Alfredo Rocco
Esponente del nazionalismo italiano e suo principale teorico, Alfredo Rocco fu ministro della Giustizia dal 1925 al 1932, periodo durante il quale organizzò la complessa legislazione con cui venne sistematizzata l’organizzazione del potere fascista: risale infatti al 1930 la pubblicazione del cosiddetto codice Rocco, ossia i codici penale e di procedura penale. In lui la passione politica s’intrecciò con gli interessi dello studioso, e nella costruzione dello Stato fascista e nell’attuazione dei programmi del regime egli non fu mai un mero esecutore della volontà di Benito Mussolini, ma un vero protagonista della politica.
Alfredo Rocco, nato a Napoli il 9 settembre 1875, si laureò nel 1896 con Ulisse Manara a Genova e, consegui;ta la libera docenza in diritto commerciale a Parma nel 1899, insegnò a Urbino dal 1899 al 1902, quando, da pro;fessore straordinario, prese servizio a Macerata; nel 1905 si trasferì a Parma, dove sostituì Giuseppe Chiovenda nell’insegnamento di procedura civile e dove conseguì l’ordinariato (1906). Spostatosi a Palermo nel 1908, insegnò procedura civile e ordinamento giudiziario fino al 1910, quando, vinto il concorso a Padova, ri;pre;se l’insegnamento di diritto commerciale che tenne fino al 1925. Attivo politicamente, dopo una fase radicale, approdò al nazionalismo aderendo nel 1923 al fascismo: dapprima presidente della Camera (1924-25), nel 1925 fu nominato ministro della Giustizia e degli Affari di culto. Insegnò all’Università di Roma legislazione eco;nomica e del lavoro fino al 1930, quando succedette a Cesare Vivante nella cattedra di diritto commerciale che tenne fino alla morte avvenuta a Roma il 28 agosto 1935.
Tra i suoi molteplici interessi scientifici, qui solo un rapido cenno al diritto commerciale, alla procedura civile, al diritto fallimentare. Al contrario di Vivante, Rocco non guarda al diritto commerciale come a un complesso di regole «che viene su dalle cose», bensì come a una branca del diritto che ripete la sua efficacia dall’autorità dello Stato, e non ritiene che il codice di commercio possa costituire un privilegio di classe, affidando la tutela degli interessi dei non commercianti a una «più forte organizzazione dello Stato, supremo tutore dell’equilibrio fra le classi» (Principi di diritto commerciale, 1928, p. 67).
Dichiaratamente antiliberale sul piano delle scelte politiche, aderisce convintamente, almeno fino alla metà del secondo decennio del secolo, alla concezione liberale del processo civile, al cui centro colloca il principio dispositivo: lo Stato nel processo non attua il diritto oggettivo, ma interviene a soddisfare richieste inoltrategli dai titolari degli interessi. Sempre attento a rispettare rigorosamente l’autonomia del metodo giuridico, mai trascurando, però, l’attenzione per gli aspetti economici e sociali dei problemi studiati, mette in campo la sua profonda conoscenza del diritto commerciale, e di quello fallimentare in particolare, per una riforma in cui il rigore mira a realizzare una più efficace giustizia in materia fallimentare e una maggiore tutela dei creditori (l. 10 luglio 1930 nr. 995, Disposizioni sul fallimento, sul concordato preventivo e sui piccoli fallimenti).
I programmi e le soluzioni che Rocco propone a partire dal suo esordio nelle fila dei nazionalisti sono, nei decenni successivi, almeno in parte ripresi dal fascismo e realizzati dallo stesso Rocco, ministro della Giustizia, per sette anni, a partire dal 1925. Le misure protezionistiche, il sistema corporativo, la riforma agraria e le bonifiche, la magistratura del lavoro, il colonialismo, l’intesa con la Chiesa cattolica sono punti del suo progetto già nel 1914. Per una sintesi può attingersi a un agile scritto propagandistico, l’opuscolo Che cosa è il nazionalismo e cosa vogliono i nazionalisti, pubblicato nel 1914, in cui Rocco rigetta l’individualismo socialista e liberale e l’ipotesi di una società sovranazionale:
nel campo internazionale l’individualismo estremo diventa umanitarismo, pacifismo, internazionalismo. Sono, tutte queste, forme, in cui l’egoismo individualista afferma la sua preminenza assoluta sugli interessi della collettività nazionale […] predicando la pace universale, la solidarietà di tutti gli uomini, si tende a sopprimere le collettività attualmente esistenti che sono le nazioni […] per riconoscere una sola collettività, la società di tutti gli uomini. Ma la società di tutti gli uomini non esiste […] Il nazionalismo vuol salvare la società italiana dalla polverizzazione individualista (pp. 78, 79-80).
