Allestire oggi
Dagli anni Trenta del 20° sec. a oggi, una particolare propensione per i progetti di allestimenti ha contraddistinto la storia dell’architettura italiana. In questi progetti confluiscono, e ne costituiscono il tessuto connettivo e lo scheletro, la capacità di usare luce e prospettiva, la comunicazione e la grafica, la tipografia e i mezzi elettronici, l’economia espressiva, l’estrema forza nella trasmissione dei dati e dei concetti.
Passata (ma non tramontata) la stagione dei grandi maestri di questa particolare disciplina (da Franco Albini ai fratelli Achille e Pier Giacomo Castiglioni, da Edoardo Persico a Marcello Nizzoli, da Erberto Carboni a Carlo Scarpa, da Giuseppe Terragni a Luciano Baldessari), una situazione inedita, e tipicamente italiana, si è verificata quando nello specifico campo dell’architettura le occasioni di lavoro si sono lentamente diradate e la progettazione degli interni (e quindi anche quella delle esposizioni temporanee) è diventata per molti professionisti un’ancora di salvezza. Tuttavia, alla banalità di taluni risultati, dovuta a una situazione così contingente, si è saputo reagire, riportando ben presto il settore dell’allestimento nell’alveo della nostra grande tradizione. Una tradizione non autarchica, anzi capace di scambi e acquisizioni di esperienze, come testimonia la conoscenza che si aveva allora in Italia del lavoro effettuato da Ray e Charles Eames negli Stati Uniti e in altre parti del mondo: tanto da far pensare a questi ultimi e ai Castiglioni come ai vertici internazionalmente più elevati di questa disciplina.
Dagli anni Trenta, dunque, una storia ininterrotta, fatta di rimandi, citazioni, collegamenti con campi diversi delle arti e dell’architettura, ha contrassegnato l’evolversi di questa disciplina, che nasconde spesso, dietro l’immediata intuizione e la rapidissima esecuzione, profondità di pensiero e capacità di rappresentarlo sinteticamente.
In questa disciplina, due sono quindi le definizioni cui possiamo rifarci (e sono definizioni non teoriche, perché provengono dall’interno stesso del mondo del progetto) corrispondenti a filoni e ad atteggiamenti individuabili nel suo ambito. Accettato ormai universalmente il fatto che, pur derivando dall’architettura, l’allestimento degli spazi espositivi ha regole e intenzioni proprie, vi sono infatti due possibili vie da seguire nella sua progettazione: una prima, più applicata all’organizzazione spaziale e al dettaglio di allestimenti per mostre d’arte; e una seconda, che deriva dall’associazione di design, architettura e grafica, e tende a uno specifico espositivo più libero e immaginifico.
In questi ultimi anni la cultura italiana dell’allestimento è diventata territorio di affezione e sperimentazione per nuove generazioni di progettisti. Molte le occasioni significative per mettere in scena narrazioni, rispondendo soprattutto a richieste provenienti da alcuni settori merceologici e da specifici comparti produttivi: su tutti, la moda, l’architettura e il design, l’industria automobilistica e quella dei prodotti ad alto contenuto di innovazione, la comunicazione e i media.
I luoghi
Esistono luoghi, in Italia, che più di altri sono deputati a ospitare manifestazioni culturali, e che richiedono, quasi automaticamente, un progetto di allestimento ‘d’autore’. Così è stato già a partire dagli anni Trenta per la Triennale di Milano e, dagli anni Ottanta-Novanta, per la Stazione Leopolda di Firenze e per due luoghi eccezionali come la Basilica palladiana di Vicenza e le Fruttiere di Palazzo Te a Mantova.
Dal 1985, la Basilica palladiana è caratterizzata da una programmazione che colleziona mostre monografiche su architetti di fama internazionale, a loro volta invitati a progettarne l’allestimento. Tra questi, nell’ultimo periodo vanno ricordati: Sverre Fehn (mostra Sverre Fehn architetto, 1997), che con un segno diagonale ha tagliato in due parti uguali lo spazio espositivo, costruendo un muro bianco per i propri schizzi e pensieri mentre intorno tavoli e pannelli sospesi spiegavano didatticamente l’intera sua opera; Álvaro Siza (Álvaro Siza architetto, 1999-2000), che nel grande salone ha disposto in libertà, ma in modo controllato, cinquanta e più tavoli (con altrettante sedie e lampade, tutte da lui disegnate per l’occasione), che ospitavano i progetti e i modelli, come fossero i piani di lavoro nel proprio studio; Toyo Ito (Toyo Ito architetto, 2001), che ha offerto una visione completamente nuova dello spazio monumentale della Basilica e, annullando ogni luce naturale, lo ha trasformato attraverso colonne di tessuto illuminate dall’alto e mosse dal basso da proiezioni insieme esplicative e suggestive, disegnando un ambiente fluido e pulsante, magico e suggestivo; Kazuyo Sejima e Ryue Nishizawa (Kazuyo Sejima - Ryue Nishizawa SANAA - Architetti, 2005-06), che hanno riscritto l’intero ambiente, isolando una grande aula rettangolare (planimetricamente disassata, dall’immagine quasi metafisica, definita da alte pareti di tessuto bianco traslucido), all’interno della quale hanno trovato posto disegni, modelli e oggetti della loro produzione, leggeri e quasi evanescenti. A questi architetti che compiono una riflessione sul proprio lavoro va aggiunto, per certi versi, Franco Purini (Lo spazio sacro del ’900, 2000) che, per mettere in scena gli edifici religiosi progettati da Rudolf Schwarz e Hans van der Laan, ha costruito una vera e propria architettura degli interni, candidamente bianca e fortemente evidente nei suoi profili stereometrici.
