Giurista, studioso delle relazioni politico-giuridiche inter nationes nel pieno svolgersi di quell'asperrimo periodo di conflitti che gli storici chiamano secolo di ferro (1550-1650), alla metà del quale diede alle stampe il fortunato trattato De iure belli (1598), osservatore ῾sul campo᾿ e protagonista di quelle medesime relazioni in virtù degli alti incarichi affidatigli dalla corona inglese, Alberico Gentili rientra a pieno titolo nella disputa su chi sia stato il ῾vero fondatore᾿ del moderno ius inter nationes – o addirittura il precursore del ῾diritto internazionale᾿ come noi lo intendiamo oggi –, giacché proprio in merito a Gentili si sono segnalate «forti corrispondenze tra certe posizioni dei padri fondatori della dottrina internazionalista e certe posizioni della teoria e della prassi delle relazioni internazionali di oggi» (Panizza, in Alberico Gentili, 2001, p. 53).
In siffatta querelle, Gentili contende in effetti la palma di fondatore del diritto internazionale a due giganti del pensiero politico-giuridico dell'Europa moderna, lo spagnolo Francisco de Vitoria (1485-1546) e l'olandese Ugo Grozio (Huig van Groot, 1583-1645). Al di là della trascurabile valenza storiografica della disputa (Cassi 2010, p. 1141; Birocchi, in Ius gentium, 2009, p. 105), tutt'ora in corso in tanta parte della letteratura giusinternazionalistica, può risultare metodologicamente utile analizzare taluni profili della dottrina de iure gentium di Gentili confrontandola con quella di de Vitoria (soprattutto per ciò che concerne lo ius ad bellum, ovvero i legittimi ῾titoli giuridici᾿ in virtù dei quali si può indire una ῾guerra giusta᾿) e con quella di Grozio (in particolare per lo ius in bello, deputato alla disciplina dei comportamenti che si possono ῾legittimamente᾿ tenere durante la guerra), onde focalizzare il contributo specifico, teso «tra tradizione e innovazione» (Storti, in Alberico Gentili, 2010), che Alberico seppe apportare alla scienza giusinternazionalistica dell’antico regime.
Nato il 14 gennaio 1552 a San Ginesio (nelle attuali Marche), Gentili si addottorò in diritto civile presso lo Studium di Perugia il 23 settembre 1572. Dopo aver ricoperto la carica di giudice ad Ascoli, ritornò nel paese natio, dove esercitò la professione di avvocato e, nel 1577, portò a compimento l'incarico, ricevuto l’anno precedente, di redigere gli statuti civici. Dovette tuttavia interrompere la sua promettente carriera per seguire in Carniola il padre, colà riparato per sospetti di attivismo in una confraternita protestante che avevano allertato l’Inquisizione.
Nel 1580 la svolta della sua vita: si trasferì a Londra, per passare poi a Oxford, nella cui università, anche grazie agli appoggi politici che seppe assicurarsi, ottenne la cattedra di diritto civile. La sua carriera conobbe da allora una continua ascesa: nel 1587 fu nominato presso l’All souls college regius professor of civil law, carica istituita dal re Enrico VIII che gli permise di entrare nell’entourage della corona e di trattare, in qualità di consiliatore, molte delle più importanti questioni di politica interna e internazionale nel delicato passaggio dalla dinastia dei Tudor (Elisabetta I) a quella degli Stuart (Giacomo I).
Esercitò l’avvocatura quale membro della prestigiosa associazione legale Gray’s Inn, e dal 1605 fu anche avvocato della corona di Spagna presso il principale tribunale marittimo inglese, la High court of Admiralty. Morì a Londra il 19 giugno 1608.
Il pensiero giusinternazionalistico di Gentili, esposto nei tre libri del De iure belli, si presenta non semplice né lineare, e in molte pagine è appesantito dall'erudizione dell'autore – del resto in sintonia con lo stylus scribendi di molti suoi contemporanei –; tuttavia risulta connotato da coerenza interna e conoscenza di prima mano delle fonti, soprattutto giuridiche (Quaglioni 2008, pp. XIX-XXIII; Minnucci 2011, pp. 99 e segg.), evocate a corroborare l'argumentum iuris.
Un pensiero, quello di Gentili, al contempo avversario sia della fosca antropologia di Thomas Hobbes che dell’irenismo di Erasmo da Rotterdam. Contro quest’ultimo egli polemizza duramente (Lavenia, in Ius gentium, 2009, pp. 187-88): nel cap. V del libro I del De iure belli non va per il sottile contro «quel modo di ragionare puerile», frutto del ῾pregiudizio᾿ nutrito da «quel lettore incoerente e superficiale che non sapeva nemmeno lui quel che pensava». È in effetti tuttora in discussione il modello cui si sarebbe ispirato Gentili, dallo scetticismo di Montaigne a una matrice machiavellica (Kingsbury, in Alberico Gentili, 2001, pp. 26 e segg.), forse più direttamente presente (cfr. De legationibus, 1585, libro III, cap. IX).
Ciò che più si rileva, tuttavia, è che in Gentili si è oramai esplicitata la (indubbiamente scettica) rinuncia alla empirica possibilità di pervenire alla conoscenza della veritas, ovvero a sapere con certezza chi dei due contendenti nell'agone giuridico sia dalla parte del vero.
