Allegoria
Si usa indicare con il termine a. una figura retorica ampiamente diffusa in campo letterario, nella quale la denotazione del mezzo significante serve a esprimere la connotazione dello stesso, mediante una decodificazione che porti alla rivelazione del valore significato. L'etimologia fa infatti derivare la parola a. dal greco ἀλληγοϱέω che significa 'parlare diversamente' (da ἄλλοϚ 'altro' e ἀγοϱεύω 'parlo').
Con la medesima espressione, a. appunto, può farsi riferimento e alla funzione attiva, creativa, di chi consapevolmente elabora una immagine simbolica o allegorica, e alla operazione interpretativa in chiave allegorica di un testo letterario o figurativo. In entrambe le accezioni l'a. fu conosciuta e applicata fin dall'Antichità a fini esplicativi, soprattutto in contesti narrativi e retorici, ma anche con lo scopo di velare a menti profane significati particolari.
Nell'ambito dell'ermeneutica, la tecnica esegetica, risalente al pensiero filosofico greco, trovò nel mondo medievale un ideale campo di applicazione nei testi biblici, soprattutto a partire dal sec. 5°, con le elaborazioni teoriche dei Padri latini, di s. Agostino in particolare, e poi Origene, Beda, Rabano Mauro, fino a s. Tommaso d'Aquino che giunse a negare la liceità dell'uso di interpretazioni non letterali dell'attività creativa dell'uomo, se non nel caso in cui essa sia frutto di ispirazione divina. La pratica dell'esegesi era sempre servita, del resto, a chiarire il significato di testi religiosi o letterari, adattandoli nel contempo a particolari o mutate esigenze etiche. Così nel mondo greco vennero intesi in senso metalogico taluni episodi del mito moralmente o socialmente in contrasto con la realtà etica e storica del momento. In ambito giudaico il metodo esegetico allegorico, pervenuto per il tramite alessandrino, fu utilizzato per significare come in talune narrazioni bibliche, soprattutto relative ai patriarchi, episodi e situazioni, apparentemente sconvenienti o ridicoli, celassero un ben più profondo significato recondito alludente a verità morali o filosofiche universali. Anche gli scrittori cristiani applicarono la tecnica esegetica all'interpretazione di passi veterotestamentari, pur senza tralasciare, soprattutto in ambito gnostico, la lettura in chiave allegorica del Nuovo Testamento. La tendenza degli scrittori cristiani all'uso dell'a. fu, del resto, generalizzata e pienamente consapevole; si giunse anzi a distinguere la particolare specie figurale, definita da s. Agostino a. in factis (De Trinitate, XV, 9,15; PL, XLII, coll. 1068-1069), dall'a. in verbis. In generale si può comunque affermare che l'atteggiamento mentale diffuso in tutto il mondo medievale occidentale considera la valenza fenomenica assolutamente parziale e comunque bisognosa di una decifrazione in chiave simbolica con intenti celebrativi, moralizzanti o didascalici. Non esiste in questo senso una chiara distinzione tra i termini di simbolo e a., anzi tale distinzione venne teorizzata solo nel sec. 18°, come è stato convincentemente proposto (Eco, 1987, p. 72 ss.).
Se dunque il mondo medievale mostra una universale tendenza all'uso dell'a., e di conseguenza a quello della tecnica ermeneutica della stessa, poiché riconosce nel dato sensibile la fenomenizzazione della corrispondente idea divina, è chiaro che l'espressione artistica non può non riflettere tale atteggiamento, anzi le arti offrono la possibilità di operare un'indagine morale e 'scientifica' al contempo, attraverso la rappresentazione per immagini. Pur ricordando l'applicazione del simbolismo, particolarmente di quello legato alla mistica dei numeri, in campo architettonico per la progettazione di edifici civili ma soprattutto di monumenti e complessi religiosi (Heitz, 1976), è soprattutto nelle arti figurative che ben si riflette la ricchezza spirituale dell'uomo medievale, espressa attraverso i segni del suo proprio codice culturale. L'esigenza di trascendere la realtà fenomenica, attraverso l'uso di immagini reali, sembrerebbe tuttavia esprimere una contraddizione logica e quindi un vizio teorico nel procedimento di elaborazione dell'opera d'arte; in realtà il servirsi di immagini seconde, connotative, e non prime, denotative, indica una più totalizzante esigenza di riconoscere nelle cose, al di là del loro valore esistenziale, il segno del trascendente, in accordo con lo specifico dell'etica cristiana. Inoltre tale procedere rende percepibili dai sensi, attraverso segni familiari nella loro essenza e nella più o meno convenzionale codificazione, i testi e le verità dottrinali.
