CATALANI, Alfredo
Nacque a Lucca il 19 giugno 1854 da Eugenio e da Giuseppina Picconi.
Il padre, buon pianista e compositore, allievo di Giovanni Pacini, si era dedicato all'insegnamento privato e pubblico, presso il collegio di S. Ponziano, ove aveva conosciuto e poi sposato Giuseppina Picconi, appartenente ad una distinta famiglia di Cesena. Il matrimonio, se fece abbandonare a Giuseppina la mansione di educatrice nella casa dei nobili Ghivizzano, non la convinse a tralasciare la professione: per aiutare il marito, i cui proventi non erano lauti, fondò un istituto di educazione femminile che divenne uno dei più reputati della città. Eugenio, dopo qualche timido tentativo di composizione, si era dunque votato all'insegnamento, ma migliore talento manifestava il fratello Felice, elogiato dal Pacini nelle sue Memorie. La vocazione musicale dei due fratelli risaliva al padre, il vecchio Domenico, un maestro di musica che, in età tarda, si era limitato alla professione di accordatore di pianoforti.
In questo ambiente, i genitori ma anche lo zio e il nonno consigliarono e indirizzarono il C. alla musica, allo studio del pianoforte: passione spontanea che tuttavia non fu assecondata volentieri dai genitori che avrebbero perso di lì a poco due figli, Roberto (fratello maggiore del C.), interessato e votato alle belle lettere e di sicuro avvenire, e una bambina, Elisa, entrambi colpiti da tisi. Un male, questo, che rimase sempre come un'ansia, prima che un destino, nel C., ragazzo gracile fisicamente, adorato da provvidi ed apprensivi genitori e forse per questo turbato da precoci ed oscuri presentimenti che non poco influirono sul suo carattere, buono, diligente, appartato e pensoso. Presto e bene egli compì gli studi regolari, conseguendo la licenza liceale nel 1871 (anno in cui morì la sorella quattordicenne Elisa) e riportando ottimi voti in lingua italiana ma soprattutto in matematica e scienze naturali. I genitori lo esortarono quindi a proseguire gli studi universitari nella vicina Pisa, ma il C. era andato già da qualche anno manifestando una spiccata passione per la musica ed insistette perché questa inclinazione ereditaria venisse assecondata.
Oltre al preliminare studio del pianoforte, aveva approfondito fin dalla prima giovinezza le nozioni basilari d'armonia e di contrappunto presso l'Istituto musicale di Lucca, sotto la guida di Fortunato Magi, zio di Giacomo Puccini e condiscepolo del padre, che sottopose il dotato alunno a una disciplina assidua e rigorosa. Un grosso tomo di contrappunti manoscritti elaborati dal C. tra il marzo 1869 ed il giugno 1870, mostra, nella nitida scrittura musicale, un ingegno raffinato, una purezza e una chiara cantabilità che preannunciano le doti distintive del maturo compositore. Il quale si cimenta già alla fine del 1870 in alcune prove, quali lo stornello in sol per voce e pianoforte intitolato La viola, altre pagine vocali (Il sogno, Nella, La speranza, Il morente) ed una Mazurca per pianoforte stampate dall'editore fiorentino Venturini, nonché un Andantino per orchestra in la maggiore.
Una Messa in mi minore a quattro voci miste ed orchestra, composta tra l'autunno 1871 e la primavera dell'anno seguente venne diretta (in ottemperanza ad una vecchia tradizione lucchese) dallo stesso C., il 9 giugno, nel duomo: fu questo il suo esordio pubblico, accolto con favore dal pubblico e dalla critica locale, prima ancora di conseguir la licenza presso l'Istituto musicale e rimase altresì l'unica composizione sacra del musicista.
In questa composizione, ove si evidenzia la cultura musicale del giovane C., si possono cogliere vaghi e parchi accenti wagneriani: di quel Lohengrin che l'anno precedente aveva trionfato al teatro Comunale di Bologna e di cui forse lo stesso musicista aveva udito, con altri concittadini, l'immediata replica fiorentina, al teatro Pagliano. Come altri compositori italiani coevi, il C. è entusiasta di Wagner e vien tacciato immancabilmente di "avvenirista",fedifrago per giunta di sacre e venerande tradizioni: ma di wagneriano invero c'è poco o nulla in questa Messa, opera melodicamente raffinata e precorritrice di alcuni accenti del futuro compositore. Ma già questa precoce volontà di allineamento, tipicamente giovanile e fervida, ad una cultura europea e non solo italiana (per giunta conservatrice e provinciale se non spesso asfittica), riesce individuativa del maggior talento del C. e inoltre capace di assicurargli la facile quanto impropria condanna, quella di "wagnerista",che accompagnerà tutta la sua carriera artistica.