Analogamente, dal 1990 sono state molte e di vario tipo le occasioni offerte da uno spazio affascinante e ricco di storia come quello delle settecentesche Fruttiere di Palazzo Te a Mantova. Un luogo speciale, sostanzialmente un’orangerie, caratterizzato da venti pilastri che scandiscono con il loro ritmo serrato la grande aula espositiva, un ambiente unico che viene in tal modo suddiviso in tante stazioni, il tutto sormontato da una copertura di appariscenti capriate lignee. Qui si sono svolti numerosi e importanti eventi, alcuni di evidente chiarezza: dai primi interventi, disinvolti e pragmatici, di Adolfo Poltronieri (sin dalla mostra inaugurale Alberto Viani, dedicata all’opera del grande scultore locale, 1990), passando attraverso quelli, dal segno più ordinato e chiaro, di Roberto Soggia (Un Paese incantato. L’Italia dipinta da Thomas Jones a Corot, 2001) e qualche episodio d’eccezione (come l’allestimento di A. Castiglioni e Nicola Marras per la mostra Alvar Aalto 1898-1976, 1998), fino all’opera elegante dello studio Benedini Associati (per es., nelle mostre Ritratto di una collezione. Pannini e la galleria del cardinale Silvio Valenti Gonzaga, 2005; Mantegna a Mantova 1460-1506, 2006; Jean Prouvé. La poetica dell’oggetto tecnico, 2007).
I maestri
In Italia, esistono autori che negli ultimi anni più di altri hanno praticato con costante attenzione la disciplina dell’allestimento, dando al mondo dell’architettura temporanea un più profondo significato.
Sul finire del secolo scorso era ancora attivo Michele Provinciali (1920-2009) che, nella mostra Nuove idee per Baia Flaminia (Vecchia Pescheria, Pesaro, 2000), poté offrire intatto il proprio talento, consegnandoci un gesto di raro equilibrio nel predisporre un complesso di povere strutture di legno, tra falegnameria e carpenteria, per mostrare al meglio i materiali dell’esposizione.
AG (Angiolo Giuseppe: con le sue iniziali ha firmato tutti i suoi progetti) Fronzoni (1923-2002) ha lasciato nella storia della grafica e dell’allestimento alcuni capolavori. Su tutti, non possono essere dimenticati gli allestimenti realizzati per il Comune di Genova sul finire degli anni Settanta quando, in qualità di consulente, effettuò alcuni interventi al Teatro del Falcone, utilizzando in diverse occasioni un modulo espositivo da lui progettato, un prisma irregolare di colore bianco che poteva essere disposto in posizioni differenti e, nel suo moltiplicarsi, regalare ambientazioni diverse: una lezione sul modulo, un esempio di libertà espressiva ottenuta progettando un elemento apparentemente semplice ma dalla geometria estremamente complessa. Molti anni più tardi, mettendo in scena poco prima della sua morte una mostra personale (Progettare, voce del verbo amare, showroom, Maria Calderara, Milano, 2001), Fronzoni presentò un grande piano inclinato, che attraversava l’intero spazio espositivo intercettando le sei colonne metalliche che lo scandivano, sul quale erano appoggiati alcuni esempi della sua produzione (mobili, oggetti, abiti ecc.), mentre alle pareti perimetrali erano impaginati i suoi famosi manifesti.
Umberto Riva (n. 1928), allievo di Scarpa e permeato da quella cultura milanese che si ispira soprattutto a Franco Albini, è stato protagonista in questi ultimi anni di alcuni significativi episodi di allestimento, con un linguaggio a volte rarefatto, altre volte più denso. Nelle due mostre intitolate Carlo Scarpa. Case e paesaggi 1972-1978 e John Soane architetto 1753-1837 (entrambe allestite a Vicenza nel 2000, rispettivamente al Centro internazionale di studi di architettura Andrea Palladio e al Palazzo Barbaran da Porto), così come nella precedente Frederick Kiesler. Arte architettura ambiente (Triennale, 1996), Riva ha messo al servizio dei contenuti ambienti sempre misurati, caldi e accoglienti, insieme scattanti e vibranti.
Francesco Venezia (n. 1944) ha realizzato nel corso della sua lunga attività (iniziata nel 1972) un numero limitato di progetti, inseguendo la qualità come primo obiettivo. Per la mostra Gli Etruschi (Palazzo Grassi, Venezia, 2000, con la grafica di Pierluigi Cerri), ridisegnando completamente tutti gli spazi del palazzo veneziano, ha costruito ambienti imponenti e rarefatti foderati da lastre di acciaio Cor-ten®, tra estrema raffinatezza e superba dirompenza.
Maurizio Di Puolo (n. 1941), fondatore dello studio Metaimago, impiega gli elementi caratteristici del fare architettura (come setti, pareti, pilastri ecc.) trasformandoli in elementi espositivi. Per la mostra Storie da un’eruzione. Pompei, Ercolano, Oplontis (Museo archeologico nazionale, Napoli, 2003), grandi volumi in ferro nero segnavano con forza gli spazi espositivi, fuoriuscendo con equilibrio instabile dalle pavimentazioni, dai muri, dalle aule (e a volte dagli stessi edifici, come nella sua, ormai storica, mostra su Man Ray, al Palazzo delle Esposizioni di Roma nel 1975).
Franco Origoni (n. 1945) e Anna Steiner (n. 1947) hanno lasciato tracce significative all’interno della cultura dell’allestimento e della comunicazione grafica: negli ultimi anni, in particolare, due loro allestimenti meritano di essere ricordati. Per la mostra La città infinita (Triennale, 2004), essi hanno riprodotto in scala gigantesca (rispetto alle consuetudini di utilizzo e visione) una fotografia aerea della Lombardia che diventava tappeto e parete del grande spazio espositivo, poi occupato da tavoli e altri elementi che contenevano gli oggetti: la visione, stupefacente, permetteva di riconoscere strade ed edifici significativi di tutta la regione. Per la retrospettiva dedicata a un amico/maestro (Roberto Sambonet, designer, grafico artista 1924-1995, Palazzo Madama, Torino, 2008, a cura di Enrico Morteo), l’effetto proposto e ottenuto era opposto: nella grande sala all’interno dello storico palazzo, hanno sistemato una struttura essenziale e leggera, ulteriormente asciugata da un luminoso colore bianco. Contropareti appositamente disegnate rivestivano, rispettosamente, le pareti riccamente decorate della sala, che così potevano accogliere liberamente i diversi materiali oggetto dell’esposizione (disegni, manifesti, modelli ecc.); al centro, due pareti a ‘C’ disegnavano uno spazio quadrato con doppio ingresso, all’interno del quale altri materiali trovavano spazio, tra pittura, appunti di viaggio e oggetti raccolti da Sambonet nel suo girovagare in altre latitudini.
