Alle origini della tecnologia moderna: Francesco di Giorgio e Leonardo da Vinci
Tecnologia e cultura nel Medioevo
L’emancipazione sociale e culturale degli ingegneri rinascimentali costituisce uno degli aspetti più rilevanti della storia della tecnologia tra 15° e 16° secolo.
Il Medioevo aveva prodotto importanti innovazioni tecnologiche, in campo sia militare sia civile, per es. nell’agricoltura. Inoltre, gli ‘alberi del sapere’ medievali, in alcuni casi, avevano già riconosciuto la dignità scientifica della progettazione macchinale e notevoli album di disegni macchinali erano stati realizzati, per es., da Guido da Vigevano (1280 ca.-dopo il luglio 1349) con il Texaurus regis Francie […], completato nel 1335. Ma, salvo alcune eccezioni, come quella appena citata, i protagonisti di queste innovazioni non solo non avevano scritto dei testi, ma erano rimasti completamente nell’anonimato. Anche nel caso del colto Guido da Vigevano, che fu ingegnere ma anche medico e autore di un importante trattato di anatomia illustrato (il Liber notabilium, 1345), non si verificò alcuna comunicazione tra questi vari ambiti. Diversamente da quanto avverrà nel Rinascimento, la scienza medica e anatomica, all’epoca in piena emancipazione culturale, non influenzò né promosse più di tanto lo statuto culturale della progettazione macchinale. Inoltre, gli album medievali di macchine illustravano spesso dispositivi che rientravano più che altro nell’ambito dei mirabilia, della raccolta di ingegni al limite del leggendario o del fantastico. Questa dimensione fantastica dell’immagine, pur non scomparendo del tutto nel periodo successivo, verrà però affiancata da una funzione e da un valore del linguaggio visivo di ben altra portata. Il disegno diverrà parte integrante di un più ampio processo di rinnovamento della progettazione e dello statuto sociale e culturale dell’ingegnere.
Due artisti-ingegneri
Nel giugno del 1490, la locanda Ad signum Saracinis nella piazza Grande di Pavia ospitò due protagonisti di questo processo di rinnovamento tecnologico, gli artisti-ingegneri Francesco di Giorgio di Martino, meglio noto come Francesco di Giorgio (1439-1501), e Leonardo da Vinci (1452-1519). I sovrintendenti al duomo di Pavia avevano chiesto al duca di Milano, Ludovico I Sforza, detto il Moro, l’intervento dei due artisti come consulenti per i lavori dell’edificio. Entrambi erano toscani, ma da tempo risiedevano fuori della loro regione natale. Leonardo era stipendiato dal Moro come ingegnere (ingeniarius ducalis), e si trovava in Lombardia sin dal 1482. Francesco, invece, era arrivato a Milano in quello stesso anno 1490; aveva passato la vita viaggiando, continuamente richiesto nelle corti della penisola come ingegnere e architetto. L’ingegnere del Rinascimento è, infatti, prima di tutto una figura socialmente ed economicamente importante, contesa dai signori delle città italiane e profumatamente pagata.
L’altra novità rappresentata da questi due artisti-ingegneri è di ordine culturale. Sia Leonardo sia Francesco, all’epoca del loro incontro, avevano scritto dei trattati. Si sentivano intellettuali a tutti gli effetti. All’emancipazione socioeconomica faceva riscontro quella culturale. Leonardo, oltre che ingegnere, pittore e scultore, era anche anatomista. Anatomia e ingegneria, diversamente da quanto visto nel caso più antico di Guido da Vigevano, nell’opera di Leonardo si influenzarono profondamente.
Nei testi di Francesco e di Leonardo le immagini giocano poi un ruolo fondamentale. Non mancarono, specie all’inizio della loro carriera, visualizzazioni di macchine leggendarie e fantastiche, ma, in generale, il disegno fu per entrambi anzitutto uno strumento che serviva a dare concretezza al progetto macchinale. Ambedue ne ribadirono il valore prettamente intellettuale e scientifico, esaltandone addirittura la superiorità rispetto al linguaggio verbale, prevalente nella cultura scientifica dell’epoca.
L’esame dell’opera di questi due autori risulta quindi il modo migliore per comprendere la novità di questo periodo particolare della storia della tecnologia. L’analisi comparata delle loro vicende intellettuali aiuta a capire nessi e differenze che valgono, almeno in parte, anche per altri artisti-ingegneri contemporanei o immediatamente successivi.
Francesco di Giorgio
Francesco nacque a Siena, dove venne battezzato nel 1439. In questa città iniziò anche la sua carriera, prima come pittore e scultore, quindi, a partire dal 1469, come operario dei ‘bottini’, cioè degli acquedotti. Negli anni successivi, le sue capacità di artista, ma soprattutto di architetto e di ingegnere (in particolare militare), lo portarono a viaggiare continuamente. Urbino (dove restò a lungo presso la corte del duca Federico da Montefeltro), Napoli, Milano furono solo alcune delle tappe del suo ben remunerato girovagare, nel corso del quale continuò a mantenere rapporti con la natia Siena, per la quale svolse anche missioni diplomatiche. Morì nel 1501, dopo essere stato consultato per la cupola della basilica della Santa casa di Loreto, che minacciava di crollare.
La formazione tecnologica di Francesco avvenne dunque a Siena. Non è provato un suo tirocinio presso Mariano di Iacopo, detto il Taccola (1381-1453/ 1458), il più importante ingegnere senese della generazione precedente, ma certamente Francesco si formò sulle sue opere. Entrò infatti in possesso del manoscritto autografo di un’opera di Taccola, il De ingeneis libri I-II (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, codex Latinus monacensis 197, parte II) e, nelle pagine finali, vi aggiunse note e disegni desunti da un’altra opera manoscritta di Taccola, il De ingeneis libri III-IV (Firenze, Biblioteca nazionale centrale, ms. Palatino 766). Anche un manoscritto autografo di Francesco, noto come Codicetto o Codicetto vaticano (Città del Vaticano, Biblioteca apostolica vaticana, ms. Latino urbinate 1757), contiene traduzioni in volgare dei testi latini di Taccola e copie dei suoi disegni. In entrambi i casi non si trattò di copie passive: Francesco introdusse liberamente modifiche e particolari macchinali nuovi, secondo quel processo di assimilazione e modifica del ‘modello’ che lo storico dell’arte Ernst H.J. Gombrich ha individuato come prassi comune nelle botteghe artistiche rinascimentali; una prassi che egli ha esemplificato con il caso Verrocchio-Leonardo, ma che vale per tutto il mondo degli artisti-ingegneri, compresa la progettazione macchinale attraverso il disegno.
Ma, oltre che in questi studi sui testi di Taccola, ancora in parte legati ai canoni tradizionali (anche per la forma di presentazione delle macchine, dalla prospettiva malsicura), la lezione senese è anche di tipo più pratico e riguarda il diretto coinvolgimento di Francesco come ingegnere idraulico e architetto del sofisticato sistema senese di acquedotti, i citati bottini (un termine che all’epoca aveva anche un senso più generale, di serbatoio o bacino pieno d’acqua). Anche più tardi, quando l’opera tecnologica di Francesco avrebbe acquisito un orientamento più teorico, sarebbero emersi nessi ‘territoriali’ con questa sua prima attività senese e con quelle successive.
