ROCCO, Alfredo
– Nacque a Napoli il 9 settembre 1875 da Alberto, ingegnere funzionario del ministero dei Lavori pubblici, e da Maria Berlingieri. Trascorse la giovinezza in diverse città italiane a causa degli spostamenti del padre: primogenito di una famiglia numerosa, a sei anni lasciò Napoli per trasferirsi prima a Roma e poi a Firenze. Frequentò il liceo classico a Caltanissetta, si laureò in giurisprudenza a Genova nel 1896 e lavorò per i primi anni come dipendente del ministero dell’Istruzione. Nel 1899 conseguì la libera docenza in diritto commerciale all’Università di Parma; insegnò anche a Urbino, a Macerata e a Palermo e nel 1910, con la moglie Maria Todaro e il figlio Alberto, nato nel 1909, si trasferì a Padova, perché aveva vinto la cattedra di diritto commerciale nell’Ateneo patavino.
Sin dagli anni giovanili Rocco conciliò l’attività accademica con quella politica, che ebbe un inizio ufficiale a Bologna nel 1907 quando partecipò al terzo congresso nazionale del Partito radicale. In quella sede per la prima volta espresse pubblicamente le proprie opinioni politiche con la relazione Sulle ragioni degli impiegati. Come delegato dell’associazione radicale di Perugia, sottolineò il primato dello Stato e l’avversione per i conflitti di classe e di categoria, ma anche la questione della rappresentanza politica della borghesia e la necessità di una forza capace di monopolizzare i ceti medi e di sfidare il Partito socialista italiano sul terreno della politica di massa (Simone, 2012, p. 11; D’Alfonso, 2004, p. 31).
Dopo questa prima esperienza nel Partito radicale e dopo una pausa dalla militanza politica, nel novembre del 1913, con un articolo apparso su La Tribuna, Rocco prese parte al dibattito che agitava il liberalismo italiano auspicando una rapida trasformazione del Partito liberale in senso nazionale. Pochi giorni dopo, nel dicembre del 1913, aderì all’Associazione nazionalista italiana e ne divenne presto uno dei suoi esponenti di maggiore rilievo, come mostrò nel maggio del 1914 al congresso di Milano.
Fino a quel momento i nazionalisti si erano presentati all’opinione pubblica italiana come gli eredi della Destra storica e della tradizione risorgimentale (Gentile, 1982, p. 179). Per questo non avevano mai messo in discussione il legame fra le battaglie per la libertà e quelle per la conquista dell’Unità nazionale. A Milano Rocco sostenne che alla base delle riflessioni sullo Stato, espresse dai liberali e dai socialisti, vi fosse un comune presupposto individualistico. I primi prendevano le mosse dal giusnaturalismo e ritenevano necessario esercitare un controllo sull’azione dello Stato per garantire ai cittadini l’esercizio delle libertà civili, economiche e politiche, mentre i secondi combattevano per una società di liberi e uguali che avrebbe emancipato le masse e sostituito l’ordine statale con un assetto politico non più fondato sulla distinzione fra le classi.
In quegli anni Rocco illustrò queste sue idee su L’Idea Nazionale e sul Dovere nazionale, che aveva fondato nel giugno del 1914 a Padova: ribadì la prevalenza degli interessi nazionali su quelli individuali, inclinò su posizioni economiche protezioniste, fu favorevole alla concentrazione industriale e immaginò di superare i conflitti di categoria trasformando i sindacati in organi dello Stato. Nell’opuscolo, pubblicato nel 1914 a Padova e a Roma, Che cosa è il nazionalismo e che cosa vogliono i nazionalisti egli definì la nazione la forma più alta di espressione sociale della realtà contemporanea.
Da questo punto di vista, di fronte alle novità e al rapido mutamento della società italiana, la politica di cui Rocco si faceva sostenitore avrebbe gestito i conflitti senza negarli, avrebbe governato le classi ed evitato che le loro istanze minassero la tenuta della compagine nazionale.