La nazione costituisce allo stesso tempo il presupposto e il fine per il superamento degli interessi particolari, l’antidoto contro gli interessi egoistici e individuali:
Ci si era dimenticati di questo particolare: che, oltre l’individuo, oltre la classe, oltre l’umanità, esiste la nazione, la razza italiana; e che l’individuo non vive solo nella classe e non vive affatto nella società di tutti gli uomini, ma vive invece e principalmente in quell’aggregato sociale, costituito dagli uomini della stessa razza, che è la nazione (p. 69).
L’antimaltusianesimo, il miglioramento delle condizioni di vita della popolazione, la diffusione della proprietà, sono tutti strumenti per la realizzazione del programma nazionalista-imperialista:
Occuparsi e preoccuparsi della lotta incessante che la nazione italiana deve sostenere nel mondo, con le sole sue forze, per tutelare gli interessi della razza italiana, è fare del nazionalismo […] Ora, il numero è la vera forza delle razze. Le razze numerose e feconde sono ardite ed espansive: esse avanzano e conquistano. Anche la razza italiana si espande, rompe i freni, che la legano al territorio della patria, ed avanza […] Bisogna fare ancora questo sforzo, bisogna intensificare la produzione interna, e portarla fino al massimo possibile, per prepararci bene alla seconda fase della nostra evoluzione economica, la fase di espansione all’estero. Bisogna, con serenità e con fermezza, apparecchiarci fin d’ora la fase di espansione o di conquista […] E non si dica che ormai non c’è nulla da conquistare, perché tutti i territori sono occupati. Territori liberi non ce ne sono stati mai, e liberi non erano neppure i territori che costituiscono l’immenso impero britannico o l’impero coloniale della Francia. Le nazioni forti e progressive non conquistano territori liberi, ma territori occupati dalle nazioni in decadenza. E di questi, e ricchissimi, ve ne sono oggi molti, ma molti nel mondo. E non aggiungiamo altro […] Essendo l’Italia un paese povero di territorio e ricco di uomini, il nostro nazionalismo è espansivo ed aggressivo (p. 88).
L’accordo con la Chiesa risulta strumentale alla realizzazione del programma: «In avvenire sarà forse possibile andare più in là, e si potrà stabilire, forse, con la Chiesa cattolica una, sia pur tacita, intesa, per cui la organizzazione cattolica possa servire alla nazione italiana per la sua espansione nel mondo» (p. 82).
Nelle sue parole il nazionalismo viene distinto con forza dal patriottismo:
il patriottismo, che è principalmente attaccamento alla patria, cioè alla terra, è essenzialmente difensivo, è un sentimento diffuso e tenue, che si tiene modestamente indietro, e lascia il passo tutti gli altri […] Il nazionalismo è, invece, attaccamento alla nazione, alla razza, è affermazione della propria razza (p. 87)
e con estremo orgoglio viene rivendicata l’originalità del nazionalismo italiano: «Come sono diverse le na;zioni e le razze, così sono diverse le affermazioni delle varie nazioni e delle varie razze […] il nazionalismo francese è assolutista, clericale, e antisemita […] il nazionalismo italiano non è assolutista, né clericale, né antisemita» (p. 88).