Il coinvolgimento di Siena, nel 1475, in una guerra che vide la città alleata, tra gli altri, con Federico da Montefeltro, contribuì al rapporto privilegiato di Francesco con Urbino, dove si trasferì, in pianta più o meno stabile, a partire dal 1476-77. A Urbino e nel territorio limitrofo egli realizzò importanti opere di architettura militare. Continuò i lavori per il Palazzo ducale (interrotti da Francesco Laurana), e nel ducato realizzò una serie di fortificazioni dai caratteristici profili smussati o sfuggenti, allo scopo di ridurre al minimo l’impatto dei proiettili delle nuove e micidiali armi da fuoco, e in particolare delle bombarde. Il nesso stretto tra macchine e architettura è, in questo periodo, prima di tutto un’esigenza pratica. Nella prima metà del Quattrocento, a Firenze, Filippo Brunelleschi aveva progettato nuovi argani, gru girevoli e altre innovative macchine di cantiere in funzione della costruzione della cupola di S. Maria del Fiore. Più tardi, nella seconda metà del secolo, sia nel caso di Francesco sia in quello di Leonardo, sarebbe stata la guerra uno dei fattori di connessione tra innovazione macchinale e invenzione architettonica.
Così Francesco, da un lato, progettava architetture innovative per fronteggiare le nuove armi da fuoco, dall’altro lavorava alla progettazione e realizzazione di armi, una branca della sua multiforme attività che sarebbe stata poi continuata da uno dei suoi migliori allievi, Giacomo (o Iacopo) Cozzarelli.
Ma queste occasioni concrete sono solo uno degli aspetti del nesso tra macchine e architettura. Un altro aspetto è rappresentato dal fatto che le macchine compaiono come elemento decorativo dell’architettura nel famoso fregio dell’arte della guerra del Palazzo ducale di Urbino. Questi rilievi, scolpiti da Ambrogio Barocci, decorano i sedili esterni del palazzo e sono parte integrante degli interventi di completamento dell’edificio realizzati da Francesco. I rilievi rappresentano macchine belliche, idrauliche e navali, e sono basati su immagini di Francesco, di Roberto Valturio (1405-1475) o di altri autori. A prima vista sembrerebbero appartenere alla dimensione puramente estetica delle rappresentazioni macchinali di epoca precedente: alcuni dei dispositivi rappresentati erano infatti presenti nelle opere di Valturio (come la torre d’assedio a forma di drago alato, detta arabica machina e tratta dal De re militari, scritto tra il 1446 e il 1455) o di autori ancora più antichi. Ma, specie nei rilievi basati su immagini disegnate da Francesco, almeno due fattori segnano una differenza rispetto a questi precedenti, e specialmente rispetto al Medioevo. Prima di tutto la rigorosa rappresentazione prospettica di molte macchine, che cerca di visualizzarne in modo chiaro la struttura anche interna, per quanto possibile in un bassorilievo. L’impressione che ne risulta è, in molti casi, quella di macchine concrete, non di rievocazioni di ingegni leggendari. L’altro elemento di novità è il classicismo rigoroso, l’intento umanistico e filologico di restituzione del passato classico, con riprese, in alcuni casi, da fregi romani antichi contenenti rappresentazioni macchinali, come quelli ora ai Musei Capitolini.
Questo capolavoro artistico ha una controparte testuale in un manoscritto di Francesco, l’Opusculum de architectura (Londra, British library, ms. 197.b.21), pervenutoci in forma autografa, al pari del citato Codicetto. Si suppone che egli l’abbia realizzato all’epoca del trasferimento a Urbino. L’opera, composta di sole immagini, senza testi esplicativi, ripropone in forma nuova le macchine illustrate nelle sue aggiunte al De ingeneis di Taccola e nel Codicetto. Le tipologie sono quindi le stesse: macchine da guerra, mulini, pompe idrauliche, carri, macchine per sollevare pesi. Come nel fregio della guerra del Palazzo ducale di Urbino, qualcosa lega ancora quest’opera alla tradizione precedente; prima di tutto il suo carattere di lussuoso album di immagini, destinato a impressionare il sovrano. In secondo luogo, l’indistinta raccolta di macchine di Taccola e gli apporti originali di Francesco se da un lato possono essere interpretati come sintomo nuovo del costituirsi di una ben precisa tradizione testuale, senese nella fattispecie, dall’altro, sminuendo il valore individuale dei progetti, ricordano la progettualità collettiva dei cantieri medievali.
Ma, allo stesso tempo, i dispositivi macchinali, ripresi, come detto, dalle opere precedenti, nella nuova presentazione visiva acquisiscono una diversa concretezza. L’immagine mette a fuoco la macchina nel modo più chiaro e realistico possibile, senza disperdersi in notazioni gratuite o di cornice, come paesaggi o figure umane. L’uso del solo disegno, senza testi, è poi un evidente segnale del valore attribuito da Francesco al linguaggio visivo.
Il Trattato di architettura
Tutti questi nuovi elementi verranno pienamente sviluppati nel Trattato di architettura, certamente l’opera più matura e importante di Francesco (cui vanno aggiunti almeno altri due manoscritti, il cui rapporto con il Trattato è stato oggetto di discussioni recenti tra gli studiosi: l’Opera di architettura della New York public library e il Codice Zichy della Biblioteca comunale di Budapest). Diversamente dal Codicetto e dall’Opusculum, non possediamo questo trattato in forma autografa, ma in versioni apocrife. Francesco ne realizzò due versioni. La datazione è controversa, ma la prima venne probabilmente realizzata intorno al 1480 (uno dei testimoni di questa versione è quello di Firenze, Biblioteca Medicea Laurenziana, ms. Ashburnham 361, che, come vedremo, fu consultato da Leonardo), e la seconda, contenente varie novità, negli anni Novanta (uno dei testimoni è quello della Biblioteca nazionale centrale di Firenze, ms. II.I.41).
Diversamente dall’Opusculum, nel Trattato sono presenti non solo immagini, ma anche testi, fatto che, come vedremo, non implica una minore fiducia nelle potenzialità delle immagini. Tutta l’opera presenta aspetti di grande novità. Sia il titolo sia il contenuto connettono direttamente macchine e architettura. Si tratta di un’operazione ‘umanistica’, perché era stato il grande architetto classico Vitruvio a dedicare alle macchine l’intero libro X del suo trattato De architectura (1° sec. a.C.). Quello usato da Francesco era un modo per emancipare culturalmente la progettazione macchinale, connettendola con una disciplina, l’architettura, che vantava un’antica tradizione testuale, di cui il trattato di Vitruvio era la massima espressione. Vitruvio (e sulla sua scia gli architetti rinascimentali che lo andavano riscoprendo, a partire dall’umanista Leon Battista Alberti) aveva basato l’architettura su tutta una serie di regole, anche matematiche e proporzionali, spesso ricavate dallo studio del corpo umano. L’architettura era quindi un’arte con forti basi teoriche, e la sua connessione con la tecnologica macchinale implicava una conseguente elevazione culturale anche di quest’ultima.
Vale la pena di capire bene tutti questi aspetti di ordine ‘esterno’ e non strettamente tecnologico, perché essi costituiscono la nuova cornice culturale entro cui le macchine vennero allora a collocarsi.
Altri architetti del Quattrocento erano stati influenzati dalle teorie di Vitruvio. Francesco fu tuttavia il primo a esprimerle attraverso disegni, e di questo era perfettamente consapevole: esplicitò in modo molto chiaro il suo pensiero al riguardo, specialmente nella seconda versione del Trattato. Gli umanisti avevano riportato il testo di Vitruvio alla sua origine, e Alberti, umanista e architetto, era stato uno dei protagonisti di questa impresa filologica. Ma tale operazione non si era avvalsa di immagini. Questo, secondo Francesco, determinava una serie di fraintendimenti: in base al solo testo, ogni lettore era portato a immaginare a suo modo una delle forme architettoniche o delle macchine descritte da Vitruvio. Solo accompagnando il testo dell’autore latino con disegni che ne fissassero le teorie era possibile evitare questa babele di interpretazioni soggettive. Molti dei disegni che corredano i suoi trattati sono quindi dimostrazioni filologiche e archeologiche del testo di Vitruvio, in termini visivi. Dal punto di vista di Francesco, il disegno è dunque scienza, anche perché è strumento di indagine filologica e archeologica più efficace delle analisi puramente testuali degli umanisti.