Accenti lontanamente riferibili al Rienzi di Wagner sono rintracciabili in una Sinfonia in fa maggiore in un solo movimento (che rivela i limiti in questo genere musicale del C.) eseguita unitamente ad una Romanza per baritono ed orchestra sotto la direzione dell'autore nel luglio 1872. Data che coincide col conseguimento del primo premio in contrappunto e composizione all'Istituto musicale Pacini nonché col concerto organizzato in occasione della distribuzione dei premi. Fu un franco successo, forse l'unico, che gli tributò la città natale, in una cornice festosa di lodi e consenso di critico.
Il livello provinciale offerto dalla vita musicale dei maggiori centri vicini, quali Bologna e Firenze, convinse il C. (diffidente e scontroso nei confronti della preminenza operistica che esercitava la città di Milano) a cercare fuori d'Italia il clima artistico adatto al raffinamento della sua arte, quasi spronato dall'affine destino di altri illustri compositori lucchesi del passato, esuli all'estero, come Geminiani e Boccherini. Il C. alla fine del 1872 partì dunque per Parigi: non molto sappiamo della sua vita nella capitale francese, giacché egli stesso quasi mai parlò anche con gli amici di quel suo soggiorno. Secondo una consuetudine di molti musicisti stranieri già diplomati in patria, il C. frequentò il conservatorio di Parigi, non come vero allievo iscritto ma come semplice uditore. Ammesso senza esami preliminari, seguì, non sappiamo quanto assiduamente, la scuola di composizione diretta da F. Bazin nonché quella di pianoforte di A. F. Marmontel, fervente apostolo e seguace chopiniano e maestro di Bizet, F. Dubois, H. Wieniawski e V. D'Indy. Se consta che il C. fu attratto dal pianista ungherese Ketten, discepolo del conterraneo Heller, non è da escludere che il "petit italien" (come lo chiamavano i condiscepoli affettuosamente), come altri giovani abbia stimato e seguito il solitario e grandissimo César Franck, rinnovatore profondo della musica francese: non fosse che per l'elaborazione personalissima dell'ammirato linguaggio annonico wagneriano. Per tutti questi diretti incontri, l'influenza della scuola d'Oltralpe o meglio il gusto sottile e raffinato (quindi prontamente consentaneo) della musica francese non si cancellò mai del tutto nell'ispirazione artistica e altresì nel linguaggio del musicista lucchese. Il quale, tra l'autunno 1872 e l'estate 1873, seguì i concerti della "Société nationale de musique" dove poté ascoltare gli intermezzi dell'Arlesiana di Bizet, l'oratorio Redenzione di Franck, alcuni poemi orchestrali di C. Saint-Saëns, nonché molta e varia produzione cameristica, vocale e strumentale, tutte opere che certo gli aprirono nuovi orizzonti.
Tornato a Lucca per la visita militare e riformato per la gracile costituzione, il C. decise di riprendere in autunno gli studi, ma in Italia, come allievo "regolare". Si iscrisse perciò al conservatorio di Milano, avendo come maestro di composizione un musicista di prim'ordine, già a suo tempo apprezzato da Schumann come concertista: il bresciano Antonio Bazzini, chiamato dal direttore Mazzuccato come docente nel 1872, che subito palesò una particolare predilezione nei confronti del sensibile e irrequieto lucchese, uno dei suoi primi allievi di rilievo.
