FRASSATI, Alfredo
Nacque a Pollone, presso Biella, il 28 sett. 1868.
Il padre Pietro (1824-1899), oltre a esercitare la professione di medico, ricoprì vari incarichi, tra cui quello di direttore-economo dell'ospizio di Loano. La madre, Giuseppina Coda-Canati (1844-1933), apparteneva a una famiglia benestante e aveva ereditato dallo zio Pietro Paolo Coda-Canati, amico di Q. Sella e vicepreside della R. Accademia di Superga, una proprietà immobiliare.
Terzogenito dopo i fratelli Pietro ed Emma, il F. dopo aver conseguito la licenza liceale nel 1886, intraprese gli studi giuridici presso l'università di Torino. Fin dall'ultimo anno di liceo cominciò a lavorare presso il settimanale di Biella l'Ecodell'industria, fondato nel 1872. Nel 1889 il F. entrò a far parte della società proprietaria del giornale e introdusse alcune modifiche all'impostazione dello stesso. Collaborava già alla Gazzetta piemontese (dal 1888), alla Gazzetta letteraria, alla Perseveranza di Milano e alla Gazzetta del popolo della domenica, dimostrando una certa predilezione per i temi di carattere politico, ma destreggiandosi con acuto spirito critico anche in campo letterario.
Nel novembre 1888, non ancora laureato, si recò a Heidelberg dove frequentò per sei mesi un corso di diritto penale. L'ambiente universitario, il livello dei docenti e la loro disponibilità lo entusiasmarono. Frequentava i corsi di diritto penale, imparava il tedesco e iniziava due lavori in lingua tedesca sulla nuova scuola di diritto penale in Germania e su Cesare Lombroso. Nella primavera del 1889 partecipò a un concorso, presentando il risultato delle sue ricerche. Il lavoro fu giudicato molto buono, particolarmente per la parte storica, anche se incompleto per quanto riguardava l'impianto teorico. Nell'aprile 1889 fu costretto a rientrare in Italia per assolvere agli obblighi di leva.
Nello stesso anno il F. pubblicò a Torino il saggio Le donne elettrici in rapporto alla vita sociale e alle condizioni presenti in Italia, in cui si pronunciava contro la concessione del diritto di voto alle donne, ritenendo che attraverso il suffragio la forte influenza clericale esercitata sull'elemento femminile potesse giungere a minacciare la laicità dello Stato. Era già chiaramente delineato nel F. un anticlericalismo rigoroso che negava alla religione e alla Chiesa il diritto di sconfinare dalla sfera spirituale in quella politica. Il 9 giugno 1890 conseguì la laurea in giurisprudenza a pieni voti e poco dopo vinse una borsa di perfezionamento in diritto penale. Si recò nuovamente in Germania (novembre 1892) dove seguì per quattro semestri consecutivi corsi di perfezionamento in diritto penale presso l'università di Berlino. In occasione di questo nuovo soggiorno in Germania la Gazzetta piemontese gli offrì l'incarico di corrispondente.
In tale veste il F. si interessò particolarmente al problema dell'antisemitismo nella società e nella politica della Germania guglielmina e agli indirizzi di politica interna e di politica estera espressi dal cancelliere G.L. Caprivi di Caprara, successo nel 1890 a O. von Bismarck-Schönhausen. Nelle sue corrispondenze egli mostrava una sostanziale sfiducia nei confronti del "nuovo corso" inaugurato dal generale tedesco, dimostrandosi fervido ammiratore dell'opera del Bismarck, di cui auspicava il rientro sulla scena politica.
Nello stesso anno (1892) pubblicò Lo sperimentalismo nel diritto penale (Torino) e iniziò a collaborare alla rivista Diritto penale. Conseguì la libera docenza in diritto penale il 9 maggio 1897 presso l'ateneo torinese.
Quando il F. rientrò in Italia, agli inizi del 1894, trovò La Gazzetta piemontese in gravi difficoltà finanziarie. Egli ricorse a sua madre per un prestito di quindicimila lire con cui pagare almeno una parte dei debiti contratti dal giornale. L'intervento non servì, tuttavia, a migliorare in modo significativo la situazione finanziaria del foglio filogiolittiano e solo qualche mese più tardi, nell'estate del 1894, il direttore, L. Roux, riuscì a estinguere i debiti con l'editore Favale. Nel frattempo il F. aveva fatto ritorno a Berlino dove lo raggiunse la proposta del Roux di entrare a far parte del giornale in qualità di socio. Nonostante il parere sfavorevole del fratello Pietro e dopo una serie di trattative sul cambiamento della testata, da lui sollecitato ma inizialmente osteggiato dal Roux, il 31 dic. 1894 il F. firmò la convenzione in base alla quale diventava comproprietario della casa editrice (la Società in nome collettivo si costituì ufficialmente solo il 13 nov. 1899): il nuovo giornale si chiamò La Stampa - Gazzetta piemontese.
