VIGNY, Alfred de
Nato a Loches il 27 marzo 1797, morto a Maine-Guiraud il 17 settembre 1863. L'origine aristocratica lasciò un'impronta profonda nel suo carattere e, se diede alle sue maniere quel tono di alterigia e di superiorità che gli fu spesso rimproverato, gl'ispirò anche quel concetto della "religione dell'onore", che fu uno dei punti fermi del suo pensiero e il più saldo sotegno della sua condotta. Subì anch'egli, quasi suo malgrado, il fascino dell'epopea napoleonica e volle seguire la carriera militare. Ma entrato nell'esercito all'inizio della Restaurazione (prima come sottotenente nella Maison Royale e poi nella Guardia a piedi), vide nella monotona vita di guarnigione svanire le sue illusioni, e dall'esercito uscì col grado di capitano nel 1827: esperienza non inutile, che rafforzò la sua nativa severità e l'abitudine del dominio su sé medesimo e che gli offrì esempî di silenzioso e oscuro eroismo. Più della gloria delle armi gli sorrise però fin dalla prima giovinezza la gloria della poesia: i frequenti congedi gli permisero di venire a contatto coi circoli letterarî di Parigi (è di quel tempo l'amicizia fraterna con l'Hugo); assiduo del primo cenacolo che si raccoglieva intorno a Ch. Nodier e collaboratore della Muse française, apparve uno dei migliori rappresentanti di quella nuova poesia, che cominciava a essere riconosciuta col nome di romantica. Del 1822 è la sua prima raccolta di versi, i Poèmes, nei quali tra le forme e i motivi prevalentemente settecenteschi si accennano motivi o preoccupazioni moderne e personali; del 1824, il poema Éloa ou La soeur des anges, opera di più vasto respiro e ispirata si modelli esotici di E. Moore e di G. Byron; del 1826 infine, i Poèmes antiques et modernes, fra i quali, insieme con buona parte di quelli già pubblicati, compaiono nuovi e più vigorosi componimenti e che, per la varietà dei soggetti e dei toni e per i molti influssi che rivelano, contribuirono alla formazione di un nuovo gusto poetico. Lo stesso si può dire, anche se artisticamente discutibile, del romanzo Cinq-Mars ou Une conjuration sous Louis XIII (1826), che sulle orme di Walter Scott rievoca la lotta della feudalità contro la politica del Richelieu con simpatia per il nobile ribelle, prima vittima di una causa che sarà definitivamente perduta con la rivoluzione. Né il V. fu assente dalla battaglia romantica per il teatro, cui partecipò con la traduzione dell'Otello (che fu rappresentato al Théatre français il 24 ottobre 1829): traduzione che, se a noi sembra piuttosto un adattamento della materia shakespeariana alla lingua o al gergo classicistico (più infelice è la riduzione del Mercante di Venezia in un Shylock in tre atti), parve allora audace ai due avversi partiti. Non a torto egli ebbe a vantasi più tardi di essere stato, in tutti i campi della letteratura, un iniziatore.
La sua fama però negli anni dopo il '30 fu oscurata da quella più rumorosa dei suoi compagni d'un giorno, di vena tanto più facile della sua: ed egli stesso sembrò per la sua indole sdegnosa e schiva appartarsi da loro. Una sua battaglia volle allora intraprendere per difendere i diritti del poeta contro la società, ostile sempre, a suo credere, alla poesia e ai suoi sacerdoti, e in Stello (1835), la prima delle Consultations du Docteur Noir, descrisse, per esemplificare la sua tesi, la fine tragica di tre poeti, N.-J.-L. Gilbert, Th. Chatterton, A. Chénier. Dal secondo episodio trasse un dramma, Chatterton (rappresentato il 12 febbraio 1835), che ha i caratteri di superficialità e di sommarietà di un dramma popolare, ma che ebbe, per la tesi che sosteneva e per la stessa facile commozione che suscita, un grande successo, non sminuito dalle proteste elevate da più d'una parte in nome della morale e dell'ordine sociale; ne fu commosso anche Giuseppe Mazzini, che lo tradusse insieme con Giovanni Ruffini e in italiano lo pubblicò quello stesso anno, premettendo alla traduzione una prefazione entusiastica. Più discrete e più intimamente commosse della difesa del poeta, ci appaiono le pagine che egli dedicò alla vita militare nella Servitude et grandeur militaires (1835), opera nella quale le considerazioni sull'esercito, "nazione nella nazione", si elevano dalle contingenze politiche, che le rendevano attuali, alla celebrazione di un ideale morale: e i tre racconti sono non tanto la dimostrazione di una tesi quanto l'adeguata rappresentazione artistica di quell'ideale profondamente vissuto.