Relativamente alle arti figurative, l'artista medievale poté attingere, oltre che al repertorio di immagini tratte da testi di carattere religioso, in primo luogo le Sacre Scritture, anche agli esempi della tradizione culturale greca e romana che adattò alle diverse esigenze dell'ethos cristiano mediante una operazione di trasposizione simbolica che generò, di fatto, in numerosi casi, una vera e propria migrazione di simboli. Esemplare in questo senso il caso di Virgilio visto in chiave tipologica - Dante - e usato in alcuni episodi (Virgilio nella cesta, Virgilio e la Sibilla, ecc.) con aperti intenti allegorici. Anche la rappresentazione di episodi mitologici fu asservita alla universale esigenza di offrirne la versione moralizzata e Virgilio prima, Ovidio a partire dal sec. 12°, sono fonti disponibili e ampiamente usate. Non sfuggono a una lettura in questa duplice chiave interpretativa rappresentazioni più apparentemente cortesi e profane, come i Trionfi, o quelle ispirate a romanzi cavallereschi, come pure quelle volte a mostrare attività dell'intelletto e dell'azione umana attraverso la rappresentazione delle arti e dei mestieri.
Già nel cristianesimo primitivo si era dovuto necessariamente far ricorso alla elaborazione di un repertorio di immagini simboliche, un preciso codice figurativo che si serviva di vere e proprie forme di criptografia e di espedienti quali l'acrostico (il pesce come simbolo del Cristo dalla parola greca ἰχθύϚ - di solito riportata con le maiuscole ΙΧΘΥΣ - formata dalle iniziali della frase ᾽ΙησοῦϚ ΧϱιστὸϚ θεοῦ υἱὸϚ σωτήϱ cioè 'Gesù Cristo salvatore figlio di Dio'), come pure a immagini del mito reinterpretato: Orfeo, Amore e Psiche, raffigurati nelle catacombe romane di Callisto e di Domitilla, o Ercole, o Dioniso, o la stessa figura del genio alato, frequentemente presenti nella statuaria e nei sarcofagi pagani e poi, con diverso significato, nelle rappresentazioni cristiane. Tra le immagini simboliche del repertorio cristiano primitivo si ricordino pure l'ancora, riferita alla fede nella promessa di vita eterna, secondo l'indicazione di s. Paolo (Eb. 6, 19) e la vite, simbolo del Cristo ispirato al Vangelo di Giovanni (Gv. 15, 1-5), ma fondato anche sulla tradizione del mito di Dioniso che nei primi tempi si rifletté anche iconograficamente nella raffigurazione del Figlio di Dio.
Altra forma allegorica usata per indicare il Cristo era quella del Buon Pastore (Gv. 10, 11-14), assai frequentemente impiegata nelle pitture catacombali come nella scultura, in statue (si veda il famoso esemplare di Roma, Mus. Vaticani, Mus. Pio Cristiano) e sarcofagi. Ma il Cristo è anche Agnus Dei (Gv. 1, 29; Ap. 5, 6) e innumerevoli sono le raffigurazioni, soprattutto musive, di tale immagine; valga come esemplificativo il celebre mosaico ravennate nella volta del presbiterio di S. Vitale (546-547). L'agnello o la pecora sono anche simbolo dell'uomo fatto salvo dal Buon Pastore e da questi affidato alla Chiesa; pasce oves meas, dice infatti il Cristo a Simon Pietro nel celebre passo giovanneo (Gv. 21, 16).
La fede dell'anima nella vita eterna e la sua aspirazione a essa, espresse anche nelle figure di oranti, sono pure simboleggiate dalla sempre risorgente fenice e dal pavone, già emblema funerario nel mondo pagano. Nella nuova accezione allegorica i pavoni bronzei del mausoleo di Adriano vennero reimpiegati per adornare il cantharos dell'atrio vaticano.
Tra i simboli cristiani precocemente usati e poi diffusi nel Medioevo e oltre, vi è la colomba, vista anch'essa come immagine allegorica dell'anima vivificata e fatta salva. La colomba viene spesso rappresentata nel mondo antico posata sul bordo di una fontana o di una piccola vasca piena d'acqua. Questa immagine di pura eleganza diventò allusiva del bisogno dell'anima di attingere alla fonte della verità e della vita. Associata, invece, agli elementi, anch'essi simbolici, dell'uva o dell'olivo, la colomba divenne simbolo di redenzione e di pace. La seconda connotazione trova il suo riferimento nell'episodio di Gn. 8, 11 in cui si narra del ritorno della colomba all'arca, dopo il diluvio, come messaggera della pacificazione tra Dio e l'uomo. La colomba è inoltre usata come simbolo dello Spirito Santo, entità del tutto immateriale, esprimentesi fenomenicamente, secondo i Vangeli, sotto quella forma, nella narrazione del battesimo di Cristo (Mt. 3, 16; Mc. 1, 10; Lc. 3, 22; Gv. 1, 32). Nell'episodio del Battesimo affrescato a Roma nella cripta di S. Nicola in Carcere (ca. 1128) la colomba scende dall'alto sulle figure di Gesù e del Battista e, costretta nel breve spazio tra le teste e il margine interno del clipeo, si inarca bruscamente con grande efficacia e veemenza visiva e simbolica. La colomba dello Spirito Santo può comparire anche nell'Annunciazione e in genere nelle rappresentazioni trinitarie.