Il 1° genn. 1895 il quotidiano apparve con la nuova testata e nel numero del 7-8 gennaio, rispondendo anche alle critiche di alcuni colleghi della Gazzetta piemontese, il F. spiegava il senso del cambiamento e tracciava il programma del giornale.
Egli sottolineava come nello Stato moderno la stampa fosse ormai destinata a diventare "una forza nuova, ogni dì più potente, che non conosce confini nel suo orizzonte", e come dovesse porsi al servizio della "coscienza pubblica", vigilare affinché questa non fosse deviata dagli "interessi", dalle "passioni", donde la necessità di "varcare materialmente i confini del nostro vecchio e amato Piemonte". Il 30-31 marzo 1895 il quotidiano uscì con la testata ulteriormente rinnovata, La Stampa Gazzetta piemontese. La modificazione dei caratteri di stampa dava un risalto maggiore al titolo rispetto al sottotitolo. Sul numero del 31 marzo - 1° aprile apparve per la prima volta il nome del F., vicedirettore, accanto a quello del Roux, direttore, e di Giuseppe Bellino, gerente. Contemporaneamente al rinnovo della testata il F. introdusse un'altra novità, l'articolo di fondo in prima pagina.
Le continue preoccupazioni di carattere finanziario, i connessi contrasti con il Roux, il faticoso impegno amministrativo resero il 1895 e il 1896 anni particolarmente impegnativi per il Frassati. La sua intenzione di cedere la Casa editrice Roux Frassati & C. e la libreria L. Roux & C., facenti parte della proprietà, per dedicarsi esclusivamente al giornale, causò dal 1894 fino a tutto il 1897 ulteriori motivi di tensione con il socio.
Dal 1895 il giornale divenne il portavoce del pensiero del F. sui contenuti e sui metodi dell'azione politica necessari allo Stato per affermare un'autentica democrazia liberale. Da questo momento la sua visione di uno Stato espressione di una classe dirigente rigorosa e coerente nell'affermazione di un liberalismo avanzato, capace di confrontarsi e di resistere tanto agli attacchi del moderatismo di stampo sonniniano quanto a quelli del socialismo, troverà sulle colonne del giornale la sua espressione più consapevole e impegnata. L'orientamento politico del giornale già negli ultimi anni del secolo esprimeva fedelmente la volontà del F. di fare di un quotidiano di grande informazione anche uno strumento capace di affermare la funzione pedagogica e civile del liberalismo. La novità rappresentata dal quotidiano torinese è testimoniata anche dalla rigorosa battaglia condotta dal 1897 in poi contro la massoneria, che con le sue influenti ramificazioni nelle istituzioni e nella stampa dell'epoca e con la sua concezione dello Stato come strumento di affermazione dei propri affiliati, rappresentava agli occhi del F. la negazione dei principî liberali.
Il quotidiano torinese continuò a difendere l'immagine e la linea politica giolittiana anche nel corso del 1895, in relazione agli ulteriori strascichi giudiziari della vicenda della Banca Romana, e denunciò ripetutamente che i capi d'imputazione ancora pendenti su Giolitti erano funzionali all'interesse del nuovo ministero Crispi di impedire a Giolitti un ruolo attivo tra le file dell'opposizione.
La tragica sconfitta di Adua (1° marzo 1896) e la conseguente tensione creatasi nel Paese provocarono le dimissioni del gabinetto Crispi che La Stampa accolse con sollievo. Nei mesi successivi il giornale dette ampio risalto alle trattative avviate dal nuovo governo di Rudinì con il negus per giungere a un trattato di pace (novembre 1896) e seguì con attenzione l'evolversi della situazione politica interna, soprattutto in relazione all'appoggio fornito da Giolitti al ministero in carica e all'esito delle elezioni del marzo 1897.
L'avanzata dei socialisti e dei radicali, salutata dal Corriere della Sera come una sconfitta del giolittismo, era considerata dalla Stampa come la dimostrazione che Crispi non era riuscito a interpretare e a dare risposta al malessere delle classi lavoratrici, mentre il governo Giolitti era stato combattuto proprio per aver prospettato "provvedimenti finanziari e di ordine sociale". Contro il "disastro insanabile" del crispismo il giornale prospettava la possibilità di un confronto programmatico, mai ideologico, con il socialismo.
Nell'estate 1897 il F. affiancò alle funzioni di vicedirettore un crescente impegno più propriamente giornalistico e di studio sui temi di politica estera (in particolare sulla posizione dell'Italia nell'equilibrio delle potenze europee negli ultimi venticinque anni). L'interesse per la politica internazionale si era delineato in lui fin dai tempi dei primi soggiorni berlinesi ma solo da questo momento egli avvia un'analisi approfondita tanto delle implicazioni immediate quanto di quelle a più lungo raggio delle scelte di politica estera dell'Italia.
