pronunciò i voti solenni a Milano nel 1597. Dal Catalogo del 1621 (completato nel 1624), sappiamo che studiò retorica per due anni, filosofia per tre, teologia per quattro, e che insegnò lettere per tre anni, retorica per due, filosofia per quattro, teologia per due presso i collegi di Arona (Novara) e di Brera (Milano; ibid., JapSin, 134, c. 302). Due sue lettere indipetae del luglio (ibid., FG, 734, c. 382; copia in FG, 733, c. 143) e dell’agosto del 1602 (ibid., FG, 734, c. 383r; copia in FG, 733, c. 147) testimoniano della perseveranza (le prime petizioni risalgono al 1592) nel proposito di essere inviato in missione in Cina dove ritenne di poter mettere a frutto l’esperienza di studio e docenza maturata sino a quel momento.
L’età avanzata, aveva già trentaquattro anni al tempo dell’ultima petizione, lo indussero a esortare il generale della Compagnia Claudio Aquaviva a una pronta decisione e «tanto più si differirà la mia spedizione, et tanto meno atta resterà l’età per simili fatiche» (ibid., FG, 734, c. 383r). Le sue accorate richieste vennero finalmente ascoltate poiché due accadimenti intervennero in suo favore: da un lato il congruo sussidio annuo che Filippo II destinò al sostentamento delle missioni in Oriente e, dall’altro, la decisione di Alessandro Valignano di avvalersi di tali risorse per rafforzare le tre residenze della Cina meridionale, ovvero: Shaozhou, Nanchang e Nanchino, per cui fu più che mai opportuno il reclutamento di nuove forze.
Così il 9 aprile 1603 Vagnone riuscì finalmente a imbarcarsi per la Cina sulla S. João. Giunse a Macao nel luglio del 1604 per essere inviato alla missione di Nanchino tra il febbraio e il marzo del 1605. Nella capitale ausiliaria dei Ming ormai João da Rocha era rimasto l’unico prete ad amministrare la fiorente comunità cattolica, dopo che il confratello Lazzaro Cattaneo, di salute cagionevole, era stato costretto a riparare a Macao. Da Rocha ebbe quanto mai bisogno di rinforzi e lo zelante Vagnone, che assunse il nome cinese di Wang Fengsu, fece giusto al caso. Le narrazioni agiografiche del tempo decantarono le sue virtù persuasive e il suo zelo missionario; lo storico gesuita, Daniello Bartoli (1663, 1844), descrisse con dovizia di dettagli la vita quotidiana dei cattolici di Nanchino, la più fervente dell’Impero grazie alla paziente opera di Vagnone (pp. 227-233). In una lettera a Fabio Fabii, superiore della Provincia romana, Matteo Ricci scrisse di aver proposto Niccolò Longobardo, a quel tempo a Shaozhou, e Vagnone per il quarto voto, onore che gli venne concesso il 13 agosto 1606 (ARSI, Lus., 3, c. 149). Quando il 15 maggio 1609 Emmanuel Dias, rettore delle tre Residenze meridionali, fece ritorno a Macao, Vagnone venne nominato superiore della Residenza, dato che anche da Rocha si era trasferito già dal gennaio di quell’anno a Nanchang per assumervi l’incarico di superiore. Di temperamento impulsivo e passionale (ARSI, JapSin, 134, c. 305), gradualmente abbandonò il nicodemismo di Ricci e degli altri confratelli per predicare apertamente e presiedere cerimonie liturgiche sulla pubblica via. Il 3 maggio 1611 organizzò una cerimonia per la consacrazione di una chiesa, mobilitando la comunità cattolica di Nanchino che, in solenne processione, trasse gli arredi liturgici dall’antica cappella al nuovo luogo di culto. Si trattò di un atto estremamente imprudente che sul momento non produsse conseguenze; con il tempo però si accrebbe l’ostilità tra l’intransigente Vagnone e le autorità locali. Questa giunse al suo culmine quando Shen Que, nominato nel 1615 viceministro dei Riti presso la capitale ausiliaria di Nanchino, inviò all’imperatore tre memoriali da giugno a settembre del 1616 e uno nel gennaio del 1617 (Carrington Goodrich - Chaoying Fang, 1976, p. 1178).
I memoriali denunciavano i missionari per i seguenti motivi: l’uso dei termini da xiyang («grande occidente») e tianzhu jiao («religione del Cielo») che, secondo Shen Que, screditavano la Cina e l’imperatore, in quanto «figlio del Cielo»; la condanna del culto che ogni suddito, compresi i cattolici, era tenuto a tributare a Confucio e agli antenati; il metodo non ortodosso di calcolare il calendario; l’acquisto di una proprietà nei pressi del mausoleo del fondatore della dinastia e l’uso di beni materiali a scopo di proselitismo (i missionari erano infatti soliti remunerare chi si convertiva con tre monete d’argento). Per di più, la chiesa eretta da Vagnone superava in altezza gli edifici circostanti e questo era segno di tracotanza e mancanza di rispetto nei confronti delle autorità locali. Persino la Storia dei Ming (Mingshi) ne documenta l’arresto, a motivo delle dottrine eretiche e «di sinistra» (zuodao) diffuse tra il popolo (Carrington Goodrich - Chaoying Fang, 1976, p. 1333).