L’importanza della visualizzazione si connette con l’altro aspetto innovativo del Trattato: l’antropocentrismo. Ci riferiamo alla rappresentazione con cui Francesco tentò di ricostruire la famosa teoria vitruviana secondo la quale un uomo bene figuratus, cioè di perfette proporzioni, se distende braccia e gambe risulta inscritto nelle due figure geometriche perfette: cerchio e quadrato. Alcuni anni prima Taccola, nel De ingeneis libri I-II, aveva disegnato un’immagine simile: un uomo inscritto in un cerchio e in un quadrato e attraversato da una serie di partizioni geometriche. Ma quella immagine, come suggerisce anche il testo latino sottostante, era un emblema, un simbolo: una versione della teoria dell’uomo come microcosmo, posta in rapporto con l’opera dell’architetto. Diverso il valore dell’immagine di Francesco: non un’icona simbolica ma l’analisi filologica, in termini visivi, di una teoria di Vitruvio.
Com’è noto, Leonardo avrebbe in seguito realizzato un’analoga ma più sofisticata ricostruzione visiva della teoria vitruviana nel famoso disegno conosciuto come Uomo vitruviano (Venezia, Galleria dell’Accademia, f. 228), che peraltro risale proprio agli anni in cui sia Leonardo sia Francesco si trovavano a Milano. Difficile dire se Francesco fu indotto ad aggiungere la visualizzazione di questa teoria vitruviana a seguito dell’incontro con Leonardo o viceversa. Le possibili influenze reciproche tra i due (includenti, tra l’altro, la progettazione di fortezze con angoli murari adatti a fronteggiare le nuove armi da fuoco, e le rappresentazioni macchinali nel Trattato di Francesco e nel Manoscritto di Madrid I di Leonardo), anche se in parte già dimostrate, costituiscono un problema ancora aperto.
Fondata sulle proporzioni del corpo umano, l’architettura aspira quindi a una misura umana nell’ambito di una visione profondamente antropocentrica. Le macchine, per la loro connessione con l’architettura, vengono coinvolte in questa dimensione. L’uomo, spesso presente (seppure con valore puramente ornamentale) nelle immagini macchinali di Taccola, è completamente assente in quelle di Francesco, tutte concentrate sulla macchina. Queste, però, recuperano una dimensione umana in un senso più profondo, per la connessione stretta con l’architettura e per la razionalità della loro rappresentazione, basata su un uso della prospettiva assai più rigoroso di quello di Taccola.
Grazie all’uso della prospettiva, Francesco realizzò poi una specie di anatomia macchinale, capace di visualizzare con rigore e realismo la struttura interna della macchina, le sue parti costitutive e i loro relativi rapporti. Negli stessi anni, Leonardo applicava analoghe soluzioni visive alla rappresentazione del corpo umano nei suoi studi anatomici.
Le novità presenti nel Trattato non si limitano però alla visualizzazione delle macchine. Le tipologie macchinali presenti nelle due redazioni dell’opera sono certamente, come detto, ancora quelle del Codicetto e dell’Opusculum. Ora, però, sono presentate in forma organica, con un testo di commento ai singoli progetti e attraverso divisioni e raggruppamenti effettuati in base a principi generali, come nel caso dei mulini, ridotti nel numero rispetto alle opere precedenti e divisi, nella seconda versione del Trattato, per tipo di energia motrice. Vi è quindi la tendenza al superamento dei casi singoli, verso una trattazione più sistematica, per categorie più teoriche e generali.
L’importanza del Trattato è comunque prima di tutto di ordine culturale, e l’opera, nella sua sezione macchinale, non può certo considerarsi come un manuale pratico di bottega. Nonostante ciò, anche da questo punto di vista essa è più avanzata rispetto ai testi di Taccola, che, scritti in latino, sono ancora più lontani dal mondo della pratica. Tra i lettori potenziali del Trattato vanno almeno inclusi quegli artigiani ‘superiori’ e quegli ingegneri che, negli stessi anni, partecipavano, in varia forma, allo stesso processo di emancipazione culturale. Come vedremo meglio più avanti, i lettori del Trattato avrebbero incluso anche Leonardo.
Leonardo da Vinci
Negli anni in cui Francesco realizzava le due versioni del Trattato, anche Leonardo cercava di dare basi teoriche e scientifiche alla progettazione macchinale e artistica. Il suo progetto culturale era però molto più ambizioso e complesso. Per capire questa convergenza di intenti ma anche la differenza di percorsi e di esiti, occorre entrare brevemente nel mondo di Leonardo.
Leonardo nacque a Vinci nel 1452, e ben presto si trasferì a Firenze. Dal 1472 risulta iscritto nella compagnia dei pittori di San Luca, ma risiedeva già da tempo in città, dove iniziò con il frequentare la bottega di Andrea di Michele detto il Verrocchio, per poi lavorare in modo autonomo.
Nel 1482 lasciò Firenze e, mettendosi al servizio del Moro, si trasferì a Milano. Vi restò quasi vent’anni, fino al 1499, quando, caduti gli Sforza, dopo soste a Venezia e Mantova rientrò a Firenze. Qui visse per alcuni anni, ma con frequenti interruzioni per dei viaggi, anche lunghi: per es., in Romagna, in qualità di ingegnere militare al seguito di Cesare Borgia (1502), a Piombino e infine a Milano, dove risiedette di nuovo in pianta stabile dal 1508-1509 al 1513, quando l’elezione di papa Leone X (Giovanni di Lorenzo de’ Medici) lo portò a trasferirsi a Roma, in Vaticano, protetto dal potente Giuliano de’ Medici, fratello del papa (entrambi erano figli di Lorenzo il Magnifico). Infine, nel 1516 si trasferì ad Amboise in Francia, presso la corte del re Francesco I. Vi morì nel 1519, salutato dal re, secondo la leggenda raccolta da Benvenuto Cellini, non solo come un grande scultore, pittore e architetto, ma soprattutto come «un grandissimo filosafo».
Seguendo il filo delle scelte di vita e degli spostamenti di Leonardo, l’impressione è quella di un suo tentativo di affrancarsi da obblighi immediati, dalle scadenze tipiche in generale della bottega rinascimentale e in particolare del lavoro di pittore. La Firenze che, all’età di trent’anni, Leonardo decise di lasciare, pullulava di botteghe attivissime. Sulla decisione di lasciare Firenze per mettersi al servizio di una corte potente come quella del Moro, e sulle successive e analoghe scelte, pesò certamente la speranza di ottenere uno stipendio (o qualcosa di simile) che gli consentisse di dedicare il suo tempo, senza limiti rigidi, a un’attività di ricerca che, nata in funzione della progettazione macchinale e artistica, tendeva ad assumere, nel corso degli anni, un carattere sempre più autonomo e puramente scientifico. Non essendo Leonardo né un medico né un membro del mondo accademico, per lui l’unica possibilità di guadagno compatibile con una vita intellettuale così impostata era rappresentata dalle corti: a Milano la corte ducale degli Sforza e, dopo il 1499, quella spagnola; a Roma la corte pontificia; infine, ad Amboise la corte reale francese. I ritardi nella realizzazione delle sue opere pittoriche (proverbiali quelli riguardanti il Cenacolo) confermano quanto detto, al pari del numero complessivamente molto esiguo di tali opere. Capolavori assoluti, ovviamente, ma, pochissimi rispetto a quelli realizzati da altri grandi artisti dell’epoca, da Raffaello Sanzio a Michelangelo Buonarroti.
