ALKAMENES (᾿Αλκαμένης, Alcamĕnes)
1°. - Scultore greco attivo nella seconda metà del V sec. a. C., che Plinio (Nat. hist., xxxvi, 16) dice ateniese, la Suda (s. v. ᾿Αλκαμένης) invece lemnio; forse le due tradizioni si possono accordare pensando A. figlio di un cleruco ateniese di Lemno. Da scartare, invece, l'ipotesi che A. sia da intendere limnio, cioè del quartiere ateniese di Limne, perché Tzetzes (Ghil., viii, 340) lo dice isolano (νησιώτης).
Riguardo alla cronologia, A. è detto contemporaneo di Fidia da Plinio (Nat. hist., xxxvi, 16 e xxxiv, 49) e poiché Pausania gli attribuisce il frontone occidentale del tempio di Zeus a Olimpia, del 465 circa, e, d'altra parte, ricorda (ix, 11, 6) un suo gruppo di Atena ed Eracle dedicato da Trasibulo e dai compagni nello Heraklèion di Tebe dopo il 403 a. C., si è pensato da alcuni a due artisti omonimi, uno più giovane e uno più vecchio. Tale sdoppiamento non è peraltro giustificato poiché l'analisi stilistica dimostra chiaramente che il frontone O, come quello E di Olimpia, attribuito a Paionios di Mende (v.), sono ambedue di un unico artista di stile severo. È molto suggestiva invece la tesi, presentata dallo Schrader e sostenuta da vari altri critici, che la notizia di Pausania possa derivare da una effettiva collaborazione più tarda di A. al frontone O, di cui egli avrebbe rifatto le tre statue angolari in marmo pentelico raffiguranti delle donne sdraiate, non senza un certo avvicinamento tipologico e schematico alle figure originali, distrutte forse da un terremoto. Lo stile di queste figure angolari è infatti più recente di quello delle altre della centauromachia e la struttura delle teste si può avvicinare a quella di opere attribuite dalla critica ad Alkamenes. Cadendo così il presupposto di una attività ad Olimpia intorno al 465, le opere di A. si possono inquadrare nella seconda metà del V sec. d. C. ed egli appare gravitante nell'orbita di Fidia, del quale era stato scolaro.
Per la conoscenza dello stile di A. un sicuro punto di partenza è costituito dal ritrovamento a Pergamo, nel 1903, di un'erma, oggi conservata a Istanbul. L'iscrizione su di essa ci fa sapere che trattasi di copia del bellissimo àgalma di Hermes propỳlaios opera di A., di cui un'altra copia iscritta con il nome dell'artista è stata trovata nel 1928 ad Efeso all'ingresso di una sala del ginnasio di P. Vedius Antoninus ed è oggi al museo di Smirne. L'originale di questo tipo doveva trovarsi ad Atene sui Propilei, dove lo ricorda Pausania (i, 22, 8) senza nominarne l'autore. Le copie di Pergamo e di Efeso sono del II sec. d. C. (altre a Roma, Giardino Barberini; a Monaco n. 200, e a Berlino) ma tutte conservano, pur attraverso varianti stilistiche, i tratti fondamentali con la lunga barba a taglio orizzontale, la triplice fila di riccioli chioccioliformi sulla fronte, i grossi riccioli striati che dalla nuca scendono sulle spalle, il puro taglio degli occhi, i piani contenuti del volto fermo. È un'opera che rivela uno stile volutamente arcaizzante, adeguato alla particolare tettonica dell'erma e alla tradizione iconografica. E un tipo che avrà poi numerose rielaborazioni. Forse a questo stesso carattere severo arcaizzante era improntata anche un'altra opera dell'artista: l'Ecate Epipyrgidia, che Pausania (ii, 30, 2) ricorda sull'Acropoli e che prendeva il nome dal pỳrgos di Atena Nike su cui fu posta, forse dopo il 432. È probabile che ad A. spetti la nuova concezione dello Hekatàion con tre erine distinte, invece di un unico corpo di tradizione arcaica, che si nota in copie di un tipo del V sec. a. C., come quella della coll. Ottenstein e in altre dall'agorà di Atene, suggerite dal Picard, e nelle quali intorno alla triplice dea con le fiaccole danzano le tre Cariti.