È proprio in forza di questo cambiamento di prospettiva teoretica che ci si può rapportare con il giudizio formulato da una parte della storiografia gentiliana, la quale rileva come «il modo in cui Gentili tratta il diritto bellico è sistematico in modo debole, e non deduttivo» (Honorè 1991, p. 45). Anche se il trattato gentiliano aspira, invero, a una rielaborazione innovatrice e coerente dello ius inter nationes , sì da potersi considerare «all'interno di quel processo storico che fa del diritto internazionale un sistema» (Birocchi, in Ius gentium, 2009, p. 110 nota 25), va rilevato come Gentili, per formazione culturale, approccio scientifico, professione giuridica, non fosse interessato a perseguire a priori un andamento sistematico ῾forte᾿. Più spesso il suo era un approccio empirico, casistico, scaturente dalla storia: da qui si comprendono quegli eruditi elenchi di casi del passato che trapuntano, spesso faticosamente, le sue pagine, donde trarre una regula consuetudinaria; un'impostazione metodologica ancora impressa dal timbro di diritto comune, con il classico metodo della disputatio (Minnucci 2007, pp. 218-19). Una metodologia che con il De iure belli si configura come ῾nuova᾿ quanto alla materia cui si tenta di applicarla, ma che al tempo stesso era rodata nella trattatistica di diritto comune, che Gentili ben conosceva di prima mano e che compulsava nell’esercizio della professione forense. Non si tratta allora di mero scetticismo, ma di un modus operandi eminentemente giuridico, nello svolgimento del quale certamente Alberico opera un'indubbia sterzata teorica. Interessa qui rilevarne in particolare due passaggi.
In primo luogo, si deve annotare come Gentili abbassi la soglia di accesso intellettuale e di intervento teoretico ed etico dell'uomo – e del giurista – dal livello della veritas a quello della verosimiglianza:
Non conosciamo quella giustizia supremamente pura e vera […] nella maggior parte dei casi noi ignoriamo quella verità; e quindi seguiamo la verità come appare agli uomini (De iure belli, libro I, cap. VI).
Siffatta operazione teoretica ha rilevanti ricadute sulla dimensione giuridica della realtà e sul diritto; ricadute che divengono novità dirompenti nell'ambito del diritto inter nationes e del centro focale di quest'ultimo: il bellum iustum.
In secondo luogo, infatti, il tornante così compiuto da Gentili immette la sua argomentazione in una nuova direzione: la iusta causa di guerra può essere ravvisata verosimilmente in entrambe le parti avverse. Si percorre quindi un passaggio cruciale che ne comporta un altro: il bellum può essere iustum per entrambe le parti (Bellum iuste geri utrinque potest, recita significativamente il titolo del cap. VI del libro I di De iure belli). Si tratta di una conseguenza logica inedita, mai affermata expressis verbis prima d'ora (Cassi 2003, p. 118) e dalle profonde implicazioni storiche. Qui risiede probabilmente la vera grande novità del pensiero giusinternazionalista di Gentili. L'itinerario, così denso di implicazioni giuridiche e politiche, è compiuto in un passaggio dove Gentili si confronta con la somma auctoritas di diritto comune, con l'opinio magis communis, quella del ῾grande᾿ Baldo degli Ubaldi, ed è un confronto sostenuto ancora una volta sul piano dell'argumentum della verosimiglianza:
In questo modo evitiamo l'argomento contrario di Baldo secondo il quale, dato che la guerra si svolge tra opposti, è necessario che una delle parti sia nel torto (De iure belli, libro I, cap. VI).
La necessità logica, corollario del principio di non contraddizione (se Tizio ha ragione, non può averla anche Caio, suo avversario), vincolante per i giuristi dell’età del diritto comune, sia per i ῾canonisti᾿ sia per i ῾civilisti᾿ (Cassi 2003), è destituita di fondamento da Gentili:
Se è veramente dubbio da quale parte stia la giustizia, e se ciascuna delle due parti la invoca per sé, è possibile che nessuna delle due parti sia nel torto (De iure belli, libro I, cap. VI).
Decisiva è la direzione verso la quale Gentili fa sfociare l'onda d'urto delle conseguenze di tale principio. Egli non conclude – come pure sarebbe teoreticamente corretto – nel senso che, restando impossibile stabilire da quale parte sia la giustizia, nessuno dei contendenti ha ragione, e la guerra è comunque ingiusta o in ogni caso riprovevole; l'irenismo erasmiano è rigettato, così come la scettica sospensione del giudizio alla Montaigne.
Un filosofo forse può rinunciare alla formulazione di un giudizio, non un giurista – quanto meno un giurista del 15° secolo. Gentili non rinuncia a dire che è asseribile, rivendicabile, proclamabile una ragione: afferma che essa lo è da entrambe le parti.
Il punto sta, secondo lui, nelle modalità, nelle formalità di quella rivendicazione e di quella proclamazione di giustizia inter nationes. Si tratta delle modalità di un procedimento di matrice giudiziaria che egli non espone sistematicamente in un capitolo ad hoc (come farà Grozio nel cap. XX del libro III del suo De iure belli ac pacis, 1625), bensì evoca, con una fitta casistica di esempi storici, in passi diversi dei tre libri del trattato.