Partendo da una riflessione sugli effetti dell'alleanza militare franco-russa del 1894 (la Duplice) sulla Triplice Alleanza tra Austria-Ungheria, Germania e Italia, dal 1882 punto di riferimento dell'azione internazionale del nostro Paese, il F. giungeva alla conclusione che la nascita della Duplice aveva conferito alla Francia un ruolo completamente diverso da quello rivestito in precedenza. Uscendo dall'isolamento di fatto essa aveva creato, insieme alla Russia, un vero e proprio contraltare alla Triplice. Tale stato di cose non garantiva più la pace in Europa e pertanto richiedeva che l'intero sistema di alleanze fosse rivisto, al fine di giungere a un nuovo equilibrio europeo. In linea con l'idea avanzata da un altro illustre piemontese, il conte Di Robilant, ministro degli Esteri dal 1885 al 1887, il F. auspicava la costituzione di tre "duplici": una franco-russa, una austro-tedesca e una italo-britannica. La tesi suonava come critica e sfida a un indirizzo della politica estera italiana ormai consolidato e ritenuto immodificabile. L'insistenza con cui il F. continuò a sostenere che la Triplice non rispondeva più ai reali interessi dell'Italia, che gli sembravano meglio tutelati dalle prospettive che l'Inghilterra avrebbe potuto offrirle nel Mediterraneo, provocò la risentita reazione degli ambienti politici e della stampa più accesamente triplicisti.
Il 5 sett. 1898 il F. sposò la cugina Adelaide Ametis. Dall'unione sarebbero nati Elda (1900), morta di otto mesi, Pier Giorgio (1901-1925) e Luciana (1902).
Nel settembre 1898 e nell'aprile 1899 il F. rappresentò l'Italia al V e al VI Congresso internazionale della stampa che si tennero rispettivamente a Lisbona e a Roma. In occasione del convegno romano maturò in lui l'idea di fondare anche in Piemonte un'associazione della stampa, sul modello di quelle già esistenti a Milano, Firenze e Palermo.
Il 23 apr. 1899 a Torino venivano gettate le basi dell'Associazione della stampa subalpina e chiarite le sue finalità di tutela degli interessi e della dignità del giornalismo. Da quel momento il F. avrebbe dedicato costante attenzione alle problematiche di carattere deontologico, giuridico e previdenziale connesse all'esercizio della professione giornalistica (responsabilità giuridica del gerente, riposo settimanale, istituzione di una cassa di previdenza per la categoria, ecc.).
Nel novembre 1898 il Roux era stato nominato senatore e nel 1900 Giolitti lo richiamò alla guida del quotidiano romano La Tribuna che egli aveva già diretto. All'inizio di ottobre, dopo una lunga trattativa, La Stampa fu acquistata da una società, in cui la Roux - Frassati & C. entrò a far parte con responsabilità limitata. Un terzo della proprietà venne acquistata dal finanziere E. Pollone mentre i due terzi andavano al F., il quale assunse anche la carica di direttore del giornale.
In questa nuova veste egli avviò una serie di innovazioni di carattere organizzativo, amministrativo e contabile che nel giro di pochi anni avrebbero fatto del giornale torinese uno dei più autorevoli quotidiani italiani.
Oltre a dedicarsi con puntigliosa attenzione a rendere più oculata l'amministrazione del giornale e a risanarne il bilancio, coadiuvato dal fratello Pietro che egli aveva fatto assumere, il F. rinnovò e ampliò lo staff dei collaboratori, potenziando soprattutto il numero degli inviati, riorganizzò l'impostazione tecnico-giornalistica del quotidiano, si procurò la collaborazione di esperti di economia, di politica estera, di cronaca, di cultura, arte e spettacolo e favorì il costante adeguamento dei macchinari e delle tecniche ai progressi della più avanzata industria tipografica. La costante crescita della tiratura del giornale e l'aumento del numero delle pagine, che nel 1907 sarebbero diventate otto, testimoniano l'efficacia dello sforzo compiuto. Nel 1906 egli acquistava, per circa centomila lire annue, il diritto di pubblicare contemporaneamente al Times e al Matin i telegrammi che pervenivano alle redazioni dei due quotidiani esteri da ogni parte del mondo, ovviando così agli alti costi di trasmissione dei messaggi telegrafici diretti. La nascita di nuove rubriche, l'attenzione dedicata alla nuova arte cinematografica, l'offerta di abbonamenti cumulativi con altri giornali a prezzi particolarmente convenienti, l'indizione di concorsi a premi tra i lettori, la stampa di supplementi illustrati (il primo fu La Stampa sportiva, uscito il 19 genn. 1902 in 16 pagine) contribuirono a fare della Stampa un giornale destinato a un pubblico sempre più vasto ed eterogeneo. Tra le "firme" che tra gli ultimi anni del secolo e il primo decennio del Novecento collaborarono al quotidiano torinese troviamo Luigi Einaudi, Virginio Gayda, Edoardo Arbib, Benedetto Cirmeni, Cesare Sobrero, Giuseppe Bevione, Giuseppe Antonio Borgese, Bergeret (pseudonimo di Ettore Marroni).
