Alimentazione. Intolleranze alimentari
L'Accademia Europea di Allergologia e Immunologia Clinica ha ridefinito la nomenclatura delle reazioni abnormi ad alimenti. Per 'intolleranza' (ipersensibilità) ad alimenti si intendono segni o sintomi obiettivamente riproducibili, indotti dall'ingestione di un alimento a dosi tollerate da soggetti normali. Se l'intolleranza alimentare è dovuta a meccanismi immunologici, si parla di 'allergia' ad alimenti; se il ruolo degli anticorpi della classe IgE (immunoglobuline E) è evidente, si parla di 'allergia IgE mediata' ad alimenti, caratterizzata di solito da inizio acuto, a breve distanza di tempo dall'ingestione del cibo. Altre reazioni allergiche ad alimenti sono di tipo 'subacuto' o 'cronico' e sono mediate principalmente da cellule T. Per 'atopia' si intende una predisposizione (personale o familiare) a produrre anticorpi della classe IgE in risposta a basse dosi di allergeni e a sviluppare quindi tipici sintomi allergici.
Tuttavia, la presenza nel sangue di anticorpi della classe IgE non significa che vi è nel soggetto una vera malattia allergica clinicamente rilevabile, ma solo che esiste un certo rischio di sviluppare la malattia in circostanze adatte. Inoltre, la presenza nel sangue di anticorpi della classe IgE può avere un valore predittivo: per esempio, la comparsa nel primo anno di vita di anticorpi IgE contro l'albume d'uovo può predire lo sviluppo di sintomi allergici entro i primi sette-dieci anni di vita.
Molti test alternativi sono stati suggeriti allo scopo di formulare una diagnosi di allergia ad alimenti, ma la loro validità scientifica non è stata dimostrata in modo convincente: tra questi vanno annoverati i test di provocazione-neutralizzazione (eseguiti ponendo sotto la lingua o iniettando estratti di sostanze allergizzanti, per diagnosticare o trattare sintomi diversi), test elettrocutanei, di citotossicità per i leucociti e quelli basati sulla valutazione della forza muscolare. L'allergia ad alimenti IgE mediata colpisce uno o più organi bersaglio, provocando diversi tipi di reazione: la pelle (orticaria e angioedema), le vie respiratorie (riniti e asma), il tratto gastrointestinale (dolore, emorragia, vomito, diarrea) e il sistema cardiovascolare (shock anafilattico). Le reazioni sono causate dal contatto diretto dell'allergene con l'organo bersaglio o per localizzazione a distanza dell'allergene, dopo l'assorbimento attraverso il tratto gastrointestinale. Esempi di reazione da contatto sono il vomito e la diarrea, la reazione da contatto della bocca nella sindrome allergica orale, l'orticaria da contatto. L'allergia ad alimenti, a decorso subacuto e cronico, spesso mediata da cellule T, colpisce tipicamente la pelle e l'apparato gastrointestinale.
Il capitolo delle intolleranze alimentari è molto complesso. Il grano è un esempio della variabilità dei quadri clinici che possono essere causati da allergia ad alimenti: infatti, un soggetto con allergia al grano può presentare, in conseguenza della diversità dei meccanismi patogenetici in gioco, malattie molto diverse, quali la dermatite atopica, l'orticaria, l'anafilassi, la cosiddetta 'asma dei fornai', la celiachia. Alcune intolleranze alimentari sono particolarmente importanti per la loro elevata incidenza e perché riguardano alimenti di ampio consumo, come il latte e il grano: in particolare, l'intolleranza al latte da deficit di lattasi (intolleranza da difetto enzimatico, su base quindi non allergica), l'allergia alle proteine del latte vaccino nell'infanzia e l'intolleranza al glutine, o 'celiachia'.