Con questi scritti e con la pubblicazione delle sue opere complete (1837-39), fra le quali troviamo, accresciuta di nuovi componimenti, la raccolta dei Poèmes antiques et modernes e il dramma storico La maréchale d'Ancre e la commedia Quitte pour la peur (1833), il V. sembrò avere compiuto la sua carriera poetica: in realtà egli, che in quel tempo stava superando la grave crisi della passione per l'attrice Marie Dorval (per la moglie, l'inglese Lydia Bunbury, da lui sposata nel 1825, sempre infermiccia, egli ebbe più che amore un affettuoso rispetto), soltanto allora raggiungeva la piena maturità della sua arte e con La mort du loup (1838) e con La colère de Samson (1839) iniziava la serie dei suoi capolavori. Non se ne accorsero i contemporanei, e la pubblicazione di qualcuno di quei poemi sulla Revue de Deux Mondes (La mort du loup e Le Mont des oliviers nel 1843 e La maison du berger nel 1844), passò inosservata. Anche la tardiva elezione all'Accademia (1845) parve il riconoscimento di un passato onorevole e non quello di un'opera viva e attuale, lontana ancora dall'essere compiuta. Ne fu accresciuta l'amarezza del poeta, che da tempo aveva lasciata interrotta la Seconde consultation du Docteur Noir, pur avendo terminato l'episodio di Daphné, celebrazione di Giuliano l'Apostata, spirito da lui sentito congeniale, e che rinunciò a raccogliere in volume i poemi già composti e quelli che andava componendo. La coscienza della propria grandezza, una fede più salda nei valori umani, l'amicizia di alcuni giovani a lui devoti, lo sorressero negli ultimi anni e l'ultima sua parola, l'Esprit pur (scritto pochi mesi prima della morte), fu una parola di fede nell'opera propria.
Legittimista nella giovinezza, si era a poco a poco scostato dai Borboni, e ne giudicò nel 1830 fatale la caduta, pur non riuscendo mai, per il suo spirito aristocratico, ad adattarsi alla monarchia di Luglio: spinto dall'esempio dei più famosi poeti del tempo, si presentò nel 1849 candidato alla deputazione, ma non fu eletto: parve negli ultimi anni guardare con simpatia all'impero, e vagheggiò l'idea di essere scelto come precettore del principe imperiale. In realtà per la politica non ebbe vero interesse: e il suo disagio di monarchico senza fede nel suo re e di aristocratico persuaso del fatale trionfo della democrazia, fu soltanto uno degli stimoli della sua meditazione morale e contribuì alla formazione del suo cosiddetto pessimismo.