La sostanziale condivisione da parte del F. del progetto politico che ispirò l'azione di Giolitti negli anni del suo "lungo ministero" trovò un preciso limite in relazione ai temi di politica estera. Egli assunse, infatti, toni fortemente critici verso l'inerzia e l'episodicità della politica estera giolittiana, a suo giudizio barcollante tra opposte direzioni e come tale poco credibile, quando non arrendevole di fronte alle violazioni degli accordi operate dagli stessi alleati dell'Italia (come avvenne nel 1908 in occasione della crisi bosniaca, allorché l'Austria si annetté la Bosnia senza che il governo italiano reagisse in alcun modo).
Il F. chiedeva una politica basata su un'azione diplomatica vigilante e coerente, su una serie di azioni e di accordi che tutelassero gli interessi dei nostri produttori (mercati di consumo, sbocchi commerciali, ecc.) e il lavoro degli operai italiani all'estero. A tal fine riteneva indispensabile, da parte del governo, una linea di condotta più autorevole, non condizionata dagli ondeggiamenti e dai tatticismi di politica interna né dai cedimenti a certo demagogismo socialista.
La concezione del F. prospettava un'interpretazione più dinamica dei sistemi di alleanze, una valutazione degli interessi economici e politici dell'Italia che andava costantemente aggiornata alla luce dei continui mutamenti che si producevano sul piano internazionale.
Tra il 1906 e l'impresa libica il filogiolittismo del F. non fu totale e incondizionato. L'appoggio fornito dalla Stampa allo statista di Dronero nel 1901-1902, all'inizio del nuovo corso politico, negli anni immediatamente successivi lasciò spazio a riserve e perplessità non solo in relazione alle scelte (o non scelte) di politica estera ma anche alle aperture filosocialiste di Giolitti. Solo dopo il fallimento del primo esperimento ministeriale di Sonnino (febbraio-maggio 1906) tra il F. e Giolitti si avviò un processo di accostamento che, intorno al 1910-11, sarebbe culminato in un sodalizio saldo e senza riserve, sulla base del comune rifiuto tanto della prospettiva liberalconservatrice dell'opposizione sonniniana quanto di quella del nazionalismo.
La volontà del F. di fare un giornalismo che andasse oltre la pura informazione e che, promuovendo un vero e proprio dibattito politico sui temi affrontati, fosse in grado di incidere sulle relative scelte della classe politica, si espresse con definitiva chiarezza in occasione della campagna svolta dalla Stampa a favore dell'intervento italiano in Libia. Nei mesi che precedettero lo scoppio della guerra tra l'Italia e la Turchia La Stampa mobilitò le sue migliori firme (tra cui il Cirmeni, il Bevione, Ernesto Vassallo e lo stesso F.) in una serrata campagna interventista mirata tanto a influenzare l'opinione pubblica quanto a rimuovere le esitazioni del presidente del Consiglio Giolitti. Mantenendo distinte le proprie motivazioni da quelle della martellante propaganda nazionalista, il F. esprimeva nel suo interventismo l'ossessione di sempre: la salvaguardia degli interessi italiani nel Mediterraneo in presenza di una Francia sempre più determinata e invasiva sulle coste settentrionali dell'Africa. Appena scoppiata la guerra il F. inviò in Africa altri corrispondenti, per garantire attraverso il giornale la più ampia e dettagliata informazione possibile sugli sviluppi del conflitto. Come altri organi d'informazione di livello nazionale anche il giornale del F. contribuì ad accreditare della Libia l'immagine di una sorta di Eden, di terra promessa, piena di ricchezze, palesi o nascoste, e ricca di opportunità per i futuri colonizzatori.
Nel 1913 il F. fu nominato senatore su proposta di Giolitti. Allo scoppio del primo conflitto mondiale egli si dichiarò per la neutralità, condividendo in pieno la dichiarazione in tal senso del governo Salandra.
Sulla base della ricordata concezione dinamica della politica estera il suo non fu un neutralismo di principio, a ogni costo, ma una posizione politica razionale che egli concepiva come la necessaria premessa di una negoziazione con l'Austria. Altrettanto estranea al suo modo di concepire gli interessi internazionali dell'Italia risultava l'idea di un intervento militare rigeneratore delle intorpidite energie nazionali (come predicavano i nazionalisti) oppure come guerra patriottica contro l'Austria (com'era nelle intenzioni di Salandra e Sonnino). Riteneva che si dovessero evitare le scelte affrettate, dettate da emotività politico-ideologiche, che andassero utilizzati, accanto alle vie diplomatiche, prudenza e freddo calcolo politico e che, oltre al problema adriatico-balcanico, fosse necessario porsi anche quello del Mediterraneo e, più in generale, guardare al futuro equilibrio europeo che sarebbe stato comunque profondamente diverso da quello esistente alla vigilia del conflitto.