Pausania (i, 24, 3) ricorda sull'Acropoli tra il Partenone e l'Eretteo anche un gruppo dedicato da un A., raffigurante Procne con il figlio Itys, di cui ella medita la morte, e si è voluto riconoscere quest'opera in un gruppo marmoreo del Museo dell'Acropoli, con il fanciullo che si stringe ignaro al fianco destro della madre, il cui atteggiamento, con il braccio sinistro piegato verso il volto e la testa inclinata, suggerisce una certa interna agitazione. Il volto è abraso, ma l'ovale si rivela pieno e tondeggiante e il peplo si intona con i panneggi della cerchia fidiaca, ma con una maggiore consistenza nella trattazione della stoffa; si direbbe che per questa figura l'artista avesse in mente la Ippodamia del frontone orientale di Olimpia, ammirata durante il suo soggiorno nell'Altis, di cui dà in questo gruppo un'interpretazione nello stile classico, piuttosto vicina alla Hera di Pergamo a Berlino. Con la staticità frontale gravitante della madre nel suo interno travaglio, contrasta efficacemente il nudo corpo sinuoso, di tre quarti, del fanciullo, preannuncio di ritmi prassitelici, ma il cui aggraziato fluido movimento si fonde con il corpo panneggiato della madre, quasi come un attributo che serve a materializzare il contenuto psicologico della creazione, concepita nello spirito dei grandi tragici del V secolo. Accettando questa identificazione, il gruppo costituirebbe un caposaldo, insieme allo Hermes propỳlaios, per la conoscenza dell'artista. L'opera più celebrata era, peraltro, la famosa Afrodite dei Giardini (Paus., I, 19, 2), a cui Fidia stesso si diceva che avesse posto mano (Plin., Nat. hist., xxxvi, 16). Luciano ne esaltava le guance e i piani del volto, le estremità delle mani, le graziose proporzioni dei polsi, la forma affusolata e allungata delle dita (Imag., 4 e 6). Il Furtwängler volle riconoscerla nel tipo del Fréjus, attribuito oggi più verisimilmente a Kallimachos; lo Schrader invece in un tipo statuario di figura femminile appoggiata ora a un tronco d'albero, ora a un pilastro, con le gambe obliquamente incrociate, con un chitone velificato di tradizione fidiaca e con himàtion sottile intorno alle gambe. Ne abbiamo una decina di copie, di cui le migliori al Louvre e a Napoli, più un torso a Smirne, da Tralles, e un rilievo da Dafni con un albero, che aveva fatto pensare a a un richiamo ai Kèpoi, i Giardini. L'originale era celebre ma mostra un virtuosismo raffinato nel panneggio, un carattere di grazia elegante nel ritmo, nel seno seminudo, che sembrerebbero di un temperamento diverso dalle opere alcameniche precedenti. Più aderente all'artista che non le statue in pentelico di Olimpia, lo Hermes e la Procne, appare una testa di Afrodite dal mercato di Leptis, ad erma, con ampyx, bande di capelli rialzate e ciuffo scendente sulla nuca; è stata dal Guidi e dal Gullini riportata alla creazione alcamenica, pensando, sulla base di un'errata lettura di Pausania, che l'Afrodite en kèpois fosse un'erma.
Il Langlotz, notando come nella ceramica attica della seconda metà del V sec. a. C. compaia un tipo di Afrodite con panneggio sottile e trasparente, con ricca acconciatura fasciata da bende, seduta, nelle prime redazioni, su roccia e, in quelle più tarde, su seggiola in mezzo ad arboscelli, ha voluto vedervi un riflesso dell'Afrodite dei Giardini di A. Questa sarebbe allora da ricercare nella serie di copie marmoree adoperate per statue iconografiche romane (c. d. Agrippina del Capitolino, Albani, Torlonia, le due agli Uffizî, una a Napoli, altre a Verona e Ostia, ed una, già ad Este, nota da un disegno) di dame e imperatrici, fra cui Sant'Elena. La testa originale di questa Afrodite seduta ci è data da un'altra serie di copie, spesso ridotta ad erma (la cosiddetta Saffo). Questo tipo, così ricostruito, era stato attribuito a Fidia dal Becatti, vedendovi l'Afrodite eximiae pulchritudinis del maestro ricordata da Plinio nel Portico di Ottavia (Nat. hist., xxxvi, 15), per le consonanze stilistiche con le sculture partenoniche; il Langlotz lo ricostruisce con la testa di Oxford (Ashmolean Museum), che è una variante del tipo della cosiddetta Saffo, vedendo in quest'ultimo, invece, la testa della Venere Genitrice di Arkesilaos, ma le differenze, che si limitano