Al di là del modello procedurale abbozzato da Gentili e dei principi che vi dovrebbero trovare applicazione (talora regulae iuris particolari, talora criteri meramente equitativi: cfr. De iure belli, libro II, cap. XVII, e libro III, cap. XXIV), ciò che rileva è la liquidazione del dogma della ῾guerra giusta᾿: in tale procedura potrà risultare vittoriosa anche una parte che, secondo l'antica dottrina, sarebbe ῾ingiusta᾿ (libro I, cap. V). L’interesse della dottrina giusinternazionalistica gentiliana sta in effetti anche nella (utopistica) proposta di formalizzazione processuale del conflitto, che rappresenta al tempo stesso il postremo sviluppo di una concezione de bello (evocata da Erasmo e affiorante nelle pagine di de Vitoria) che rinunciava a identificare da quale parte stesse la vera iustitia.
Vi è appunto da chiedersi, tuttavia, di quale giustizia si tratti, in siffatta investigazione delle ragioni dei contendenti, atteso che a quella giustizia ῾supremamente pura e vera᾿ si è rinunciato. Gentili lo dice: si tratta della tutela delle prerogative del sovrano (servanda maiestas). Si deve in effetti evidenziare come la guerra si configuri ῾giusta᾿ o meno in funzione dello status soggettivo di chi la conduce. Il sovrano legittimo è iustus hostis per definizione; per definizione il suo bellum è iustum perché egli invoca e tutela le proprie ragioni, allega la propria maiestas e iustitia, le proprie prerogative sovrane. Il sovrano è iustus hostis perché è sovrano: il principio non è tautologico ma assiologico: solo il sovrano, in quanto tale, ovvero in quanto titolare della servanda maiestas, è legittimato a indire un bellum iustum. Si tratta della riconfigurazione in chiave moderna del requisito della legittima auctoritas già indicato dagli antichi (Cassi 2003), bastione contro il dilagare delle guerre civili e dei conflitti interni che insanguinavano l'Europa, a cominciare da quella stessa terra inglese dove insegnava e operava Gentili.
In questi, dunque, i requisiti de iusto bello transitano dalla sfera soggettiva (la recta intentio sulla quale insisteva l'antica dottrina del bellum iustum), a quella oggettiva (i requisiti maiestatici del sovrano, dello Stato, la loro estrema difesa).
La ragione che fa iustum il bellum sembra essere in ultima analisi la ragione di Stato. Se ciò non semplifica il compito deputato alla sopra accennata procedura di composizione delle liti (l’ipotesi in cui entrambi i sovrani siano legittimi, e siano in gioco le rispettive ‘ragioni di Stato’, sembra determinare, con le premesse supra esposte, un impasse insuperabile), contribuiva a riconfigurare i termini del moderno ius inter nationes, determinando, sotto questo profilo, una ῾secolarizzazione᾿ dello ius ad bellum e delle relazioni giusinternazionali, il che introduce a un altro punto focale del pensiero giuspolitico gentiliano. Questo riassetto del diritto internazionale, in effetti, andava indirettamente a disinnescare i conflitti di matrice religiosa e le asperrime ῾guerre civili᾿ che ne conseguivano nel suolo europeo.
Coerentemente con l’assunto secondo il quale non esiste necessariamente una parte belligerante absolute ῾giusta᾿, latrice di una verità oggettiva, Gentili rifiuta la legittimità della matrice religiosa delle guerre, respingendola con fermezza (De iure belli, libro I, cap. VIII).
Anche l’ipotesi del principe che voglia cambiare la religione dei propri sudditi, e perfino quella del sovrano che intenda ricorrere alla forza contro i sudditi che hanno abbracciato un’altra fede (ipotesi tutt'altro che scolastica nella storia europea dell'età moderna), vengono respinte quali legittimi tituli ad bellum. Ma, viceversa, nemmeno i sudditi sono legittimati a combattere iuste nel caso speculare:
Ma che cosa succede se il principe vuole cambiare del tutto la religione dei suoi sudditi o invece conservarne una ormai antica e superata? Io sono convinto che su queste basi i sudditi farebbero una guerra ingiusta contro il loro principe (cap. XI).
Tale ipotesi costituiva per de Vitoria e la sua Escuela una legittima iusta causa ad bellum (Relectio de Indis, 1538 o 1539, I, 3, 12), dalla quale ora Alberico prendeva fermamente le distanze.
Gentili dunque sembra comprimere, come forse mai fu argomentato prima, la valenza giustificatrice ad bellum della difesa della christianitas e della recta religio, quasi presagendo la tempesta della guerra dei Trent’anni che nel 1618 sarebbe deflagrata, almeno ufficialmente, per motivi eminentemente religiosi. Ma lo scenario sul quale si giocava la partita del moderno ius inter nationes non era solo europeo.
Gentili, infatti, in tal modo respingeva decisamente uno dei principali legitimi tituli ad bellum proclamati da de Vitoria ed entrati nella dottrina giusinternazionalistica del 16° e 17° sec.: il diritto di missione. Questo era il titulus secundus (dopo quello ratione societatis et communicationis) formulato da de Vitoria per giustificare la Conquista del Nuovo Mondo («alius titulus potest esse causa religionis christianae propagandae»: I, 3, 8-11).
Gentili, portando all’estrema conclusione l'opinione di de Vitoria contraria alla guerra di religione (secondo la quale essa rappresentava il quarto titulus «non legitimus»: I, 2, 11-20), riteneva che né il rifiuto di accogliere i missionari né quello di accogliere la fede cristiana costituissero giuste cause di guerra.