Questi brani sono anche significativi per provare la polisemia del termine razza utilizzato nella pubblicistica giuridica e politica del primo Novecento. L’ultimo, in particolare, in cui si predica il carattere non antisemita del nazionalismo italiano, poi, deve essere sfuggito al curatore della raccolta e al prefatore, che scrive il 29 maggio 1938, quando la campagna antisemita è ormai avviata. Mussolini, nella Prefazione al volume Scritti e discorsi politici di Alfredo Rocco (1938), ricorda le «tracce imponenti» lasciate da Rocco: nel 1923 la legislazione sulle pensioni di guerra; nel 1925-26 «le leggi per la difesa del Regime onde troncare una buona volta per sempre le velleità dei superstiti elementi reazionari» (p. IX); nel 1926-27 la Carta del lavoro; nel 1929 il Concordato e le leggi attuative; infine i codici, penale e di procedura penale. E quando rende omaggio a Rocco riconosce la sintonia tra i programmi dei nazionalisti e quelli del fascismo:
Alfredo Rocco esordisce nel nazionalismo: nell’uni;co movimento che fra il 1905 e il 1914 avesse sulla bandiera quei principi che il fascismo doveva alcuni anni dopo realizzare nella loro pienezza […] Coloro che vogliono conoscere e in un certo senso rivivere lo sviluppo legislativo della Rivoluzione fascista de;vono leggere i volumi degli scritti e discorsi di Alfre;do Rocco (pp. VIII, IX).
«Candido giurista inesperto di storia»: così Piero Gobetti (cit. in P. Gobetti, La rivoluzione liberale, 1924, 1973, p. 132), con sufficienza, marchia Rocco per rigettarne la proposta – avanzata il 15 novembre 1920 a Padova nel discorso inaugurale per l’anno accademico 1920-21 – di integrare nella struttura costituzionale dello Stato le organizzazioni sindacali e di istituire una magistratura del lavoro. «Disinteressato […] sdegnoso di fortune materiali», chiese al duce – lo ricorda lo stesso Mussolini – «al crepuscolo della sua vita, un modesto aiuto per pagare un’operazione chirurgica» (B. Mussolini, Prefazione, cit., p. XI). «Mite e gentile […] autorevole eppur cordiale»: così Giuliano Vassalli (2005, p. 20 nota 10) ricorda Rocco, suo professore di diritto commerciale nell’autunno del 1934, rettore dell’Università di Roma, ormai ex ministro.
Rocco segna comunque con la sua presenza mo;menti cruciali della storia dell’Italia fascista. Neopresidente della Camera, eletto per la XXVII legislatura, il 30 maggio del 1924 presiede la seduta in cui Giacomo Matteotti per oltre un’ora e mezza, tra urla e altre intemperanze, denuncia la validità delle elezioni a causa delle violenze perpetrate in precedenza e contesta anche la validità della procedura di convalida delle nomine adottata dal presidente della Camera e, in un passaggio, lo stesso modo di presiedere la seduta. In quest’occasione a Rocco che invitava il deputato socialista a continuare, ma prudentemente, Matteotti rispose che chiedeva di parlare «né prudentemente, né imprudentemente, ma parlamentarmente».
Tre giorni dopo il discorso di Mussolini alla Camera del 3 gennaio 1925, che segna il passaggio alla vera e propria dittatura, Rocco lascia la presidenza della Camera per assumere la responsabilità del ministero della Giustizia fino a quel momento affidato ad Aldo Oviglio che più volte aveva mostrato la propria contrarietà ad alcune riforme volute da Mussolini e che nell’agosto del 1925 sarà espulso dal Partito nazionale fascista.
Da ministro, Rocco guiderà la costruzione del nuovo Stato fascista con le leggi per la difesa dello Stato – con l’istituzione del Tribunale speciale per la difesa dello Stato che costituisce, tra l’altro, anche un vulnus al principio dell’irretroattività della legge penale e che costringerà Rocco a elaborare una teoria interpretativa scarsamente difendibile – e con quelle sulla rappresentanza politica, sulle attribuzioni e prerogative del capo del governo, sulla facoltà del potere esecutivo di emanare norme giuridiche, sulla riforma forense, sulla disciplina giuridica dei rapporti collettivi di lavoro.