Se alla percezione concettuale basta un'immagine collegabile a un codice, pertinente è l'uso della sineddoche nella accezione di mostrare una parte significante per alludere al tutto. È frequente, infatti, vedere raffigurato il solo occhio dell'Eterno o la sola mano benedicente (o porgente una corona come nel mosaico absidale di S. Clemente a Roma, ca. terzo decennio del sec. 12°). Una forma analoga di sottinteso allegorico consiste nell'usare un attributo significante in luogo dell'oggetto primario da rappresentare; è il caso della croce presentata come simbolo del Cristo. Nel mosaico absidale di S. Clemente la croce occupa la parte centrale della composizione, elevandosi su di un piccolo monte dal quale sgorgano quattro rivi che simboleggiano i quattro fiumi dell'Eden: Pison, Ghicon, Tigri ed Eufrate (Gn. 2, 11-14), ai quali due cervi si abbeverano. Dal monticello nasce anche un cespo di acanto folto e rigoglioso che svolge i suoi racemi in ampi girali per gran parte della superficie del catino absidale. L'acanto è una rappresentazione simbolica dell'albero della vite che, reso sterile dalla legge veterotestamentaria, è invece vivificata dal contatto con l'arbor vitae, la croce, come recita un'iscrizione esplicativa del mosaico. Nei bracci della croce sono poste dodici colombe, probabilmente alludenti agli apostoli, secondo il passo di Mt. 16, 10. Il piccolo monte potrebbe inoltre essere visto come a. del paradiso, coincidente, secondo Filone Alessandrino, con la parte razionale dell'anima, in cui sono piantati l'arbor vitae, la croce, e l'albero della conoscenza, l'acanto in questo caso; sempre secondo Filone, poi, dal paradiso sgorgano quattro fiumi che sarebbero allusivi alle quattro Virtù cardinali (De opificio mundi, 1, 37; Legum Allegoria, 1, 63-76). Se nel mosaico clementino i cervi che si abbeverano rappresentano le anime assetate della verità (Sal. 42, 2), ecco che i fiumi possono essere considerati anche allegoricamente come i quattro evangelisti estensori dei testi su cui si fonda la dottrina cristiana (Paolino di Nola, Ep., 32, 10; CSEL, XXIX, p. 286). Numerosi gli esempi iconografici che identificano nella croce l'arbor vitae e che trovano un supporto teorico anche in testi come il Lignum vitae di s. Bonaventura. Se le virtù vivificano e la croce fa verdeggiare rigogliosa la vite, altrimenti sterile e secca per il peccato dei progenitori, analogamente i peccatori, coloro che preferiscono il vizio alla virtù, sono come piante senza frutto che debbono essere tagliate e bruciate (Mt. 3, 10; Lc. 3, 9).
Un altro soggetto allegorico particolarmente diffuso nell'arte del Medioevo è l'albero di Iesse, che illustra la genealogia di Cristo, discendente da quel patriarca attraverso Davide e la Vergine Maria (Is. 11, 1): esso compare con regolarità nella produzione miniatoria a partire dal sec. 12°, ma non sono rari i casi di raffigurazioni su vetrate dipinte, come quelle della cappella della Vergine a Saint-Denis a Parigi e della cattedrale di Chartres, ambedue eseguite intorno alla metà del 12° secolo. Nei due secoli successivi, inoltre, il tema venne ripetutamente svolto anche dalla pittura monumentale.
Il testo principe e fonte di numerosissime figurazioni allegoriche fu, ovviamente, l'Apocalisse, opera già in sé compiutamente allegorica. Alcune delle più diffuse iconografie medievali - il Giudizio universale, la Visione del trono, i Ventiquattro seniori, la Fontana della vita - furono tratte direttamente dalle descrizioni giovannee e riprodotte innumerevoli volte nelle più diverse tipologie di produzione figurativa.
Un altro soggetto allegorico che occupa un posto di rilievo nell'arte del Medioevo è costituito dalle raffigurazioni didascaliche e dottrinali riguardanti la Chiesa, intesa in senso teologico e dogmatico; esempio tra i più completi ne è la decorazione a fresco del Cappellone degli Spagnoli in S. Maria Novella a Firenze, eseguita tra il 1366 e il 1368 da Andrea di Bonaiuto su committenza dell'Ordine domenicano. Tra gli altri temi trattati (Storie di s. Pietro martire e Storie della Passione), spiccano per il loro valore allegorico le figurazioni dell'Esaltazione della Chiesa militante e dell'Ordine domenicano e il Trionfo di s. Tommaso, da interpretare come professione di fede e deciso pronunciamento antiereticale (Romano, 1976).