Nonostante i contro memoriali degli alti funzionari cattolici Xu Guangqi, Li Zhizao, Sun Yuanhua e Yang Tingyun, l’imperatore, il 3 febbraio 1617, promulgò un editto di condanna del cattolicesimo. Vagnone venne arrestato, gli vennero inflitte severe pene corporali nonché l’umiliazione di essere scortato in esilio a Canton rinchiuso in una gabbia. Shen Que volle rispedirlo in Europa, ma il governatore di Canton, mosso a pietà, lo fece scarcerare e lo deportò a Macao.
Le pene inflitte all’aristocratico gesuita furono oggetto della vivida narrazione di Bartoli (1633, 1844), il quale, nel Libro IV di La Cina, dedicò un intero paragrafo alle Testimonianze dell’apostolico huomo che era il padre Alfonso Vagnoni (pp. 391-393) Ripreso in più occasioni durante tutto il Seicento, il racconto dei patimenti di Vagnone infiammò gli animi di giovani missionari nell’Europa cattolica, così come, qualche decennio prima, era accaduto con un altro rampollo di nobili natali, Rodolfo Aquaviva, morto martire in India.
Durante il lungo, forzato soggiorno a Macao, Vagnone si mantenne attivo nel perfezionamento della lingua, compresa quella classica che riuscì a impiegare con rara eleganza nella composizione di opere di argomento diverso. «Gran maestro nella favella cinese», lo avrebbe definito Bartoli (ibid., p. 392).
Poté rientrare in Cina solo nel 1624 quando il nuovo imperatore dei Ming, Chongzhen, concesse ai missionari il permesso di risiedere nell’Impero. Vagnone si stabilì a Jiangzhou con un nuovo nome cinese (Gao Yizhi) e una nuova identità, solo apparentemente più prudente. Il nuovo visitatore André Palmeiro nel 1627 organizzò una conferenza a Jiading per comporre gli animi dei confratelli, da tempo in conflitto su questioni terminologiche.
Le dispute più accese si incentravano su quale fosse il termine più adatto tra Tian, Shangdi e Tianzhu a designare il Dio cristiano. I primi due termini comparivano nelle fonti antiche cinesi e per questo motivo alcuni missionari ritenevano che i cinesi avessero avuto nozione dell’esistenza del Creatore e ne tolleravano l’uso. Tra questi era anche Vagnone il quale, già nel 1618, era stato incaricato insieme a Diego de Pantoja, dall’allora padre visitatore Francisco Vieira, di rispondere ai memoriali di Sabatino De Ursis, João Rodriguez e di Niccolò Longobardo sull’impiego di vocaboli cinesi nella lingua liturgica. Questi ultimi infatti mantenevano una posizione piuttosto rigida, ritenendo che persino il neologismo Tianzhu (lett. «Signore del Cielo») fosse negativamente connotato e dovesse esserne proibito l’uso. Al contrario, Vagnone, Giulio Aleni, Diego De Pantoja e Nicolas Trigault, dopo attento studio, convennero che l’antico termine Shangdi fosse ammissibile, nonostante il generale Muzio Vitelleschi ne avesse proibito l’uso già dall’agosto del 1625 (Brockey, 2007, p. 87).
Il tentativo del visitatore Palmeiro di comporre gli animi si rivelò fallimentare: il conflitto tra le due fazioni, da un lato gli intransigenti, capeggiati da Rodrigues, che non approvavano l’uso di alcun termine desunto dalla tradizione cinese e volevano che il nome di Dio fosse espresso solo attraverso un prestito fonetico, e dall’altro gli accomodanti, cioè coloro i quali, riconoscendo i semina verbi presenti nei testi antichi cari al confucianesimo, approvarono l’uso di termini desunti da questa tradizione testuale, si inasprì ulteriormente. Il visitatore impose digiuni e penitenze ai missionari più agguerriti, ma Vagnone ne criticò apertamente l’intento pacificatore volto al raggiungimento di un accordo di compromesso tra le due fazioni. Palmeiro riferì al superiore di essere stato tentato di richiamare Vagnone a Macao per insubordinazione, ma di essersi astenuto dal farlo alla luce dello scarso numero di missionari presenti sul territorio cinese (ibid.). La diatriba culminò in tragedia con il suicidio di Trigault.
Durante il periodo trascorso a Jiangzhou Vagnone venne assistito da due fratelli di nobile stirpe: Han Lin e Han Yun. La loro posizione sociale e il prestigio delle cariche pubbliche ricoperte influirono profondamente sulle sorti della missione; tra i due fratelli e Vagnone si sviluppò una profonda amicizia, al contempo letteraria e spirituale, che ebbe un benefico influsso sul missionario piemontese, sicuramente il più grande missionario sinologo dopo Ricci. Scrittore prolifico, fu autore di circa venti trattati in lingua cinese. I più significativi sono quelli nei quali mette a frutto le sue competenze di classicista per trasporre, in un cinese classico, semplice ed elegante, i concetti chiave dell’aristotelismo.