Il lattosio è il disaccaride del latte ed è formato da due monosaccaridi, il galattosio e il glucosio. Per essere assorbito dall'intestino, il lattosio deve essere prima scisso nei monosaccaridi costitutivi da un enzima della mucosa dell'intestino tenue, la lattasi. Quando vi è assenza o riduzione di lattasi, il lattosio non idrolizzato e quindi non assorbibile passa nel colon, viene fermentato dai batteri ivi presenti, si trasforma in acido lattico e provoca diarrea, detta perciò 'fermentativa'. Tutti i Mammiferi nascono con livelli molto elevati di attività lattasica nell'intestino e sono pertanto in grado di utilizzare il lattosio contenuto nel latte. Essi perdono poi nella vita adulta quest'attività enzimatica, sicché il latte non è alimento tollerato dal mammifero adulto. Vi sono tuttavia, nella specie umana, alcuni individui che presentano una mutazione genetica che consente loro di mantenere livelli elevati di attività lattasica nell'intestino durante la vita adulta: questa è la condizione di persistente attività lattasica, mentre la condizione opposta è quella fisiologica dell' dell'adulto. Dopo la descrizione dei primi casi di ipolattasia dell'adulto c'è stato un grande fiorire di studi sulla persistenza di lattasi nelle varie popolazioni del globo terrestre. In Europa centrale e settentrionale prevale la persistenza di lattasi, mentre nell'Europa meridionale, nella maggior parte dei Paesi dell'Africa e dell'Asia e nelle popolazioni originarie dell'America prevale la ipolattasia.
Si è ipotizzato che la mutazione umana che porta a persistenza di lattasi nella vita adulta si sia verificata all'inizio del Neolitico, cioè circa 10.000 anni fa, nelle popolazioni del Vicino Oriente dedite alle prime forme di allevamento, quando c'è stata una vera e propria rivoluzione nella storia dell'uomo: il passaggio da una vita dedita alla caccia e alla raccolta del cibo a una vita dedita all'agricoltura e, attraverso la domesticazione degli animali, all'allevamento e poi alla pastorizia. Con il diffondersi di quest'ultima, infatti, la mutazione che portava a persistenza di lattasi conferiva notevole vantaggio selettivo, consentendo l'utilizzazione del latte come alimento per tutta la vita. La mutazione che porta alla persistenza di lattasi nella vita adulta è stata identificata nel genoma umano vicino al gene della lattasi. Molteplici sono le conseguenze cliniche e nutrizionali dell'intolleranza al latte da deficit di lattasi in soggetti adulti con ipolattasia. In questi, l'assunzione di latte e derivati, ricchi di lattosio, può provocare vari disturbi intestinali, quali diarrea, dolore addominale, flatulenza, e può anche aggravare altre malattie intestinali. La ipolattasia dell'adulto può anche portare a riduzione della quantità di latte e derivati assunti con la dieta, favorendo così lo sviluppo di osteoporosi giovanile. Va però detto che piccole quantità di latte, soprattutto se frazionate nella giornata, possono essere ben tollerate da adulti ipolattasici. La terapia della intolleranza al latte da deficit di lattasi consiste nella riduzione (o suddivisione) della quantità di latte vaccino assunto con gli alimenti e nella sostituzione del latte vaccino con latti nei quali il lattosio sia stato predigerito, o con derivati del latte privi di lattosio, come lo yogurt o i latticini; buon sostituto del latte vaccino è anche il latte di soia, che è privo di lattosio.
