‘Stampe dell’Ottocento’. Oppure, lasciando il nostro Palazzeschi, potremmo constatare con Alberto Savinio come «il secolo decimonono, eccellentemente umanitario, fu chiamato con le parole stesse di Léon Daudet lo “stupido secolo decimono”» (Nuova enciclopedia, 1977, p. 399). In ogni caso resta abbastanza ferma e diffusa la linea interpretativa che valga, anche per l’Italia unita, la convinzione secondo la quale il periodo di storia che comprende gli anni «dalla metà del secolo decimonono sino ai bagliori della prima guerra mondiale, si consegna al nostro ricordo come il “mondo della sicurezza”» (N. Irti, L'età della codificazione, 19862, p. 3). Insomma, il ‘mondo di ieri’ ottocentesco – secondo la felice intuizione dello Stefan Zweig ricordato da Natalino Irti – come ‘mondo della sicurezza’; un mondo della sicurezza che, sotto il profilo giuridico, si potrebbe raffigurare in sintesi simbolicamente nella ‘regola del gioco’ (borghese) del codice civile del 1865, quale supremo palladio dell’esigenza di stabilità (cioè, di assoluta prevedibilità dei contegni di soggetti pubblici e privati) e quindi della libertà e creatività individuale.
Ora non è certo nostra intenzione disconoscere il valore euristico di tale raffigurazione evocatrice, ché anzi ce ne serviremo. Si tratta però anche di complicare la prospettiva, per cogliere del processo di unificazione tutta la difficoltà, per non dire drammaticità ‘costruttiva’, le luci di un’unificazione portata a compimento, ma anche le ombre delle (nuove) fratture interne che ne costituirono in qualche modo il prezzo. Val la pena qui ricordare che, ben prima che il Nietzsche torinese proclamasse le sue profezie sulla conflagrazione mondiale avveniente, un Giovanni Battista Arnaudo di perduta memoria analizzava già partitamente e con acume un movimento che quelle tranquille sicurezze ‘smascherava’(Il nichilismo. Com’è nato; come si è sviluppato; che cosa è; che cosa vuole, 1879).
Come aveva in fondo ben visto Arrigo Solmi nel 1932 (depurato il suo dire dell’enfasi e della retorica, del resto, non per caso, ‘nazional-nazionalistica’ in quanto di quell’età debitrice), il Risorgimento italiano, «uno dei fatti più grandiosi della storia contemporanea […], per la sua varietà e per la sua complessità, si presenta tra i più difficili a ricevere una spiegazione completa e una giustificazione sufficiente» (La genesi del Risorgimento nazionale [1932], in A. Solmi, Discorsi sulla storia d'Italia, 19352, p. 162).).
Inizialmente infatti la via invocata sembrava chiara. Così, per es., il 2 luglio del 1847, nel Programma del primo numero de «La Patria. Giornale politico e letterario», Vincenzo Salvagnoli osservava:
Assicurata la libertà della discussione, le sorti della patria stanno in mano de’ cittadini. La violenza ebbe la sua età; l’età nostra è della ragione pubblica. Ma essa non esce né da uno, né da pochi: esce da tutti, esce spontanea, cresce fra le contradizioni, trionfa col consentimento generale. Quella libertà, divenuta principio fondamentale del diritto pubblico nello Stato toscano e negli Stati romani, è un nuovo elemento rigeneratore di essi, è fonte di grande unità civile per tutta Italia […]. Il sovrano degli Stati romani ha dato, e più accenna a dare […]. Del re sardo non poco è annunziato. In tal guisa la soddisfazione del bisogno di libertà agevola la soddisfazione dell’altro bisogno della nazionalità, ma per una via legale e pacifica, senza che l’ordine della civiltà sia sconvolto, e senza che le prerogative del principato siano manomesse. Per questa via procede la nazionalità italiana.
In realtà la violenza reclama ancora un’età: la svolta drammatica del 1848 mostra che la via legale e pacifica della nazionalità non è l’unica opzione e che le contraddizioni e il conflitto sono profondi fra le varie anime del movimento risorgimentale. Anzi è proprio sulla forma che il futuro Stato dovrà assumere che emerge un conflitto decisivo; come ha di recente lucidamente notato Pietro Costa:
Viene al pettine un nodo intricato: il rapporto che dovrà essere instaurato tra lo Stato italiano e le realtà locali, fra la grande patria per la quale si combatte e le piccole patrie alle quali già si appartiene. E la questione del federalismo. È un problema di capitale importanza, presente fin dalle prime battute del processo risorgimentale perché imposto dalla storia stessa del paese (La cittadinanza degli Italiani. Dal Risorgimento all'Italia republicana, Prolusione all'inaugurazione dell'anno accademico 2011-2012 dell'Università di Firenze, 2012, p.36)).
Il conflitto politico chiama però la decisione, ed essa cadde conformemente alla concezione apparentemente bidimensionale dello spazio politico-giuridico propria del 19° secolo.