Uno dei tópoi dell'a. figurativa è, ancora, la raffigurazione delle Virtù e dei Vizi, un tema che attraversa diacronicamente la produzione artistica medievale, almeno a partire dal sec. 12°; da ricordare a questo proposito sono le figure delle Virtù dipinte da Giotto nella cappella degli Scrovegni a Padova e le c.d. Virtù francescane affrescate nella basilica inferiore di S. Francesco ad Assisi.
Un ruolo del tutto particolare ebbe l'a. nel campo della pittura profana e politica. Il ciclo del Buono e del Cattivo governo eseguito da Ambrogio Lorenzetti nella sala dei Nove nel Palazzo Pubblico di Siena costituisce senza dubbio il più compiuto e articolato esempio di pittura allegorica politica; nella scena con gli Effetti del buon governo la resa naturalistica della vita in città e nel contado si fonde sapientemente e senza contraddizioni formali con l'aspetto più eminentemente simbolico della raffigurazione, in cui al Buon governo, rappresentato da un vecchio in tunica bianca affiancato dalle virtù civili, viene reso omaggio da parte dei consiglieri della repubblica, tenuti uniti da due corde rette dalla personificazione della Concordia e facenti capo alla bilancia della Giustizia, ispirata dalla Sapienza. Nell'affresco adiacente, la raffigurazione del Cattivo governo, dall'aspetto demoniaco, è invece attorniata dai Vizi che sconvolgono il buon andamento della vita cittadina: Avarizia, Vanagloria, Disordine e Furore.
Si ha notizia di altri cicli politici di ampio respiro, perduti ma descritti dalle fonti. Uno, menzionato da Vasari, che lo attribuisce a Giotto, si svolgeva nella sala Grande del palazzo del Podestà a Firenze e raffigurava "il Comune rubato da molti" (Vasari, Le Vite, II, 1967, p. 116), in veste di giudice con la bilancia, affiancato dalle quattro Virtù (Fortezza, Prudenza, Giustizia, Temperanza).
Caratterizzato da un'iconografia più insolita è invece un ciclo menzionato nella Cronica di un anonimo romano del Trecento, tradizionalmente nota come Vita di Cola di Rienzo; secondo questa fonte, Cola di Rienzo fece dipingere nel palazzo del Campidoglio, davanti al mercato, una serie di immagini allegoriche per richiamare l'attenzione dei cittadini sullo stato di abbandono e disordine in cui l'Urbe era caduta. L'anonimo scrittore si dilunga nella descrizione di queste immagini che mostravano una nave in procinto di affondare in un mare in tempesta; sulla barca si trovava una donna vestita di nero identificata come Roma da un'iscrizione. Altre quattro navi semiaffondate recavano le immagini allegoriche di Troia, Babilonia, Cartagine e Gerusalemme. Dallo stesso mare sorgevano isole, una con una figura di donna simboleggiante l'Italia, un'altra con le quattro Virtù cardinali, un'altra ancora con l'immagine della Fede. Infine quattro ordini di varie figure di animali (lupi, orsi, capre, lepri, ecc.) simboleggiavano le componenti negative delle diverse classi di cittadini (nobili e reggitori, consiglieri fraudolenti, il popolo acquiescente, giudici, notai, ecc.). Completava la raffigurazione un'immagine del Cristo giudice, con due spade uscenti dalla bocca. La stessa Cronica ricorda altre pitture allegoriche a soggetto politico fatte eseguire dal tribuno a S. Giovanni in Laterano e a S. Angelo in Pescheria (Anonimo romano, Cronica, a cura di G. Porta, Milano 1979, pp. 145-147, 150-151).
Dai pur sintetici esempi proposti può forse intuirsi la vastità enciclopedica e la complessità del pensiero simbolico medievale. Si può infatti affermare che pur avendo dedotto gran parte del proprio repertorio di immagini dall'Antichità classica, l'uomo medievale sentì il bisogno profondo di rielaborare il patrimonio ereditato per ricodificarlo secondo le nuove esigenze morali e spirituali e farne un uso totale e convinto. Ben diversamente da quanto accadde per l'emblematica dell'età delle Accademie, l'a. nel Medioevo non fu mai sterile esercizio ma strumento efficace di coscienza e conoscenza di una realtà, umana o divina, sempre e comunque trascendente, da indagare anche attraverso la similitudine allegorica poiché, come afferma Riccardo di San Vittore (Benjamin Major; PL, CXCVI, col. 90B), "habent corpora omnia ad invisibilia bona similitudinem aliquam".
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