Se nel cap. XII del libro I di De iure belli Alberico era già stato sul punto molto chiaro, affermando che «gli spagnoli poterono giustificare la guerra contro gli Indios con il pretesto religioso», nel cap. XXV il diritto di missione, per quanto accreditato dall'opinio communis, è fermamente respinto, ancora una volta con specifico riferimento alla Conquista del Nuovo Mondo.
Tuttavia egli, nel medesimo passo sopra richiamato, ove argomenta contro la legittimità della matrice religiosa dei conflitti, appone una clausola: «E dico ciò sempre con la riserva 'che la comunità politica non ne riceva alcun danno'».
La res publica (ovvero lo Stato, le ῾sue ragioni᾿, e in particolare la ῾ragione di Stato᾿), qualora sia minacciata da questioni religiose, e quindi sit servanda, sia bisognosa di protezione, costituisce il valore, o quanto meno il titulus legitimus, idoneo ad iustum bellum. La religio espulsa dal novero delle iustae causae belli vi rientra attraverso la categoria del politicum. Si è così compiuto un tornante decisivo nella storia del pensiero giuridico e politico europeo, che riceverà un notevole impulso quando la categoria del politicum eserciterà il proprio controllo su quella dell’oeconomia.
Dunque, tra i legittimi titoli ad bellum iustum la religione non trova più spazio, mentre la ragion di Stato aumenta la propria sfera d’intervento. Essa ricomprende trasversalmente i tradizionali casi di guerra difensiva e guerra offensiva, quest'ultima nei casi in cui sia necessaria, quando non v'è altro modo per sopravvivere, utile, per vendicare l'iniuria accepta, e per causa d'onore. Tuttavia c'è dell'altro: un nuovo valore (῾nuovo᾿ in quanto riconosciuto come dato assiologicamente afferente alla sfera della dottrina politica, ché la dinamica economica delle guerre era naturalmente ben conosciuta) destinato a farsi strada.
Nelle dispute sulla legittimità della Conquista e nella riflessione giusinternazionalista del 16° sec. il riferimento ai delicta contra naturam concerneva soprattutto i sacrifici umani, l’idolatria, il cannibalismo. Tuttavia, altri delitti erano in realtà imputati agli indios dagli esponenti della grande Scuola di Salamanca; delitti meno allarmanti sul piano dell’opinione pubblica, ma forse più incisivi sotto il profilo politico ed economico; ed erano essi a costituire i veri tituli ad bellum iustum contra barbaros (Cassi 2004, pp. 373 e segg.).
Ciò è particolarmente rinvenibile nella riflessione condotta da de Vitoria. L’uguaglianza naturale degli uomini implicava la loro socialità, la non autosufficienza delle gentes, la loro necessaria communicatio, che doveva essere regolata e tutelata dallo ius gentium attraverso specifici diritti naturali e inderogabili, da de Vitoria identificati con precisione: «ius societatis et communicationis»; «ius negotiandi», «ius partecipationis», «ius migrandi» (Relectio, I, 3, 1-3). Ed è in virtù di tale ordo iuris che in de Vitoria troviamo anche il diritto da parte dei missionari di evangelizzare, con il conseguente obbligo degli autoctoni di permetterne il soggiorno e il transito; specificazione dello ius transiti che Gentili, come si è detto, non riconosce. Da queste quattro propositiones discendono a mo’ di corollari i diritti di commercio, di transito, di domicilio nel territorio altrui, di sfruttamento delle risorse comuni; diritti naturali, fondamentali, postulati e garantiti dal diritto inter nationes, in quanto afferenti alla socialitas, allo scambio produttivo, in ultima analisi al criterio economico.
Tale concezione oeconomica era destinata a radicarsi in profondità nella cultura europea, soprattutto di matrice inglese, bene espressa da Thomas More (Tommaso Moro), e poi da John Locke. Nell’Utopia, in particolare, Moro immagina che il governo dell’isola di Utopia, a causa della sovrappopolazione, invii propri abitanti in altre terre non fertili, che essi, con la propria capacità e la propria intraprendenza, sanno coltivare e sfruttare. I nativi che si rifiutino di lavorare secondo l’indicazione dei coloni e di obbedire alle loro leggi, vengono legittimamente esiliati e le loro terre sono legittimamente confiscate; qualora essi resistessero, commetterebbero una ῾giusta causa᾿ di guerra, perché impedirebbero ad altri uomini più civilizzati lo sfruttamento economico delle risorse naturali (Libellus vere aureus nec minus salutaris quam festivus de optimo reipublicae statu deque nova insula Utopia, 1516, libro II, trad. it. L’Utopia o la miglior forma di repubblica, a cura di T. Fiore, 1970, pp. 87-88).
Gentili condivide questo humus ideologico:
L’occupazione degli spazi vuoti è da considerarsi di diritto naturale [...]. La stessa cosa vale anche per le terre non coltivate che si trovino già sotto la sovranità di un principe e ciò in virtù del diritto di quella natura che non vuole che nulla sia vuoto. E sebbene come altri vuole quelle terre esse appartengono al principe che governa su quel territorio, tuttavia esse saranno cedute al primo occupante e resti ferma la giurisdizione del principe in forza della legge di natura che non ama nulla di vuoto (De iure belli, libro I, cap. XVII).