Il federalismo, il neoguelfismo, infatti, prevedevano in ultima analisi una via senza rivoluzione violenta: «I municipii e i senati [cioè i corpi giudiziarii] sono oggimai i soli poteri sovrani, che sussistono in molte nazioni cristiane, fuori del principe. Se i municipii e i senati, senza distruggere l’autorità del principe, chiedessero la ristorazione degli antichi diritti nazionali, l’Italia potrebbe rigenerarsi senza violenta rivoluzione. Che cosa fu la lega lombarda, se non una lega di municipii contro lo straniero? Non potrebbe essa rinnovarsi ai dì nostri?» (V. Gioberti, La teorica della mente umana. Rosmini e i rosminiani. La libertà cattolica. Frammenti inediti pubblicati dagli autografi della Biblioteca civica di Torino, 1910, p. 460).
La battuta d’arresto del 1848 favorisce invece un diverso e radicalmente alternativo tipo di opzione. Essa fa sì che il nuovo Stato venga a esistenza rescindendo nettamente – nonostante che «gli uomini sotto la cui guida venne realizzata, nel 1860, l’unificazione della penisola [fossero] per gran parte ammiratori del sistema inglese di decentramento amministrativo; e più volte, nel corso del 1860, esponenti del governo, a cominciare dallo stesso Cavour, [avessero] promesso apertamente che alle regioni sarebbero rimaste, nel nuovo Regno, larghe autonomie» (R. Romeo, Breve storia della grande industria in Italia, 1967, p. 27) – il legame con una delle due componenti vitali ‘perdenti’ del movimento risorgimentale, ovvero quella federalistica, mentre l’altra, quella democratica, viene coniugata in modo peculiare, ma anche ‘distorsivo’, con quella del costituendo Stato liberale accentrato. È il ‘doppio’ capolavoro cavouriano – internazionalizzazione del problema nazionale e, quale contestuale premessa, internalizzazione (leggi statalizzazione) della rivoluzione – che nel 1920 Giovanni Gentile sintetizzava con acume degno di nota:
Ma l’opera interrotta fu tosto ripresa con mano ferma e con occhio sagace e condotta al termine glorioso dal genio di Cavour, che il problema nazionale trasformò in problema internazionale; e questo poté fare traendo prima di tutto, all’interno, la rivoluzione nell’orbita dello Stato, conferendo quindi allo Stato tutto il prestigio e la potenza morale della rivoluzione, ed elevando esso Stato, malgrado il suo stesso realismo, ad un’alta funzione etico-religiosa (Discorsi di religione [1920], in Opere complete di Giovanni Gentile, 37° vol., 1935, p. 10).
A conferma, seppur da ben diversa sponda, della sostanziale verità della ricostruzione di colui che per certi versi era stato suo ‘maestro’, non molto diversamente si esprimeva Antonio Gramsci: «Insistere nello svolgimento del concetto che, mentre Cavour era consapevole del suo compito in quanto era consapevole criticamente del compito di Mazzini, Mazzini, per la scarsa o nulla consapevolezza del compito di Cavour, era in realtà anche poco consapevole del suo proprio compito» (Note sul Machiavelli, sulla politica e sullo Stato moderno, in Quaderni del carcere, a cura di V. Gerratana, 1975, q. 15, p. 1767).
L’attrazione della rivoluzione nell’orbita dello Stato non rimase una mera opzione ideologica di tipo ‘idealistico’, ma si tradusse, fin dall'impostazione innovativa introdotta nel Regno piemontese, in pratiche di favore per l’afflusso di capitale straniero (soprattutto, a fronte alla diffidenza degli ultimi anni di Carlo Alberto per le speculazioni della grande finanza, nel settore ferroviario, dove ai Rothschild e alla banca inglese Hambro fu lasciata mano libera) attraverso una politica che concedeva una funzione dominante all’iniziativa privata; in un'ampia politica di opere pubbliche, che assommata alle difficoltà finanziarie ereditate dal 1848-49 e soprattutto alle ingenti spese militari conseguenti alla specifica politica nazionale adottata, condussero a «un accrescimento notevolissimo del debito pubblico, i cui interessi finirono per assorbire un quinto delle entrate statali; e, accanto ad esso, [a] un accrescimento rilevante del carico tributario, attraverso la creazione di un sistema di imposte molteplici, che rimase alla base del sistema fiscale italiano anche dopo l’unità» (R. Romeo, Breve Storia, cit., pp. 24-25).
La scelta apparentemente piuttosto cauta, per non dire conservatrice, ma in realtà intimamente ‘rivoluzionaria’, della continuità di un'unità che si costruisce intorno e attraverso la dialettica tra un vecchio Stato e uno ‘Stato nuovo’, spiega l’ossessione postunitaria dell’unità, ma fa emergere a tutti i livelli anche le faglie di nuove contraddizioni, spesso represse o latenti, ma non per questo meno significative.
