Alighieri, Alighiero II
Primo dei cinque figli di Bellincione, nato verso il 1220, per quanto possiamo arguire da un atto del 27 aprile 1246. In questo documento, infatti, A. si dichiarava emancipato, il che significava che era stato liberato con atto pubblico, cui non si fa espresso riferimento, dalla potestà paterna; se ne deduce anche che allora aveva superato i diciotto anni, ma molto probabilmente egli già aveva compiuto i venticinque.
Fu avviato dal padre ai traffici di danaro e terre; e col padre e i fratelli nel 1246 partecipò a operazioni finanziarie nella città e nel territorio di Prato; il ricavato di tali affari lo trattenne in mutuo egli stesso, evidentemente per investirlo in operazioni proprie: da questo momento infatti lo vediamo agire indipendentemente dai familiari. Ancora nell'ottobre 1257 egli trafficava al margine del territorio pratese, prestando a persone di Montemurlo, mentre si trovava in quella località.
Seguì i familiari nei due esili durante i predomini ghibellini (1248, 1260), e quando nacque D., A. era nella piena maturità, sui quarantacinque anni. Ebbe due mogli, una di nome Bella che alcuni studiosi hanno voluto far della famiglia Abati, e da cui nacquero D. e probabilmente la figlia che andò in sposa a Leone Poggi; la seconda moglie, sposata tra il 1265 e il 1270, gli avrebbe dato Francesco e Tana, sposa quest'ultima di Lapo Riccomanni. Questa seconda moglie si chiamava Lapa di Chiarissimo Cialuffi; ma il Barbi dubitò che fosse proprio lei la seconda moglie di Alighiero e quindi madre dei due figli Francesco e Tana (vedi Cialuffi, Lapa). Morendo prima del 1283, lasciò la famiglia assai provveduta di beni.
Se D. non allude mai, neppure indirettamente, al padre, questi è citato da Forese Donati in due sonetti della Tenzone: " i' trovai Alaghier tra le fosse, / legato a nodo ch'i' non saccio 'l nome, / se fu di Salamone o d'altro saggio " (Rime LXXIV 8); " Ben so che fosti figliuol d'Alaghieri, / ed accorgomen pur a la vendetta / che facesti di lui sì bella e netta / de l'aguglin ched e' cambiò l'altr'ieri / ... di pace non dovevi aver tal fretta " (LXXVIII 1); queste citazioni hanno dato luogo a varie ipotesi sull'attività e sulle circostanze della morte di Alighiero.
Il trovare A. "tra le fosse" sarebbe, per alcuni commentatori, un riferimento a una sua supposta prigionia probabilmente per debiti, in quanto si alluderebbe (Chini e, sulla sua scia, Salvadori) alla chiesa di S. Iacopo "inter foveas" nella cui circoscrizione furono per un certo tempo le prigioni del comune. Ma si può subito escludere l'ipotesi di un tracollo finanziario tale da ridurre il padre di D. " legato a nodo " dalla giustizia, in quanto dai documenti sulla sua vita in nostro possesso apprendiamo che praticò con profitto l'attività di prestatore e lasciò i figli in buona situazione finanziaria. La supposizione che si alluda alla chiesa di S. Iacopo, inoltre, si vanifica se si considera che non abbiamo alcuna testimonianza che con " tra le fosse " venisse designata detta chiesa e che, inoltre, Ie prigioni furono eccezionalmente poste colà, per i prigionieri di guerra, soltanto nel periodo successivo alla battaglia di Campaldino (1289), mentre le prigioni ordinarie erano la Burella nel popolo di S. Simone e la Pagliazza nel popolo di S. Michele.
Secondo il Torraca A. sarebbe morto scomunicato per eresia, quindi il suo corpo sarebbe stato gettato alle fosse legato dai nodi del peccato, e anzi avremmo qui una chiara allusione all'inquisitore fra' Salomone da Lucca che operò negli anni 1282-83, appunto l'epoca in cui si presume A. sia morto. Ma siccome i beni degli eretici erano venduti e non si potevano ereditare, e inoltre i discendenti degli scomunicati fino alla seconda generazione non potevano ricoprire cariche pubbliche, ciò contrasterebbe con le notizie in nostro possesso. Inoltre è improbabile supporre per " tra le fosse " un luogo qualsiasi in cui si gettavano i cadaveri ai quali si rifiutava la sepoltura ecclesiastica, in quanto ciò contrasta con la topografia della Firenze dell'epoca; più probabile è pensare, come osserva il Barbi, che si voglia alludere a un camposanto, avendo ‛ fossa ' valore di " tomba ", e tenendo presente che allora questi cimiteri circondavano le chiese, per cui resta valida anche la casualità dell'incontro di Forese (" Udite la fortuna ove m'addosse ", Rime LXXIV 5). Il Rossi e lo Zonta, sempre accettando l'idea che il corpo di A. giacesse abbandonato, e basandosi su documenti della vita di questi, sostengono che egli fu scomunicato in quanto usuraio; e questa ipotesi, accettata anche dal Barbi, ha una sua validità. Agli usurai infatti era negata la sepoltura religiosa fintanto che non avessero reso il maltolto, e quindi è chiaro come A. apparisse legato dai vincoli del suo peccato, e si spiega la sua invocazione " Per amor di Dante, / scio'mi " (LXXIV 12-13) nonché la replica del Donati " i' non potti veder come ", probabile maligna allusione alla precaria situazione finanziaria di D., già oggetto di scherno nel corso della tenzone.
Si può infine supporre che A. attendesse una vendetta, e che quindi, secondo la credenza del tempo, non avesse pace nell'avello. A questo proposito il Rossi, anche riferendosi all'accenno della vendetta non soddisfatta del sonetto LXXVIII, sostiene trattarsi dell'uccisione di A.; ma si può supporre che D. avrebbe accennato alla morte violenta di Geri del Bello (If XXIX 27) qualora ci fosse da argomentare sull'uccisione del suo stesso padre? Inoltre proprio l'accusa di una pace fatta troppo in fretta con gli offensori esclude un'offesa di una gravità simile e che implicava tutto il nucleo familiare: eventualmente Forese avrebbe rimproverato a D. di aver devoluto ad altri il suo compito di vendetta, ma non di essersi liberato troppo rapidamente di questo impegno. Anche in questo caso quindi si può supporre che si tratti di un torto fatto ad A. nel corso della sua attività di prestatore, torto che l'offeso subì guadagnandosi la nomea di vile, e che D. ritenne più opportuno risolvere con un accomodamento, facendo esclamare a Forese " Ben so che fosti figliuol d'Alaghieri " (LXXVIII 1).
La figura di A., in definitiva, dai motti di Forese appare simile a quella che abbiamo desunto dai documenti che lo concernono: un uomo d'affari che cercava di far prosperare i suoi interessi cercando di non provocarsi contrasti col mondo circostante.
Bibl. - P. Santini, Un atto di prestito del padre di D., in " Studi d." I (1920) 127-129; Piattoli, Codice 6-13, 23, 30, 47, 151; M. Barbi, La tenzone di D. con Forese, in " Studi d. " IX (1924) 22-63, 121-132 (rist. in Barbi-Maggini, Rime 289-317, 357-366).