Gentili compie a questo punto un passo in più rispetto a de Vitoria, il quale contestò il titulus dell'inventio di quella particolarissima res nullius che era il Nuovo Mondo, perché essa, in realtà, non era affatto nullius, anche se non coltivata e non sfruttata, messa a frutto; apparteneva ai legittimi sovrani autoctoni. Gentili percorre un ulteriore passaggio:
Sebbene quelle terre appartengono al principe che governa su quella terra, e dunque non sono res nullius, tuttavia esse saranno cedute al primo occupante in forza della natura, e del suo diritto, del diritto di natura, che non ama nulla di vuoto (cap. XVIII).
Dunque, diversamente da de Vitoria (specularmente, rispetto a questi), Gentili esclude il diritto di missione e sembra ammettere il titulus di conquista per combattere i delicta contra naturam, in particolare là dove questi ultimi sono costituiti dal mancato sfruttamento delle risorse economiche del territorio conquistando.
Gentili, inforcate le lenti molate dal giurista, deve dunque raccogliere le sfide dell’età moderna e sospingere lo sguardo nel Nuovo Mondo, oltre il «gran Mar Oceano», e spaziare nelle Americhe. Lì tutto era nuovo: i mari, le terre, i loro abitanti; talmente ῾nuovo᾿ che lo ius commune non riusciva ad afferrarne tutte le realtà (Cassi 2004). Gentili vi dedica alcune riflessioni assai interessanti.
A cominciare dal profilo geografico, che coinvolge il giurista, e ne è coinvolto, molto più di quanto si sia soliti sospettare. Il nesso tra geografia e diritto nella Conquista era in effetti destinato a farsi sempre più stretto, ed era sotteso alla frequenza con la quale le cariche di geografo e di giurista si sommano in un unico soggetto. Tale nesso è rinvenibile anche in Gentili, il quale ci dice che, per quanto ciò appaia strano, l’estremità orientale dell’Europa/Eurasia e le Americhe un tempo erano collegate, e che quel collegamento attestava una communicatio tra le popolazioni (De iure belli, libro I, cap. XIX).
Alberico anticipa dunque una spiegazione che sarà confermata molti secoli dopo; ma quello che qui più rileva è la ricaduta sul piano ontologico e, in seconda battuta, giuridico di tale teoria; una ricaduta sullo statuto ontologico e giuridico dell’indio. In particolare, umanità e razionalità (nell’accezione che ne avevano gli europei all’inizio del 16° sec.) divennero le due categorie alle quali si vollero raffrontare gli indios, e dalle quali essi restarono spesso esclusi.
Assai difficile, infatti, era ammettere l’esistenza di un’umanità posta al di fuori dei confini geografici dell’evangelizzazione. La Bibbia (nell'interpretazione che si dava al Salmo 19) assicurava che la sacra parola si era diffusa «per tutta la Terra […] ed ai confini del mondo», raggiungendo tutti gli uomini, e che questi abitavano tutte le terre emerse, poiché dai discendenti di Noè «fu ripopolata tutta la Terra» (Genesi, 9, 19). Nelle nuove terre, tuttavia, non potevano essere arrivati né l'una né gli altri; non poteva quindi esservi una ῾umanità᾿. Fu per risolvere una impasse di tale gravità che si arrivò a formulare teorie teologico-geografiche capaci di conciliare il racconto biblico del diluvio e del Salmo 19 con l’esistenza di uomini fuori da mondo (extra orbem). Secondo tali dottrine, quindi, gli indios non sarebbero rimasti privi dell'annuncio evangelico; lo avrebbero semplicemente dimenticato, restando degli infideles. I conti così tornavano.
La problematica esegetico-geografica sulla natura – umana o mostruosa, razionale o selvaggia – degli abitanti dei confini della Terra, e sulla loro possibilità di essere raggiunti dalla predicazione apostolica, curiosa o astrusa per il lettore d’oggi, fu per i canoni dell’epoca eminentemente scientifica (vi si cimentò tra gli altri lo stesso Grozio), e presentava una matrice anche giuridica. Tali discussioni vertevano infatti sulla possibilità o meno di riconoscere diritti ῾di natura᾿ (῾umani᾿, diremmo ora) a chi fosse, o sembrasse essere, al di fuori della definizione scientifica (teologico-etico-geografica) di ῾natura umana᾿.
Gentili, uomo del suo tempo, ne respira gli umori, le essenze. Egli, in effetti, tenta di recidere quella matassa aggrovigliata di teorie introducendo una spiegazione sotto il profilo geografico; non esce da quel medesimo piano epistemologico. Il collegamento geografico tra Eurasia e America da lui ipotizzato è anche un collegamento antropologico. Gli indios sono dunque uomini sotto il medesimo piano ontologico e assiologico degli europei, fatto nella sua epoca che non era assolutamente scontato.
E ancora, sono uomini non ῾schiavi per natura᾿, secondo la tesi aristotelica rilanciata, e applicata al Nuovo Mondo, dalle pagine di Juan Ginés Sepúlveda (1490-1573), l’umanista traduttore di Aristotele. Su questo punto le pagine di Gentili sembrano vibrare in una convulsa oscillazione.
Nel libro I del De iure belli, prima di formulare al cap. XIX la sua ipotesi geografica, Gentili liquida la teoria aristotelica dei servi natura come una «convenzione degli antichi greci»; tuttavia, in alcuni successivi passi del trattato (libro II, cap. XXIV; libro III, cap. IX), sembra attestare la concezione che vedeva quei popoli americani schiavi per natura.