Come ha notato Paolo Ungari (1963, p. 28) molti anni fa esprimendo un giudizio tuttora valido, l’originalità di Rocco consisteva nell’aver individuato, diversamente dagli esponenti della destra tradizionale, ancora convinti dell’efficacia dei mezzi di polizia di fronte alle collettività sorte dalla produzione industriale, una caratteristica della moderna società di massa, ovvero la funzione dell’organizzazione di classe come strumento per garantire stabilità alla compagine sociale. Se questi furono gli elementi di novità introdotti dalla riflessione di Rocco, la sua proposta non era priva di contraddizioni: egli oscillava fra una concezione politica organicistica, ritenendo che l’appartenenza alla nazione avesse un’origine necessaria e si collegasse a un fatto indipendente dalla volontà individuale, e una concezione volontaristica di stampo mazziniano, per cui sosteneva che la nazionalità fosse un fatto spirituale. Coerentemente con questo suo nazionalismo, pur condividendo le riflessioni di autorevoli studiosi come Vittorio Emanuele Orlando e Santi Romano, e quindi le tematiche della giuspubblicistica italiana di fine XIX secolo, sin da allora Rocco concepì il diritto come una realtà funzionale all’esistenza e all’espansione dello Stato nazionale e rifiutò qualsiasi ipotesi contrattualistica e qualsiasi presupposto individualistico di matrice liberale, in una visione amministrativistica dell’individuo considerato come soggetto (Lanchester, 2010, p. 19). Come è stato recentemente sottolineato, nel lessico di Rocco entrò il vocabolo «trasformazione» dello Stato, con il quale si sanciva la rottura rispetto all’ordine liberale e si prefigurava uno Stato totalitario capace di assorbire i nuovi soggetti sociali in una trama istituzionale che ne bloccava le tendenze disgreganti (Chiodi, 2015, p. 124).
In ogni caso, pur affermando con forza la necessità di combattere la disgregazione delle strutture dello Stato, fino alla guerra mondiale Rocco rimase nell’orbita delle istituzioni liberali. Negli anni del conflitto, invece, inaugurò una nuova fase della sua vita politica e accentuò i motivi autoritari del suo pensiero.
Nel giugno del 1914 si schierò contro la neutralità italiana, partecipò alle manifestazioni della ‘settimana rossa’ (7-14 giugno 1914) e nel 1915, quando aveva quarant’anni, fece domanda per essere arruolato come ufficiale di artiglieria. Attivo nell’Ufficio propaganda, fu richiamato al fronte solo dopo Caporetto (1917). Da allora, nonostante la vittoria dei Paesi dell’Intesa, fu sempre più convinto della decadenza delle democrazie liberali, come sostenne sulla rivista Politica, alla quale diede vita, con Francesco Coppola, nel dicembre del 1918, sei mesi dopo la morte del figlio Alberto e un mese dopo la nascita della secondogenita Maria Vittoria.
Nel Manifesto della rivista, pubblicato nel primo numero, scrisse che il periodico nasceva per trasformare «il sentimento oscuro e istintivo in dottrina e volontà consapevole» (p. 1). Si trattava di un compito «essenzialmente spirituale e intellettuale», rivolto più a creare nel pubblico «uno stato di coscienza e di cultura antitetico a quello diffuso dall’ideologia liberale-democratica, che non a propugnare mutamenti di istituzioni e di regimi politici».
L’esigenza principale di Rocco e Coppola era quella di diffondere una nuova cultura politica sensibilizzando l’opinione pubblica italiana alle tematiche dei nazionalisti. Nel manifesto di apertura vollero ribadire il loro rifiuto per la democrazia e per il liberalismo e, come molti intellettuali europei, criticarono i sostenitori della guerra democratica, quei Paesi che non avevano esitato a mobilitare le masse popolari presentando il conflitto come una crociata della democrazia contro l’autocrazia (Tarquini, 2010, p. 95). Di fronte alla realtà europea del dopoguerra e a quella specifica dell’Italia liberale che consideravano disgregata dai partiti politici, Rocco e Coppola spiegarono l’importanza di restaurare l’autorità dello Stato, una realtà che non si identificava con i suoi organi, né con la sua classe dirigente, ma con «la società in quanto si organizza in un potere supremo». A questo proposito vollero sottolineare che il loro nazionalismo derivava da una tradizione autoctona perché era figlio del pensiero politico italiano. Questa idea dello Stato-forza era per loro schiettamente latina e italiana e collegata in modo diretto alla tradizione intellettuale romana, che Niccolò Machiavelli aveva rinnovato nella sua filosofia politica, Giambattista Vico nella sua filosofia storica, e gli storici e gli economisti meridionali nella loro critica della filosofia della Rivoluzione francese (Manifesto, in Politica, I (1918), pp. 1-17).
Le convinzioni politiche di Rocco trovarono sbocco nel fascismo. Eletto deputato nei blocchi nazionali nel 1921, privo delle esitazioni legalitarie dei suoi colleghi di partito, nel dopoguerra Rocco fu uno dei più tenaci sostenitori dell’alleanza tra fascisti e nazionalisti, e nel gennaio del 1922 su L’Idea Nazionale espresse la sua soddisfazione perché finalmente il Partito di Benito Mussolini aveva perso il carattere rivoluzionario e romantico del 1919, trasformandosi in una milizia (Il fascismo verso il nazionalismo, in Scritti e discorsi politici, II, 1928, p. 693).