La Carta del lavoro, la statalizzazione del Gran consiglio del fascismo – con la creazione della nuova categoria delle leggi costituzionali –, le disposizioni sull’istruzione del 1931 – con l’imposizione del giuramento di fedeltà al fascismo – disegnano il profilo costituzionale del nuovo Stato fascista, forse ancora di più di quanto non lo segnino il codice penale, con il ritorno alla pena di morte, e il codice di procedura penale.
L’imposizione del giuramento di fedeltà spinse Albert Einstein, sollecitato da colleghi italiani, a rivolgersi a Rocco con queste parole:
La mia preghiera è che lei voglia consigliare al signor Mussolini di risparmiare al fiore dell’intelletto italiano un’umiliazione simile. Per quanto diverse possano essere le nostre convinzioni politiche, io so che v’è un punto fondamentale che ci unisce; entrambi riconosciamo e ammiriamo nello sviluppo intellettuale europeo il bene più alto. Esso si fonda sulla libertà di pensiero e di insegnamento e sul principio che la ricerca della verità deve precedere ogni altro fine. È solo basandosi su un tale principio che la nostra civiltà è potuta sorgere in Grecia, celebrando la sua rinascita in Italia nell’epoca del Rinascimento. Quel bene, il più prezioso che noi possediamo, è stato pagato col sangue di martiri, di uomini puri e grandi, per opera dei quali l’Italia è tuttora amata e onorata. Berlino 16 novembre 1931 (lettera edita in Einstein parla italiano, a cura di S. Linguerri, R. Simili, 2008, pp. 38, 172-73).
I codici di Rocco, comunque, o per qualità proprie, o per inerzie del legislatore che non ha provveduto a sostituirli, hanno sfidato il tempo.
Rocco è consapevole che il successo delle riforme del regime è fortemente legato alla reazione della magistratura. Il 19 giugno 1925 alla Camera afferma:
la magistratura – io l’ho già detto, ma lo ripeto – non deve far politica di nessun genere. Non vogliamo che faccia politica governativa o fascista, ma esigiamo fermamente che non faccia politica antigovernativa o antifascista.
Ancora, il 16 maggio 1929, sempre alla Camera, riferendosi alle aperture della Corte di cassazione nei confronti della Carta del lavoro:
Parlare della magistratura italiana è per me sempre motivo di alta soddisfazione, perché, più vivo accanto ad essa, più mi convinco delle sue altissime virtù di carattere […], della sua dottrina […], della sua disciplina e del suo patriottismo. Anche e specialmente del suo patriottismo, perché lo spirito del Fascismo […] è penetrato nella Magistratura più rapidamente che in ogni altra categoria di funzionari e di professionisti. Posta di fronte alla nuova legislazione fascista, la magistratura italiana, piena di dottrina, di senso pratico, ne ha penetrato completamente lo spirito, l’interpreta e l’applica con piena fedeltà. E a questo proposito è pur doveroso tributare un alto elogio alla Corte di Cassazione, la quale, proprio in questo campo della comprensione dello spirito del Regime e della sua legislazione, ha dato esempi luminosi.