Per 'allergia alle proteine del latte vaccino' (APLV) si intendono reazioni avverse, sostenute da meccanismi immunologici, scatenate dall'ingestione di proteine del latte vaccino. Le stime di incidenza variano nei diversi studi dallo 0,1 al 7,5%. La APLV si può anche osservare in lattanti alimentati esclusivamente con latte materno, con un'incidenza intorno allo 0,5%. In questi casi si tratta di reazioni immunomediate a piccole quantità di proteine del latte vaccino presenti nel latte materno. Differenti meccanismi sono coinvolti nella patogenesi della malattia: l'aumentata permeabilità intestinale a proteine e l'immaturità del sistema immunitario ne favorirebbero l'insorgenza nel primo anno di vita. La β-lattoglobulina e la caseina sono i principali allergeni del latte vaccino, capaci di indurre sia risposte mucosali anticorpali (IgE specifiche) che cellulo-mediate: un ritardo nello sviluppo dei meccanismi regolatori della risposta immune intestinale ad antigeni della dieta sembra essere alla base dell'APLV. I sintomi dell'APLV si manifestano più spesso nei primi mesi di vita, quasi sempre nel primo anno: vomito e/o diarrea, talvolta con muco e sangue nelle feci. Accanto ai quadri acuti, a insorgenza rapida, con vomito e diarrea, vi è anche il quadro di diarrea cronica o malassorbimento, a insorgenza più lenta, e il quadro di tipo colitico, con sangue nelle feci. La APLV può essere anche causa di reflusso gastroesofageo e di stipsi, oppure di esofagite eosinofila. Sintomi cutanei sono la , l' e l'angioedema, sintomi respiratori il broncospasmo ricorrente, stridore, tosse, rinorrea. Lo shock anafilattico viene riportato nel 5÷9% dei casi.
In diversi studi, reazioni IgE mediate (orticaria, ) e non IgE mediate (enteropatia cronica, proctocolite, dismotilità intestinale, dermatite atopica) corrispondono in genere a manifestazioni cliniche rispettivamente più immediate o ritardate nel tempo. Quest'ultimo gruppo presenta invece un'aumentata reattività dei linfociti T, se esposti alle proteine del latte vaccino. La conferma diagnostica definitiva richiede sempre la dimostrazione della relazione causa/effetto tra l'ingestione delle proteine del latte e la sintomatologia. Con l'inizio della dieta da eliminazione, dopo pochi giorni nelle forme acute IgE mediate e dopo alcune settimane nelle forme protratte, croniche di enteropatia sensibile al latte, si assiste a una completa remissione della sintomatologia. La terapia si basa sulla esclusione delle proteine del latte vaccino dalla dieta: sono consigliabili, al posto del latte, nel primo anno di vita, gli idrolisati spinti di proteine del latte (di caseina e di proteine del siero) o il latte di soia.
È un'intolleranza permanente a proteine del grano (gliadine) e ad analoghe proteine della segale, dell'orzo (e forse dell'avena), che porta a danno della mucosa intestinale in soggetti geneticamente predisposti. La tossicità dell'avena è stata messa in discussione: l'avena non sarebbe infatti lesiva per l'intestino di pazienti adulti, ma alcuni celiaci sembrano non tollerare il cereale; è pertanto opportuno eliminare dalla dieta del celiaco anche l'avena. Le proteine del grano vengono distinte, secondo la loro solubilità in differenti solventi, in albumine, globuline, gliadine e glutenine. Le gliadine sono monomeri, mentre le glutenine formano polimeri. Le gliadine sono state classificate, secondo le sequenze amminoacidiche dell'estremità N-terminale, in α, γ e ω gliadine; le glutenine sono suddivise in glutenine ad alto peso molecolare e a basso peso molecolare. Le gliadine sono le proteine del grano responsabili della malattia celiaca: la tossicità degli altri cereali è dovuta alle prolamine di questi, che hanno analogia di solubilità o di struttura con le gliadine. Anche le glutenine sarebbero tossiche per il celiaco. Le sequenze amminoacidiche responsabili della tossicità delle gliadine non sono state del tutto chiarite, anche perché parti diverse delle molecole delle gliadine sono dotate di meccanismi lesivi differenti per l'intestino del celiaco: i peptidi 31-49, 31-43, 44-55 e 56-75 della α-gliadina si sono rivelati capaci di ledere in vitro la mucosa intestinale del celiaco. I meccanismi dell'azione lesiva della gliadina per la mucosa intestinale del celiaco sono molteplici e complessi: alcuni peptidi provocano una risposta infiammatoria T cellulo-mediata, altri attivano meccanismi dell'immunità innata, o interagiscono con cellule citotossiche, che portano a ulteriore infiammazione e danno della mucosa.