Così il parlare inglese, enfatizzando l’esperienza e la cultura britanniche, agendo però poi soprattutto 'alla francese', non è carattere che scolpisca solo l’atteggiamento dei primi pubblicisti subalpini (da Cesare Balbo a Cavour fino a Luigi Amedeo Melegari e Matteo Pescatore), ma rappresenta piuttosto una costante della vicenda della unificazione legislativa (e dottrinale) ottocentesca nel suo complesso, con risvolti talora molto concreti.
I propositi intesi a salvaguardare le larghe autonomie, è vero, «dovevano fallire soprattutto davanti alle difficoltà della situazione meridionale; e al rigido accentramento negli altri settori corrispose la indiscriminata unificazione che allora si operò della legislazione economica, estendendo in tutte le province un uniforme regime fiscale, allargando a tutto il Regno il peso del debito pubblico unificato, affrettando nelle province meridionali la liquidazione del patrimonio ecclesiastico»; tuttavia, proprio in conseguenza di questa ‘unificazione a vapore ’, gli effetti del nuovo regime si rivelarono «in certo senso rivoluzionari, specie per quelle regioni meridionali che videro d’un tratto ribassato dell’80% il regime protettivo di cui godevano, passando così al più assoluto liberismo. Ma a profittare della nuova situazione furono, in un primo tempo, non tanto le deboli industrie già esistenti nel Settentrione d’Italia quanto quelle franco-inglesi» (R. Romeo, Breve Storia, cit., pp. 28-29).
E però talora questi propositi, a fronte di determinate resistenze, certo non provenienti dai ceti esclusi dall’élite dirigente, restano in parte sulla carta. Così, come rileva ancora Rosario Romeo, «non si giunse invece ad una compiuta unificazione, per le fortissime opposizioni degli interessi particolari, nel settore bancario, dove si lasciarono sussistere come banche di emissione, che accentravano anche la maggior parte delle operazioni di credito ordinario, a fianco della Banca Nazionale, la Banca Nazionale Toscana, la Banca Toscana di Credito, la Banca romana, il Banco di Napoli e il Banco di Sicilia» (p. 27).
Il quadro ‘reale’ con i suoi chiaroscuri emerge, con i suoi progressi (e con i nuovi regressi dei suoi stessi ‘progressi’) allora nitidamente agli occhi dei contemporanei più avvertiti:
Se l’antico Regno, in fatto di viabilità, più non si riconosce, e si percorre, da un capo all’altro, sicuramente e comodamente, in poche ore; se la sicurezza pubblica vi è completa, e completa altresì la libertà del commercio e delle industrie: d’altro canto le esigenze della vita sono stranamente cresciute, non in proporzione dei mezzi; e perciò, bandite le tradizionali abitudini di semplicità, di frugalità e di modestia, e distrutta la verecondia del debito, fu questo rimesso in onore, sotto forme insidiose e ciarlatane. Di qui lo squilibrio economico, le speculazioni sbagliate, la rovina delle vecchie fortune borghesi e signorili, e il maggior pericolo dello stato presente. Poiché tanta parte della borghesia e dell’antica nobiltà, a misura che rimane priva della terra ereditata dagli avi, non rappresenta più un elemento di conservazione dell’ordine sociale, ma invece, concorre, coi partiti estremi, a rendere maggiore l’instabilità degli ordinamenti politici, e ad accelerarne il tramonto, sperando da questo il recupero della vecchia sostanza, perché la terra espropriata, la quale non sempre paga il debito, va a formare una nuova manomorta, assai più nefasta di quella ecclesiastica: la manomorta bancaria (R. De Cesare, La fne di un Regno. Dal 1855 al 6 settembre1860, 1895, pp. XVI-XVII).
Se dunque la realtà del nuovo Stato nazionale è che esso governa in modo omogeneo ai suoi presupposti di costituzione una società civile composta soltanto di una ristretta cerchia di soggetti, corrispondenti alle caratteristiche proclamate dell’individualismo liberale (e liberista), mentre la società complessiva resta diversificata e plurale e «la grande maggioranza della popolazione è separata dalle istituzioni e dalle élites che le dirigono: il paese legale e il paese legale non potrebbero essere più distanti»: lo Stato monoclasse di gianniniana memoria, insomma; e se a ciò si aggiunga che quelle élites in una parte considerevole non compartecipano più del sentimento religioso popolare e a più riprese e su più fronti si trovano in conflitto con la Chiesa cattolica, «avremo l’immagine di un’Italia formalmente unita e tuttavia segnata da drammatiche, profonde e persistenti divisioni» (P. Costa, La cittadinanza degli italiani, cit., p. 37).