Nel gennaio 1915, di fronte alla famosa lettera "del parecchio" con cui Giolitti manifestava la sua fiducia di ottenere dall'Austria un certo numero di concessioni come contropartita alla neutralità italiana, il F. assunse un atteggiamento perplesso e prudente. Rimase saldo nel suo vigile neutralismo anche quando il montare della marea interventista nel Parlamento e nelle piazze e l'orientamento di Salandra e Sonnino preannunciarono che l'Italia si stava muovendo rapidamente verso l'entrata in guerra. Dalle colonne della Stampa continuò a denunciare le contraddizioni del fronte interventista, la superficialità e l'incoscienza di quanti prevedevano una guerra breve (che al contrario egli riteneva sarebbe stata "inutile e immane") e non rinunciò a incalzare il governo perché nelle trattative con l'Austria e con l'Intesa tutti gli interessi dell'Italia trovassero adeguata tutela "sulla base di accordi ben chiari e circostanziati". Dopo che fu reso noto il contenuto del Patto di Londra, a norma del quale l'Italia entrava in guerra al fianco dell'Intesa, parlò di "neutralità svalutata" per opera di Salandra e Sonnino che, non avendo saputo valorizzare l'intervento dell'Italia, non meritavano più alcuna fiducia. Dovette, tuttavia, arrendersi di fronte a quello che egli stesso, incredulo, aveva definito "un assurdo assoluto": essere stati, anche se per un breve periodo, alleati della Germania con la Triplice e al tempo stesso alleati dell'Intesa contro la Germania.
Le varie componenti dello schieramento interventista e i relativi organi di stampa attaccarono il F. con violenza e sarcasmo, spesso anche con toni calunniosi, accusandolo di "tradimento" degli interessi nazionali e di filogermanesimo. Come amico e sostenitore di Giolitti, egli fu inoltre preso di mira dall'astiosa campagna antigiolittiana promossa dal fronte interventista che lo accusò di condividere il rinunciatarismo di quello. Il neutralismo di Giolitti era in realtà nutrito di preoccupazioni tutte diverse da quelle del F.: a quest'ultimo premeva innanzitutto la tutela degli interessi italiani sul piano della politica estera, connessi cioè con i problemi dell'equilibrio mediterraneo e di quello europeo, mentre al politico di Dronero stavano a cuore soprattutto le ragioni interne della neutralità, la tutela delle strutture politiche liberali faticosamente edificate ma bisognose di consolidamento, l'esigenza di dare continuità a uno sviluppo economico e a una democrazia industriale troppo recenti per poter resistere all'impatto con l'esperienza bellica.
Nel maggio 1915, nella fase culminante della campagna per l'intervento, la tiratura della Stampa toccò le trecentomila copie. Per tutta la durata del conflitto, attraverso il giornale, il F. combatté una dura battaglia contro la censura di guerra che gli impediva tanto di esercitare un'azione critica nei confronti del governo e dei responsabili delle operazioni militari quanto di replicare alle calunnie e alle distorsioni demagogiche della stampa nazionalista. Comprendeva la logica di tutela degli interessi nazionali e della sicurezza pubblica che ispirava la censura stessa ma ne sottolineava l'uso distorto, ideologico e di parte, con cui riteneva si volesse punire il fronte neutralista, e Giolitti in primo luogo, preparando così il clima favorevole a una sterzata autoritaria.
Seguì i problemi legati alla sistemazione postbellica, i lavori della Conferenza di pace di Parigi e i vari trattati che ne seguirono con la consueta padronanza e sensibilità per i temi di politica estera. Denunciò con toni partecipi la débâcle politica e diplomatica dell'Italia ai negoziati di pace, l'umiliazione delle sue aspirazioni e dei suoi più vitali interessi e il ruolo del tutto subordinato assegnatole dalle altre potenze vincitrici. Ancora una volta, con acuta preveggenza, avvertiva che il trattato di Versailles era, di fatto, Una miccia accesa (La Stampa, 10 maggio 1919), l'espressione di una pace vendicativa e ipocrita, la testimonianza di un nuovo imperialismo forse più pericoloso di quello russo e tedesco che la guerra aveva inteso abbattere.
Nel giugno 1920, dopo le dimissioni del governo Nitti, nella fase più convulsa della lotta politica e sociale, alimentata dai miti rivoluzionari "rossi" e dalla gazzarra nazionalfascista, Giolitti tornava al potere. Fin dai primi mesi del 1919 il F. aveva iniziato a preparare, sulle pagine della Stampa, il ritorno dell'amico alla guida del Paese, nella convinzione che egli fosse l'unica personalità politica in grado di affrontare il confuso sovversivismo che scuoteva il Paese. Ma l'ampiezza del fronte del consenso a Giolitti rese il F. sospettoso e perplesso circa la possibilità di amalgamare componenti così eterogenee e, fino a pochi mesi prima, così irriducibilmente ostili all'uomo di Dronero. Il suo dissenso con Giolitti riguardava ora l'empirismo con cui questi ripescava le vecchie figure che lo avevano combattuto e calunniato. Al momento della formazione del nuovo ministero, il F. sollecitò il presidente incaricato a lasciarsi alle spalle la zavorra interventista e le vecchie clientele moderate e a puntare piuttosto su "uomini nuovi". Quando il realismo politico di Giolitti e il suo rispetto dell'orientamento della Corona prevalsero, il F., profondamente deluso e amareggiato, assunse un atteggiamento apertamente critico verso il nuovo governo. Il suo dissenso si espresse, tra l'altro, nel rifiuto del delicato dicastero degli Interni che Giolitti gli aveva offerto. Nell'autunno 1920, dopo ventisei anni di impegno giornalistico vissuto con rigore civile e morale, meditò perfino di abbandonare il giornale.