È forse possibile dare una spiegazione di siffatto argomentare oscillante. Secondo Gentili non era la loro (presunta) natura servile che predestinava gli indios a essere fatti schiavi e, in caso di loro resistenza nel sottomettersi ai cristiani, a essere combattuti dagli spagnoli in iusto belli, come voleva Sepúlveda; era piuttosto il loro agire delittuoso, in regime di libero arbitrio e dunque di responsabilità, a costituire una «iusta causa ad bellum» (libro I, cap. XII).
È tale assunto che dispiega la conseguente conclusione:
Ed io perciò approvo maggiormente l’opinione di coloro che dicono giusta la causa degli spagnoli quando muovono guerra agli indiani, sia perché si davano ad accoppiamenti nefandi, anche con le bestie, sia perché mangiavano carne umana, avendo a questo fine fatto a pezzi degli uomini (cap. XXV).
Sembra, in sostanza, che vi sia quasi una preoccupazione sotto il profilo della intentio: altrove Gentili richiede che
non si deve [...] premere con il giogo degli uomini che non abbiano altra colpa che quella di essere di un genere diverso (libro III, cap. IX).
Insomma, Gentili – confrontandosi apertamente con de Vitoria, che non omette di citare – pare lasciare agli indios una natura libera e non servile, una libera autodeterminazione in forza della quale poterli poi considerare pienamente responsabili del loro agire:
Ma se davvero le cause delle guerre stessero nella natura, ne nascerebbe sempre e in ogni caso una guerra giusta. Le cause delle guerre però non sono queste: non è per natura che gli uomini sono l’un l’altro nemici, ma sono piuttosto i comportamenti e i costumi, secondo che siano simili o dissimili, a produrre la concordia o la discordia […]. Pertanto gli spagnoli non imputarono iuste a questa causa, e neppure alla causa della religione, la guerra contro gli indiani d’America (libro I, cap. XII).
Dunque, le iustae causae ad bellum non sono né la natura, né la missione evangelica né lo ius communicationis, o quanto meno quelle che gli spagnoli vollero così qualificare per giustificare la Conquista. La vera giusta causa di guerra, e di conquista, è il delitto contra naturam, che la richiede «per ragione comune e a difesa degli altri» (cap. XXV).
Gentili condivide in termini assai espliciti siffatto principio: «si qui peccant evidenter contra leges naturae et hominum, hos coerceri bello posse ab quolibet, ego puto» (cap. XXV). Si noti: «ab quolibet», da chiunque: quindi non solo – e non tanto – dal popolo in forza dello ius resistentiae, ma da altro princeps, «iustus hostis» per eccellenza; sembra così potersi configurare una sorta di intervento bellico umanitario quale è possibile rilevare in alcune pagine di de Vitoria.
Nel valutare concretamente le ipotesi di ῾giusta causa᾿, de Vitoria affrontava, nella Relectio de temperantia del 1537, la questione se i sovrani cristiani possano, per autorità propria o delegata dal pontefice, muovere guerra a quei popoli che commettono delitti contra naturam. Egli si riferiva a un caso specifico: la pratica dell’antropofagia e dei sacrifici umani ai quali erano dediti gli indios dello Yucatán; ma, evidentemente, era in gioco una delle principali cause di guerra giusta invocate nella Conquista. La risposta al quesito era affermativa per la maggior parte dei doctores, a cominciare da Tommaso de Vio (detto il cardinale Gaetano, 1469-1535), grande commentatore di Tommaso d'Aquino.
De Vitoria, che la storiografia tradizionale ci presenta come avversario di tale dottrina, nel testo del 1537 formulò senza indugi una risposta con la quale accoglieva sostanzialmente l’opinio communis, giustificando la guerra mossa contro coloro che «vescuntur carnibus humanis et sacrificant homines» (Relectio, Conclusio V), e ciò indipendentemente da una richiesta di aiuto delle vittime. Ne discende che il princeps di un'altra natio può «bellum movere» in difesa degli oppressi.
Gentili si dichiara d'accordo con tale communis opinio:
Sono del tutto d’accordo con coloro che dicono essere giusta la causa di guerra degli spagnoli contro gli indiani, in quanto sodomiti, bestiali, e macellai di carne umana (De iure belli, libro I, cap. XXV)
Viceversa, per lui, coerentemente con i propri assunti di partenza, il diritto di missione non è un titulus legitimus:
Quello che io non approvo sebbene l’approvino gli altri è che gli spagnoli facciano guerra agli indiani, oltre alle ragioni ut supra, perché essi non vogliono ascoltare la predicazione del Vangelo, perché [anche] qui la religione è un mero pretesto (cap. XXV).
Due dei tre libri del De iure belli sono dedicati allo ius in bello, segno tangibile dell’importanza da questo assunto nella trattatistica giusinternazionalistica dell’età moderna. Impossibile riportare una sintesi della disciplina degli atti bellici configurata da Gentili. Una questione tuttavia si presentava con drammatica urgenza alla riflessione del diritto inter nationes: il ῾secolo di ferro᾿ impregnava i territori europei con il sangue di coloro che, dopo aver vanamente resistito all’assedio della propria città, venivano resi prigionieri e giustiziati in ragione della loro ῾ostinata resistenza᾿ (pertinax defensio). Per questi captivi la via di salvezza era rappresentata dalla possibilità di configurarli, sub specie iuris, come innocentes.