A questo punto si può forse far palese – al di là delle specificità disciplinari pur ben presenti, che scandiscono diversamente le vicende e le corrispondenti fasi della giuspubblicistica, della civilistica, della penalistica o processualistica postunitarie – una peculiarità della ‘vocazione’ della scienza giuridica e del compito di cui è chiamata a farsi carico. Peculiarità che può essere sintetizzata facendo cenno al ‘plusvalore’ tecnico-politico del suo lavoro. Compito che, infatti, è insieme di progressiva consumazione delle radici giusnaturalistiche su cui si basavano l’antropologia individualistica e la configurazione ideale del nuovo Stato, al fine di definitivamente ‘mondificarlo’, per usare un efficace neologismo coniato da Arturo Onori, di farlo diventare, cioè, nell’orizzonte della positivizzazione, un ‘dato’ non più controvertibile, da un lato; e, dall’altro, compito simbolico o, se si vuole, ‘mitopoietico’ – le mitologie giuridiche della modernità, di quell’‘assolutismo giuridico’ di cui ci ha parlato Paolo Grossi – ovvero quello di costruire l’apparato di concetti atto a legittimare il processo di unificazione legislativa e giuridica come effettivamente espressivo, al di là delle sue molteplici contingenze, delle idealità nazionali, in quanto reale creazione dello ‘spirito della nazione’ (G. Cazzetta, Codice civile e identità giuridica nazionale, 2011, pp. 116 e segg.).
Paradigmatica non può che essere a questo proposito la vicenda della codificazione civile unitaria. Certamente anche perché non si colgono i fondamenti dello stesso costituzionalismo liberale se li si leggessero solo a partire dai testi costituzionali. Come ha ben sottolineato Luigi Lacchè, l’ordine giuridico ottocentesco, borghese e liberale, trova un suo momento costituente, fin dal Codice Napoleone, nell’emersione della logica del privatismo.
A questa altezza emerge una delle faglie, delle fratture interne, cui facevamo cenno, e che tocca in profondità la natura stessa dello Stato liberale di diritto, della moderna razionalizzazione giuridica del rapporto potere-libertà, che implica un ruolo centrale di ‘modello’ categoriale per l’apparato organizzativo dello Stato. Infatti, in realtà, come ha ben mostrato Giorgio Berti, facendo leva proprio su quello che definivamo processo di ‘consumazione’ della fondazione giusnaturalistica metapositiva, il privatismo si accompagna a una progressiva e sempre più radicale statizzazione del diritto privato, di cui il codice è lo strumento principe, «affermando il diritto privato come complesso di volontà statali» (P. Ungari, Per la storia dell'idea di codice, «Quaderni fiorentini», 1972, 1, p. 219), e la partecipazione al potere dell’individuo/proprietario nasce come effetto di una concessione dello Stato – originariamente a opera del monarca ‘costituzionale’ – e quindi anche le libertà che vennero via via riconosciute al cittadino furono appunto concesse e intese e disciplinate come tali, quasi appunto nascessero dal ceppo unitario della partecipazione al potere dello stato. Lo stato di diritto nacque così come una rappresentazione, in termini ridotti e falsificati, della volontà generale e dell’uomo sociale. La composizione tra pretese o libertà individuali e potere dello stato si compì tutta quanta sul versante del potere e cioè del governo dello stato […]. Per avere chiara testimonianza di queste vicende e dell’ambiguità di fondo dello stato di diritto, basta leggere gli statuti della prima metà del secolo XIX, i quali furono una sorta di concessione di libertà dimezzate da parte dei sovrani; statuti ai quali, seppur formalmente frutto di autorità monarchica, sottostava un patto di sottomissione della società, compensata appunto dall’attribuzione di alcuni diritti ai propri membri. Nessun diritto è riconosciuto come se preesistesse allo stato e facesse parte della vita stessa dell’uomo: ogni diritto è concesso ed è protetto in quanto concesso, quindi limitato e limitabile, fino a poter essere annullato, quando lo stato lo vuole e lo ritiene necessario (G. Berti, Interpretazione costituzionale, 19902, p. 10).
Ma di questo ipertesto, di questo ‘inconscio’ giuridico, non troviamo traccia esplicita nella vicenda della codificazione che si snoda invece su di una ben diversa strada, quella che il deputato toscano Giuseppe Montanelli nel 1859 aveva inaugurato nella paradossale trasformazione del codice francese (quindi a rigore ‘straniero’) proprio in parola d’ordine e in uno dei simboli del Risorgimento: «Viva l’Italia, viva Vittorio Emanuele, viva il codice Napoleone».
Per riprendere una felicissima formulazione del compianto Adriano Cavanna: «Il codice civile francese è da giudicarsi dunque, per paradossale o urticante che possa sembrare, come uno dei fondamentali fattori genetici dell’identità nazionale italiana» (Miti e destini del Code Napoléon in Italia, «Europa e diritto privat», 2001,1, p. 100). Questa strada doveva con evidenza agevolare, anche sul piano giuridico, la realizzazione del leitmotiv unitario-accentratore, la fretta unificatrice che spingeva il governo unitario di Urbano Rattazzi prima, e di Cavour poi, ad arrivare «a tagliare il traguardo della codificazione il più rapidamente possibile», puntando su di un unico modello di codice civile, ovvero «il codice francese interpolato» rappresentato dal testo piemontese del 1837, in conformità alla politica ‘assimilatrice’ generalmente praticata su tutti i piani. Sintomatica è la modalità con la quale questo progetto di ‘egemonia’ si manifesta nella strategia retorica messa in atto da uno dei protagonisti dell’unificazione legislativa risorgimentale, quel Giovan Battista Cassinis che fu dal 20 gennaio 1860 ministro di Grazia e Giustizia nel governo Cavour e il cui «progetto di revisione del 1860, nel bene e nel male, è già il codice del 1865» (S. Solimano, "Il letto di Procuste". Diritto e politica nella formazione del Codice civile unitario: i progetti Cassinis (1860-1861), 2003).