Nell’ottobre del 1922 fu nominato sottosegretario al Tesoro e nel dicembre dello stesso anno sottosegretario alle Finanze. Da allora fu espressione di un fascismo autoritario, in cui lo Stato si configurava come un potere naturale e assoluto, che imponeva e conservava la coesione interna. Pochi mesi dopo lo affermò esplicitamente al teatro dell’Unione di Viterbo sostenendo che la marcia del fascismo verso il nazionalismo poteva dirsi conclusa, perché ormai ogni differenza tra nazionalismo e fascismo si era dissolta. «Il fascismo», affermò in quella sede, «è nazionalismo, un nazionalismo di masse, un nazionalismo di azione, ma nazionalismo» (Nazionalismo e fascismo, ibid., p. 732). Divenuto sottosegretario all’Assistenza militare nel marzo del 1923, nel maggio del 1924 fu nominato presidente della Camera dei deputati e dal gennaio 1925 fino al luglio del 1932 fu ministro della Giustizia. Dunque, egli visse dal più alto seggio della Camera la crisi dell’assassinio Matteotti, nel 1924, per essere protagonista, dopo il discorso di Mussolini del 3 gennaio 1925 alla Camera, della trasformazione dello Stato liberale in uno Stato totalitario.
Dal 1925, trasferitosi all’Università di Roma come docente di legislazione economica, poté realizzare quel progetto di concentrazione del potere statale concepito come alternativo allo Stato liberale, di cui era un convinto sostenitore.
Non si trattò soltanto di costruire l’ordinamento giuridico della nuova realtà politica. In questo senso Rocco non fu solo l’architetto dello Stato fascista: a Perugia, alla fine di agosto del 1925, quando si accingeva a dare vita alla vasta produzione normativa a cui legò il suo nome, egli illustrò i principi ispiratori della sua azione di legislatore fascista in un discorso che ebbe vasta eco, anche perché ottenne il plauso di Mussolini (De Felice, 1968, p. 167). Deciso a offrire il proprio contributo alla definizione dell’ideologia fascista, si rivolse a quanti ritenevano che il fascismo non avesse una sua dottrina.
A Perugia Rocco spiegò che l’ideologia fascista costituiva nel campo intellettuale un rivolgimento non meno ampio di quello prodotto nei secoli XVII e XVIII con il sorgere e il diffondersi delle dottrine giusnaturaliste. In questo quadro, che dipingeva come perfettamente logico e coerente, l’unico elemento di rottura era rappresentato dal fascismo. Per la prima volta una concezione organica e storica della società aveva rifiutato i presupposti giusnaturalistici del liberalismo, rovesciando i termini del problema e ponendo in primo piano non più i diritti dei singoli, ma quelli della società e dello Stato, ovvero teorizzando il diritto dello Stato a esistere e a dominare le altre nazioni e il dovere dell’individuo e delle classi di contribuire alla realizzazione dei suoi fini (La dottrina politica del fascismo, in Scritti e discorsi politici, III, 1928, p. 1097). In realtà, l’apporto che Rocco offrì all’ideologia del fascismo non recava novità di particolare rilievo da quella dottrina per cui egli combatteva dal 1914.
Stabiliti i presupposti teorici della sua azione, fra il 1925 e il 1928 Rocco fu impegnato in una vasta produzione normativa. I suoi interventi riguardarono tre aspetti principali: in primo luogo fu l’autore delle cosiddette leggi di difesa dello Stato che, fra l’altro, stabilivano la pena di morte per chiunque mettesse in pericolo la vita del sovrano o quella del capo del Governo; nel maggio del 1925, a proposito della legge che vietava le società segrete, parlò della «lotta dello Stato fascista contro tutte le forze di disorganizzazione» annidate al suo interno, una lotta che Rocco condusse vietando qualsiasi forma di dissenso e di opposizione e che rientrava nel disegno di fascistizzazione della burocrazia italiana (Lanchester, 2010, pp. 27-29).
In secondo luogo, intervenne sulla forma di governo con le leggi sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche senza alcun intervento del Parlamento, con le disposizioni sulle attribuzioni e prerogative del capo del Governo, e con la legge sull’ordinamento e le attribuzioni del Gran consiglio del fascismo che eliminò le ultime tracce di regime parlamentare. Infine, nel marzo del 1928, presentò in Parlamento la legge elettorale, che prevedeva l’approvazione plebiscitaria di un’unica lista nazionale.
In terzo luogo impostò la riforma corporativa, con la legge sulla disciplina dei rapporti collettivi di lavoro, e istituì le magistrature competenti ponendo fine alla libertà sindacale e facendo del sindacato fascista l’unico rappresentante delle masse lavoratrici, private a quel punto di ogni potere rivendicativo.