Così, Leonardo dedicò buona parte del suo tempo alla progettazione macchinale e soprattutto a quella che, con termine moderno, definiremmo ricerca scientifica di base, e che però, come detto, divenne sempre di più una ricerca di carattere autonomo, svincolata da una ricaduta concreta, progettuale, di tipo tecnologico o artistico.
L’opera tecnologica e scientifica di Leonardo consiste in alcuni manoscritti e in numerose raccolte di fogli sciolti. La raccolta di manoscritti più numerosa è quella dell’Institut de France di Parigi (dodici esemplari, denominati A, B, C, D, E, F, G, H, I, K, L e M). Per quanto riguarda i fogli sciolti, il nucleo più importante è quello della Royal library nello Windsor castle in Inghilterra, mentre la Biblioteca ambrosiana di Milano possiede ciò che siamo soliti definire Codice Atlantico ma che di fatto è una raccolta di fogli sciolti realizzata alla fine del Cinquecento dallo scultore Pompeo Leoni. Questi, venendo in possesso di svariati fogli e manoscritti, operò una divisione grossolana tra disegni artistici e di figura (ora prevalentemente nello Windsor castle) e disegni più tecnologici e scientifici (quelli che ora formano il Codice Atlantico). Ma studi di carattere tecnologico si trovano anche nei fogli di Windsor o in altri manoscritti, come quelli dell’Insitut de France o come i due rinvenuti nel 1966 a Madrid nella Biblioteca nacional de España e ora noti come Manoscritto di Madrid I (8937) e Manoscritto di Madrid II (8936); questi ultimi sono di fondamentale importanza per ricostruire l’opera tecnologica di Leonardo, perché il primo di essi contiene, come vedremo, studi connessi con il progetto leonardiano di un trattato sugli ‘elementi macchinali’.
Complessivamente, si tratta di un corpus di scritti molto asistematico, con poche date certe, in cui tuttavia è ora possibile orientarsi grazie alle ricerche filologiche di studiosi come Gerolamo Calvi, Kenneth Clark e Carlo Pedretti.
Per ricostruire le origini dell’opera tecnologica di Leonardo, occorre esaminare determinati fogli (quasi tutti appartenenti al Codice Atlantico), ma anche partire storicamente dal mondo delle botteghe fiorentine del Quattrocento. Anche se la produzione di dipinti e sculture formava un capitolo importante dell’attività di tali botteghe, quella di Verrocchio, dove Leonardo si formò, aveva carattere polivalente: per es., produceva armi e armature, e nel 1472 portò a termine la grandiosa impresa brunelleschiana della cupola di S. Maria del Fiore, collocandovi in alto una grande sfera di rame, un’impresa di cui Leonardo avrebbe trasmesso il ricordo in un foglio tardo (Manoscritto G, f. 84v). Per il giovane Leonardo le macchine inventate da Brunelleschi per la costruzione della cupola (e all’epoca in parte ancora esistenti) costituirono un’altra lezione fondamentale, come dimostrano alcuni fogli giovanili che ne contengono studi e copie. A Firenze, come a Siena, esisteva una tradizione tecnologica ben viva che fu per Leonardo un fondamentale punto di partenza, così come la tradizione senese lo era stata per Francesco.
Molti dei disegni macchinali eseguiti da Leonardo in quell’epoca (su fogli sciolti più tardi confluiti nel Codice Atlantico) sono immagini spettacolari senza testo, di natura simile agli album di macchine di Taccola o del giovane Francesco. Si tratta di dispositivi macchinali focalizzati uno per uno, come nella tradizione precedente: un’intagliatrice di lime (Codice Atlantico, f. 24r), argani, modalità di incastro di legni per ottenere travi di varia curvatura e così via. Certo, la qualità disegnativa è superiore rispetto alla tradizione precedente, e Leonardo mette lo storico della tecnologia e della scienza nell’imbarazzante e spesso fuorviante posizione di dover giudicare il contenuto (a volte, come in questo caso, non particolarmente originale) di disegni realizzati da colui che probabilmente è il più grande disegnatore di ogni tempo. Ma, pur con questa già evidentissima superiorità grafica, la natura e la forma mentis di questi giovanili progetti macchinali sono ancora quelle della tradizione immediatamente precedente. Leonardo superò poi presto questi limiti, e fece coincidere sempre di più qualità di linguaggio e qualità di contenuti.
Emancipazione culturale ed emulazione dei classici
Questo processo implicò prima di tutto un lavoro di personale acculturazione; un lavoro faticoso, visto che la sua formazione non era andata oltre la scuola d’abaco e vista la vastità di ambiti scientifici che egli intendeva coinvolgere.
La volontà di emancipazione culturale è evidente già in un documento (Codice Atlantico, f. 1082r) risalente al momento, il 1482, in cui egli lasciò Firenze per Milano, allo scopo di mettersi al servizio del Moro. Si tratta di una lettera di ‘autopresentazione’, di cui fu certamente lui a dettare i contenuti, ma una persona colta a scrivere il testo. L’elaborazione è molto sofisticata, e il tono e alcuni passaggi sembrano addirittura riprendere un classico della più colta tradizione medievale di testi macchinali, la Epistola de secretis operibus artis et naturae et de nullitate magiae (1250 ca.) di Ruggero Bacone, a partire dall’apertura, nella quale Leonardo presenta ciò che definisce i suoi «segreti»:
Havendo, Signor mio Illustrissimo, visto et considerato horamai a sufficientia le prove di tutti quelli che si reputono maestri et compositori de instrumenti bellici, […] mi exforzerò […] farmi intender da Vostra Excellentia, aprendo a quella li secreti miei.
La lettera continua elencando le capacità che Leonardo intende mettere al servizio del potente duca di Milano:
Ho modi de ponti leggerissimi et forti. […] Et quando accadesse essere in mare, ho modi de molti instrumenti actissimi da offender et defender, et navili […]. Item ho modi per cave et vie secrete et distorte, facte senza alcuno strepito, per venire ad uno [certo] e disegnato loco, anchora che bisogniasse passare sotto fossi o alcuno fiume. Item farò carri coperti, securi et inoffensibili.
Le capacità tecnologiche di Leonardo, specialmente quelle legate alla guerra, occupano almeno due terzi della lettera, che si chiude con poche righe sulle sue doti di architetto, scultore e pittore.
Il lavoro di acculturazione di Leonardo continuò nei primi anni milanesi, ed è testimoniato specialmente dal Manoscritto B e dal Codice Trivulziano (Milano, Castello Sforzesco, Biblioteca Trivulziana). Leonardo cominciò in quell’epoca a formarsi una biblioteca, e compilò liste di vocaboli colti. Studiò con grande attenzione un testo molto rappresentativo dell’emancipazione culturale in atto già da tempo nel mondo degli ingegneri: il citato De re militari di Valturio, forse attraverso la traduzione in italiano (1483) di Paolo Ramusio. Valturio era un umanista, e la sua opera è un lavoro umanistico oltre che tecnologico. L’emulazione dei classici era infatti un fattore fondamentale nel processo culturale cui Leonardo partecipava.
Già Taccola era fiero di farsi chiamare l’Archimede di Siena. Archimede, il grande ingegnere e scienziato di epoca classica, diventò anche per Leonardo un modello, non più solo mitico bensì concreto, da capire, da emulare, da superare. Il Manoscritto B (f. 33r) contiene un singolare documento di questo rapporto con il grande modello classico: un cannone a vapore che Leonardo definisce «architronito» e la cui invenzione attribuisce ad Archimede: «Architronito è una macchina di fine rame, invenzione di Archimede, e gitta ballotte di ferro con grande strepito e furore». Il brano spiega, anche con l’ausilio di disegni, che la fonte energetica di questo cannone è l’espansione del vapore, generato riscaldando acqua in un serbatoio che costituisce parte integrante della struttura del cannone.