Questi non mancava infatti di collegare il codice civile con il processo di ritempramento e incivilimento nazionale e di magnificare l’altissimo valore simbolico di tale meta:
Quando una nazione, raccolte le sparse membra, si ricompone a Stato uno e indipendente primo suo bisogno si è estrinsecare la sua nuova esistenza, riducendola in atto, e confortare l’unità dello Stato coll’unità delle leggi […] se l’italiano valore vive e tante opere fece nei sanguinosi campi di Palestro e di San Martino, l’Italia, fornita ancora di civile sapienza, sa essa del pari fare le sue leggi come seppe fare le sue battaglie (G.B. Cassinis, Relazione alla Camera dei deputati e al Senato sul progetto di revisione del codice civile albertino [19 e 21 giugno 1860]).
L’obiettivo imitativo è (napoleonicamente) palese (forza delle armi versus forza delle leggi): e viene alla fine raggiunto anche sotto un profilo simbolico del tutto rilevante.
La conseguita unità politica, con la proclamazione del Regno d’Italia, farà sì che anche agli occhi dei giuristi italiani il codice civile si carichi di quel forte significato simbolico nazionale strettamente connesso a un plusvalore politico che ci è ormai noto: laddove, come possiamo attenderci, la ribadita componente di affermazione della premessa rivoluzionaria, viene attratta nell’orbita prevalente del consolidamento nazionalistico.
Esso rappresenta infatti sì «l’emblema della raggiunta libertà», ma, per usare ancora un'acuta notazione di Stefano Solimano, «nello stesso tempo il sigillo dell’unità politica essenziale per consolidare il ‘peso’ dell’erigenda nazione di fronte alle Potenze europee. Esso quindi deve essere realizzato ad ogni costo e il più rapidamente possibile. Le ragioni della politica schiacciano quelle del diritto» ("Il letto di Procuste". Diritto e politica nella formazione del Codice civile unitario: i progetti Cassinis (1860-1861), 2003).
Il codice civile diventa dunque un’istituzione-chiave, tale da garantire in qualche modo l’omogeneità, e quindi la ‘credibilità’, del giovane Stato-potenza rispetto ai suoi ‘pari’ nel consesso dell’Europa moderna. Ancora un ‘momento’ dell’intuizione originaria di Cavour che internazionalizza il problema dell’unità nazionale, verrebbe fatto di dire.
Se era politicamente imprescindibile arrivare subito a un codice, accelerare il più possibile il processo di unificazione legislativa, procedere insomma a quella che è passata sotto l’efficace nome di «unificazione a vapore», la strada più ovvia era allora quella di portare a termine i lavori già iniziati, sfruttando però appieno tutte le valenze del Codice Napoleone come Code modèle, seguendolo ancora più da vicino. Ed è precisamente ciò che fu fatto.
Ma questa decisione – certamente coerente con il quadro politico-istituzionale prescelto – portò con sé ulteriori conseguenze di non poco momento.
Infatti si potrebbe affermare – e lo notava già con grande acutezza nel 1961 uno dei padri del nostro codice civile del 1942, Rosario Nicolò (Codice civile, 1961, in R. Nicolò, Raccolta di scritti, 2° vol., 1980) – che la consapevolezza di quella esigenza di unificazione-uniformazione legislativa del diritto privato delle varie regioni italiane e la convinzione che solo il conformarsi a quel codice-modello ne avrebbe consentito la rapida realizzazione, ebbero anche un ulteriore effetto decisivo sul piano giuridico-culturale. Esse funsero, cioè, e non per caso, da impedimento a un reale «movimento di idee sui problemi di fondo della codificazione». Insomma, se volessimo ridurre la questione a una formula pur non semplificatoria, dovremmo dire che il modello ha funzionato come ‘ostacolo epistemologico’ a che in Italia si aprisse una reale discussione su cosa significa codificare e quali ne fossero i vantaggi e i costi.
Tutto questo è visibile fin dal momento ‘genetico’ iniziale. Infatti, fin dalla relazione Cassinis del giugno 1860 al primo progetto di revisione del codice albertino, era già con evidenza manifesta la strada che si intendeva imboccare in proposito. Nessun dubbio sulla circostanza che «la formula codificata del diritto» era stata incontrovertibilmente «la vocazione del secolo» e soprattutto che essa costituisse ovviamente, non è una sorpresa, «una condizione dei civili progressi»; ma a ciò si aggiungeva, quasi a fortiori, che «la questione del metodo di codificare era già sciolta dal fatto e dal consenso universale».