Nel novembre 1920 fu nominato ambasciatore a Berlino (gli era stata proposta la rappresentanza di Londra che aveva rifiutato). Lasciò Torino nel gennaio 1921, dopo essersi congedato dalla Stampa.
La nomina del F. ad ambasciatore presso la Repubblica di Weimar non era casuale; i suoi lunghi soggiorni di studio, le amicizie accademiche con cui era rimasto in contatto, la piena padronanza della lingua ne avevano fatto un buon conoscitore della storia politica e culturale e della mentalità di quel paese. Estraneo alla "carriera" ma da sempre attento osservatore e commentatore della politica internazionale, il F. non aveva fatto mistero di considerare il trattato di Versailles un inutile sopruso che, più che ristabilire la pace e l'equilibrio in Europa, avrebbe potuto causare ulteriori sconvolgimenti.
La sua azione diplomatica in un paese disfatto da una guerra perduta e travolto da una crisi politica ed economica di proporzioni gigantesche non si presentava facile, tanto più che la Germania era fondamentalmente ostile all'Italia, della quale non aveva dimenticato il "tradimento" del 1914-15. Quando egli giunse a Berlino la scena politica tedesca, come del resto quella internazionale, era dominata dalla questione delle riparazioni di guerra. Entro il 1° maggio la Germania doveva pagare i primi 20 miliardi di marchi e per la stessa data la Commissione interalleata per le riparazioni doveva fissare l'ammontare complessivo dei pagamenti da richiedere allo Stato tedesco (che fu stabilito in 132 miliardi di marchi oro). Il 5 maggio 1921, a conclusione della Conferenza di Londra, un duro ultimatum franco-inglese, dettato soprattutto dall'intransigenza della Francia, imponeva alla Germania pesantissime condizioni in materia di pagamenti, di condizioni sul disarmo e di giudizio dei criminali di guerra. Nei mesi successivi il F. sottolineò con insistenza quanto il diktat influenzasse il dibattito politico interno, destabilizzando le fragili basi della Repubblica tedesca e alimentando un'inquietudine in cui facevano presa sia gli estremismi di destra sia quelli di sinistra. Egli segnalò con insistenza la necessità di alleggerire l'assurdo peso delle riparazioni e di consentire un sistema di pagamenti più diluito nel tempo, per evitare che il crollo economico e finanziario della Germania travolgesse l'intera economia europea.
Un'altra preoccupazione ricorrente nei suoi rapporti dei primi mesi riguardava la questione dell'Alta Slesia, il bacino carbonifero delimitato da Polonia, Boemia e Austria, dove i tedeschi avevano concentrato una serie di industrie vitali per la loro economia. Temendo che si andasse verso una spartizione della regione in tre zone d'influenza (soluzione caldeggiata anche dal ministro degli Esteri italiano, Carlo Sforza), con insistenza il F. continuò a indicare l'importanza che il bacino minerario e industriale restasse integralmente alla Germania, senza subire spartizioni che ne avrebbero ridotto il valore e il rendimento. Il F. insistette molto nei suoi rapporti sulla necessità per l'Italia di ottenere dalla Germania maggiori assegnazioni di carbone, ferro, zinco e rottami di ferro dell'Alta Slesia e anche in tale ottica fu favorevole a una soluzione politica che tutelasse il potenziale economico della regione (spiegò a un ampio pubblico queste ragioni in un articolo apparso sulla Stampa del 18 giugno 1921).
Nel periodo berlinese il F. stabilì rapporti di stima e di amicizia con il cancelliere Wirth, di cui sottolineava la sincera volontà di adempiere alle condizioni dell'ultimatum del maggio 1921 e con Walter Rathenau, ministro della Ricostruzione (1921) quindi degli Esteri (1922) e fautore della politica di adempimento. Dopo l'assassinio di quest'ultimo (giugno 1922) a opera dei nazionalisti, il F. ribadiva l'urgenza di concedere allo Stato tedesco una moratoria nei pagamenti perché il dilagare della reazione e la prassi dell'assassinio politico erano alimentate, a suo giudizio, proprio dall'ulteriore peggioramento della crisi finanziaria e dal connesso e totale disorientamento dello spirito pubblico.
Le difficoltà del suo incarico non impedirono al F. di seguire le vicende della politica interna italiana, sulle quali gli riferiva, tra gli altri, anche il condirettore della Stampa, Luigi Salvatorelli. Nel 1921 ritenne lo scioglimento delle Camere deciso da Giolitti un vero e proprio errore. Era convinto che la gravità della situazione politica interna, e soprattutto l'inquietante avanzata del fascismo (i cui esponenti Giolitti aveva incamerato nei Blocchi nazionali), non sarebbero state più governabili attraverso il metodo politico-parlamentare giolittiano. Fu contrario al governo Bonomi (luglio 1921 - febbraio 1922) che considerò troppo condizionato dalla presenza dei popolari (come tutta la classe dirigente giolittiana anche il F. non amò il partito di Luigi Sturzo).