Allievo di Bruno Munari e divulgatore negli anni Settanta delle sue teorie in trasmissioni televisive del Canton Ticino, Piero Polato, nella mostra Giovanni Sacchi. L’altra metà del design (Triennale, 2000), ha esposto gli splendidi modelli di Sacchi dedicati agli oggetti progettati dai maggiori designer italiani dello scorso secolo: massima economia nella scelta di una maglia di strutture reticolari nere, che reggevano e tenevano sospesi gli straordinari modelli lignei. Un esempio di applicazione, nella sua semplicità, dei dettami di Munari, con il colore e la rarefazione dei supporti metallici che nel grande salone d’onore trasmettevano una sensazione di algido ma elegante distacco.
I nuovi autori
Italo Rota (n. 1953) ha trovato proprio nelle architetture temporanee la dimensione a lui più congeniale, quella che gli permette maggiore libertà espressiva. Nei grandi spazi della Stazione Leopolda (già palestra in altri anni dei progetti di A. Castiglioni, Gianfranco Cavaglià ecc.), per la mostra The entertainers (2001, con Fabio Fornasari e Alessandro Pedretti) ha presentato una sequenza di episodi spaziali sorprendenti, trasformando l’universo degli accessori di moda in protagonista di scene e azioni a metà tra il luna park e i giochi di prestigio: piogge artificiali sopra un’esplosione di grandi ombrelli colorati, coperture tessili come mongolfiere che sostenevano un teatrino di cappelli, colonne luminose e piene d’aria da cui svolazzavano cravatte. Per la mostra Anni ’60. La grande svolta (Palazzo della Ragione, Padova, 2003), grandi igloo di plastica, dotati di oblò trasparenti, ospitavano al loro interno spaccati di vita quotidiana rivisti attraverso il design di quell’epoca; e poi tunnel luminosi gonfiati di aria e luce, e piccole casette come serre per una vita più libera nella natura. Il Futurismo a Milano. Anticipazioni per il nuovo Museo d’arte moderna e contemporanea (Padiglione di arte contemporanea, Milano, 2002, con Emmanuele Auxilia e Fabio Fornasari), mostra propedeutica al futuro museo in corso di realizzazione negli spazi dell’Arengario, ha rappresentato la messa in scena di un interno che verrà, tra grandi campiture di colore, rivestimenti tessili di ogni tipo e microcostruzioni di arredo fisso intorno a opere scelte tra quelle presenti nelle collezioni civiche milanesi. Non ultima, una mostra importante e problematica, allestita da Rota con Fulvio Irace e il supporto grafico dello studio Camuffo: Good N.E.W.S. (Triennale, 2000) che ha posto interrogativi su cosa sia l’architettura e quali siano le sue origini, cercando risposte attraverso l’impatto emotivo, non sempre di facile decifrazione, ma formalmente ben articolato in varie sale (origini, ombre, proporzioni, allegorie, ritratti ecc.), coincidenti con installazioni emblematiche, ognuna costruita in modo originale e spesso eclatante.
Marco Ferreri (n. 1958), altro allievo di Munari, lavora in bilico tra allestimento da architetto puro e azione artistica. Nell’installazione Raddrizziamo il Paese (galleria Factory, Livorno, 2001), cento grandi modelli della Torre di Pisa, tutti fedelmente ‘pendenti’, sono stati disposti su una maglia regolare, poi ‘raddrizzati’ da un cuneo di legno e infine messi in ‘vetrina’ con un tubo di plexiglas che li incamiciava uno a uno: ironia, certo anche provocazione, ma grande capacità registica e teatrale, di forte impatto scenico. Aula di design è un allestimento per la Novecentoundici, azienda produttrice di sedie, proposto durante il Salone internazionale del mobile di Milano del 2002. Nella scuola media Parini, un’aula vera e propria è stata allestita con grandi lavagne che diventavano quinte/pagine a scandire l’intero spazio disponibile e a ospitare i nuovi prodotti dell’azienda, illuminati con spot molto teatrali: ogni sedia era infilata per le gambe in appositi fori realizzati in ogni lavagna. L’installazione Paraluce (Basilica di San Lorenzo Maggiore, Milano, 2003), realizzata per mostrare l’omonima lampada progettata da Ferreri, era una costruzione di 576 lampade, appese con regolarità a formare quattro pareti di luce che stravolgevano la percezione dello spazio originale. Concerto per luci sole consisteva invece in una performance progettata in occasione del Festanebbia di Mantova (2004) per illuminare uno spazio pubblico buio e ancor più indecifrabile per la presenza di questa condizione atmosferica. Le capacità comunicative di Ferreri si sono viste anche nelle mostre dedicate a Munari, come nell’antologica per il centenario della nascita Bruno Munari (Rotonda della Besana, Milano, 2007; Museo dell’Ara Pacis, Roma, 2008). Nel progetto (con Patrizia Scarsella) per la mostra Oggetti sonori. La dimensione invisibile del design (Triennale, 2009), in un bianco diffuso, esili strutture metalliche di colore rosso, disegnate come fossero altoparlanti a diverse altezze, proponevano i suoni caratteristici di alcuni oggetti sia quotidiani sia straordinari della nostra vita, dal rumore misterioso di un mouse a quello di una caffettiera.
Nel 2001 la città di Bergamo ha voluto rendere omaggio all’opera di un progettista locale, Bruno Vaerini (n. 1947), da tempo riconosciuto autore significativo in ambito europeo; ed è stato lo stesso progettista ad allestire la mostra (Bruno Vaerini. Architetture 1983-2001) negli spazi ricchi di storia del Teatro Sociale. Una scelta espositiva audace, con poche e puntuali presenze di oggetti di arredamento (per es., gli scaffali di metallo progettati per un negozio di abbigliamento) e di frammenti di architettura (per es., una grande scala di legno realizzata per una villa in collina) posizionati nel grande spazio dell’aula scenica, mentre i disegni di progetto erano visibili in ambienti laterali.
Denis Santachiara (n. 1950), autodidatta slegato da qualunque scuola e tradizione, ha inventato un linguaggio originale, tra sperimentazione tecnologica e accortezze costruttive. Per la mostra Stanze e segreti (Rotonda della Besana, 2000), il tessuto – morbido, fluido, flessibile – è stato il materiale di lavoro con cui egli ha costruito una tettoia d’ingresso a forma di nuvola, luminosa e ‘mobile’, e con il quale ha rivestito le grandi finestre dello storico edificio, poi retro-illuminate e gonfiate, quasi esplose dalla costruzione in mattoni, così da generare un’immagine irreale di sospensione e movimento dell’intero corpo architettonico.