Era del tutto naturale che ancor più esplicitamente si sbarrasse la porta a un eventuale dibattito nel momento dell’abbandono dell’idea di revisione del codice albertino, per passare a progetti più aderenti al modello napoleonico: sempre Cassinis in un discorso alla Camera – è ancora Nicolò che ce lo ricorda – affermò infatti e a scanso di equivoci che non si trattava «di formare un codice», ma solo «di compilarlo».
La tecnica dei lavori successivi (progetti Miglietti e Pisanelli) e la loro celerità confermano appieno la linea di tendenza. Esse furono contraddistinte in pratica addirittura «dalla preclusione, nell’ultima fase, di ogni discussione in sede parlamentare, sia generale sia particolare, in forza dell’autorizzazione al Governo (l. 2 aprile 1865) a pubblicare e rendere esecutori con semplice decreto i codici civile, di procedura civile e per la marina mercantile nello stato in cui si trovavano in quel momento i relativi progetti e salvi gli emendamenti che lo stesso Governo aveva il potere di apportare» (R. Nicolò, Codice Civile, cit., p. 1144).
In una parola siamo di fronte non solo alla prova provata che la questione era stata chiusa prima ancora di poter essere messa all’ordine del giorno; ma altresì al fatto che la formula storiografica dell’‘assolutismo giuridico’ ha una pregnanza storiografica del tutto specifica.
In questo senso non sorprenderà, anzitutto, il ribadire la notazione secondo cui le circostanze per sommi capi descritte «impedirono che in Italia prendessero consistenza e vigore le polemiche sulla codificazione».
Questo dato è certo di non poco momento nella valutazione complessiva dell’apporto della scienza giuridica italiana allo sviluppo del nostro diritto civile moderno, che ribadirà anche nella fase successiva alla ‘svolta’ degli anni Ottanta (quando il baricentro culturale si sposterà dalla Francia ai Paesi di area germanica) il suo valore di referente per la ‘scientificizzazione’ delle principali branche del diritto (dal pubblico al penale), confermando l’assunto di Paolo Ungari, secondo il quale «il rapporto fra codici e idea di Stato, in ogni caso, appare tra le vie obbligate di una considerazione non formalistica della storia costituzionale, non più impoverita di un suo essenziale profilo» (Per la storia dell'idea di codice, «Quaderni fiorentini», 1972, 1, p. 213).
E ci pare allora di poter sottoscrivere in parte il giudizio altrove espresso dall’avvertito civilista, forte ormai dell’esperienza maturata del trapasso dai primi albori del ‘positivismo’ esegetico verso il più maturo ed eburneo positivismo ‘scientifico’:
Si può cominciare col notare come la dottrina civilistica italiana, che ha lavorato negli anni immediatamente successivi alla codificazione, ha fatto più o meno quello che gli stessi compilatori del codice civile avevano fatto. Allo stesso modo che il nostro codice civile si era modellato sul codice francese, la nostra dottrina si modellava su quella francese, adottandone i metodi di indagine e gli orientamenti applicativi. La valutazione critica del contributo di questa dottrina che si limitava molto spesso alla esegesi delle norme e si asteneva da costruzioni concettuali, non può quindi essere positiva. La ripetizione dei motivi cari alla dottrina francese, che a sua volta si poneva, senza un tentativo apprezzabile di rielaborazione originale, sulla scia dei grandi giuristi che avevano costituito il supporto teorico del code Napoléon non poteva dar luogo a un movimento scientifico degno di questo nome (R. Nicolò, Diritto civile, in Id., Raccolta di scritti, 2° vol., 1980, p. 1526).
In parte, dicevamo, perché in realtà il secondo aveva potuto solidamente costruirsi proprio a partire dal successo identitario della ‘grande narrazione ’ nazionale messa in campo dai cosiddetti esegeti – seppure rappresenti, insieme a qualche altro non minore, una figura di mediazione, si pensi a quanto affermava con orgoglio un po’ distante dalla realtà effettuale, ma quasi ‘giobertiano’, nel 1871 Luigi Borsari nel Commentario del codice civile italiano: «Ciò mostra che ci vuole dell’audacia perché un popolo avvezzo a ricevere dagli altri con poca fatica, lungamente ignorando se stesso, possa abbandonarsi al proprio genio: Revisione e non creazione: ecco quello di cui ci stimiamo capaci […]. Pertanto quando si abbandonò la idea di una revisione, allora nacque il nostro Codice civile […] dalla rinata coscienza del nostro valore, che era pur quella del nostro dovere, si ripete la causa principalissima per cui si è fatta opera originale italiana la quale risponde a chi ci accusa di perpetua imitazione» – e non solo (sia detto non per inciso con il Solmi inaugurale: anche l’apparizione delle prime cattedre di storia del diritto è legata alla parabola e alla ‘pedagogia’ del movimento risorgimentale).