Fin dall'estate 1922, quando si era prospettato un ritorno di Giolitti al potere, dopo la caduta del primo ministero Facta, il F. aveva sollecitato l'amico a tentare di costituire un governo a larga base liberaldemocratica, socialista e popolare. Egli non aveva rinunciato, tuttavia, a ricordargli, con garbata fermezza, la gravità degli errori commessi nel 1921 e la comprensibile ostilità di socialisti e popolari verso chi, con nuove elezioni, li aveva esposti al rischio di un ridimensionamento e aveva sottovaluto il significato dell'illegalismo fascista.
Nell'ottobre 1922, dopo la marcia su Roma e la formazione del primo gabinetto Mussolini, il F. si dimise dalla carica di ambasciatore a Berlino e rientrò in Italia, dove riprese le sue battaglie politico-giornalistiche dalle pagine della Stampa. Mussolini nutriva verso di lui un profondo astio che risaliva alla campagna interventista del 1914-15. Ai suoi occhi il F. impersonava uno degli aspetti più detestati del giolittismo. Per ragioni opposte il F. aveva visto nell'interventismo di Mussolini e dei nazionalisti un appello irresponsabile, un'avventura contraria ai reali interessi del Paese. Dopo l'ottobre 1922 egli rimase un intransigente oppositore del fascismo, procurandosi nuovi velenosi attacchi dalla stampa fascista e da quella prontamente asservita al nuovo governo.
La Stampa fu uno dei pochi giornali che presero apertamente posizione contro il regio decreto sulla stampa annunciato dal governo il 12 luglio 1923. Il provvedimento introduceva una nuova normativa imperniata sulla riforma dell'istituto del gerente e dava nuovi poteri ai prefetti in materia di controllo sulla stampa (l'art. 2 conferiva loro la facoltà di diffidare e, previo parere di una commissione, di rimuovere il gerente di un giornale).
Fino alle elezioni politiche dell'aprile 1924 il quotidiano torinese si distinse anche per l'insistenza con cui ribadì la totale incompatibilità tra liberalismo e fascismo, tra l'illegalismo connaturato a quest'ultimo e le libertà politiche e civili che costituivano l'essenza di ogni sistema autenticamente liberale. Né il F. mancò di sottolineare le insidie della riforma elettorale maggioritaria del 1924 (legge Acerbo), procurandosi, al pari di Luigi Albertini, Giovanni Amendola e altri giornalisi, ingiurie e minacce di eliminazione fisica. Sulla Stampa la critica del clima di intimidazioni e violenze che caratterizzò la consultazione elettorale del 1924 divenne vero e proprio atto d'accusa contro il fascismo dopo il delitto Matteotti. Durante la crisi aventiniana e nei mesi immediatamente successivi per Mussolini e il gruppo dirigente fascista ridurre al silenzio il giornale del F. e il Corriere della Sera di Albertini divenne un obiettivo prioritario.
Nella gestione della Stampa erano entrati, nel frattempo, l'industriale e finanziere Riccardo Gualino e il senatore Giovanni Agnelli. Il 29 settembre 1925 il prefetto di Torino, con il pretesto di una corrispondenza di Luigi Ambrosini sulle manovre militari in corso nella zona di Ivrea, aveva sospeso il quotidiano. Gualino, con il sostegno dei fascisti e attraverso la mediazione di Agnelli, tentò allora di acquistarne la proprietà ma il F. non accettò la proposta. In seguito a un compromesso La Stampa riprese le pubblicazioni il 3 novembre, sotto la guida di due condirettori, Luigi Michelotti e Gino Pestelli. Il vice direttore Luigi Salvatorelli si dimise e il 9 novembre anche il F. annunciò il proprio ritiro, motivandolo con ragioni di carattere personale. Da questo momento la linea del giornale mutò completamente, perdendo ogni autonomia.
Il distacco dal giornale giungeva a completamento di un anno difficile e doloroso anche sul piano familiare: il 4 luglio, a causa di una breve ma implacabile malattia, era morto il giovane figlio Pier Giorgio, attivo militante del Partito popolare italiano di Sturzo. Alla fine dello stesso anno il F. perdeva anche la sua quota di proprietà del giornale: dopo lunghe trattative gli subentrò Agnelli, sostenuto da Mussolini ma non eccessivamente gradito ai fascisti intransigenti torinesi.
Durante gli anni del regime il F. condusse una vita molto ritirata, dividendosi tra Pollone e Torino, sede della società Italgas, della quale fu presidente dal 1930 al 1943.