Per Mario Piazza (n. 1954), grafico, il lavoro di ricerca critica sulla storia della disciplina ha richiesto spesso anche opere di allestimento: nella mostra Provinciali, antipasti (galleria Aiap, Milano, 1999-2000), omaggio al suo maestro M. Provinciali, Piazza ha appeso a una parete di legno grezzo una teoria di scatole di semplice cartone, aperte a mostrare le opere di Provinciali; con Come comete (Triennale, 2004) è andato alla riscoperta della storia della grafica italiana, rileggendola nei progetti di immagine coordinata delle diverse esposizioni internazionali della Triennale.
Ferruccio Laviani (n. 1960) dal 1991 ha iniziato a creare numerosi allestimenti per la Kartell, azienda produttrice di oggetti di arredamento, in una collaborazione continuativa testimoniata dall’appuntamento annuale al Salone del mobile. Si tratta sempre di omaggi evidenti ai fratelli Castiglioni e a Erberto Carboni, pur con scelte linguistiche molto diversificate. Per la stessa azienda ha allestito il raffinato episodio della mostra kARTtell. 150 items 150 artworks (Triennale, 2002), dove il libro omonimo, interpretazione dei prodotti Kartell attraverso la sensibilità di diversi artisti internazionali, è stato esposto su una batteria ordinata di leggii da orchestrale, ognuno dei quali ne reggeva una copia, aperta a pagine sempre diverse, così che la mostra si è trasformata di fatto in un modo tutto particolare di sfogliare il volume; puntuali spot illuminavano dall’alto ogni copia, lasciando immerso in un buio molto teatrale il resto dell’ambiente.
Peter Bottazzi (n. 1966), mettendo in scena i prodotti della Bang & Olufsen, azienda nota soprattutto per i suoi apparecchi di riproduzione dei suoni, ha progettato allestimenti capaci di entrare nella memoria collettiva: nel cortile dell’Archivio di Stato di Milano, con la collaborazione di Tanja Solci, ha realizzato alcune prove d’autore tra luci e suoni, con calibrate (e spesso spettacolari) scelte sceniche, degne del suo maestro Bob Wilson, con cui ha collaborato per molto tempo. Anatomia dello spazio (2000), un esperimento per stimolare i cinque sensi mediante un uso non tradizionale dello spazio, ha trasformato i due cortili che contraddistinguono gli ambienti aperti dell’Archivio ridisegnandoli attraverso grandi teli che tagliavano gli spazi con piani inclinati, e che il visitatore percorreva con stupore e brivido. Hear and now (2001), un’installazione interamente dedicata all’ascolto dei suoni riprodotti dagli apparecchi oggetto dell’esposizione, presentava un accesso ricoperto da un tappeto di molle meccaniche che conduceva dolcemente i visitatori, come sospesi su un materasso trasparente, verso alcune isole dov’era possibile l’ascolto. Untitled (2002), una grande installazione che alludeva alla forma caratteristica degli anfiteatri classici, presentava 140 seggiole da regista di colore nero (sospese nel vuoto attraverso una leggera teoria di cavi metallici, e disposte a disegnare ideali gradinate per gli spettatori intorno al palcoscenico) che diventavano inaccessibili e inutilizzabili, benché correttamente disposte intorno alla rappresentazione sonora programmata dai prodotti dell’azienda. Ancora per la Bang & Olufsen, ma questa volta nel Museo di storia naturale di Milano, la mostra In-natural evolution (2005) ha visto esposti i prodotti dell’azienda presentati in un dialogo paradossale con gli animali imbalsamati presenti all’interno delle teche o negli altri spazi del museo, riproducendo a volte i suoni dell’universo animale che accompagnano le ricostruzioni degli ambienti naturali. Tuttavia, l’estro di Bottazzi non si è fermato a quegli episodi, già in sé evidentemente eccezionali: al Salone del mobile, nel 2003, ha realizzato per la Desalto, azienda produttrice di oggetti di arredamento, uno stand elegante e al contempo spiazzante. In uno spazio buio (una vera e propria scatola nera), alcuni cilindri di plastica trasparente contenevano, come in un acquario, gli oggetti prodotti dall’azienda (sedie, tavoli, divanetti, attaccapanni), ben visibili e apparentemente inavvicinabili: una strategia per comunicare ‘valori’ al pubblico. Nel 2006 Bottazzi ha proposto Rotture (Spazio Rossana Orlandi, Milano), un’installazione dove centinaia di vecchie scatole, come piccoli bauli di cartone destinati a stipare ogni tipo di cose, erano appese, sospese, tagliate, gemellate, smembrate, esplose, diventando lampade o elementi costruttivi per tavoli e altro ancora, dando vita a una moltitudine di ambienti dove il singolo elemento diventava a volte irriconoscibile: scatole svuotate di ogni cosa, ma, come suggeriva Bottazzi, riempite di sensi. Nel 2008 ha allestito la mostra monografica Fabio Novembre. Insegna anche a me la libertà delle rondini (Rotonda della Besana), dedicata all’opera del collega: coadiuvato dall’uso della luce artificiale imbastito da A.J. Weissbard, Bottazzi ha invaso l’intero volume con un nastro nero che sinuosamente si muoveva ovunque, simulando una sorta di diagramma di un libero volo degli uccelli, e che catturava lo sguardo e lo conduceva sempre altrove, dopo aver accolto i momenti salienti (oggetti e immagini) dell’opera del collega.
Proprio Fabio Novembre (n. 1966) ha più volte espresso il suo estro attraverso gesti clamorosi, destinati a durare solo il tempo di una mostra. Così è successo con lo stand Tatlin. Il folle volo, allestito per l’azienda di mosaici Bisazza (Salone Cersaie, Bologna, 2000), nel quale, con evidente allusione ad alcune opere del grande architetto russo, quattro pareti si avvolgevano su sé stesse innalzandosi e curvandosi verso il centro e definendo uno spazio a pianta quadrata, ma fortemente dinamico e spiazzante; con l’installazione Love over all (Salon du meuble, Parigi, 2002), dove due grandi profili verticali, uno femminile di colore rosa, l’altro maschile di colore azzurro (che ricalcavano quelli dello stesso Novembre e della moglie), posti alle estremità del grande spazio rettangolare disponibile, si distendevano in un nastro unico, ‘annodandosi’ al centro dopo aver disegnato un grande cuore bianco; con l’installazione Casa (Abitare il tempo, Verona, 2003), la quale aveva al suo centro una microarchitettura dalla forma archetipica per antonomasia, quella appunto della casa, disegnata come una struttura aperta scandita da setti verticali e piani orizzontali molto sottili che inglobavano – dopo essersi incastrati tra loro in modo regolare – un guscio praticabile in vetroresina a forma di feto.