Forse Leonardo basò la sua attribuzione su una tradizione tarda. Valturio nel De re militari attribuiva infatti ad Archimede l’invenzione della bombarda, senza però fare cenno al vapore come fonte energetica. L’argomento merita uno studio più approfondito. Sembra in ogni caso che, non risultando un cannone a vapore tra le invenzioni ideate da Archimede oppure a lui attribuite, tale dispositivo sia effettivamente un’invenzione originale di Leonardo, nata da un lavoro in margine al mitico progetto archimedeo. In questo processo di emulazione-immedesimazione con il modello classico, Leonardo non trovava disdicevole presentare la macchina come un’invenzione di Archimede.
Questo processo di acculturazione continuò negli anni successivi. Leonardo ampliò la sua biblioteca, come attestato dal lungo elenco di libri contenuto nel Manoscritto di Madrid II (ff. 2v-3r, 1503-1505 ca.), ed ebbe rapporti sempre più intensi con i dotti, con la cultura ufficiale. Fu, per es., fondamentale il rapporto con il grande matematico Luca Pacioli (1446/1448-1517). In generale, nonostante i ben noti passi polemici in cui Leonardo si contrapponeva, in quanto «sanza lettere», alla cultura accademica, di fatto i suoi rapporti con questo mondo furono buoni e frequenti, più di quanto si crede normalmente.
L’imitazione delle opere della natura
Questo necessario lavoro di acculturazione è però solo un aspetto – quello più strumentale – del processo di emancipazione culturale realizzato dall’artista-ingegnere Leonardo. L’altro aspetto, fondamentale, consiste nella concezione generale della sua opera di ingegnere-macchinatore e di artista: una concezione radicalmente mimetica.
L’invenzione macchinale e quella artistica sono per Leonardo, per quanto possibile, una forma di imitazione delle opere della natura. Fu attraverso questa concezione che Leonardo da artista-ingegnere divenne scienziato. Infatti, imitare la natura significava per lui non solo riprodurre le forme naturali ma capire le leggi che ne sono alla base. Occorre studiare scientificamente la natura per poterla imitare davvero con una macchina o con un dipinto. L’artista-ingegnere diventava in tal modo uno scienziato.
Quando, pochi anni dopo il suo arrivo a Milano, verso il 1487, si richiese la sua consulenza per l’erigendo tiburio del duomo, in una lettera indirizzata ai committenti cercò di precisare la natura ‘scientifica’ del suo intervento, con una puntigliosità che sembra voler rimarcare la distanza dal mondo dei pratici, con i quali evidentemente, almeno in alcuni ambienti, era ancora assimilato. Così, egli afferma che per risolvere i problemi architettonici del duomo l’architetto dovrà agire come un medico, cioè con «scienza» del corpo, come un vero
medico architetto [che] intenda bene che cosa è edifizio, e da che regole il retto edificare deriva, e donde dette regole sono tratte, e ’n quante parte sieno divise, e quale sieno le cagione che tengano lo edifizio insieme […] e che natura sia quella del peso, e quale sia il desiderio della forza (Codice Atlantico, f. 730r).
Natura del peso e della forza, cioè regole di statica e dinamica: è la scienza de ponderibus che in questi anni Leonardo stava iniziando a studiare.
Le considerazioni di igiene – e quindi, nuovamente, il rapporto con una scienza, quella medica – sono alla base anche del progetto urbanistico, degli stessi anni, per una città con due reti stradali distinte: una per i pedoni e per la normale circolazione, l’altra per i mezzi di trasporto con carichi inquinanti; quest’ultima sarà connessa a un’efficiente rete idrica fognaria, in cui verranno riversate le sostanze inquinanti che saranno così allontanate (Manoscritto B, ff. 15v e 16r).
L’anatomia è, insieme all’ottica, la scienza che più contribuì a dare all’attività artistica e ingegneristica di Leonardo basi scientifiche. L’applicazione delle leggi dell’ottica, attraverso la prospettiva, ai fini di una visualizzazione efficace e utile del progetto macchinale, costituiva un campo già sperimentato con successo dalla generazione precedente, come abbiamo visto per Francesco. La connessione con l’anatomia è invece un ambito in larga parte nuovo. In effetti, all’epoca in cui Leonardo iniziava le sue ricerche, l’iconografia macchinale era più avanzata di quella anatomica. È quindi certamente possibile che, com’è stato recentemente ipotizzato, l’anatomia delle macchine abbia influenzato quella umana, bilanciando l’influenza di segno opposto segnalata prima. L’anatomia di Leonardo più tarda (1509-11 ca.) fu ampiamente segnata dall’applicazione di analogie meccaniche alla comprensione del corpo umano, per es. l’analogia tra articolazioni e leve. Tuttavia, Leonardo sembra aver raggiunto già negli anni Novanta del Quattrocento una sufficiente maturità in entrambi gli ambiti, i quali negli anni successivi si sarebbero sviluppati paralellamente, con l’anatomia che, acquisendo sempre maggiore spazio a scapito della progettazione macchinale, avrebbe risucchiato spunti messi a punto nel quadro di quest’ultima.
Fu negli anni Novanta, del resto, che la tecnologia di Leonardo raggiunse forse il suo culmine. La rappresentazione in isolamento, nel Manoscritto di Madrid I (1490-99 ca.), dei congegni di base (viti, ruote, cuscinetti, pulegge e così via), effettivamente sembra il risultato, iconograficamente molto avanzato, di una dissezione delle macchine nei loro costituenti base. Leonardo, in quest’epoca, progettò un trattato sugli ‘elementi macchinali’, che prevedeva una parte teorica, di statica e dinamica, e una pratica, di applicazioni concrete.
Le macchine volanti
La statica e la dinamica, alla stessa epoca, furono da Leonardo applicate direttamente e indipendentemente anche all’anatomia, al corpo umano e animale, per poi essere comunque applicate in campo tecnologico, per es. in rapporto a quella progettazione delle macchine volanti che costituisce forse il filone tecnologico al quale egli si dedicò in maniera più continuativa nel corso della sua carriera, con uno sviluppo teorico assolutamente coerente con il resto della sua multiforme ricerca.
Le prime tracce di studio di macchine volanti risalgono agli anni giovanili, mentre era ancora a Firenze (per es., Firenze, Galleria degli Uffizi, Gabinetto delle stampe, f. 447 E, 1480 ca.; Codice Atlantico, ff. 858r e 860r). Una serie di indizi ha portato recentemente a interpretare questi progetti, diversamente da quanto prima supposto, come invenzioni per il teatro. Si tratterebbe cioè di macchine destinate sì a volare, ma sulla scena teatrale, quindi sorrette da cavi, con ali mobili ma solo per simulare il volo; andavano utilizzate nell’ambito di sacre rappresentazioni in cui comparivano figure alate di angeli o demoni. Sappiamo che le botteghe degli artisti-ingegneri fiorentini dell’epoca, da Brunelleschi a Verrocchio, erano impegnate nella progettazione di simili dispositivi scenici.
Ma questo è solo l’inizio della vicenda, perchè sul verso del citato f. 447 E della Galleria degli Uffizi troviamo un disegno e una nota di studio molto particolari: una linea a zigzag e, vicino, la sua nota esplicativa, «questo è il modo del chalare degli uccelli». È solo una suggestione, ma, considerando il modo in cui Leonardo avrebbe poi affrontato la progettazione della macchina volante, una suggestione di notevole importanza: il primo indizio di connessione tra macchina volante e studio del mondo animale, del volo naturale. Infatti, a partire dal primo periodo milanese Leonardo cominciò a lavorare a un dispositivo destinato a volare per davvero, andando oltre la dimensione teatrale delle scenografie create dai ‘macchinatori’ quattrocenteschi.