Abbiamo detto irrequieto e va subito precisato che il C. seguiva gli'insegnamenti accademici con interesse e scrupolo più che con partecipata convinzione, inalterabile rimanendo un suo istintivo spirito di indipendenza artistica. Quando giunse a Milano, prendendo dimora presso i cugini materni Picconi, la città era centro culturale assai vivo, per la presenza della Scapigliatura. Scomparso da poco il Rovani (come pure il Manzoni), Emilio Praga e Arrigo Boito dominavano l'ambiente letterario, mentre nella pittura gli Induno ed E. Pagliano erano superati dal binomio Tranquillo Cremona-Daniele Ranzoni. Nella musica, dietro l'ombra alta e feconda di Verdi, si muovevano gli spiriti vivaci di Boito (che già aveva conosciuto l'amara sconfitta del suo Mefistofele alla Scala) e di Ponchielli, affiancati dal direttore Franco Faccio e dal critico Filippo Filippi. Il C. si affiatò subito con tutto questo vario ambiente, frequentando anche i salotti milanesi, il più famoso dei quali era quello della contessa Clara Maffei, ove il giovane lucchese venne introdotto dal maestro Bazzini.
In questi primi anni di permanenza a Milano, il C. compose molta musica di genere diverso: non sempre completando e rivedendo le sue opere secondo la norma corrente degli artisti scapigliati. Alcune sue composizioni sono di carattere prettamente accademico: quattro fughe a 4 voci, un'altra Fuga in re minore per quartetto d'archi ed un Quartetto pure per archi in la maggiore (contrassegnato col motto galileiano "provando e riprovando", non fu accettato ad un concorso della Società del quartetto milanese) che recano in calce il "visto" del Bazzini. Risalgono al 1874 anche due romanze per canto e pianoforte Ad una stella e Fior di collina (uno stornello), su testo di C. Pavesi, vistate ancora dal Bazzini, come pure due sinfonie (così da lui qualificate impropriamente, giacché si tratta piuttosto di due quadri o poemi sinfonici) per orchestra: la prima "romantica" in si maggiore intitolata Il Mattino, la seconda "descrittiva" in do minore che ha per titolo La Notte, entrambe in un solo movimento. Queste due prime opere orchestrali vennero elogiate ai saggi scolastici dell'agostodel 1874; ma il C. non tralasciava lo studio del pianoforte, avendo eletto a proprio maestro Carlo Andreoli, già concertista celebre e poi ottimo didatta, senza dubbio nobile musicista. Risale a questo periodo una Sonata in tre tempi e la cantata incompiuta O rea Gomorra, o Sodoma perversa per canto e pianoforte, poi trascritta per orchestra.
Tornato a Milano nel tardo autunno 1874, desolato per la morte del fratello Roberto, il C. trovò conforto nello studio e nell'amicizia di un compagno di conservatorio, l'istriano Antonio Smareglia, mentre Arrigo Boito gli proponeva un suo libretto, l'"egloga orientale" in un atto La Falce, da musicare come saggio finale, a conclusione dei corsi di studio al conservatorio milanese. Dopo varie traversie, l'opera venne presentata al teatrino del conservatorio nell'agosto 1875 sotto la direzione dello stesso compositore, essendo il maestro Faccio impegnato fuori d'Italia: replicata per tre sere, ebbe esito felice con sapore di scandalo, tra gli elogi cauti del critico Filippi e le solite accuse di wagnerismo. Il prologo sinfonico di quest'opera, diretto da F. Faccio alla Società del quartetto il 26 dicembre di quell'anno, procura al C. le lodi di E. Reyer, successore di Berlioz come critico del Journal des Débats, chegiunse a scrivere "il n'y a pas en France un seul jeune homme qui pourrait aujourd'hui en faire autant"; ma soprattutto consentì al giovane musicista una raccomandazione importante del suo maestro Bazzini presso l'editrice Giovannina Lucca, la coraggiosa competititrice della casa Ricordi, la quale acquistò la partitura della Falce, che pubblicò nel 1876, e corrispose al C. un piccolo stipendio con l'impegno di comporre tosto un'opera in vari atti. Gesto generoso che fece del musicista lucchese un potenziale antagonista di Verdi e preparò la loro mutua incomprensione.