La società, sviluppatasi sul tronco di una compagnia nata a Torino nel 1856 per la distribuzione del gas da illuminazione, negli anni Venti aveva subito significative trasformazioni. In seguito all'ascesa di uno spregiudicato finanziere e uomo d'affari, Rinaldo Panzarasa, al vertice della società, l'Italgas nel giro di pochi anni era diventata una holding finanziaria con 260 milioni di capitale. A questa faceva capo la maggiore concentrazione di officine e di società distributrici di gas, oltre a numerose aziende tra chimiche, farmaceutiche, minerarie, di servizi e di infrastrutture, connesse all'importazione e al trasporto del carbon fossile e del coke. Tra il 1925 e il 1930, grazie ad ardite operazioni finanziarie realizzate attraverso una serie di fusioni, acquisizioni e ristrutturazioni, il gruppo fece il suo ingresso anche nella chimica. Tra il 1929 e il 1930 l'ascesa di Panzarasa fu bloccata dal dissesto del gruppo elettro-finanziario della Società idroelettrica piemontese, di cui era presidente, e dal venir meno del sostegno governativo alle operazioni del gruppo Italgas, fino a quel momento realizzato attraverso la Banca commerciale italiana (Comit).
Per procedere alle operazioni di salvataggio la holding pretese l'allontanamento di Panzarasa e chiamò il F. a sostituirlo. Il nuovo presidente impostò una politica basata sulla liquidazione delle partecipazioni extra rispetto al gas. Il risanamento finanziario e industriale, che costò all'Italgas 435 milioni, fu realizzato nel giro di pochi anni. Il gruppo, oltre a mantenere il suo ruolo leader nel settore del gas, conservò comunque alcune partecipazioni chimiche di un certo rilievo. Nel secondo dopoguerra, nonostante i gravi danni subiti, il gruppo torinese rientrò subito in funzione. L'indirizzo seguito dal F. ricalcò quello già avviato prima del conflitto: evitare investimenti troppo impegnativi e ritardare l'ingresso nel settore del metano. Per tutti gli anni Cinquanta e Sessanta tale politica consentì al gruppo di conservare una buona redditività.
All'epoca del primo governo Badoglio, il F. aveva tentato di riacquisire la proprietà della Stampa dagli Agnelli. Dopo il 25 apr. 1945 il Comitato di liberazione nazionale ottenne la temporanea sospensione del giornale. Poi egli riuscì a pubblicare La Nuova Stampa che, tuttavia, nel 1946 tornò sotto il controllo della famiglia Agnelli.
Negli anni successivi il F. collaborò al quotidiano torinese, diretto da Giulio De Benedetti, con articoli di fondo e di carattere economico-finanziario. In diversi scritti di questo periodo egli ricostruì anche alcune vicende politico-giornalistiche e diplomatiche di cui era stato protagonista nel periodo prefascista. Nel 1959 pubblicò a Milano il volume Giolitti, con introduzione di Luigi Salvatorelli.
Membro della Consulta (1945-46), nominato senatore di diritto nel primo Senato della Repubblica (1948-53), in cui sedette nel gruppo misto, il F. morì a Torino il 21 maggio 1961.
Fonti e Bibl.: L. Salvatorelli, La Triplice Alleanza, Milano 1939; L. Albertini, Le origini della guerra del 1914, I: Le relazioni europee dal Congresso di Berlino all'attentato di Sarajevo, Milano 1942; I documenti diplomatici italiani, s. VII, 1922-1935, I, Roma 1953, p. 6; G. Carocci, Giolitti e l'età giolittiana, Torino 1961, ad Ind.; V. Castronovo, "La Stampa" di Torino e la politica interna italiana (1867-1903), Modena 1962, ad Ind.; M. Legnani, "La Stampa" (1919-1925), in 1919-1925. Dopoguerra e fascismo, Bari 1965, ad Ind.; F. Malgeri, La guerra libica, Roma 1970, ad Ind.; E. Decleva, Da Adua a Sarajevo. La politica estera italiana e la Francia (1896-1914), Bari 1971, ad Ind.; N. Valeri, Giolitti, Torino 1971, ad Ind.; F. Chabod, Storia della politica estera italiana dal 1870 al 1896, I-II, Bari 1972, ad Ind.; E. Gentile, L'Italia giolittiana, Bologna 1977, ad Ind.; L. Frassati, Un uomo, un giornale. A. F., con introduz. di G. De Rosa, I-III, Roma 1978-82; Storia della stampa italiana, a cura di V. Castronovo - N. Tranfaglia, Bari 1979-80, III, La stampa italiana nell'età liberale; IV, La stampa italiana nell'età fascista; V, La stampa italiana dalla Resistenza agli anni Sessanta, ad Indices; V. Castronovo, L'industria italiana dall'Ottocento a oggi, Milano 1980, ad Ind.; A. Aquarone, L'Italia giolittiana (1896-1915), I, Le premesse politiche ed economiche, Bologna 1981, ad Ind.; F. Gaeta, La crisi di fine secolo e l'età giolittiana, Torino 1982, ad Ind.; V. Castronovo - G. Paletta - R. Giannetti - B. Bottiglieri, Dalla luce all'energia. Storia dell'Italgas, Bari 1987, ad Ind.; R. Petrignani, Neutralità e alleanza. Le scelte di politica estera dell'Italia dopo l'Unità, Bologna 1987, ad Ind.