Come hanno rilevato gli studiosi, con la legge 2263 del 1926 Rocco modificò strutturalmente l’assetto costituzionale dello Stato italiano perché esplicitò il processo di valorizzazione dell’unione personale tra la carica di duce del fascismo e l’ufficio di capo del Governo. Si trattò di unione personale che costituì «l’asse portante del complesso meccanismo delle innovazioni fasciste sul relitto dello stato statutario» (Paladin, 1966, p. 900; Lanchester, 2010, pp. 29-31).
Il provvedimento creava la figura del capo del Governo, primo ministro, segretario di Stato, che era nominato e revocato dal re e responsabile dell’indirizzo politico solo nei confronti del sovrano; poteva sfiduciare i ministri e aveva potestà di direzione dell’attività delle Camere, che cessavano di disporre dell’ordine del giorno. Da questo punto di vista, la totale subordinazione del potere legislativo all’esecutivo diveniva una subordinazione verso il capo del Governo: la legge ne faceva l’unico depositario della fiducia della Corona, l’organo precipuo attraverso il quale si doveva estrinsecare la sovranità dello Stato (Lanchester, 2010, p. 30).
In effetti, la provenienza dal mondo nazionalista non indebolì il carattere totalitario delle scelte politiche del Rocco fascista, che non volle mai essere solo il notaio del compromesso tra il fascismo e le vecchie classi dirigenti (Gentile, 1982, p. 209). Al contrario, egli fu tra i più intransigenti sostenitori dell’identificazione totalitaria fra lo Stato e il partito, un’identificazione che giustificò ampiamente l’istituzione di un Tribunale speciale.
All’inizio degli anni Trenta la sua stagione politica poteva dirsi conclusa. Autore con il fratello Arturo del codice penale e di quello di procedura penale, Rocco insegnò nella facoltà di scienze politiche dell’Università La Sapienza di Roma, di cui divenne rettore nel 1932. Nel settembre di quell’anno morì la moglie, Maria Todaro. Nel luglio del 1933, dopo aver ottenuto il titolo nobiliare, sposò la contessa Emma Angelini Paroli. Nel marzo del 1934 fu nominato senatore. Pochi mesi dopo gli fu attribuita la laurea honoris causa dall’Università di Nancy e l’ambito premio Mussolini, promosso dall’Accademia d’Italia, che però non poté ritirare per ragioni di salute.
Morì a Roma il 28 ottobre 1935 in seguito a una grave leucemia.
Opere. Scritti e discorsi politici, I-III, Milano 1928; Discorsi parlamentari, con un saggio di G. Vassalli, Bologna 2004.
Fonti e Bibl.: Roma, Archivio centrale dello Stato, Ministero della Pubblica Istruzione, Istruzione superiore, Fascicoli personale insegnante (II versamento), posizione 23, b. 122.
P. Ungari, A. R. e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963; A. Aquarone, L’organizza-zione dello Stato totalitario, Torino 1965, pp. 75-82; F. Gaeta, Il nazionalismo italiano, Napoli 1965, pp. 118-124; L. Paladin, Fascismo (diritto costituzionale), in Enciclopedia del diritto, XVI, Milano 1966, pp. 894 ss.; R. De Felice, Mussolini il fascista. L’organizzazione dello Stato fascista, 1925-1929, Torino 1968, pp. 163-165, 167; Id., Mussolini il duce. Gli anni del consenso, 1929-1936, Torino 1974, pp. 35-37; E. Gentile, L’architetto dello Stato nuovo: A. R. in Il mito dello Stato nuovo. Dal radicalismo nazionale al fascismo, Roma-Bari 1982, pp. 171-210; R. D’Alfonso, Costruire lo Stato forte. Politica, diritto, economia in A. R., Milano 2004; S. Battente, A. R., dal nazionalismo al fascismo, 1907-1935, Milano 2005; M. Sbriccoli, R., A., in Dizionario del fascismo, a cura di V. de Grazia - S. Luzzatto, II, Torino 2005, pp. 533-538; F. Lanchester, A. R. e le origini dello Stato totale, in A. R.: dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, a cura di E. Gentile - F. Lanchester - A. Tarquini, Roma 2010, pp. 15-39; A. Tarquini, A. R. e Giovanni Gentile. Riflessioni su Stato, nazione e politica di un regime totalitario, ibid., pp. 83-115; G. Simone, Il Guardasigilli del regime. L’itinerario politico e culturale di A. R., Milano 2012; G. Chiodi, A. R. e il fascino dello Stato totale, in I giuristi e il fascino del regime (1918-1925), a cura di I. Birocchi - L. Loschiavo, Roma 2015; www.senato.it/senregno, ad nomen.