Com’è noto i gesuiti di Coimbra avevano redatto dei volumi di commento al corpus aristotelico allo scopo di utilizzarli come libri di testo nei loro collegi. I gesuiti della missione cinese non si limitarono pertanto alla produzione di opere di tipo catechistico, dottrinale o teologico, ma vollero anche rendere in lingua cinese le nozioni essenziali della fisica e della cosmologica aristoteliche facendo uso di tali commenti. Chi tuttavia cercasse, nei testi gesuitici in cinese, come quelli scritti da Vagnone, riferimenti letterali agli originali, rimarrebbe deluso. Non si tratta infatti di vere e proprie traduzioni quanto piuttosto di raccolte di citazioni tratte da più fonti, probabilmente basate sugli adversaria, le annotazioni personali prese durante gli anni di studio e di insegnamento. Così fu composto il De Meteoris (Kongji gezhi) in due volumi.
Scritto con l’ausilio di Han Yun e Chen Suoxing, il trattato si apre con una discussione sui quattro elementi: fuoco, etere, acqua e terra. Prima discute il significato di xing («elemento») e dice: «Xing è un corpo puro, nel senso che non può essere suddiviso per diventare altro da ciò che è. Solo può generare le forme (pin) delle molteplici cose. Che cos’è questo così detto corpo puro? È la sostanza di ogni elemento ma non ha la pluralità (diversità) di altri elementi. Pertanto nel mondo e nella natura vi è una differenza tra puro e misto. Ciò che è puro sono i quattro elementi: terra, acqua, etere e fuoco; ciò che è misto sono i cinque pin, tipo la pioggia e il fulmine; i metalli e le pietre; le erbe e gli alberi e i cinque cereali; i mammiferi e i volatili; gli esseri umani. Questi cinque pin contengono la pluralità dei quattro elementi. Solo l’elemento primordiale (yuan xing) è puro, la sua natura pertanto è pura e non molteplice» (9.VII.1612, vol. 3, n. 382/1).
In ambito aristotelico deve collocarsi anche il trattato Domande e risposte sulla filosofia naturale (Feilu dahui), nel quale Vagnone, con l’ausilio di Bi Gongchen, alto funzionario che aveva studiato anatomia attraverso le opere di Johann Schreck (Johannes Terrentius), si serve della forma dialogica per spiegare i fondamenti della filosofia naturale di matrice aristotelica.
Altro tema che interessò profondamente Vagnone fu quello dell’educazione infantile. L’Educazione dei bambini (Tongyou jiaoyu, s.l. circa 1632) è il più importante dei trattati di morale di cui fu autore. Riflette l’ideale rinascimentale di educazione della prole come principale compito dei genitori in pari misura; si tratta di un compito esclusivo perché, se delegato, non produce gli stessi frutti. Altro trattato di morale è La cura di sé secondo la scienza europea, un trattato di etica che discute l’intenzione, la volontà e le quattro virtù cardinali. Tra le opere di catechesi ricordiamo la Breve spiegazione della dottrina cristiana (Jiaoyao jielüe, s.l. 1626), La vera vita della Santa Madre (Shengmu xingshi, s.l. 1631) e Le vite dei Santi della Chiesa cattolica (Tianzhu shengjiao shengren xingshi, s.l. 1629), opera nella quale Vagnone volle dedicare una biografia a ogni santo prescelto nelle seguenti categorie: gli apostoli, i pontefici, i martiri, i confessori, gli anacoreti, le vergini e le vedove. Tra le opere di argomento più strettamente teologico si ricorda il trattato sui novissimi (Zhongmo zhi ji shenli yu jingxiu) stampato postumo a Pechino nel 1675.
Quando Vagnone morì, il 9 aprile 1640, a Jiangzhou la comunità cristiana ammontava a circa ottomila individui raggruppati in centodue tra congregazioni e confraternite; di questi circa duemila erano funzionari di alto rango e uomini di lettere, molti dei quali parteciparono alle sue esequie, tributandogli onori e tessendone pubblicamente le lodi (Carrington Goodrich - Chaoying Fang, 1976, p. 1333).
Fonti e Bibl.: Epistole in Roma, Archivum Romanum Societatis Iesu, JapSin, 14, c. 207rv; FG, 732, cc. 1, 10, 313; 733, cc. 24, 143, 147; Jap Sin, 161, 9 epistole; Mediol. 47, cc. 24, 58, 70, 98, 108v, 132v, 151, 158; JapSin, 161, cc. 1, 1bis-62; Indipetae, FG, 732: (copia) vol. 1, s. d. / 29.III. 1592, vol. 2, n. 24/1 / 9.VII.1602, vol. 2, n. 143/1 /9.VII.1612, vol. 3, n. 382/1 /20.VIII.1602 vol. 2, n. 147/1 /20.VIII.1612, vol. 2, n. 383/1. Litterae annue sinenses anni 1618 (da Macao il 20 novembre 1618) in Lettere del Giapone, China, Goa ed Ethiopia, Milano 1621, pp. 158-253.
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