Quando, dopo la morte di Rocco, l’Italia fascista si darà una legislazione razziale antisemita e vincolerà il grado di capacità giuridica all’appartenenza alla razza (art. 1 del codice civile: il libro I è pubblicato nella Gazzetta ufficiale del regno del 15 dicembre 1938), anche introducendo apposite norme (art. 26 del r.d. del 17 nov. 1938 nr. 1728) per limitare il potere dei giudici a favore di quello dell’esecutivo, sarà proprio uno dei tre fratelli di Rocco, Ferdinando (gli altri sono Arturo, professore di diritto e procedura penale alle Università di Sassari, Napoli e Roma, fondatore della scuola moderna del tecnicismo giuridico, e Ugo, professore di diritto processuale civile a Napoli), presidente della IV sezione del Consiglio di Stato (dal 1947 presidente del Consiglio di Stato, dal 1950 presidente della Cassa per il Mezzogiorno), a scrivere alcune tra le sentenze meglio motivate e più rispettose dei principi generali dell’ordinamento contro la barbarie delle leggi antisemite, impegnandosi in interpretazioni creative e ardite. E, dopo la fine della guerra, uscito meritatamente indenne dal processo epurativo, il 30 giugno 1946 scriverà nella Relazione della Commissione speciale all’Adunanza generale del Consiglio di Stato, presieduta da Meuccio Ruini, una pagina che può considerarsi la logica premessa dell’art. 113 della Costituzione:
Preliminarmente può, con sicurezza, affermarsi che la già rilevata fiducia dalla quale è da ogni parte circondato il nostro Istituto deriva soprattutto dalle prove di coraggiosa indipendenza costantemente offerte al pubblico proprio dalla giurisdizione del Consiglio di Stato, non mai smentite neppure durante il regime dittatoriale, indipendenza non inferiore a quella di nessuna altra magistratura italiana, come pubblicamente ebbe a proclamare il più insigne maestro di diritto pubblico vivente e venerato statista – Vittorio Emanuele Orlando – onde mai l’esperienza italiana simili riforme potrebbe suggerire […] Premesso che nessun atto di potere esecutivo in un perfetto sistema di guarentigie giuridiche deve, per ragione alcuna, sfuggire ad un permanente controllo giurisdizionale, è facile constatare che, a questo riguardo, la legislazione italiana presenta due oggettive deficienze, non riparabili se non in sede di riforma costituzionale dello Stato. La prima, di carattere più generale, consiste nella possibilità, purtroppo, con frequenza tradotta in atto, che il Governo, in forza di poteri legislativi assunti anche senza delegazione del Parlamento, escluda o limiti tale controllo. A questa pericolosa ed infrenabile tendenza dei Governi le Magistrature, e all’avanguardia il Consiglio di Stato, hanno vigorosamente reagito mediante la restrittiva interpretazione dei provvedimenti legislativi che ne sono stati antigiuridico frutto, ma urgentemente si impone un rimedio radicale: il tassativo divieto, da sancirsi in una norma costituzionale, di siffatti attentati al sacro diritto di difesa del cittadino, da parte almeno del potere esecutivo in veste di legislatore (F. Rocco, Il Consiglio di Stato nel nuovo ordinamento costituzionale, Relazione della Commissione speciale all’Adunanza generale del Consiglio di Stato, «Il Foro amministrativo», 1946, 22, parte IV, coll. 14, 18-20).
Tra le sue opere principali:
Il concordato nel fallimento e prima del fallimento, Torino 1902.
La sentenza civile, Torino 1906.
Che cosa è il nazionalismo e che cosa vogliono i nazionalisti, Padova 1914; ora in Scritti e discorsi politici di Alfredo Rocco, 1° vol., La lotta nazionale della vigilia e durante la guerra (1913-1918), Roma 1938, pp. 67-89.
Il fallimento. Teoria generale ed origine storica, Milano-Torino-Roma 1917.
Principi di diritto commerciale. Parte generale, Torino 1928.
Testi di rilievo sul diritto privato e sul diritto processuale civile sono raccolti in Studi di diritto commerciale ed altri scritti giuridici, 2 voll., Roma 1933.
P. Ungari, Alfredo Rocco e l’ideologia giuridica del fascismo, Brescia 1963.
E. Gentile, Il mito dello Stato nuovo dall’antigiolittismo al fascismo, Roma-Bari 1982, pp. 167-204.
A. Barbera, Nazione e stato in Alfredo Rocco, Andria 2001.
R. D’Alfonso, Costruire lo Stato forte. Politica, diritto, economia in Alfredo Rocco, Milano 2004.
G. Vassalli, Passione politica di un uomo di legge, in Alfredo Rocco. Discorsi parlamentari, Bologna 2005, pp. 13-68.
Alfredo Rocco. Dalla crisi del parlamentarismo alla costruzione dello Stato nuovo, a cura di E. Gentile, F. Lanchester, A. Tarquini, Roma 2010.