Di questo suo pessimismo furono indicate le cause nella sua stessa vita in apparenza mancata, nel temperamento compresso da una troppo rigida educazione, nella costituzione fisica: meglio sarebbe stato riconoscere in quel "pessimismo" l'angoscia religiosa di uno spirito, costantemente pensoso del destino dell'individuo, della sua solitudine, del "silenzio eterno della divinità". A torto perciò si è voluto ricollegarlo con affermazioni pessimistiche del Voltaire e di Federico II, d'intonazione antiteologica e antimetafisica: più a ragione si potrebbe parlare di un byronismo intimo" che non si manifesta nella bestemmia e nella ribellione aperta, ma in un assiduo, silenzioso contrasto con la divinità, accusata sempre del male e dell'infelicità umana e sempre presente per questa stessa accusa e per la negazione in cui talvolta accenna a risolversi. D'altra parte, il termine di pessimismo non basta a definire la sua attitudine di fronte alla vita, che egli concepisce come una lotta fra l'individuo e una forza oscura, il destino, talora sgomento per l'enormità di quel potere, che sembra schiacciarci o travolgerci (Les destinées), talora compreso di ammirazione per l'individuo, che a esso oppone la coscienza della propria dignità e, vinto, si solleva per quella coscienza a una grandezza sublime (La mort du loup), talora commosso di una delicata pietà per le sofferenze degli uomini così piccoli di fronte alla natura onnipotente e ignara (La maison du berger), talora infine fidente nell'immortalità dell'opera umana, che vittoriosa sopravvive all'individuo effimero, alla sua sofferenza, alla sua apparente disfatta (La bouteille à la mer).
Il Journal d'un poète (di cui fu pubblicata nel 1867 una scelta arbitraria e che ora soltanto ci è dato conoscere nella sua genuinità), in cui si trovano in forma frammentaria appunti personali, note autobiografiche, spunti di pensiero, disegni di opere, ci permette di meglio conoscere la natura della sua mente, che le idee aveva bisogno di vedere incarnate in una figura e a cui poco dicevano le immagini estranee a quella meditazione morale, che sola la occupava. Male si disse che nel V. il pensatore fu superiore al poeta: vero è che la sua poesia presuppone un distacco dalle passioni più violente e immediate e che le poche e grandi figure, che si levano dai suoi versi, sembrano essere l'espressione mitica delle sue convinzioni morali. Questa poesia, per sua natura non copiosa né varia, ha dietro di sé - e la gravità dell'intonazione e la risonanza profonda dei versi la lasciano intravvedere - la meditazione di anni. Non a caso perciò quasi tutti i suoi accenti più alti appartengono alla maturità del poeta: dei Pomes antiques et modernes, nei quali il V. si svia in una ricerca di temi e di colore, rimangono nella nostra memoria Le cor, una sonata romantica, che rievoca dentro una cornice musicale la fine eroica di Orlando; le note sataniche e, avanti lettera, baudelairiane di Èloa, poema mancato del resto nel suo assunto di rappresentare la perdizione di uno spirito puro; Moïse, sopra tutti, che, nelle parole estreme del condottiero a Dio, canta l'infelicità e la solitudine degli eletti e che prelude alle grandi poesie della maturità. Ma tra queste ultime, raccolte dopo la morte del poeta in un volume cui fu dato il titolo di una di esse, Les destinées, ve ne sono alcune, che possono essere meritamente considerate come la più pura espressione del lirismo francese ed europeo del secolo XIX.
Privo affatto di doti oratorie, impacciato anzi più di una volta nei suoi mezzi espressivi, così da lasciarsi portare, come gli accadeva nella vita, a una falsa grazia o a una falsa solennità, il V. raggiunge a un tempo la semplicità e la limpidità d'un classico e la suggestività indefinita d'un romantico, là dove risuonano i motivi essenziali della sua meditazione, nelle terzine de Les destinées, grandiosa rappresentazione di quegli esseri simboleggianti il destino, che grava sugli uomini invano riluttanti, nell'imprecazione di Sansone (La colère de Samson) contro la donna, che corrompe e fa servo l'uomo, nella figurazione della morte eroica del lupo e nei versi che la commentano e racchiudono il credo morale del poeta (La mort du loup). Su questi e sugli altri poemi, non privi di accenti poetici, si leva però La maison du berger, singolarissima poesia di amore, nella quale il poeta, invitando l'amata a seguirlo lontano dalla città sulla mobile casa del pastore, a lei si volge come all'immagine, fragile e preziosa, della femminilità e a lei, compagna e consolatrice dell'uomo, contrappone la maestosa e indifferente natura.