Era decisivo, in altre parole, individuare quei belligerantes che potessero reputarsi innocenti; a essere precisi, anzi, la questione era se i belligeranti, in quanto tali, potessero mai essere anche innocentes. Se si fosse trattato di coloro i quali hanno combattuto una guerra ῾giusta᾿, la quaestio sarebbe stata meno scabrosa; ma poiché oramai ogni bellum indetto legittimamente (cioè rispettando le norme che presiedono la dichiarazione di guerra) è iustum ex utraque parte, non poteva essere questo il discrimine. L’ipotesi, tragicamente concreta, era appunto quella della popolazione civile che aveva strenuamente resistito all’assedio; alla scientia iuris si chiedeva se la difesa ῾ostinata᾿ della fortezza o della città da parte degli assediati ne giustificasse l’uccisione a opera dell’assediante vittorioso.
Saranno le riflessioni di Grozio (dove oramai lo ius in bello costituisce magna pars della dottrina giusinternazionalistica) a formulare un'esplicita e ferma risposta negativa. Secondo l’olandese, il coraggio e l'ostinazione nel difendere una fortezza non costituiscono una legittima causa di supplizio (De iure belli ac pacis, libro III, cap. IV, § XIII); a fortiori se si combatte per giusta causa o perché ciò sia stato ordinato dal princeps. Poiché, tuttavia, la iusta causa tende a identificarsi con la guerra formalmente giusta, e quindi con ogni guerra indetta legittimamente, la discriminante sulla quale riflettere era soprattutto la seconda, ovvero l’ipotesi dell’ordine, impartito dai superiori, di resistere a oltranza. Grozio si distanzierà in puncto quo da Gentili, per il quale la resistenza pertinax giustificava la punizione capitale inflitta ai prigionieri dal vincitore, in ragione delle maggiori perdite patite da quest'ultimo. Secondo Alberico, la circostanza che la resistenza a oltranza fosse stata imposta dal sovrano o dai capi era irrilevante (De iure belli, libro II, cap. XVI).
D'altro canto, egli riteneva che l'eventuale disobbedienza a tale ordine costituisse un’aggravante, in quanto dimostrava una grave mancanza di rispetto per l'autorità. Nel suo pensiero, in ogni caso, coloro i quali hanno combattuto con convinzione (e non si vede come potrebbe essere diversamente, nella difesa da un assedio…) sembrano perdere irrimediabilmente la qualifica di innocentes e sono, pertanto, predestinati alla soggezione di uno ius in bello che ne contempli la legittima uccisione, pur con qualche attenuazione, a sua volta non priva di diverse eccezioni. I minori e le donne, per Gentili (cap. XXI) come per Grozio, sono meritevoli di particolare indulgenza. Tuttavia, riguardo la condizione muliebre, tale trattamento di favore conosce alcune deroghe. Se la donna, venendo meno alle ragioni del suo sesso, ha combattuto e, così facendo, essa è «andata oltre il suo sesso», si è posta sullo stesso piano dell'uomo, e dev'essere trattata, quindi, allo stesso modo (cap. XXI).
Una seconda circostanza che rende le donne, e gli anziani, meritevoli di esecuzione capitale è l'uso delle armi, comportamento che giustifica in re ipsa la legittima defensio: è infatti giusto, argomenta il giurista, resistere a costoro come ai pazzi e a coloro che «ci vengano incontro pericolosamente, come potrebbe venirci incontro una fiera pericolosa» (cap. XXI).
A queste due ipotesi, che derogano al principio di indulgenza nei confronti del prigioniero infirmior e che sono valide anche per gli anziani, se ne affiancano altre due riservate alla condizione muliebre; la prima giustifica la richiesta di un riscatto per la liberazione delle donne fatte prigioniere quando la parte avversa si sia comportata nel medesimo modo, in forza del principio secondo cui il male altrui giustifica la nostra azione; la seconda è rappresentata dalla reità della donna con la sua condotta antecedente, che la rende sostanzialmente meritevole del male ricevuto.
Sul punto Grozio sarà d’accordo: le donne che abbiano combattuto, quasi «in spregio al proprio sesso», o che abbiano compiuto «qualcosa che meriti una punizione», come scriveva Gentili, sono passibili di castigo. Se il loro sesso le rende inabili a combattere, e quindi esenti dalla punizione, l'esercizio che esse facciano delle armi, al contrario, costituisce una negazione del proprio sesso, e pertanto le rende passibili, per contrappasso, di punizione al pari degli uomini. Alla donna, insomma, non si perdona l'essersi comportata da uomo.
Nell'esporre la propria dottrina dello ius in bello, Gentili non si esentò dall’occuparsi anche di ῾guerra chimica᾿ e di ῾responsabilità collettiva᾿ degli ostaggi e dei prigionieri.
A differenza di Grozio, che considera legittimo avvelenare frecce e altre armi, in quanto «ciò avviene in campo aperto, senza le ombre ed i sotterfugi della notte e dell'intrigo» (De iure belli ac pacis, libro III, cap. IV, § XVI), Gentili stigmatizza la «crudeltà barbarica» di una siffatta pratica. Egli inoltre dedica alla condizione degli ostaggi il cap. XIX del libro II di De iure belli, ove argomenta che sia lecito ucciderli allorquando il nemico non tenga fede alla parola data o essi stessi tentino la fuga. In quanto «persone date al principe a garantire la sicurezza nell'osservazione della pubblica fede», essi, pur non personalmente colpevoli delle violazioni commesse dalla loro pars, ne possono essere considerati responsabili, in quanto, secondo Alberico, «il corpo del nemico, come il suo esercito, è uno solo» (cap. XVIII).