La macchina volante è forse l’ambito tecnologico nel quale è più evidente la concezione leonardiana della macchina come mimesi della natura, ed è quindi quello in cui più chiara risulta la trasformazione del macchinatore in uno scienziato che, per progettare, studia attentamente la natura e le sue leggi. Questo studio scientifico riguarda vari ambiti della natura: l’anatomia e il volo degli uccelli; l’anatomia e le potenzialità dinamiche del corpo umano, cioè del pilota della macchina; infine, il fluido aereo in cui la macchina è destinata a sostenersi. Questi vari ambiti, sempre coesistenti per ovvi motivi, avrebbero ricevuto un’attenzione maggiore o minore nel corso del tempo, parallelamente al più generale sviluppo del suo pensiero.
Così, alcune delle macchine progettate negli anni Novanta partivano soprattutto dallo studio del corpo umano: Leonardo studiò le potenzialità dinamiche delle membra (per es., nei vari schizzi del f. 1006r del Codice Atlantico), e mise quindi a punto un progetto, noto come vascello volante, nel quale il pilota, al centro della macchina, avrebbe prodotto energia muovendo non solo le braccia ma anche i piedi e la testa; questa energia si sarebbe poi trasmessa, attraverso un sistema solo parzialmente risolto da Leonardo, a una doppia coppia di ali (Manoscritto B, f. 80r). Lo scopo era quello di abbassare le ali con velocità sufficiente a comprimere l’aria sottostante; infatti, pensava Leonardo, diversamente dall’acqua l’aria può venire compressa prima che si diffonda nell’altra aria circostante, in modo da formare un cuscinetto con cui sostenere la macchina in volo. Lo stesso manoscritto contiene (nel f. 88v) il famoso esperimento al riguardo, con un’ala posta sul fianco di un monte, connessa a un pancone che un uomo, azionando con forza una leva, dovrà sollevare premendo l’ala sull’aria.
Queste macchine nascevano soprattutto come visualizzazione delle potenzialità dinamiche del corpo umano: per Leonardo il volo degli uccelli era allora meno importante, e la concezione delle macchine volanti rispondeva al generale antropocentrismo di questo periodo del suo pensiero, a cui risale anche il già citato Uomo vitruviano.
Dopo il rientro a Firenze, nei primi anni del Cinquecento la progettazione della macchina volante seguì invece una dimensione di ricerca più zoologica. Punto di partenza non era più l’uomo, ma l’uccello, la sua anatomia, le sue modalità di volo. Sono gli anni in cui Leonardo compilò il Manoscritto K, un quaderno tascabile pieno di appunti frettolosi sul volo naturale presi all’aria aperta, e il Codice sul volo degli uccelli (Torino, Biblioteca reale). Quest’ultimo si compone di due sezioni principali, che rivelano molto chiaramente la concezione mimetica di Leonardo: a una prima sezione contenente studi dedicati al volo naturale ‘attivo’, cioè a come gli uccelli riescono a sollevarsi in assenza di vento, seguono fogli in cui si progetta una macchina volante capace di imitare questi movimenti attivi dei volatili. Procedendo verso quello che per noi è l’inizio del manoscritto (dato che Leonardo, come in altri casi, lo compilò da destra a sinistra, iniziando da quella che per noi è l’ultima pagina), segue un gruppo di fogli nei quali disegnò e studiò le acrobazie eseguite in volo dagli uccelli per cambiare direzione o per riacquistare la posizione di equilibrio se rovesciati da una folata di vento; anche questa sezione è seguita da progetti di ala meccanica capaci di imitare tali manovre.
Infine, negli anni più tardi, fu l’aria a catalizzare l’attenzione di Leonardo e a ispirare i progetti più frequenti, quelli di volo a vela, anche se, negli ultimi anni, splendidi disegni di uccelli in volo sembrano acquisire sempre più una dimensione prettamente scientifica di studio del volo e del vento, svincolato dalla mimesi tecnologica.
Dispositivi subacquei e progetti idraulici
Un ambito di studi idealmente collegato agli studi per la macchina volante è la ricerca di dispositivi destinati alla navigazione subacquea, oltre che alla navigazione tradizionale. La connessione ideale consiste ovviamente nel fatto che i dispositivi macchinali sembrano essere una mimesi della vita subacquea dei pesci, e, anche in questo caso, è tale connessione a fare la differenza con analoghe ricerche rinvenibili negli ingegneri precedenti o contemporanei a Leonardo. Dispositivi per galleggiare sull’acqua e respiratori subacquei erano infatti già comparsi tra i progetti degli ingegneri senesi, da Taccola a Francesco.
Buona parte di questi sistemi per consentire all’uomo di andare sott’acqua è ideata da Leonardo in rapporto alla guerra. Va notato che le sue invenzioni per la guerra navale consistono in testi con poche informazioni, che contengono sempre almeno alcune parole cifrate e in cui i disegni riguardano i dettagli e solo rararamente l’insieme di un dispositivo; in altre parole, si tratta di ammonimenti a se stesso a non divulgare le proprie invenzioni. Queste, coperte come sono da un velo di segreto, sono di difficile ricostruzione da parte degli studiosi. Leonardo era consapevole della loro novità e si preoccupava persino delle loro conseguenze nefaste. Scriveva, per es.:
Come molti stieno, con istrumento, alquanto sotto l’acque. Come e perché io non iscrivo il mio modo di star sotto l’acqua, quanto i’ posso star sanza mangiare, e questo non pubblico o divulgo per le male nature delli omini, li quali userebbono li assassinamenti ne’ fondi de’ mari, col rompere i navigli in fondo e sommergierli insieme colli omini che vi son dentro; e benché io [ne] insegni delli altri, quelli non son di pericolo, perché di sopra all’acqua apparisce la bocca della canna, onde alitano, posta sopra li otri o sughero (Codice Leicester, 1505-1509 ca., Seattle, biblioteca privata di Bill Gates, f. 22v).
Da quanto è possibile ricostruire, la guerra sottomarina di Leonardo prevedeva: sommergibili capaci di speronare le navi nemiche; all’inverso, navi a doppio scafo, capaci di contenere i danni dei sommergibili (Manoscritto B, f. 11r); palombari chiusi in scafandri di cuoio a tenuta stagna, dotati di zavorra per scendere e di una sacca gonfiabile per risalire (Codice Atlantico, f. 909v) e di sistemi di respirazione più sofisticati di quelli visibili nei codici degli ingegneri senesi (Codice Arundel, Londra, British library, f. 24v); sistemi per sfondare, mediante trapani, il fondo delle navi nemiche. Anche se non necessariamente connessi con la guerra, i guanti palmati per nuotare (Manoscritto B, f. 21v) o i sistemi per camminare sull’acqua (Codice Atlantico, f. 7r) appartengono allo stesso orizzonte concettuale, dominato da una concezione della macchina come imitazione della natura.
Non sappiamo se questi progetti vennero effettivamente presentati a un committente. Il fatto che la maggior parte di essi risalga agli anni giovanili di Leonardo porterebbe a connetterli con quel passaggio della lettera di presentazione al Moro in cui si allude per l’appunto a dispositivi per la guerra navale.