Il C. frattanto aveva composto alcune pagine per canto e pianoforte: la celebre Chanson groënlandaise in mi minore (1877-78) su testo di J. Verne (poi inclusa nell'opera Wally per la celebre romanza "Ebben? Ne andrò lontana") ed inoltre Sognai (U.Bassani, 1877), L'odalisque per soprano in sol diesis minore (A. Master, da Th. Moore, 1878), In riva al mare (E. Panzacchi, 1878) e Il m'aimait tant in la minore (1879), nonché L'extase in mi bemolle maggiore (da V. Hugo, 1876), La Primavera in la bemolle maggiore per coro a 4 voci (1877), e infine due pagine per orchestra, uno Scherzo in la maggiore e Contemplazione in si bemolle maggiore (entrambi eseguiti dal Faccio al Trocadéro di Parigi nel 1878, durante i concerti per l'Esposizione). A quel tempo il C. aveva trovato nel libretto di Carlo d'Ormeville Elda (tratto dalla ballata Lore Lay di C. Brentano) un soggetto particolarmente consentaneo, romantico e fantasioso. Il lavoro lo assorbì per circa due anni, appassionatamente, ma con pause dovute al manifestarsi dei primi sintomi del male ereditario che lo costrinsero a cercare riposo nei luoghi di montagna. Nel 1878,composte alcune pagine pianistiche (lo Scherzo- Tarantella in la maggiore, Le Rouet in mi maggiore, Aspirazione, valzer in do diesis minore, Rêverie in fa diesis minore, Notturno in sol diesis minore, Se tu sapessi in fa minore, tutti del 1878-79; ed inoltre, a quattro mani, la Serenata in fa maggiore e Ricordi campestri in la bemolle maggiore, 1878-79), l'opera Elda era terminata, ma Giovannina Lucca, giudicando inaccessibile il teatro alla Scala, gli preparò un incontro torinese con Carlo Pedrotti nonché con Giovanni Depanis, impresario del teatro Regio, insieme col figlio Giuseppe, che diverrà uno degli amici più sinceri del Catalani. A causa di alcune varianti consigliate dal Pedrotti, Elda saltò una stagione e venne programmata in quella successiva; finalmente, il 31 genn. 1880 il dramma fantastico in 4 atti ebbe la prima esecuzione, sotto la guida del Pedrotti al teatro Regio di Torino, ottenendo nove repliche. Il C. rientrò tosto a Lucca col padre per riposarsi e progettare una nuova opera, commessagli dalla sempre entusiasta Giovannina Lucca.
La. lirica Le gondolier, in sol maggiore (C. Delavigne) ed altri pezzi pianistici (In sogno in la bemolle maggiore, poi trascritto per violino, la barcarola Ricordo di Lugano in fa minore), che risalgono al 1880-82, sono composizioni di attesa, se non di maniera: certo, il miglior ritratto del compositore l'aveva lasciato l'amico Tranquillo Cremona, prima di spegnersi nell'estate del 1878 a Milano: quella tela intitolata L'edera, che vede il musicista abbracciare la sua superba e inaccessibile musa. Il C. ritornò a Milano nella primavera dell'anno 1881, ritemprato, ma privato di un ambiente amico: ricorse ancora a Boito che, dedito com'era a Verdi, solo gli suggerì il nuovo libretto di Dejanice, consigliandolo di rivolgersi al veneziano Angelo Zanardini, librettista di Ponchielli. Questi accettò e il C. si accinse con entusiasmo a musicare Dejanice, un soggetto che segnava l'abbandono momentaneo di climi romantici forse adombrando qualcosa di autobiografico. Ultimata nel 1882, l'opera venne inclusa, grazie all'intercessione indomita della Lucca, nella stagione scaligera e rappresentata il 17 marzo 1883. Dejanice, che il C. giudicava sua "figlia prediletta",piacque ma non convinse del tutto il pubblico, come annotò il giovane Puccini che pure la giudicò (come poi Mahler) "artisticamente bella",trovando dello stesso avviso il critico Filippi (Gatti, 1953).
Il 6 novembre di quell'anno il C. perse il padre e di lì a poco la madre, che si era trasferita con lui a Milano (3 apr. 1884). Cominciarono così gli ultimi dieci anni di calvario, durante i quali, vieppiù minato dalla tubercolosi, manifestò anche il desiderio di ritirarsi in convento. Così almeno accenna il Barbiera, descrivendo il salotto della contessa Maffei frequentato anche dal giovane compositore smunto e diafano, apprezzato pianista. Gli incitamenti del maestro Bazzini nonché della Lucca rinfrancarono infine il C., che, rifiutata la collaborazione dello Zanardini, ottenne un libretto da quel vecchio scapigliato che era Antonio Ghislanzoni, già in precedenza sollecitato: Edmea, una pièce storica che si svolge nella Boemia del Seicento, tratta da Les Danicheff di Alessandro Dumas figlio e Pierre de Courvin Kroukowsky.