all'estremità della benda annodata sulla nuca invece che fermata sulla fronte, non sembrano giustificare tale distinzione stilistica e cronologica. Non sembra inoltre accettabile la tesi del Langlotz che il cane molosso, scolpito sotto la seggiola in alcune copie, facesse parte della composizione originaria, e pare più verisimile attribuirlo all'uso funerario di quelle statue iconiche romane. La creazione di questa Afrodite seduta (a cui bene si addicono gli apprezzamenti e gli accenni descrittivi di Luciano, e che sembra aver influenzato i ceramografi attici della fine del V sec. a. C.) sicuramente marmorea, gravita in pieno nella cerchia partenonica e non è da trascurare la tradizione che Fidia vi avrebbe posto mano e che A. era, insieme con Agorakritos, l'allievo più vicino al maestro. Può darsi perciò che l'Afrodite dei Giardini fosse nata da una stretta collaborazione di Fidia e di A., e, volendo vederla in questo tipo seduto su seggiola, si potrebbero spiegare così gli stretti confronti partenonici. Si potrebbe anche pensare che una copia portata a Roma nel I sec. a. C. ed esposta nel portico di Ottavia, tolta dall'ambiente dei Giardini, finisse per passare poi nella tradizione romana come un'Afrodite di Fidia e non di A., prevalendo cioè il nome dell'artista più famoso. Poiché Pausania nomina l'àgalma di Afrodite dei Giardini da riferire al tempio e anche un'erma di Afrodite fuori del tempio con l'iscrizione che la diceva Urania e la più anziana delle Moirai, non sarebbe da escludere l'ipotesi che anche quest'erma fosse stata creata nello stesso momento e fosse opera di A., onde potrebbe vedersi nel tipo di Leptis, che sembra avere caratteri stilistici alcamenici e che nell'acconciatura e nel volto potrebbe avvicinarsi anche al tipo della Saffo.
Altre opere A. aveva creato per Atene, in cui, dopo Fidia, doveva occupare un posto di primo piano; nello Hephaistèion erano le due statue bronzee di culto di Efesto e di Atena, e alla prima il Furtwängler ha riportato la testa del Museo Chiaramonti, stilisticamente ben inquadrabile intorno al 420 a. C. Cicerone (De nat. deor., i, 30) dice che sul corpo appariva appena quella claudicatio non deformis che Valerio Massimo (xi, ext. 3) considera una caratteristica del dio espressa con decoro. Di Atena, che Pausania (1, 14, 6) nomina accanto ad Efesto nel tempio, le fonti non dànno l'attribuzione ad A., ma è molto probabile che ne sia stato l'autore e nei rendiconti epigrafici (I. G., 12, 1, 371) degli anni 421-416 a. C. si parla di due statue bronzee e di un elemento floreale a sostegno dello scudo di Atena. Poiché questo fiore di acanto compare in un tipo di Atena noto da una copia ridotta di Cherchell (alt. m 1,20) si è pensato di vedervi il ricordo dell'opera di A., di cui altre copie frammentarie ed acefale sono state trovate a Ostia, a Lecce, ad Arles. Il peplo semplice a larghe pieghe consistenti con piccola egida a tracolla mostra caratteri di una certa severità, di contenutezza e di sobrietà che potrebbero convenire al temperamento alcamenico e ad un'opera bronzea; purtroppo tutte le copie sono acefale, sicché ci manca quello che sarebbe stato l'elemento stilistico principale; altri ha riportato quest'Atena al IV sec. a. C. Pausania (1, 8, 4) ricorda anche un Ares in Atene nel tempio dell'agorà, che si è voluto identificare suggestivamente nell'Ares Borghese al Louvre, di cui si hanno altre copie dalle terme di Leptis Magna e al Laterano, a Dresda e a Monaco (delle ultime due solo le teste). Ares è rappresentato stante, nudo, in posizione raccolta con la testa reclinata di lato, dalle guance ombrate di brevi riccioli, con una ispirazione nel ritmo al Doriforo policleteo, ma opera di puro spirito attico. Anche A. aveva dato, del resto, una rappresentazione famosa dell'atleta vincitore del pentatlo nel suo bronzo detto appunto Enkrinòmenos (Plin., Nat. hist., xxxiv, 72), cioè "riconosciuto perfetto", sebbene il Klein abbia proposto di leggere enchriòmenos (ἐγχριόμενος), cioè "colui (atleta) che si sta ungendo". Questa creazione è stata ricercata dal Kekulé nel Discobolo del Vaticano, di cui si hanno altre copie, che presenta alcune analogie stilistiche con l'Ares Borghese, mentre altri l'hanno attribuito a Naukydes.