Alessandro Scandurra (n. 1968), allievo di Riva, ha da tempo intrapreso un’attività professionale in proprio, collaborando con committenze di alto profilo. Nel 2003 ha curato per la Triennale l’allestimento della mostra Piero Portaluppi. La linea errante nell’architettura del Novecento, disegnando uno spazio denso e articolato, ulteriormente arricchito dal progetto grafico di Daniele Ledda. Nel 2009, sempre alla Triennale, per la mostra Medaglia d’oro dell’architettura italiana ha proposto, in un ambiente quasi evanescente, completamente candido, una teoria di strutture reticolari metalliche che sembravano simulare una foresta di alberi in cui i rami tenevano sospesi i materiali esposti. Per la Luceplan, azienda produttrice di lampade, ha progettato allestimenti fieristici e spazi di vendita, come, per es., gli showrooms di Milano (2005) e New York (2006), proponendo un linguaggio fortemente architettonico, tra pareti e pedane, piani e traguardi, scatole e quinte che inquadravano e accoglievano i prodotti dell’azienda.
Attilio Stocchi (n. 1965) ha proposto nella mostra Acqua (Palazzo Reale, Milano, 2003) un fluxum per rompere la monotonia dei locali, attraverso una teoria di lance metalliche orizzontali che trafiggevano gli ambienti (dis/ordinandoli in modi sempre differenti, sostenendo le fotografie oggetto dell’esposizione o diventando elementi illuminanti), interamente invasi da un colore blu che simulava una dimensione quasi marina, diventando essi stessi la cornice ideale per quelle immagini suggestive. Con LuceGugliaVoce (2007) ha creato uno spettacolo di luci e suoni con cui ha invaso la facciata laterale del Duomo di Milano, ‘dipingendo’ con luci di colore rosso quella scena architettonica eccezionale, dopo aver acceso le statue di alcune guglie e averle fatte ‘recitare’ con i pensieri e le parole di alcuni grandi pensatori.
Luigi Baroli, progettista vicino a realtà industriali significative (come la Baleri Italia, azienda produttrice di complementi di arredo), ha dato struttura architettonica ad alcune esposizioni temporanee, dopo avervi aggiunto soluzioni costruttive eleganti e mai invasive. La mostra Ballo+Ballo (Padiglione di arte contemporanea, Milano, 2009), progettata insieme a Enrico Baleri e con la grafica di Salvatore Gregorietti, è stata realizzata come una macchina complessa destinata a ospitare le fotografie dello studio B+B: presentava infatti filmati che ricostruivano le fasi di ripresa fotografica, plastici dello studio che svelavano la complessità del lavoro che vi si svolge, gigantografie che navigavano su una plastica specchiante dai riflessi simili a quelli dell’acqua.
Carlo Cappai (n. 1966) e Maria Alessandra Segantini (n. 1967), fondatori dello studio C+S Associati, nel 2003 hanno realizzato per la Mostra del cinema di Venezia The wave, una spettacolare pedana/passerella che correva lungo tutto il fronte degli edifici in cui era ospitata la celebre manifestazione: si trattava di un segno orizzontale e ondulato, una sorta di strada adagiata su un’improbabile orografia del terreno. Nella mostra Alberto Martini e Dante (Palazzo Foscolo, Oderzo, 2004-05), il corpo delle illustrazioni che Martini dedicò a Dante negli anni 1901-1937 è stato esposto con minimi interventi: leggere strutture metalliche, disposte come due crescents, reggevano, inclinate, le tavole illustrate, integrandosi negli spazi del palazzo.
Marco Romanelli (n. 1958), critico di design, ha parallelamente mantenuto l’attività professionale, tra architettura degli interni e prodotto d’arredo; spesso il suo lavoro di ricerca ha attinto dall’opera di Gio Ponti, uno dei padri dell’architettura italiana del Novecento. In una mostra a questi dedicata (Gio Ponti. A world, Triennale, 2003, e l’anno precedente al Design Museum di Londra e al Netherlands architecture institute di Rotterdam), Romanelli ha ordinato i variegati materiali oggetto dell’esposizione (mobili, lampade, vetri, ceramiche, argenti, dipinti, disegni, modelli e gigantografie delle architetture più significative, e le tante annate della rivista «Domus»), proponendo una sequenza di stanze tematiche, accennate con pedane e quinte molto misurate, all’interno delle quali vivevano contemporaneamente materiali molto differenti; ha costruito così un dialogo tra le tante tipologie praticate nella prolifica produzione del maestro, avvicinate per nuclei problematici. Tuttavia, l’omaggio a Ponti si è intravisto anche in un allestimento con ben altri contenuti (Il design della gioia. Il gioiello tra progetto e ornamento, Triennale, 2005), nel quale è risultato palese il rimando, attraverso la presenza di innumerevoli colonne nere, rese trasparenti in una porzione centrale per contenere/proteggere/mostrare i materiali da esporre, al celebre allestimento del Padiglione Montecatini alla Fiera di Milano del 1961, su progetto di Ponti e Costantino Corsini.
Spagnola di origine, Patricia Urquiola (n. 1961), nell’esposizione a lei dedicata Pelle d’asino. Sintesi sotto il manto (Abitare il tempo, Verona, 2006), ha compiuto una summa generale dei suoi alfabeti, in un funambolico gioco in cui i suoi oggetti finivano per raccontarsi metaforicamente, per addizioni successive, e si intersecavano parlando diversi linguaggi: il disordine veniva ricondotto a un ordine espressivo, con parole per tutti accessibili.
