ALIGERNO
Napoletano di nascita, si era fatto monaco benedettino a S. Paolo di Roma, sotto l'abate Baldovino, già discepolo d'Oddone di Cluny.
La Destructio monasterii Farfensis (in Il Chronicon Farf ense di Gregorio di Catino,a cura di N. Balzani, I, Roma 1903, in Fonti per la storia d'Italia,XXXIII, p. 40 e n. 1) lo dice invece educato nel monastero dell'Aventino, ma la divergenza si spiega facilmente, poiché i due monasteri avevano un unico regime e potevano quindi ritenersi un'unica casa.
Quando Baldovino fu eletto abate di Montecassino, in Capua, A. lo seguì come preposito. Morto Baldovino, il 25 ott. 949, A. gli succedeva nella dignità abbaziale.
Due gravi compiti si prospettavano a lui che trovava ancora la comunità esule dopo la distruzione dei Saraceni: la riorganizzazione della "terra di S. Benedetto"e la restaurazione del monastero. Non facile fu riottenere i possedimenti, perché la regione era rimasta per circa 67 anni abbandonata e spopolata. Inoltre, i conti di Teano si erano spinti fino al monte Trocchio, ossia a breve distanza da Montecassino; il gastaldo d'Aquino, avanzando dall'altro lato, aveva invaso la zona adiacente al Liri. A. iniziò la rivendicazione dei possessi del monastero, ridotti allora praticamente al solo monte su cui sorgeva, chiedendo anche aiuto ai principi Landolfo e Pandolfo di Capua. Riuscì alla fine nel suo intento; ma non senza difficoltà, tanto che venne perfino fatto prigioniero da Atenolfo Magalù di Aquino, che lo espose al pubblico ludibrio e lo rilasciò solo perché costretto dall'intervento armato del principe di Capua.
Ricuperate le terre, A. ne curò il ripopolamento, chiamandovi da fuori agricoltori con le loro famiglie. Ad essi concesse le terre con contratti livellari, meritatamente ricordati nella storia del diritto. Vennero così a formarsi dei villaggi, mentre A. provvidamente pensava a fortificarli contro i pericoli, che le esperienze passate rendevano così temibili: avevano origine le "rocche",che poi si moltiplicarono, riunendo sotto la loro tutela le popolazioni rurali. Sulla stessa montagna del monastero il munito castello, elevato a scolta del sottostante abitato, ricorda ancora, pur dopo le rovine dell'ultima guerra, A. e la sua opera.
Sistemata la "terra di S. Benedetto",A. poté procedere sicuramente e alacramente al restauro degli edifici monastici, continuando e perfezionando l'opera dei suoi predecessori capuani Leone e Giovanni. Le sue cure furono principalmente rivolte alla chiesa: e non dimenticò neppure il monastero di Capua che, completato il trasferimento della comunità appena iniziato da Maielpoto, rimase quale dipendente prepositura.
Con questi restauri materiali si formò la cornice di quella vita regolare che A. ripristinò secondo le antiche tradizioni del luogo. Sono significative in proposito le espressioni del Chronicon che caratterizzano l'opera di A. in questo campo. Pur educato alla scuola di Cluny, egli a Montecassino è e si sente soprattutto l'abate cassinese, erede della sede di s. Benedetto e di una propria tradizione. Questa egli riprende decisamente, dopo la triste parentesi, anche se in opposizione ad altri sistemi; e lo stesso intervento di Oddone, nei riguardi di Montecassino, diversamente da quel che avvenne altrove, si limitò solo a incitare la comunità esule al ritorno nell'antica sede.
Ad A. il Chronicon riferisce, oltre i preziosi evangeliari, parecchi codici, che riprendono, o meglio continuano la tradizione scrittoria, mantenuta viva anche a Capua. E come i codici testimoniano tuttora della vita intellettuale di quell'epoca, i celebri placiti giudiziari, primo fra essi quello del marzo 960, conservano le prime testimonianze del nuovo idioma volgare che in quella fermentazione di forze veniva anch'esso manifestandosi alla luce della storia.
A. morì, dopo trentasette anni di governo abbaziale, il 23 nov. 986. Egli rimane una delle figure centrali della storia cassinese, che lo orna del titolo di "almificus pater", sì che con lui il Chronicon inizia il II° libro, a indicare l'aprirsi di un altro periodo della storia del monastero. Ed effettivamente, dopo s. Benedetto e Petronace, egli può considerarsi terzo fondatore della badia, non solo perché curò il ritorno totale e definitivo dei monaci a Montecassino, ma anche perché riorganizzò l'abbazia sotto i vari aspetti, nel clima dei tempi. La sua opera fu quindi una delle prime e più notevoli manifestazioni di quella ripresa di vita che si veniva preparando nel mondo latino e che nel secolo XI darà i suoi splendidi frutti.
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