La poesia del V., cui basta un lessico assai semplice e poco vario, povera di colore, paga d'immagini rare e indefinite, aliena da sviluppi retorici, se poco fu intesa dai contemporanei (la critica acerba del SainteBeuve, attento alle debolezze dell'uomo più che alla sua arte, rimane un esempio tipico d'incomprensione), s'impose a poco a poco all'ammirazione dei posteri, dei parnassiani dapprima, che ne contrapposero le severe figurazioni alle effusioni eloquenti del Lamartine e del De Musset, dei simbolisti, che in essa sentirono la voce di un precursore, di quanti, al difuori delle scuole, cercano la vera e schietta poesia: né inopportuno può essere qui il ricordare la fortuna che ebbe in Italia, dove Giuseppe Mazzini, V. Imbriani, B. Croce ebbero a giudicarlo il massimo dei poeti francesi della sua età.
Ediz.: Øuvres, Parigi 1837-39; Les destinées, ivi 1864; Journal d'un poète, a cura di L. Ratisbonne, ivi 1867; Daphné, a cura di F. Gregh, ivi 1912; Correspondance, a cura di E. Sakellaridès, ivi 1905. Un'edizione critica dell'opera completa, arricchita di nutrite appendici, è stata curata da F. Baldensperger, benemerito degli studî vigniani (voll. 11, Parigi 1913-14); allo stesso Baldensperger si deve la nuova e integrale edizione del Journal (Londra 1932 e Parigi 1935).
Bibl.: Ch.-A. Sainte-Beuve, Portraits contemporains, II: Portraits littéraires, III: Causeries du lundi, XI; Nouveaux lundis, VI; Ch.-M.-R. Lecomte de Lisle, Derniers poèmes, Parigi 1868; A. France, A.d.V., ivi 1868; P. Bourget, Études et portraits, III, ivi 1889; M. Paléologue, A.d.V., ivi 1891; F. Brunetière, L'évolution de la poésie lyrique, ivi 1894; J. Lemaître, Les contemporains, VII, ivi 1896; L. Séché, A. de V. et son temps, ivi 1906; E. Dupuy, La jeunesse des romantiques, ivi 1906; id., A. d. V., I: Les amitiés, II: Le rôle littéraire, ivi 1906; id., A. de V., sa pensée et son art, ivi 1913; E. Lauvrière, A. de V., sa vie et son oeuvre, ivi 1910; F. Baldensperger, A. de V., contribution à sa biographie intellectuelle, ivi 1912; A. Thibaudet, Le cinquantenaire de V., in Nouvelle Revue Française, 1914; E. Estève, A. d. V., sa pensée et son art, Parigi 1923; M. Citoleux, A. de V.; persistances classiques et affinités étrangères, ivi 1924; R. de Traz, A. de V., ivi 1929. Ioltre: R. de Smet, Le théâtre romantique: V. Hugo, Dumas père, A. de V., Musset, Parigi 1930; V. Summers, L'orientalisme d'A. de V., ivi 1930; F. Baldensperger, A. de V., ivi 1933.
G. Mazzini, Scritti letterari, II e III (voll. VIII e XVI dell'Ediz. Nazionale); A. Galletti, Leopardi e A. de V., in Studi di letteratura straniera, Verona 1905; B. Croce, A. de V., in la Critica 1919 (rist. in Poesia e Non poesia, Bari 1923); M. Fubini, A. de V., ivi 1922; L. F. Benedetto, Il Moïse del V., in Scrittin in onore di G. A. Venturi, Pavia 1923. Cfr. anche P. Moreau, Le Romantisme, Parigi 1932 (e dello stesso Le classicisme des romantiques, ivi 1932).
Sulla parte avuta dal V. nella polemica romantica, si veda J. Marsan, La bataille romantique, Parigi 1912; sullo stile del V., E. Barat, Le style poétique et la révolution romantique, ivi 1904; sul Cinq-Mars, L. Maigron, Le roman historique à l'époque romantique, ivi 1898; sull'influenza del Byron sul V., E. Estève, Byron et le romantisme français, ivi 1907. E ancora: P. Flottes, L'influence d'A. de V. sur Lecomte de Lisle, ivi 1928; A. Sessely, L'influence de Shakespeare sur A. de V., Berna 1928.