L’esposizione Swiss inside (Centro svizzero, Milano, 2003), che lo studio Connexine (diretto da Massimo Randone) ha progettato insieme a Davide Turetta per la Camera di commercio svizzera, non poteva avere altro colore dominante che il rosso dei celebri coltellini militari svizzeri Victorinox. Rosse erano le scatole (con la croce bianca retroilluminata, quasi come fossero cassette del pronto soccorso a colori invertiti) che reggevano l’esposizione di una nuova collezione di orologi, naturalmente svizzeri. Le cassette, illuminate da LED esterni, brillavano nella notte anonima del rosso salone, collegate elettricamente con un impianto a vista che aumentava l’aspetto quasi elettromedicale di tanta elvetica coerenza.
Piero Lissoni (n. 1956), designer e direttore artistico di molte aziende del settore dell’arredamento, nel 2008, al Salone del mobile, ha allestito gli spazi per lo showroom della Glas Italia (azienda produttrice di oggetti e mobili in vetro) rendendo omaggio a Ettore Sottsass (scomparso l’anno precedente) e costruendo alcune scenografie per una collezione di specchi, l’ultimo progetto a cui Sottsass aveva lavorato, accennando intorno a ogni modello di quella collezione una sorta di stanza, silenziosa e intensa al contempo.
L’architetto Cherubino Gambardella (n. 1962) ha spesso elaborato progetti anche per le esposizioni temporanee. Dalla Città sottile (Fondazione Ragghianti, Lucca, 2003) alla Casa di re (Palazzo Reale, Caserta, 2004), il suo lavoro e il suo pensiero intorno a questa disciplina sono stati alimentati da una capacità compositiva da architetto puro, ritmata da una sintassi libera e dinamica e sostenuta dalla capacità di controllare materiali e colori anche molto differenti.
Ricardo Bello Dias (n. 1967), brasiliano ma ormai italiano d’adozione, progetta sin dalle prime edizioni gli allestimenti del SaloneSatellite (lo spazio dedicato alla creatività giovane che cerca il dialogo con l’industria presentando i propri prototipi all’interno del più vasto Salone del mobile). Sin dal primo SaloneSatellite, nel 1998, i suoi allestimenti sono intrecciati a un utilizzo della grafica, dell’illustrazione e più in generale della comunicazione, che attinge alle discipline vicine, dai fumetti all’arte (di volta in volta pop o concettuale), sempre nel desiderio di un dialogo immediato, congeniale all’universo dei giovanissimi cui si riferisce. Un salto ulteriore di qualità è stato proposto da Bello Dias nella mostra storica Avverati. A dream come true (2007), quando il SaloneSatellite ha deciso di fare il punto sui risultati di dieci anni di lavoro, raccogliendo e ordinando in un grande spazio rettangolare alcune centinaia di progetti arrivati alla produzione, suddividendo lo spazio in cinque aree tematiche, corrispondenti ad altrettante stazioni teoriche della mostra. L’allestimento, effettuato nei grandi spazi ‘aperti’ dei padiglioni della nuova Fiera di Milano di Massimiliano Fuksas, ha presentato alcune soluzioni efficaci e spettacolari, come un ingresso coperto da un piano inclinato che conduceva lo spettatore, comprimendolo, quasi direttamente al centro dello spazio espositivo; la grande difformità dei materiali esposti, frutto della creatività dei migliori giovani designer internazionali, era compensata ed equilibrata dall’utilizzo elegante di un colore bianco diffuso.
Lo studio vicentino Joe Velluto (dal 2008 JVLT, Andrea Maragno, Sonia Tasca, Alessandro Busano, Eddy Antonello) mostra una predilezione verso i territori contaminati, tra arte e design. E in alcuni allestimenti realizzati, concettualità e teatralità appaiono modalità ricorrenti. Per la mostra CoincasaDesign (Salone del mobile del 2007, negli spazi FuoriSalone di via Tortona), lo studio ha proposto una soluzione con il più classico dei profili, quello a forma di casa, che si moltiplicava sei volte, aprendosi gradualmente fino a diventare una pedana, e accogliendo in ogni stazione gli oggetti dedicati all’ambiente domestico. Per la manifestazione Pitti Uomo, fin dal 2006 lo studio ha progettato diversi allestimenti, in cui di volta in volta un elemento (scatole, casse acustiche, strutture spaziali ecc.) è diventato modulo ‘costruttivo’ invadendo liberamente lo spazio, dentro e fuori gli ambienti espositivi, e connotandolo fortemente. Nella mostra P/Ossessioni (Spazio casa della Fiera di Vicenza, 2009), lo studio (in collaborazione con Marco Chiurato) ha compiuto una riflessione sull’esasperazione della ‘firma’ e sulla moda degli oggetti di design, proponendo in un ambiente buio e quasi spettrale una sorta di discarica di tali oggetti, accatastati liberamente e ricoperti da lenzuoli bianchi accesi da calibrate sorgenti di illuminazione.
Progetti paradigmatici
L’allestimento, tuttavia, può essere anche altro, come dimostrano due episodi diversi ma emblematici.
Nel Museo audiovisivo della Resistenza delle province di Massa-Carrara e La Spezia, dal 2000 un esperimento multimediale (Terra dei popoli e delle culture) trae il suo fascino dall’essere insieme così contemporaneo e così sorprendentemente collocato in una situazione antica e arcadica, quella di un casolare quasi sperduto tra le Alpi Apuane (a Le Prade, presso Fosnovo). Autore dell’allestimento è Studio Azzurro (Fabio Cirifino, Leonardo Sangiorgi, Paolo Rosa, Stefano Roveda), che fa apparire, in un silenzio fuori dal tempo, le immagini giganti dei volti di chi ha fatto quella dura Resistenza, testimone di avvenimenti terribili e di memorie storiche.
La Fondazione Arnaldo Pomodoro di Milano non è un museo statico e definitivo, ma un organismo multiculturale, il cui allestimento, inserito negli spazi ristrutturati di un grande edificio industriale (l’ex fabbrica di turbine Riva & Calzoni), è capace di adattarsi e accogliere esperienze differenti, dal laboratorio artistico al convegno culturale, all’esposizione di opere tridimensionali. P. Cerri, autore nel 2001 del progetto di riadattamento, è intervenuto integrando le singole parti, che sono state esaltate nella loro forza espressiva e piegate al nitore generale dell’impianto: scale metalliche, carri ponte, piattaforme che si presumono mobili (verniciate di colore grigio, rispetto all’insieme generale uniformato da un colore bianco) concorrono a una suggestione piranesiana contraddittoriamente ordinata.
