ALLELUIA (\ebraico\; greco 'Αλλήλουια, 'Αλληλούϊα, lat. Alleluia)
Composto di due voci ebraiche, hallelū (\ebraico\) "lodate" e Yāh (\ebraico\), forma breve del nome divino Jahvè. Si trova scritto in numerosi salmi, come formula dossologica, al principio, e in qualche caso alla fine. Nei libri greci dell'Antico Testamento è usato come sostantivo: "e per le sue contrade si canterà l'Alleluia" (Tobia, XIII, 22; cfr. III Maccabei, VII, 13: ἐπιϕωνήσαντες τὸ ἀ.). Dagli ebrei passò ai primi cristiani, e, secondo l'Apocalisse (XIX, 1, 3, 4, 6), la moltitudine dei beati lo canta in cielo.
L'uso liturgico dei primi secoli è rarissimamente attestato (Tertulliano, De orat., 27). Molto interessante è però un papiro del Fayūm, del principio del sec. IV nella collezione dell'arciduca Ranieri (v. Bickell, Sammlung der Papyrus Erzerzhog Rainer, Vienna 1887, I, e III, p. 17), dove l'Alleluia è ripetuto dopo i nomi delle divine persone:
Δόξα τῷ πατρί, ἀλληλούϊα, δόξα τῷ ὑιῷ καὶ τῷ ἁγίῳ πνεύματι, ἀλληλούϊα, ἀ., ἀ. ("Gloria al Padre, Alleluia, gloria al Figlio e al Santo Spirito, Alleluia, Alleluia, Alleluia". Nei secoli V e VI divenne più frequente, sia nell'uso liturgico, sia in quello privato (come esclamazione di gioia); e anche nella messa comincia a cantarsi a solo prima del Vangelo. S. Agostino in numerosi passi delle Enarrationes in psalmos, dei sermoni e delle lettere; S. Girolamo in più lettere (108 ad Eustoch.; 46 al. 17 ad Marcell.; 107, 27, 77); lo pseudo-Dionigi areopagita (De eccl. hier., IV, 12), varie altre fonti, specie occidentali, ci attestano i differenti usi liturgici.
D'ordinario, essendo segno di gioia, era riservato al tempo pasquale, poi alle domeniche, e a poco a poco fu esteso alle feste, eccetto il tempo quaresimale, durante il quale cessava assolutamente, per riprendersi con solennità il sabato santo: uso ancora in vigore nel rito latino.
Presso i Greci, invece, (come attesta già S. Girolamo, ep. 77 cit.) indicò dolore e penitenza e si usò e si usa principalmente nei riti funebri (così pure nel rito latino mozarabico della Spagna), nei giorni di digiuno e il venerdì santo. Durante le controversie del IX-X secolo i Greci rimproveravano appunto agli Occidentali, tra l'altro, l'uso dell'Alleluia nei gaudi pasquali.
Fin da quando se ne ha notizia, l'Alleluia è un canto molto vocalizzato, e consta della parola alleluia, con un lungo vocalizzo, detto giubilo, sulla vocale finale a (nel rito copto taluno di questi giubili dura fino a venti minuti); segue un versetto (avanzo del salmo), dopo di che si ripete l'alleluia. S. Agostino (in psalm., XXXII, 8) descrive il giubilo come un canto dove la musica rende con assoluta libertà melodica ciò che la parola non arriverebbe ad esprimere: ut gaudeat cor sine verbis et immensa latitudo gaudiorum metas non habeat syllabarum. Dai giubili dell'Alleluia nacquero, intorno alla metà del sec. IX, le sequenze.
Ecco un esempio di Alleluia:
Bibl.: P. Wagner e F. Cobrol, in Dictionn. d'archéol. chrét. et de liturgie, ristampa, Parigi 1924, I, i, coll. 1226-1246; L. Cecconi, Dissertazine sopra Alleluia, Velletri 1769 e in Zaccaria, Raccolta di dissert. di storia ecclesiastica, 2ª ed., Roma 1840; P. Wagner, Ursprung und Entwicklung der liturgischen Gesangformen, Friburgo 1901.