La composizione dell'opera in 3 atti fu ritardata dalle condizioni di salute precarie del musicista, obbligato a trascorrere prolungati soggiorni in montagna, tra l'Engadina e la Valtellina. Intanto l'unico poema sinfonico del C., Ero e Leandro, composto nell'estate 1884 a Gais nell'Appenzell, "sotto l'impressione di quelle immense montagne",come scrisse all'amico Depanis, venne eseguito sotto la direzione di Franco Faccio alla Scala di Milano, il 9 maggio 1885: l'esito fu favorevole, ma anche questa composizione non entrò in un repertorio stabile. L'Edmea venne ultimata alla fine del novembre 1885 e inclusa nel cartellone della stagione 1885-86 del teatro alla Scala: per garantirne il pieno successo, l'avveduta Giovannina Lucca si assicurò un'interprete prestigiosa, il soprano Virginia Ferni Germano. Il silenzio operativo di Verdi (intento alla stesura di Otello)e la morte di Ponchielli, avvenuta il 16 genn. 1886, conferirono alla nuova opera del C. una luce e un'attenzione particolare. Concertata e diretta da Franco Faccio, interpretata ottimamente dalla celebre Virginia Ferni, l'opera ottenne alla Scala (27 febbr. 1886) un successo vibrante, che trovò la critica benevola e concorde a porre in rilievo la vera personalità del compositore, capace di delineare un personaggio veramente umano oltre che di caratterizzare la propria arte. Il successo, confortato dalle lodi di Puccini già intento all'Edgar, rinfrancò il C. che a marzo si recò a Nizza per sentire le prove di Ero e Leandro e per concertare una possibile rappresentazione autunnale di Dejanice. Il 4novembre dello stesso anno, al teatro Carignano di Torino, Edmea veniva diretta dall'esordiente Arturo Toscanini, che da allora diventò amico intimo del musicista.
La morte di Ponchielli aveva reso vacante la cattedra di composizione al conservatorio di Milano e il Bazzini, che ne era direttore dall'82, sollecitò il C. a concorrere per la successione; pur turbato da piccole invidie che la notizia della sua candidatura aveva suscitato, il C. concorse vincendo in tema con A. Scontrino e V. Ferroni; la commissione, comprendente il Bazzini, lo sostenne presso il ministero: ma la nomina ufficiale, quando giunse in aprile, aveva carattere provvisorio, ossia era condizionata a un anno di prova. Buon maestro, nonostante le molte assenze sempre giustificate dal Bazzini, fu amato dagli allievi: ma la libertà se non la spregiudicatezza l'indirizzo artistico, d'altronde sulle orme della tradizione del suo stesso vecchio insegnante, veniva criticata dalla corrente verdiana. E il prestigio di Verdi, dopo la scomparsa di Wagner, acquistava intanto una portata europea con la prima rappresentazione di Otello alla Scala (5 febbr. 1887). L'assenza del C., recatosi a Trieste per una rappresentazione di Edmea, apparve così significativa a un pubblico pronto a trasferire la cifra fisica dell'autore alla sua musica: ammalata come lui, gradatamente avvolta nel silenzio. Invece il C., accogliendo il consiglio di Giuseppe Depanis, veniva trasformando l'opera Elda nella nuova Loreley (azione romantica in 3 atti), secondo una revisione ed un ricupero del proprio talento migliore, della propria natura artistica più alta ed individuale. Ricupero che si manifestava, oltre che con la composizione occasionale di brani cameristici (Serenata andalusa e Danza caratteristica per violino, e pianoforte, dedicate nel 1887 ai violinisti Naschéz e Sarasate) e di liriche (Senza baci e La pescatrice, su testi della Contessa Lara e di Heine), anche con la ristampa di pezzi pianistici composti in precedenza e raccolti, con altri nuovi (In gondola in la bemolle maggiore del 1885, Un organetto suona per la via in mi bemolle maggiore e Sotto le tue finestre, serenatella in re maggiore, entrambe del 1887; Canto di primavera in si bemolle maggiore e A te in sol bemolle maggiore, entrambe del 1887-88; Sans-souci in la maggiore del 1888), in un album intitolato Impressioni (edito da Ricordi nel 1889): dieci pezzi, oltre ai quali spicca una pagina inedita ed isolata in sol minore, composta nel 1888 e pubblicata sul periodico Paganini di Genova. Asera è,se non il più celebre, appunto il pezzo più toccante, delicato e struggente, vero gioiello di tardo romanticismo italiano, esatto parallelo d'una vicina poetica crepuscolare: trascritto per quartetto d'archi nel 1890 (con la Serenatella in re maggiore, tratta dalle Impressioni pianistiche), esso costituirà, poi, il suggestivo e penetrante preludio al terzo atto di Wally.