Un fenomeno attuale di grande interesse sono gli eventi speciali ospitati negli spazi monomarca delle grandi città (luoghi deputati alla vendita, showrooms di aziende), che nel corso degli anni sono stati occasione di allestimenti di breve durata, ma non esclusivamente legati alla commercializzazione del prodotto, e che qui non possono essere dimenticati per i segnali di innovazione culturale e per il contributo dato all’intero ambito disciplinare. Tra gli spazi delle marche sembrano i più significativi: Driade, Flos, Artemide, Cassina, B&B, dePadova. Tra i progettisti allestitori: Adelaide Astori, Ferruccio Laviani, A. Castiglioni, Massimo Vignelli e Carlotta Bevilacqua, Antonio Citterio con Studio FM, tutti nomi che appartengono alla storia del progetto italiano.
Come descrivere i cinquant’anni di pubblicità televisiva, un fenomeno che tutti ha coinvolto e talvolta sedotto, con i suoi sogni trasmessi attraverso la suggestione di miraggi e nuovi idoli? I curatori della mostra Dreams (Triennale, 2004), Silvana Annicchiarico e Gianni Canova, hanno affidato a Karim Azzabi il compito di costruire una bussola complessa che permettesse la messa a fuoco di un fenomeno così articolato e diffuso. Attraverso un percorso fatto alternativamente di ‘piazze e stanze’, Azzabi ha assegnato la realizzazione delle singole stanze ad autori diversi: per es., a Stefano Giovannoni la stanza dei nutrimenti, a Ciprì e Maresco quella dei sentimenti, a Fabrizio Plessi quella delle relazioni, a Denis Santachiara quella dei ripari, a Franca Bertagnolli quella dell’altrove, al Gruppo Stalker quella, quasi fantascientifica, su un campo rom, a Mario Bellini quella sulla televisione come generale metafora. Gli spazi delle ‘piazze’ coordinavano e risolvevano il tutto, in una serie di snodi e rimandi, illuminati da luci e colori che brillavano nella generale penombra, filo di Arianna di tutta la mostra.
In un percorso che ha visto l’Università statale di Milano (come molte altre in Italia) scendere in campo per dimostrare la ricchezza delle sue raccolte e il valore scientifico della propria produzione, la mostra Il tesoro della Statale (Rotonda della Besana, 2005), curata da Massimo Valsecchi e Antonello Negri, e allestita da Bellini (con Giovanni Cappelletti), ha costituito una mossa concreta per dimostrare la propria ricchezza multidisciplinare. L’allestimento è consistito nell’esposizione di reperti e curiosità scientifiche in una serie di vetrine dinamicamente disposte a identificare un percorso continuamente variato e alternato con cimeli carichi di storia ed emozioni, esposti liberamente, e talvolta fuori scala.
Giocando con luci e ombre proiettate al suolo, le progettiste Laura Federici e Claudia Rossello hanno esposto in Fili della memoria (Galleria nazionale d’arte moderna, Ferrara, 2000) una serie di foto di Marco Caselli. Gli strumenti espositivi erano semplici, e si richiamavano alla tradizione italiana di leggerezza e luce: tondini di acciaio cromato reggevano in una lunga sequenza alcune semplici lampadine, quasi memorie degli interventi dei Castiglioni, che illuminavano il supporto delle fotografie esposte. Altre fotografie facevano da contrappunto, sospese sul lato opposto della sala, contribuendo al raddoppio di luci e ombre, così che immagini e realtà sembravano sdoppiarsi.
Il titolo di una mostra alla Triennale (Le città in/visibili, 2002, progetto generale di Alberto Ferlenga e Gianluca Mondini, e curato da Canova) è l’evidente citazione di un libro di Italo Calvino molto amato e molto citato dagli architetti di tutto il mondo. Per dirla con Calvino, è una profezia su ciò che ancora non è, ma sta per essere. Le undici città davano i loro nomi (Bauci, Armilla, Ersilia, Leonia e così via) ad altrettante stanze, firmate da progettisti sempre diversi, che cercavano una difficile traduzione visiva delle parole di Calvino. La stanza della città di Ersilia (progettata da Carlo Bernardini) spiccava per la precisione chirurgica dell’allusione alle qualità relazionali del luogo, messe appunto in rapporto tra loro dalla secchezza di fibre ottiche sottili e tesissime tra gli angoli della stanza, in una triangolazione sempre più fitta, un intreccio così tagliente da costringere gli abitanti della città ad abbandonarla: fili luminosi riflessi da uno specchio angolare e triangolare.
Palazzo Grassi a Venezia, che da qualche anno ha abbandonato le grandi mostre tematiche che avevano caratterizzato i suoi primi anni, presenta negli spazi della caffetteria e in quelli attigui piccole mostre sperimentali e temporanee, che riescono ancora a mantenere viva la trama degli allestimenti di un tempo. Giocando sui nomi di chi Palazzo Grassi ha fatto grande, sulla memoria delle mostre storiche e su parole simbolo della città (Hulten, Futurismo, Venini, Stucky, Balthus, Ando, Dalì e così via), nel 2007 Leonardo Sonnoli (dello studio Tassinari e Vetta di Trieste) ha creato con Francesco Nicoletti un’installazione ‘tipografica’ sulla storia del palazzo, intessendo sulle pareti un gioco di lettere mosse da alfabeti e colori diversi, e cercando un’interpretazione che riportasse ogni segno alla rappresentazione della parola. Un riassunto generale di quella che Palazzo Grassi e Venezia hanno coprodotto in questi anni.
Nel 2009 il COSMIT (Comitato Organizzatore del Salone del Mobile ITaliano) si è fatto promotore di un grande evento culturale: Magnificenza e progetto (Palazzo Reale, Milano), una mostra-confronto tra il mobile storico italiano e quello moderno e contemporaneo. Era dalla fine degli anni Cinquanta che mobili storici di questo valore (barocchi e neoclassici provenienti dai grandi musei d’Italia, intarsiati in bronzo o in ebano) non erano più messi in mostra in un unico luogo. Per la cura di Luigi Settembrini, Enrico Colle e Manolo De Giorgi, il progettista Bellini (con Cappelletti) ha esposto questi pezzi di alto antiquariato su pedane e schienali in acciaio naturale, il cui colore ‘canna di fucile’ giocava in contrasto con l’oro e le gemme dei mobili esposti, e ancor più con quelli moderni, velati da grandi coni di tulle alternativamente illuminati.