In forza di tale principio, quindi, può configurarsi una responsabilità collettiva degli ostaggi, per quanto questa sia una condizione accidentale, e non voluta. A maggior ragione, potrà riconoscersi la responsabilità solidale dei prigionieri, dei quali, infatti, Gentili considera lecita l’esecuzione capitale, andando incontro, in puncto quo, all’esplicita critica da parte di Grozio, il quale nega valore giuridico alla fictio gentiliana dell’unum corpus e, conseguentemente, nega la legittimità della ῾rappresaglia esemplificativa᾿ (De iure belli ac pacis, libro III, cap. XI, § XVI).
Con Gentili, lo ius ad bellum viene dunque drasticamente sfrondato: sono recisi i tituli afferenti alla religio, compressi quelli relativi alla soluzione di controversie di confini o possedimenti territoriali; quelli relativi alla Conquista vengono setacciati con una rete a maglie ancora più strette di quelle intessute da de Vitoria. L'attenzione di Gentili, dopo aver percorso l'impervio crinale dei legitimi tituli ad bellum, sposta il proprio baricentro. Lo ius ad bellum gentiliano, concluse nel libro I le questioni sulle iustae cause, indaga a fondo il rispetto di alcuni requisiti formali che devono sussistere perché il bellum sia iustum. Il cap. I del libro II comincia con la trattazione della dichiarazione di guerra, considerata afferente ai requisiti dello ius ad bellum; con il cap. III si trasferisce l'analisi sullo ius in bello, la disciplina dei mezzi che possono essere utilizzati in guerra. Da siffatta robusta potatura dello ius ad bellum, uscì rafforzato lo ius in bello.
Del resto, non v'era più molto da discutere, nell'età del consolidamento delle signorie territoriali e della crescente autonomia epistemologica della politica e della scienza dello Stato, sul carattere iustum del bellum proclamato dal princeps, concepito oramai come è iustus hostis per definizione.
Molto restava da dire, nell'età dei conflitti di religione, all'indomani della guerra anglospagnola, della battaglia di Lepanto e alla vigilia della guerra dei Trent'anni, sullo ius belli, nella duplice accezione di diritto diplomatico e diritto bellico come oggi, dopo Alberico e il suo De iure belli, lo intendiamo. E che ci fosse molto da dire, da indagare, da scrivere, Gentili lo sapeva bene, per esperienza biografica e professionale, e sapeva ben argomentarvi: lo spazio dedicato allo ius belli (due libri su tre) riflette la dimensione assiologica da lui riservatagli. I tuoni di guerra erano vicini, ed egli li percepiva con l'orecchio del suo tempo.
Vi è in proposito una circostanza storica che Gentili prende in esame: quella di un popolo, una natio che, agli occhi degli europei del tempo, agisce mediante iniuria, il cui comportamento fonda uno status di nemico permanente: i Turchi. Ed è significativo che proprio a questo proposito Gentili pronunci il suo celeberrimo silete theologi in munere alieno (libro I, cap. XII); lo pronuncia per zittire quei teologi che vedevano nei Turchi un nemico quoaddem fide, per motivi religiosi, piuttosto che un nemico permanente per il suo intrinseco agire:
Né contro altri né contro i Turchi c'è guerra a causa della religione, e neppure per cause naturali; nondimeno, c'è guerra contro i Turchi perché questi si comportano da nemici contro di noi, complottano, ci minacciano, ci derubano con ogni perfidia ogni volta che possono. Così abbiamo sempre una giusta causa di guerra contro i Turchi. Nei loro riguardi non si deve rompere la parola data né aggredirli se se ne stanno tranquilli e pacifici, senza macchinare contro di noi; certo che no! Ma quando mai i Turchi si comportano così? Tacete teologi, su argomenti che non sono di vostra pertinenza!
Dunque: secondo de Vitoria, i Turchi sono nemici, ma solo sotto il profilo della fede; secondo Gentili, i Turchi sono nemici perché... sono Turchi e si comportano come Turchi: essi non lasceranno mai in pace gli europei. Ancora una volta volta – come nel caso dei sovrani legittimi, che sono iusti hostes per definizione – , la tautologia del profilo soggettivo rivela la caratura assiologica dell’argomentazione.
E ancora una volta Gentili ci offre un esempio di compiuta secolarizzazione della dottrina giusinternazionalistica elaborata nell'alveo di una nuova scientia iuris delle relazioni inter gentes, di quello ius inter nationes che ha inaugurato l'età moderna e del quale, forse, non è decisivo chiedersi chi sia stato il ῾fondatore᾿, bensì necessario individuare il percorso storico-giuridico. Percorso che molto deve alle pagine di Gentili.
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Lectionum et epistolarum quae ad ius civile pertinent libri I-IV, Londini 1583-1584.
De legationibus libri tres, Londini 1585.
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Disputationum de nuptiis libri VII, Hanoviae 1601.
Regales disputationes tres: id est, de potestate regis absoluta, de unione Regnorum Britanniae, de vi civium in regem semper iniusta, Londini 1605.
Disputationes tres: I, de libris iuris canonici; II, de libris iuris civilis; III, de latinitate veteris bibliorum versionis male accusata, Hanoviae 1605.
Hispanicae advocationis libri duo, Hanoviae 1613.
In titulum digestorum de verborum significatione commentarius, Hanoviae 1614.
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