La nuova opera Loreley, tratta si diceva da Elda (il libretto fu ridotto ancora dallo Zanardini da quattro atti a tre, mentre la vicenda fu ripristinata nei luoghi veri della leggenda, ossia sul Reno), era intanto compiuta nel novembre 1888, ma non venne più stampata dalla sempre amica Giovannina Lucca. La coraggiosa e intraprendente editrice, ormai anziana, aveva ceduto nel maggio 1888 ogni sua edizione alla Ricordi, la grande casa rivale, raccomandando particolarmente il Catalani. Il quale fu anche interpellato da un altro editore, quell'Edoardo Sonzogno che, qualche anno più tardi, doveva lanciare nuovi musicisti di valore, quali Mascagni, Giordano e Cilea. Mentre Loreley attendeva di essere pubblicata ed eseguita e mentre Puccini alla Scala (con Edgar) non suscitò entusiasmi, il C. venne attratto da un racconto tedesco di Wilhelmine de Hillern, Die Gaier-Wally (Eine Geschichte aus den Tiroler Alpen), ovvero La Wally dell'avvoltoio, tradotto e pubblicato a puntate dalla Perseveranza diMilano: un argomento a sfondo romantico che piacque anche a Boito ed a Giacosa. La stesura del libretto venne affidata a Luigi Illica che il C., libero da impegni editoriali e quindi senza previ compensi, si vide costretto a pagare di propria tasca. Frattanto, una relazione sentimentale del C. con la giovane Luisa, figlia dei cugini Picconi, conosciuta durante lunghi periodi di villeggiatura a Montereggio in Brianza, per poco non finiva drammaticamente: il musicista ammalato ritornando ad una vecchia e mai interrotta relazione con Teresa Junck (moglie d'un suo amico dei primi anni milanesi) e la giovinetta delusa intristendo fino ad ammalarsi e quasi morire. Quanto simili riferimenti autobiografici di questa storia rientrino non solo nell'espressione musicale, ma anche nella stessa vicenda dell'opera Loreley, riesce davvero sorprendente: ma una volta di più il rilievo esprime, a nostro avviso, il clima di crepuscolarismo ormai presente, occultamente, nella cultura italiana.
Nel 1890 Giuseppe Depanis, seguendo l'esempio del padre da poco scomparso, divenne impresario e per aiutare l'amico C. riuscì, il 17 febbraio, a programmare Loreley al teatro Regio di Torino. Nonostante che un'influenza contagiasse alcuni interpreti, l'opera fu eseguita sotto la direzione di Edoardo Mascheroni e accolta con un successo che si accrebbe durante le rappresentazioni successive.
Piacque soprattutto la danza delle Ondine, certo la pagina migliore dell'opera e certo una delle più celebri del C., dall'orchestrazione trasparente e raffinata, ricca di un lirismo delicato e descrittivo accostato giustamente ad espressioni pittoriche di un Previati e magari di certi macchiaioli: l'esatto rovescio della medaglia nei confronti dell'altrettanto nota danza delle Ore ponchielliana, pagina esuberante e decorativa. Ancora una volta lo schietto melodismo e la musicalità raffinata intervenivano a salvare un mediocre libretto nonché una romantica vicenda leggendaria scaduta di moda, già lontana dal gusto popolare. Né mancarono le solite critiche di wagnerismo, miopi quanto improprie, sempre accusate dall'apprensivo musicista, soprattutto dopo il probante trionfo romano della Cavalleria rusticana di Mascagni, nel maggio dello stesso anno.
Sentendosi segregato a Milano, nonostante che il Bazzini continuasse a giustificare le frequenti assenze dalle lezioni al conservatorio, il C. pensò allora alla mansione di direttore presso i conservatori di Parma e quindi di Pesaro, senza tuttavia mai porre la propria candidatura.