Sappiamo invece per certo che Leonardo lavorò per la Repubblica di Venezia in qualità di ingegnere idraulico per problemi militari. Agli inizi del Cinquecento, per ordine della Serenissima progettò infatti sistemi difensivi contro l’esercito dell’impero ottomano lungo il fiume Isonzo. A questo scopo studiò ciò che definì «la qualità dell’Isonzo», cioè il suo regime idrografico, piene incluse, e propose un sistema di dighe mobili che anche pochi uomini sarebbero riusciti a gestire, utilizzando, come strumento, le correnti stesse dell’Isonzo e le loro caratteristiche (Codice Atlantico, f. 638 dv). Anche in questo caso la tecnologia di Leonardo è una forma di imitazione della natura, perché egli propone di modificare la natura utilizzando i suoi stessi mezzi (le correnti del fiume), quindi assecondandola e in definitiva imitandola.
Ma questi progetti di carattere militare sono solo un capitolo della vasta attività di Leonardo come ingegnere idraulico. Per es., mentre si trovava a Milano egli studiò attentamente il sofisticato sistema dei Navigli, imparando ma anche progettando miglioramenti. Più documentata è però la sua attività di ingegnere per conto della Repubblica fiorentina, all’epoca del rientro a Firenze. Venne interpellato per due progetti riguardanti il fiume Arno: la sua deviazione, in modo da allagare Pisa, con cui Firenze era all’epoca in guerra, e la sua regimentazione, in modo da renderlo navigabile in un tratto tortuoso tra Firenze e Empoli.
In rapporto a questi progetti nacque una serie di disegni (quasi tutti conservati presso lo Windsor castle o facenti parte del Manoscritto di Madrid II), nei quali Leonardo studiava il corso dell’Arno. Si tratta di lucidissime analisi di come le acque del fiume erodano gli argini oppure di come, nel corso del tempo, il letto del fiume avesse mutato sito, sommergendo aree prima asciutte e viceversa. Nati in vista di una canalizzazione che Leonardo non realizzò mai, questi studi acquistano una validità scientifica autonoma e rappresentano l’inizio di una più matura stagione di studi geologici e idrologici, portata avanti da Leonardo nel corso di questo secondo soggiorno fiorentino e nei primi anni del rientro a Milano, studi confluiti soprattutto nel Codice Leicester. In campo geologico, Leonardo studiò, tra l’altro, l’interazione tra acqua e terra. La parte di questi studi che più interessa da un punto di vista tecnologico è l’analisi degli effetti di erosione degli argini da parte delle acque. Il Codice Leicester è pieno di analisi scientifiche di questo fenomeno, continuamente intessute di considerazioni di carattere tecnologico sull’applicazione di regole generali a contesti pratici, dalla prevenzione del dirupamento di un argine alla sua riparazione.
Almeno in quegli anni, scienza e tecnica, conoscere e fare s’intrecciano ancora armoniosamente. Lo stesso vale per il versante più prettamente idrologico degli studi contenuti nel Codice Leicester, consistente in un’analisi sistematica delle forme assunte dall’acqua in movimento, un’analisi di tipo prettamente fisico, qualitativo e visivo, diversa quindi dall’orientamento prevalentemente matematico che l’idrologia avrebbe assunto a partire dal 17° secolo.
Edilizia civile, macchine operatrici e scienza de ponderibus
Altri episodi dell’attività di Leonardo come ingegnere presentano questa compresenza di conoscere e fare, di scienza e applicazione pratica.
Più o meno negli stessi anni in cui realizzava per la Repubblica fiorentina progetti di canalizzazione e deviazione dell’Arno, lavorò anche per Cesare Borgia. Per alcuni mesi, nel 1502, lasciò infatti Firenze per seguirlo nella campagna militare in Romagna. Parte del suo incarico di ingegnere militare era la realizzazione di rilievi cartografici del territorio romagnolo e delle sue rocche. Dovevano essere strumenti concreti di ausilio nella conduzione di una campagna militare, ma divennero anche occasioni di ricerca scientifica d’avanguardia, come nel caso della famosa mappa di Imola, uno dei primi esempi di cartografia realizzata con sistemi razionali, con l’uso di un goniometro e in base a esatti rapporti proporzionali (Windsor castle, Royal library, f. 12284).
La compresenza del conoscere e del fare è riconoscibile anche in vari progetti, edilizi o macchinali, risalenti agli stessi anni.
Uno di questi è il progetto di un ponte a Costantinopoli, lunghissimo per l’epoca, che avrebbe attraversato l’estuario noto come Corno d’Oro, collegando la città con la prospiciente Pera (oggi Beyoǧlu). È questo uno dei capitoli più misteriosi della carriera di Leonardo come ingegnere. Come abbiamo visto, passando per Venezia egli aveva trovato la Serenissima preoccupata del pericolo ottomano e, per essa, aveva progettato fortificazioni contro quel pericolo. Ora invece Leonardo sembra mettere il suo talento al servizio del sultano. Un foglio del Manoscritto L (il 66r) rappresenta, visto dall’alto e di lato, il ponte in questione: «ponte da Pera a Costantinopoli, largo 40 braccia», recita la nota sottostante, che continua enumerando tutte le misure previste. Queste, per l’epoca, erano inaudite: il ponte, a campata unica, avrebbe avuto un’altezza di circa 40 m e una lunghezza di circa 349 m.
Molti ingegneri moderni hanno cercato di capire questo progetto, giudicandolo in genere come fattibile. Tuttavia, al di là di tale aspetto pratico, un elemento va sottolineato: la forma particolare ed elegante delle due terminazioni del ponte, che è un portato tipico della mente di Leonardo, impegnata su vari campi. Il ponte termina infatti, su entrambi i lati, biforcandosi, in un modo che ricorda la coda di un volatile. Esiste una connessione tra questi ambiti così lontani, ed è data dalla scienza de ponderibus, dallo studio dei pesi, che è un campo di studi teorici che Leonardo poneva alla base tanto della sua zoologia che della sua ingegneria.
L’orizzonte teorico dello studio del comportamento dei pesi era alla base anche di altre spettacolari invenzioni di quegli anni. In particolare, per quanto riguarda le macchine operatrici vi sono i progetti per due enormi scavatrici, una delle quali capace di lavorare in modo molto innovativo. Sono contenuti in due fogli del Codice Atlantico (3r e 4r), che originariamente formavano un unico foglio nel quale Leonardo aveva posto a confronto i due progetti. È possibile che si trattasse di due soluzioni alternative poste davanti agli occhi di possibili committenti; tuttavia si è inclini a vedere in una delle due scavatrici (f. 3r) un progetto più tradizionale e nell’altra (f. 4r) la soluzione nuova proposta da Leonardo.
La prima scavatrice risulta mossa da una ruota calcatoria, azionata al suo interno da uomini o da animali. Essa ricorda per questo soluzioni già apparse negli studi degli ingegneri del Quattrocento e anche nei giovanili disegni macchinali dello stesso Leonardo.
Sicuramente più originale l’altra scavatrice. Qui il problema delle forza motrice viene risolto in termini di pesi e contrappesi, ed è a questo punto che entrano in gioco gli studi dedicati da Leonardo alla scienza dei pesi. Egli si era impadronito dei rudimenti di questa scienza, che il Medioevo aveva coltivato solo a un livello di studio puramente teorico; li aveva sviluppati e soprattutto li aveva applicati alla pratica macchinale, saldando la secolare distanza tra meccanica teorica e meccanica pratica. Già in un progetto di gru contenuto nel Manoscritto di Madrid I (f. 96r) aveva iniziato ad applicare i principi dei pesi e dei contrappesi. Ora, nel f. 4r del Codice Atlantico trova la sua espressione migliore il meccanismo motore a saliscendi, basato su una corretta taratura della struttura della macchina in modo da utilizzare al meglio il gioco dei pesi e dei contrappesi: i contenitori pieni di terra sarebbero stati alzati dai lavoratori stessi, che sarebbero poi saltati sui contenitori vuoti, appesi dal lato opposto, abbassandoli con il loro stesso peso. L’opera dei lavoratori, che si sarebbero mossi su più livelli di scavo, sarebbe stata sincronizzata a questo fine. Se si giudica questa scavatrice avendo in mente gli studi, apparentemente astrusi e ripetitivi, che Leonardo aveva dedicato alla scienza dei pesi, essa sembra veramente una bilancia o una legge di statica divenuta macchina.