Certamente il prezzo pagato non fu minimo. Non si sarebbe trattato di riprendere e approfondire quella polemica necessariamente sulla falsariga delle esigenze, per es., fatte valere dalla scuola storica: la posta in gioco, ove il dibattito non fosse stato soffocato e avesse potuto sbocciare e svilupparsi, era o avrebbe potuto essere un’altra. Per richiamare l'intuizione di Alberto Aquarone, puntualissima proprio sul piano dello sguardo che coglie la ragione storico-sociale profonda delle vicende giuridiche, si sarebbe potuto forse trattare di evitare che venisse data così «origine ad una delle molte fratture interne della società italiana che dovevano rendere difficile la vita del nuovo Stato post-risorgimentale» (A. Aquarone, L'unificazione legislativa e i codici del 1865, 1960, p. 80). Di far sì che l’occasione propizia «per una trasformazione in profondità del diritto civile», e con esso di una società italiana solo politicamente unificata, non andasse, come andò, perduta.
In realtà possiamo dire che il passaggio dal positivismo ‘alla francese’ al positivismo scientifico ‘alla tedesca’, dall’esegesi al pandettismo e agli sviluppi di una scienza giuridica sempre più autonoma e consapevole di sé stessa, al di là delle consapevolezze e controversie di ceto, non scalfisca affatto, ma semmai consolidi sempre più, il senso di marcia del processo storico innescato dalla vicenda di formazione dello ‘Stato nuovo’ (e la formula vuol essere chiaramente allusiva, ché qui fra l’originario suo inventore, Cavour e Gramsci medesimo, lettore di tutto il processo, v’è non tanto sotterranea solidarietà), proprio in quanto monopolizzatore del diritto:
Stabilita la pacificazione o l’identificazione stato-diritto e tradotto il positivismo filosofico in positivismo giuridico (solo il diritto dello stato è diritto, giacché ogni altro ‘diritto’ non sarebbe positivo ma di origine naturale e addirittura trascendentale), anche la conquista della libertà sarebbe avvenuta per intero sotto l’ombrello del diritto dello stato: fu facile perciò per lo stato costruire le libertà individuali in modo che esse si accordassero con il monopolio giuridico dello stato e cioè con il potere che questo impersonava. Positivismo giuridico e limitazione delle libertà in nome delle ragioni dello stato si danno la mano e sono due aspetti di una sola realtà. Sul presupposto del monopolio giuridico dello stato, non c’è protezione dei singoli che non debba verificarsi nello stato e ad opera dei suoi organi: lo stato è perciò legittimato a ridurre ed anche ad annullare le libertà dei singoli quando ciò sia richiesto dall’esigenza di salvaguardare la propria libertà. La libertà dello stato non è che la giustificazione del potere dello stato (G. Berti, Interpretazione costituzionale, cit., pp. 8-11).
Si è potuto acutamente sostenere, in particolare con riferimento alla sistematica dei diritti pubblici soggettivi che costituisce uno dei capolavori della scienza giuridica concettualistica della seconda metà del 19° sec., che la costruzione giuridica ottocentesca presupporrebbe in sostanza una «concezione bidimensionale dello spazio giuridico» (ovvero l’individuo da un lato e il pubblico-sociale dall’altro), laddove invece la concezione alla quale odiernamente saremmo pervenuti avrebbe, in forza del suo retroterra democratico-costituzionale, valenze più comprensive: «[...] la nostra Costituzione, al pari di ogni altra costituzione democratica, ha adottato una visione meno naïve e più realistica, quella tridimensionale, dove l’individuale, il sociale e il pubblico, rappresentano tre distinte componenti, anche se spesso interagenti o intrecciate fra di loro» (A. Baldassarre, Diritti pubblici soggettivi, in Enciclopedia Giuridica, Istituto della Enciclopedia Italiana, 11° vol., Roma 1989, ad vocem).
Torniamo alle ‘stampe dell’Ottocento’ dell’esordio: ma per spezzare una lancia in favore della sua non ingenuità e invece del suo ‘realismo’ (facendo solo un cenno al fatto che le radici della concezione ‘tridimensionale’ sono ben ottocentesche, nella critica, tra le altre, del socialismo e solidarismo giuridico e del corporatismo organicistico, alla Gierke, per intenderci, alla ‘grande dicotomia’ liberale privato/pubblico).
L’avvenuta rigenerazione nazionale, infatti, una volta ‘mondificatasi’ politicamente nell’Unità del Regno d’Italia e nella faticosa costruzione delle sue strutture giuridico-amministrative, si trovò infine dinnanzi a un compito ulteriore e impervio: quello del compimento della nazione nella ‘costruzione’ del suo popolo, dell’unificazione della nazione ideale con quella reale; in una parola, nel compito della ‘nazionalizzazione delle masse ’, di quelle masse però (cattoliche, socialiste ecc.) che erano rimaste sostanzialmente ‘a-risorgimentali’ (quando non ‘antirisorgimentali’). Il compimento dello Stato liberale avrebbe comportato l’integrazione dell’Antirisorgimento e dell’A-Risorgimento, la sua ‘attrazione nell’orbita dello Stato’ e dei ceti dirigenti. Nonostante Giolitti, nonostante Andrea Costa e Filippo Turati, nonostante Guido Miglioli e Romolo Murri (e nonostante, appunto, il cosiddetto socialismo giuridico o il solidarismo o l’incipiente giuslavorismo) questo compito non fu portato a termine e quelle masse furono infine gettate nel crogiolo della (per alcuni non) ‘inutile strage’. E non per caso la legislazione di guerra rappresenterà il punto di non ritorno della rappresentazione giuridica.