Terminata Wally nella primavera del 1891, con entusiasmo nonostante il declinare della salute, in estate il C. accompagnò il pittore Hohenstein nel Tirolo, ove appunto la vicenda si svolge, per approntare dal vero paesaggi e "figurini" dei personaggi e preparare insomma l'ambiente dell'opera. Risale a quel periodo un Tempo di waltzer (alla tedesca) per pianoforte a quattro mani e forse l'Inno degli Alpinisti per coro e banda. L'editore Ricordi volle ascoltare la nuova opera del C.: ne restò convinto e la acquistò per la somma di ventimila lire pagabili in tre rate, riuscendo altresì a ottenere che essa venisse inclusa nella stagione scaligera di carnevale. Iniziate le prove in dicembre, con una buona compagnia di cantanti in cui spiccava la romena Ericlea De Hartulary Darclée, il 20 genn. 1892 Wally (con scenografie dipinte dallo Zuccarelli) venne eseguita al teatro alla Scala sotto la direzione ancora del maestro Edoardo Mascheroni. Essa gradualmente convinse ed infine entusiasmò il pubblico, come ricorda l'allievo Carlo Gatti.
Se l'ambiente terso e luminoso molto trattiene dell'amore per l'alta montagna di Giovanni Segantini, vivificato da pezzi lirici (il preludio al terzo atto A sera, la celebre romanza "Ebbene, ne andrò lontana",tratta dalla Chanson groënlandaise del 1878), nonché da melodie popolari tirolesi scandite su canti Jodler e ritmi Laendler di fresca immediatezza, certo il personaggio di Wally riesce assai delineato, vero centro focale dell'azione, in una cornice popolare (oltreché naturalistica) resa con vivace destrezza.
Il C. lasciò l'opera, discussa dalla critica, alle repliche e si recò a Genova in febbraio per le prove della Loreley:qui, al palazzo Doria, fu accolto affabilmente da Verdi, intento a comporre Falstaff. Dirigeva Toscanini, con successo entusiastico, ma Verdi non era presente.
Nell'agosto 1892, a Bagni di Lucca, conobbe Giovanni Sgambati, che aveva apprezzato Ero e Leandro eseguito con la sua Sinfonia alla Scala qualche anno prima dal Faccio. Toscanini diresse la Wally a Lucca in settembre e il mese successivo a Genova, riportando un altro successo che infastidì Verdi. Il C. si recò ad Amburgo per sentire Wally il 16 febbr. 1893, mentre ancora Toscanini portava in trionfo la Loreley a Palermo. Quando il C. rientrò a Milano colse gli echi del successo della Manon pucciniana, eseguita al Regio di Torino. Pensò a una nuova opera, Nella selva (libretto ancora di Illica), assisté gli allievi di conservatorio ai saggi di composizione, ma la salute declinava rapidamente e a Faido, sulla linea ferroviaria del Gottardo, lo colse una violenta emottisi che lo costrinse a ritornare subito a Milano. Solo Toscanini gli fu accanto durante le ultime ore, ma fu Illica ad accoglierne le parole estreme, prima della morte, avvenuta il 7 ag. 1893. È sepolto a Lucca nel cimitero di S. Anna, fuori di porta S. Donato.
Dei vari busti commemorativi, il più bello è certo quello plasmato da Paolo Troubetzkoy, già conservato nella galleria artistica dell'Ospedale maggiore di Milano. Nella stessa città, sulla facciata della modesta casa di via Cernaia 19, fu posta una lapide di marmo e Giovanni Pascoli, spiritualmente assai vicino al musicista, dettò l'epigrafe: "Apparve per brevi anni - Guardando intorno in alto in sé - Trasse d'oltre la vita - Dejanice Edmea Loreley Wally - Riportò agli uomini dolci note - Che il cuore non ricordava e riconobbe e non oblia - Pende dal salice l'arpa ma cantano ancora le corde - Tocche da dita che i nostri occhi non vedono più".