Nella malattia vi è inoltre un'importante componente autoimmune: essa è infatti caratterizzata dalla presenza nel sangue di vari , essendo i più importanti quelli rivolti contro un antigene molto diffuso nell'organismo umano, la transglutaminasi. Gli anticorpi antitransglutaminasi sono prodotti principalmente nella mucosa intestinale del malato, ma possono poi depositarsi in diversi organi e tessuti, il che potrebbe spiegare la compartecipazione di questi al quadro clinico della malattia. L'allattamento al seno ritarda la comparsa della celiachia; il rischio è maggiore quando il glutine è introdotto nella dieta del lattante in larga quantità; sembra essere invece ridotto se il lattante insieme al latte materno viene svezzato con frumento. Un'ipotesi, alla quale si sta lavorando oggi, è che la malattia celiaca possa essere ritardata, o addirittura prevenuta, se si interviene sulle abitudini alimentari degli individui geneticamente predisposti, durante il primo anno di vita.
La malattia ha una base genetica; si possono infatti verificare più casi nella stessa famiglia e il rischio di ammalarsi di celiachia è elevato (10%) nei parenti di primo grado dei celiaci. Nell'80% circa delle coppie di gemelli monozigoti, la malattia colpisce entrambi i gemelli. L'unico gene finora identificato, sicuramente coinvolto, è l'antigene di istocompatibilità di classe II, DQ2 o DQ8. Ciò è molto probabilmente dovuto al fatto che la molecola DQ lega frammenti peptidici degli antigeni alimentari coinvolti e li presenta alle cellule T della mucosa intestinale del malato. Altri geni candidati sono stati individuati nel genoma umano (per es., sui cromosomi 5, 11, 19) e sono oggetto di studio.
La prevalenza della malattia celiaca nelle sue varie forme cliniche è molto elevata in tutte le popolazioni umane studiate: essa è di circa uno ogni cento individui. La malattia è tuttavia clinicamente evidente in una minoranza di soggetti affetti: per individuare tutti i casi sarebbe perciò necessario ricorrere a uno screening di massa della popolazione, o almeno effettuare uno screening con metodi sierologici sui soggetti a rischio. L'intestino tenue del celiaco presenta una enteropatia che può essere di gravità crescente, variando da una semplice infiltrazione linfocitaria dell'epitelio intestinale di superficie a iperplasia delle cripte intestinali, ad atrofia dei villi nei casi più gravi; è comunque caratteristica della celiachia che la enteropatia dipenda dalla presenza del glutine nella dieta.
Anche il quadro clinico della malattia è molto variabile; nei bambini più piccoli, nei primi anni di vita, prevalgono i sintomi gastrointestinali (vomito, diarrea), con dimagrimento, inappetenza e irritabilità: negli anni successivi la malattia tende a colpire anche altri organi e apparati, causando quadri clinici molto variabili: bassa statura; anemia ferripriva resistente alla terapia marziale (fino all'8% di adulti con tale forma di anemia sono risultati affetti da celiachia); artrite e artralgia; osteoporosi (che è dieci volte più frequente nel celiaco che nella popolazione controllo); malattie del sistema nervoso centrale e periferico (epilessia con calcificazioni bilaterali occipitali, atassia, neuropatie periferiche); epatiti croniche e anche gravi insufficienze epatiche; infertilità, nascite premature, aborti; malattie dei denti; dermatite erpetiforme e altre malattie della pelle.