Dunque, fu grazie alle sue conoscenze teoriche che Leonardo poté proporre una valida alternativa alla forza umana e animale. Sarebbe stato l’uomo che avrebbe scavato (come si capisce dagli arnesi da lui disegnati), ma il sollevamento dei pesi sarebbe avvenuto in modo quasi automatico.
Il dispositivo progettato aveva anche altri aspetti originali. La gru era infatti collocata su due binari, in modo da poter avanzare a mano a mano che lo scavo procedeva. Si prevedevano inoltre due bracci, in grado di lavorare contemporaneamente su due livelli di scavo; essi, ruotando, sarebbero stati in grado di raggiungere tutta l’ampiezza del fronte di scavo. Questo, agli occhi dei possibili committenti, significava maggiore velocità di lavoro.
Ma a chi Leonardo pensava di destinare queste scavatrici? È probabile che i due progetti avessero a che fare con la sua attività di ingegnere per conto della Repubblica fiorentina, per la quale, come abbiamo visto, intorno al 1504 si occupò di come canalizzare l’Arno. Il progetto per questo fiume prevedeva lo scavo di un canale a nord di Firenze, in modo da aggirare un tratto non navigabile del fiume. Quindi il canale che Leonardo disegnò contestuamente alle due scavatrici sarebbe quello dell’Arno che, com’è possibile calcolare dal disegno, avrebbe avuto una profondità di circa 6 m e un’ampiezza di 18 m. Anche altri due fogli contenuti nel Codice Atlantico (905v e 944) riguardano questi progetti di scavatrici e di gru, da impiegare quasi certamente nella canalizzazione dell’Arno.
Questo intreccio tra ricerca scientifica e progettazione ingegneristica o macchinale continuò anche negli anni più tardi, seppure con minore intensità (è difficile essere precisi in proposito). Esistono tracce di progetti tecnologici persino per gli ultimi anni trascorsi da Leonardo in Francia. Ma l’impressione generale è quella di un tendenziale prevalere della dimensione del conoscere, che sembra volersi svincolare dal fare.
Tutto ciò che possediamo del progetto di bonifica delle Paludi Pontine, in cui Leonardo venne coinvolto mentre si trovava a Roma, è la splendida mappa a volo d’uccello della zona, un capolavoro di cartografia e di spunti di studio geologico, ma con scarse indicazioni pratiche su come procedere per la bonifica (Windsor castle, Royal library, f. 12684). Allo stesso tempo, nei suoi ultimi anni Leonardo sembra aver perso fiducia nella possibilità di imitare tecnologicamente la natura, e questo emerge in vari ambiti: in rapporto al volo umano, come abbiamo visto, o in rapporto alla navigazione:
La navigazione non è scienza fatta che abbi perfezione perché se così fussiessi si salverebbero da ogni pericolo, come fan li uccelli nelle fortune dei venti dell’aria […] e i pesci notanti nelle fortune del mare e diluvi dei fiumi, li quali non periscan (Windsor castle, Royal library, f. 12666r).
Così, quella connessione del fare con il conoscere su cui si era basato il tentativo di emancipazione culturale e teorica dell’attività macchinale da parte degli ingegneri del Rinascimento, sembra aver generato nel tardo Leonardo una crisi. Questa crisi è anche una conseguenza della radicalità con cui egli aveva perseguito quella connessione, che invece, in Francesco e in altri ingegneri dell’epoca, sembra essersi svolta in modo meno problematico, anche se meno sofisticato.
Leonardo e Francesco: convergenze e differenze
A questi aspetti generali di convergenza e di differenza tra le vicende di questi due artisti-ingegneri del Rinascimento, se ne possono aggiungere altri più particolari.
Milano e la corte degli Sforza furono per Leonardo ciò che Urbino e i Montefeltro furono per Francesco. In entrambi i casi, l’ingegneria militare fu certamente il principale motivo di questi rapporti (almeno all’inizio, nel caso di Leonardo). Come abbiamo visto, Leonardo, per presentarsi al Moro, fece redigere una lettera in stile colto in cui elencava le proprie capacità ingegneresche e artistiche. Immagini simili ai giovanili disegni macchinali poi confluiti nel Codice Atlantico possono forse aver corredato questa autopresentazione, in modo analogo all’Opusculum di Francesco, formato, come già accennato, da una raccolta di disegni preceduti da un testo-dedica a Federico da Montefeltro.
Ma da questo confronto emerge anche una differenza importante. L’Opusculum è un’opera finita, ben organizzata e avente tutte le caratteristiche di un testo pronto per una qualche forma di ‘pubblicazione’, anche se in forma manoscritta. Invece quasi nessuno dei disegni macchinali di Leonardo, per quanto splendido, efficace e innovativo, andò oltre la dimensione dello studio privato. Le note di testo scritte da destra a sinistra sono l’aspetto più noto e macroscopico di questa dimensione di appunto privato.
Anche nelle opere più teoriche di questi due artisti-ingegneri c’è una simile differenza: mentre Francesco raccolse in forma finita e adatta alla pubblicazione le sue ricerche nel Trattato (di cui, come abbiamo visto, redasse addirittura una versione aggiornata), Leonardo non si preoccupò di realizzare qualcosa del genere in nessun ambito della sua ricerca tecnologica e scientifica, e anche quando realizzò raccolte tematicamente coerenti, queste avevano una forma ben lontana da quella necessaria per la pubblicazione.
Come conseguenza, mentre l’opera di Francesco, come nel caso dell’Opusculum, ebbe una notevolissima diffusione, venne cioè copiata, in tutto o in parte, e studiata da altri ingegneri, lo stesso non può dirsi dei disegni macchinali di Leonardo, che, al pari della sua opera scientifica, rimasero in gran parte ignorati sino alla fine del 18° secolo.
Una prova, molto particolare, della vitalità dell’opera teorica di Francesco coinvolge proprio Leonardo. La versione manoscritta del Trattato conservata presso la Biblioteca Medicea Laurenziana di Firenze contiene numerose note in margine, la cui grafia non lascia dubbi sul loro autore: si tratta di Leonardo, che (forse poco dopo il 1500) entrò in possesso di questo manoscritto e, studiandolo, v’inserì una serie di appunti. La maggior parte di queste note ha, rispetto al testo di Francesco, un carattere fortemente teorico. Per es., nella pagina in cui Francesco tratta, per scopi molto concreti (la riparazione di porti), del corso dei fiumi in prossimità del mare, Leonardo inserisce una nota e un disegno di carattere squisitamente teorico riguardante il moto ondoso; dove Francesco tratta delle macchine per alzare colonne, Leonardo inserisce note teoriche sui pesi e sulla gravità; e così via.
È un’ulteriore conferma di uno sviluppo nella progressiva emancipazione teorica degli artisti e ingegneri del Quattrocento. Leonardo portò fino alle estreme conseguenze questo processo, connettendo la progettazione macchinale con svariati ambiti scientifici e affidandola a immagini di una complessità teorica estrema. Ma forse proprio per questo la sua opera risultò incompatibile con la ‘pubblicazione’, mentre l’opera meno sofisticata di Francesco ebbe un seguito immediato ben più ampio.
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