Insomma, per arrivare a una concezione dello spazio giuridico tridimensionale, non si trattava di essere più realisti o meno ingenui, ma, ben più in profondità, di dissipare ogni possibile equivoco sul concetto di società e giungere alla formulazione – radicalmente implausibile per il positivismo statalista ottocentesco dominante e per il suo retaggio giusnaturalistico-rivoluzionario – di ‘società intermedie’, tenendo ben presente che dicendo società intermedie non s’intende «società che preparino allo Stato, o servano a mediare i rapporti tra persona e Stato, e nemmeno si allude a una scala graduale di valori che, passando per i gruppi, andrebbe dall’individuo allo Stato» (P. Rescigno, Persona e comunità. Saggi di diritto privato, 1966, p. 49). Ma perché il diritto fosse pensabile come scaturente anche dalle ‘formazioni sociali’ c’era bisogno di un salto di paradigma, che non poteva realizzarsi solo sul piano giuridico. Tale passaggio era tutt'altro che scontato o concettualmente agevole. E infatti il paradosso e la ricchezza della nostra vicenda storica ci fanno reincontrare, ancora nel 1952 e con la voce di un filosofo del diritto prestato alla politica, anche all’interno di questo passaggio epocale, in un suo momento specifico di premessa, quello degasperiano, l’Ottocento e il Risorgimento: «La DC compie l’opera del Risorgimento. Solo con la DC il popolo entra nello Stato, la società viene a coincidere con lo Stato. Tra i profeti del Risorgimento splendono le figure del Rosmini, del Gioberti, del Balbo, del Manzoni e del Tommaseo banditore della repubblica cristiana. Lo Stato democratico deve essere forte. [...] La forza è prima interiore, nella giustizia della legge, e poi è esteriore o strumentale, nell’autorità di imporre la legge» (G. Gonella, Discorso al IV Congresso della Democrazia Cristiana (Roma, 21-26 novembre 1952), in G. Baget Bozzo, Il partito cristiano al potere, 2° vol., 1972, pp. 420-22; anche in G. Galli, Storia della DC, 2007, p. 141).
È che in realtà la ‘grande narrazione’ risorgimentale trova il suo momento di forza nella diffusione di molte ‘narrazioni disciplinari’ che poi si ricollegano tra loro rafforzandosi reciprocamente. Non ultima fra queste è quella giuridica, che ha trovato nell’elevatezza scientifica della Wissenschaft nazionale un valido presidio di durata.
Come ci mostra un istruttivo ricordo giovanile di un politico, poi ‘famoso’ sulla scena politica nazionale e internazionale, ma nato come giurista, per sua dichiarazione, con Antonio Segni e Carlo Esposito. Inviato ventenne per consigli sugli studi e la ricerca a colloquio con Giuseppe Capograssi e ostentando la sua scelta per il diritto costituzionale, se ne ebbe una risposta del tutto ‘spiazzante’. Al novello Laband e Jellinek, oltre a regalare il piccolo saggio di Arthur C. Pigou Income. An introduction to economics (1946; trad. it. Il reddito nazionale. Introduzione all'economia politica, 1949) e indicargli per soprammercato le Lezioni di economia politica di Alfred Marshall, invece di proseguire con letture strettamente pubblicistiche, propose in primis di familiarizzarsi sodamente con Il programma del corso di diritto criminale di Francesco Carrara e con i Principi di diritto processuale civile di Giuseppe Chiovenda; aggiungendo poi, a seguito delle proteste sull’incongruenza manifesta di tali indicazioni con la vocazione del discente, nulla di meno delle intere Pandette di Bernhard Windscheid annotate da Carlo Fadda e Paolo Emilio Bensa. Quello che potremmo definire il ‘canone ottocentesco’ dunque.
Forse proprio su questo piano, infatti, è da rinvenire – almeno per i giuristi, ma più ampiamente per chi avverta una vocazione alla ‘civile convivenza ’ – il lascito non transeunte di quell’età e dei suoi giuristi.
Nella forte e saldamente proclamata coscienza dell’unità del diritto – un diritto presidiato necessariamente dalla scienza, anche se talvolta nella cornice troppo ristretta dei dettatami del legislatore – sullo sfondo di quella che, ancora con Benedetto Croce, possiamo forse chiamare la ‘religione della libertà ’, pur inquieta e spesso fragile.
Allora, come Capograssi indicava, anche noi potremmo ricominciare a tenere sui nostri tavoli di lavoro – e non per mero esercizio di nostalgia – le opere dei giuristi d’allora, così come ancora alle pareti le stampe dell’Ottocento o, spesso in cornici d’argento un po’ brunite dagli anni, le fotografie, in bianco e nero o seppiate, di avi che a quell’età parteciparono operando e combattendo (o semplicemente vivendo).