Una così alta variabilità del quadro clinico è dovuta a carenze nutrizionali, secondarie alla enteropatia, e a danno immunomediato dei diversi organi e apparati. Inoltre, molte malattie su base autoimmune sono frequentemente associate alla celiachia: malattie tiroidee, malattia di Addison, anemia perniciosa, trombocitopenia autoimmune, sarcoidosi, diabete insulino-dipendente, alopecia e cardiomiopatie. Queste malattie avrebbero in comune con la celiachia alcuni geni, coinvolti nella risposta immune (in primo luogo, alcuni geni del , Human leucocyte antigens). Non è chiaro se il rischio di sviluppare malattie autoimmuni nel celiaco sia connesso alla durata dell'esposizione al glutine con la dieta. La celiachia è anche relativamente frequente in alcune cromosomopatie, come la sindrome di Down e la sindrome di Turner. Il difetto selettivo di IgA seriche è anche associato a elevata incidenza di malattia celiaca. La malattia si sospetta in presenza di un quadro clinico compatibile con essa per livelli bassi di emoglobina, sideremia, calcemia, fosforemia, fosfatasemia, proteinemia, che suggeriscono l'esistenza di un malassorbimento. La diagnosi si basa sulla positività di alcuni test sierologici, in particolare sulla dimostrazione della presenza nel sangue di livelli elevati di anticorpi antigliadina della classe IgA, e soprattutto sulla presenza di anticorpi antiendomisio e antitransglutaminasi (la transglutaminasi tissutale è il principale autoantigene riconosciuto dagli anticorpi antiendomisio). Infatti gli anticorpi antitransglutaminasi tissutale umana sono considerati di grande utilità nella diagnosi della malattia, per la loro elevata sensibilità e specificità.
Pressoché tutti i celiaci sono portatori di un HLA particolare (DQ2 o DQ8): oggi sono in uso pertanto test diagnostici basati sul dosaggio di questi marcatori, l'assenza dei quali può far escludere una diagnosi di celiachia. La diagnosi di certezza di celiachia si basa, ancora oggi, sulla biopsia intestinale, che deve rivelare la tipica enteropatia, oltre che sulla risposta clinica e di laboratorio alla dieta senza glutine. La terapia consiste in una dieta priva di grano, segale, orzo e avena; riso e mais sono non tossici e sostituiscono, di solito, il frumento. Tutti gli altri cibi sono consentiti, purché preparati senza i cereali tossici. Tale dieta va continuata per tutta la vita, senza interruzioni. La risposta clinica alla eliminazione del glutine dalla dieta è spesso ben evidente, in ogni caso la dieta senza glutine va prescritta anche ai pazienti asintomatici, con malattia celiaca silente. Normalizzazione della enteropatia si verifica, di solito, entro sei mesi dall'inizio del trattamento dietetico. Pazienti con malattia celiaca hanno un rischio aumentato (di circa ottanta volte rispetto alla popolazione generale) di ammalarsi di adenocarcinoma del tenue; aumentato è pure il rischio per il linfoma a cellule T. Una dieta priva di glutine è protettiva nei riguardi di queste complicanze della malattia.
È una sindrome causata da anticorpi IgE e caratterizzata da improvviso prurito e talvolta angioedema di labbra, lingua e palato, in seguito a ingestione di frutta fresca e verdure. La sindrome è dovuta a un'iniziale sensibilizzazione per via respiratoria a pollini, che contengono proteine omologhe a quelle trovate in alcuni tipi di frutta e verdura. I soggetti con questa sindrome di solito hanno una storia di rinite allergica stagionale. Esempi di reazioni crociate tra pollini e cibi sono la reazione al melone in individui con ragweed allergy e reazioni a mele, pesche e ciliegie in quelli con allergia al polline di betulla. Le proteine in causa sono di solito termolabili, e per tale motivo frutta e verdura cotte di solito non inducono sintomi. Reazioni anafilattiche sono rare, a causa della digeribilità delle proteine in gioco. Tuttavia, circa il 9% dei soggetti affetti mostra sintomi al di fuori della bocca e circa l'1÷2% di essi presenta reazioni gravi. I test cutanei allergici con estratti freschi dei cibi incriminati sono di solito chiaramente positivi.
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