Di grande suggestione, nel FuoriSalone del 2009, è stato l’allestimento Richard Ginori, patrocinato da Pitti Immagine, che Paola Navone ha realizzato nel vastissimo spazio dell’ex Ansaldo, nell’attesa che l’area dismessa venga riqualificata come Città delle culture su progetto di David Chipperfield (2000). Navone ha introdotto il visitatore, obbligandolo a passare sotto un ‘soffitto’ di porcellane bianche sospese, nel grande ambiente di forte carattere industriale, la cui gigantesca parete di fondo era stata completamente ricoperta, in un gioco di rimandi tra grandissimo e piccolissimo, da migliaia di differenti e coloratissimi piattini in porcellana: grande arazzo materico che dirigeva tutti gli altri suoni polifonici dell’esposizione.
Progetti attuali
Per il Salone del mobile del 2008, nella sala centrale della Triennale sono stati esposti, nella mostra Reflets d’amitié. Gio Ponti et Christofle 1925-2008 (curatori Salvatore Licitra, Sophie Bouhilet Dumas e Brigitte Fitoussi), ventisei pezzi originali di argenteria disegnati da Ponti nel 1925 e riproposti oggi dalla Christofle. Sfruttando come supporto gli storici tavoli disegnati nel 1936 dallo studio Asnago e Vender architetti, è stata allestita una serie di vetrine parallele, omaggio al razionalismo italiano, dove luci e ombre proiettate sulle pareti esaltavano purezza e scintillio degli argenti.
Un lavoro di portata internazionale, che appartiene a un particolare genere di allestimento temporaneo, è quello che ha visto Italo Lupi (n. 1934), Ico Migliore (n. 1956) e Mara Servetto (n. 1957) autori del progetto di immagine coordinata della città di Torino (il look of the city), sviluppato in occasione delle Olimpiadi invernali del 2006 (e poi premiato con il Compasso d’oro). Sul reticolo quadrato del centro storico, e poi via via diffuse su tutta la periferia, più di 2500 tracce rosse hanno segnato la città durante i Giochi olimpici, contribuendo non poco al suo rilancio internazionale. Sono stati così realizzati segni di riferimento sul territorio (segnali e indicazioni tradotti in impulsi immateriali ma capaci di trasmettere informazioni selezionate a sostegno di quelle visive) a imporre nuovi e complessi alfabeti, ancora difficili da definire perfettamente: non solo interventi grafici, ma oggetti tridimensionali e dinamici capaci di portare informazioni luminose o di muoversi con l’andare del vento. Un esempio che può servire a capire come ci si può ‘far sentire’ se la comunicazione grafica è articolata all’interno di un progetto coerente e rispettoso delle qualità urbane. Migliore e Servetto ormai da diversi anni consegnano a committenza e critica progetti di architetture temporanee che anche nei risultati dimostrano di essere figli della lezione (nel loro caso direttamente acquisita) di A. Castiglioni, aggiornandola con gesti, forme, colori e nuove tecnologie. Per Wallpaper+Giorgio Armani. Architecture models (2000), nello spazio-cantiere della nuova sede della Armani (progettata da Tadao Ando), sessanta modelli di architettura galleggiavano, su tondi vassoi in plexiglas, in un vuoto metafisico in cui le ombre proiettate sul pavimento agivano da attori principali. Nella semplicità di un progetto complesso, emergeva tutto l’alfabeto necessario: luce, ombre proiettate, grafica essenziale (di Massimo Pitis) ma perfettamente percettibile, ripetitività degli elementi, drammatizzazione totale. Così in un altro progetto sintomatico, quello per la mostra al MOT Museum of Contemporary Art di Tokyo sull’azienda di moda Krizia (Krizia. Moving shapes, 2001): anche qui un linguaggio asciutto e, per contrasto, molto emozionante. Le luci non erano più periferiche, ma si trovavano all’interno di leggeri espositori (completamente ricoperti da scritte giapponesi) che, con il loro meccanismo perfettamente funzionante, velavano e disvelavano gli oggetti esposti, in un gioco continuo ma asimmetrico, cronologicamente calibrato su piccoli scarti. Esemplare anche il progetto Space morphing. Migliore+Servetto temporary architecture: una mostra itinerante dedicata ai loro allestimenti, esposta nel 2007-08 all’Istituto italiano di cultura di Tokyo e nel 2008 alla Pinacoteca dell’Accademia Albertina di Torino. Sedici valigie contenevano racconti elettroluminescenti, video, immagini, disegni e un microplastico: sedici progetti dispiegati e poi richiusi con facilità per poter essere trasportati; un’installazione posta su semplici cavalletti, luminosa, con messaggi variabili che brillavano nel buio delle sale espositive. Un altro lavoro di Migliore e Servetto può chiudere, riassumendo, questa breve storia degli ultimi anni dell’allestimento italiano. Si tratta dell’allestimento realizzato a Tokyo nel 2008, in un gasometro abbandonato, di una sfilata/mostra di Max Mara. In questo lavoro sono presenti tutti quegli elementi caratteristici che hanno costituito la trama e l’ordito dei progetti esemplari di questa disciplina: idea forte e immediata; abbandono, a favore di un’unica sintesi, di tutte le alternative più articolate; interpretazione, in un unico gesto, della complessità dello spazio; utilizzo della luce diaframmata in più piani di trasparenza; capacità di sfruttare le dimensioni del luogo riportandole a soggetto principale del progetto. Dopo lo sbalordimento dell’accesso, che avveniva attraverso un’intercapedine molto stretta, un telo di garza inclinato, teso dalla sommità delle pareti del grande cilindro del gasometro (15 m × 60 m) fino al terreno, con la sua stessa inclinazione modificava la percezione dello spazio. Sulla garza e sulla parete di fondo le proiezioni giocavano un ruolo fondamentale, passando dal negativo al positivo di una grafica sublimata, al tridimensionale muoversi dei filmati degli abiti astrattamente naviganti nel vuoto. Un ultimo lavoro in grado di riattualizzare i trucchi serissimi che sono stati l’arma e il mestiere dei grandi illusionisti italiani, dai Castiglioni ad Albini: leggerezza, illusione, sintesi, silenzio.
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