Per Atene, A. aveva creato il simulacro crisoelefantino di Dioniso nel santuario presso il teatro (Paus., i, 20, 3) e i resti della base, analizzati dal Reisch, dànno per l'altezza del dio seduto in trono circa m 5,50-6,25; forse il simulacro è riprodotto su monete ateniesi, dove il dio appare con il tirso nella mano sinistra e il kàntharos nella destra protesa, forse in testa ha una corona di pampini e lo himàtion intorno alle gambe.
Molti critici hanno voluto riconoscere la mano di A. nelle sculture del Partenone e lo Schrader gli ha addirittura attribuito il frontone E, ma anche se, come allievo prediletto di Fidia, A. vi avrà preso parte, l'impronta del genio fidiaco in tutti i marmi rende insignificanti le differenze di esecuzione, e il Partenone non può servire di base per ricercare la personalità di Alkamenes.
Tra le varie altre attribuzioni proposte ricordiamo quella delle cariatidi dell'Eretteo, che mostrano nell'acconciatura analogie con lo Hermes propỳlaios; la Kore Albani, la cui testa si avvicina a quelle del frontone di Olimpia; la Hera nota dalle copie Capitolino-Pergamo-Spada.
Comunque, dalle opere più sicuramente riportabili ad A., egli appare con un temperamento diverso dal maestro Fidia, più contenuto e più sobrio ma, come lui, volto a dar forma alle grandi divinità olimpiche con un gusto improntato alla purezza e alla grandiosità del linguaggio classico attico, colmo di pondus (Quintil., Inst. or., xii, 10, 8), staccandosi dai suoi contemporanei Paionios e Kallimachos, che svilupperanno con tono virtuosistico le conquiste dell'arte fidiaca.
Bibl: H. Brunn, Geschichte der griechischen Künstler, I, 2a ed., Stoccarda 1889, p. 234 ss.; C. Robert, in Pauly-Wissowa, I, cc. 1507-508, s. v., n. 5; M. Collignon, Histoire de la sculpture grecque, II, Parigi 1897, p. 114 ss.; W. Klein, Geschichte der griechischen Kunst, II, Lipsia 1905; A. Furtwängler, Meisterwerke, p. 117 ss.; W. Amelung, in Thieme-Becker, pp. 293-296; B. Schröder, A. Studien, 79. Winckelmannsprogramm, Berlino 1921; Ch. Waldston, Alcamenes and the Establishment of the Classical Type in Greek Art, 1926; H. Schrader, Phidias, Francoforte s. M. 1924; Ch. Picard, Manuel d'archéologie grecque: La sculpture, II, Parigi 1939, pp. 551-586, con la bibliografia particolare sulle varie opere; G. Guidi, Afrodite del Mercato, in Africa Italiana, IV, 1931, p. I ss.; G. Gullini, Afrodite en Kepois, in Rend. Pont. Acc., XXI, 1945-46, p. 151 ss.; E. Tamajo, Per la Hera di Alcamenes, in Atti Acc. Scienze Lettere Arti di Palermo, IX, 1949, pp. 1-40; G. Gullini, Nota su A., in Arch. Class., II, 1950, pp. 90-92; Ch. Picard, Le tipe guerrier de l'Athéna Héphaistia d'Alcamène, in Rev. Arch., XXXV, 1950, pp. 189-190; id., L'Athena Hephaistia d'Alcamene, in Miscellanea Galbiati, Milano 1951, I, p. 19-25; E. Boucher-Colozier, Cherchel (Caesarea): Note sur l'Athéna Alcaménienne, in Libyca, I, 1953, pp. 265-267; G. Becatti, Problemi Fidiaci, Firenze 1955; E. Langlotz, A. Probleme, 108. Winckelmannsprogramm, Berlino 1952; E. Langlotz, Aphrodite in den Garten, in Sitzungsb. Heidelberger Akad., 1953-54; cfr. recensione negativa di Ch. Picard, in Rev. Arch., XLVIII, 1956, pp. 97-101; R. Calza, in Mem. Pont. Acc., VIII, 1955, pp. 107-136.