L'opera del C., tacitata e oppressa dall'invadenza vittoriosa del melodramma verista, ebbe fortune alterne (solo Toscanini ne fu apostolo fedele) prima di ottenere una retta qualificazione critica: quasi che la natura schiva e umbratile dell'artista, la sua malattia fisica che si faceva spirituale, l'infelice e insoddisfatta frustrazione di parecchie aspirazioni condizionassero il suo talento e il suo innato sentimentalismo a una sorta di monotonia espressiva, di labilità psicologica, come privata nella resa drammatica di una stagione veramente matura e riflessiva quale la sola Wally aveva saputo schiudere. Tuttavia, il suo inoffensivo proposito di cercare il "vero" nel senso zoliano, condotto senza quegli spunti polemici tipici della Scapigliatura (ambiente a cui il musicista si era pure accostato, almeno preliminarmente), chiarisce oggi il punto di flessione del gusto operistico italiano del tardo Ottocento, fuori dal solco verdiano e oltre la retorica e variopinta esperienza teatrale di Ponchielli. Fu, la sua, una posizione più prossima alle arti figurative (Cremona, Previati, Sartorio, Segantini) e alla poetica pascoliano-decadentista, che non al gusto operistico corrente: giacché lo schema dell'opera italiana venne da lui rispettato solo convenzionalmente, essendo la sua ispirazione soccorsa piuttosto da meditate e personalizzate tendenze straniere, tra il primo Wagner e l'opera francese del giovanile Bizet fino a Massenet. In tal senso l'arte educata, raccolta e gentile del C. costituisce l'indice più emblematico di un'inversione curiosa alla tendenza "meridionalistica" che a fine secolo interessava tanta parte d'Europa con l'internazionalismo della moda spagnola o con l'ambientazione mediterranea di tanto verismo, attratto anche da certi richiami d'Oriente. Con il C. invece si fa sentire anche in Italia il richiamo del Nord, caro a certa poetica di Prati e Aleardi ed altresì vivo nella pittura alpestre di Segantini: climi settentrionali che aprivano solitarie ma avvincenti esplorazioni nei misteri della leggenda (anche il Puccini delle Villi ed il Franchetti di Germania, oltre a certo Zandonai, subiranno questo fascino), intesa come rifugio istintivo, simbolizzato in una vita arcaica, semplice e nativa. Inedita apertura (o evasione) culturale che vagheggia, sulla scorta di un idealismo prettamente romantico, l'ingenuità come virtù vera di poesia e l'unica soprattutto capace di raggiungere il sapore autentico della "Natura". Per questi fattori il C. riesce la figura più indicativa del Romanticismo nel teatro musicale italiano, ma Romanticismo spontaneo e non cosmopolita, scevro di quelle velleità per lo più letterarie che ebbe un Boito. Condiziona, piuttosto, l'arte del C. certa vocazione lirica di stampo salottiero (presente nelle pagine pianistiche e vocali) che soltanto immagina il segno dell'eroismo, che appena sfiora il sapido gusto popolaresco che da Ponchielli giunge al verismo pur sfumato del conterraneo Puccini: in essa vive tutta una "voluttà" di sogno e d'ideale che la "curva minore" del tardo Ottocento italiano denuncia come Romanticismo minato e debilitato d'illusioni, cui basta un piccolo mondo d'evasioni minute, di espressioni struggenti, di ricercatezze esauste, di sfumati toni pittoreschi, di passionali ma repressi abbandoni. Una disposizione prettamente crepuscolare, che dispone dei prediletti riflessi intimistici che tanta Europa andava desumendo dai modelli di Schubert e Mendelssohn, da Schumann e Chopin calandoli ora nei più accesi contesti wagneriani-massenetiani; ma che viene anche al C. da una congenita mestizia toscana (comune a certo Puccini) tutta e spesso pervasa di sognante nostalgia, di precoce fatalismo di malattia e morte, priva comunque d'ogni perversità decadentistica. Questa nostalgia accorata, quest'aristocratica melanconia diviene ambientazione stabile e penetrante, capace di condizionare i personaggi catalaniani, diafani ma ricchi di dimensioni interiori, nonché capace di investire svariati cascami melodrammatici desunti senza ambizione ed eclettico proposito: ove il superamento dell'opera divisa in tanti "pezzi chiusi" (che si avverte in Wally) costituisce la caratteristica più pertinente ed insieme il messaggio più profondo e vivo dell'arte del Catalani. La cui posizione storica rimase virtuale, troppo poco maiuscola essendo la sua personalità umana, incapace di attuare un autentico rinnovamento dell'opera italiana; forse la sua breve esistenza, angosciata e sofferta, quella giovinezza come continuamente differita fino alla morte sempre attesa e sempre prematura, impedirono al C. di mutare imprevedibilmente l'itinerario e le fortune dell'opera italiana, dopo Verdi e prima dei poco più giovani esponenti del verismo.
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