Almandino
L'a., denominato così dalla città di Alabanda (od. Arabhisar) nella Turchia sudoccidentale, è la pietra dura più frequentemente adoperata nella Tarda Antichità e nell'Alto Medioevo. Minerale traslucido, il più delle volte di colore rossastro, rientra nella famiglia assai numerosa dei granati, come composto di silicato (SiO4). Quest'ultimo a sua volta si combina, dal punto di vista mineralogico, con metalli bivalenti e trivalenti. La formula teorica dell'a., il minerale con la maggior presenza di ferro nella famiglia dei granati, è: Fe3 Al2 (SiO4)3. Le differenziazioni mineralogiche sono però rilevanti solo da un punto di vista, appunto, teorico; in uno stesso giacimento, infatti, possono trovarsi vari tipi di granati e quindi di almandini. Questo impedisce di stabilire, sulla base della composizione chimica, il luogo di provenienza dell'a. stesso. Del resto, la grande varietà di granati poneva in seria difficoltà già Plinio, che, essendosi occupato a lungo di a., scriveva: "Niente è così difficile come distinguere esattamente tutte queste varietà, perché l'arte ha dato loro l'opportunità di lasciare brillare una certa luce fornendoli di un adeguato supporto" (Nat. Hist., 37, 7, 26). Così, non potendo usufruire, neanche con le tecniche odierne, di criteri scientifici per stabilire i luoghi di origine delle singole pietre, sono d'ausilio le fonti scritte e l'archeologia. Quanto è noto si basa sulle osservazioni di Plinio, che fonda le sue conoscenze su quelle di Teofrasto di Eresor (371-286 a.C.), il quale ricorda giacimenti di a. in India o a Ceylon, nell'Africa settentrionale e, soprattutto, nell'intero bacino mediterraneo, fino nella penisola iberica (Roth, 1980).
Teofrasto parla di ενθϱαἦ o ἀνθϱάϰιον e Plinio di due tipi di carbunculi, l'indiano e il garamantico (proveniente da Cartagine); i due autori intendono senza dubbio riferirsi ai granati o almandini. L'esportazione di a. dall'India o da Ceylon è accertata anche per il sec. 6° da una fonte finora scarsamente studiata, la Topografia cristiana di Cosma Indicopleuste, dalle cui dettagliate informazioni di carattere storico-economico e commerciale si può dedurre che questo traffico orientale raggiunse e incluse anche il bacino del Mediterraneo (Roth, 1980). È da rilevare, tuttavia, che Arrhenius (1985) dubita che in età tardoantica e altomedievale giungesse a. indiano nei mercati e negli opifici del bacino del Mediterraneo e d'Oltralpe; al contrario, egli, sulla base di prove mineralogiche (diffrazione, durezza, rifrazione), propende per una provenienza da giacimenti austriaci o boemi. Altre testimonianze, anche se meno concrete e dettagliate, risalenti ai secc. 4°, 5° e 9° confermano la tesi dell'India come fornitrice di carbunculi gemmaeque pretiosissimae (Roth, 1980).
Per l'area mediterranea solo Cartagine fornisce finora una chiara prova archeologica con il ritrovamento di circa centoventi a. risalenti al 5°-6° secolo. Vi si trovano grandi pezzi a cabochon e sfaccettati ai bordi e un gran numero di a. molati o tagliati in vario modo, per lo più curvilineo; le loro forme si ritrovano in oreficeria lavorata a cloisonné mediterranea e germanica del 5°-6° secolo. È dunque certa la funzione di Cartagine come luogo di lavorazione e di commercio degli almandini. Secondo Plinio, fonte peraltro molto più antica, una parte degli a., soprattutto i più piccoli, potrebbe essere arrivata a Cartagine, oltre che dall'India - e dunque per via d'acqua - attraverso il mar Rosso e Alessandria, anche dai vicini giacimenti africani settentrionali dei Nasomeni, una tribù berbera nella Grande Sirte, in Libia (Roth, 1980).
Per l'area europea sudorientale dei secc. 5°-8° (Germani, Unni, Avari, Slavi, Bisanzio) non esistono fonti scritte e dirette testimonianze archeologiche che attestino la presenza di officine destinate alla lavorazione degli a. grezzi importati. Tuttavia se ne può supporre l'esistenza, dato che solo una piccola parte dei molti preziosi lavori a cloisonné del sec. 5° rinvenuti in tombe principesche o nei tesori poteva provenire direttamente dalle botteghe bizantine dell'Impero d'Oriente. Lo stesso dicasi per gli stanziamenti tribali germanici altomedievali a N delle Alpi; solo per lo stile di Vendel è accertato un centro di lavorazione, grazie ai ritrovamenti avvenuti a Paviken nell'isola di Gotland (duecentocinquantotto a. rossi e un esemplare intagliato), un centro che però non era rifornito - come si era supposto in un primo momento - da giacimenti in Svezia (Arrhenius, 1985, p. 32 ss.).
La richiesta di granati nell'area mediterranea e a N delle Alpi era straordinariamente grande per le opere di oreficeria di carattere profano (soprattutto per gli accessori degli abiti e per le armi), nonché per gli arredi ecclesiastici dal 5° all'8° secolo. Alcune cifre possono chiarire questo fenomeno per quanto riguarda le opere a cloisonné, di gran lunga le più pregiate nella Tarda Antichità e nell'Alto Medioevo; per la c.d. corazza di Teodorico (già al Mus. Naz. di Ravenna) sono stati necessari circa milleduecento piccolissimi a. tagliati in modo diverso; per la coppia di fibule ad archetto di Desana (Mus. Civ. di Torino, Mus. d'Arte Antica) più di duecentoquaranta; per le fibule a forma di aquila di Domagnano a San Marino (Norimberga, Germanisches Nationalmus. e Parigi, Coll. Ganay) oltre quattrocentoquaranta; tutti reperti, questi, provenienti dall'Italia ostrogota. Per la fibula a disco di Soest, in Vestfalia (Münster, Westfälisches Landesmus.), sono stati impiegati più di duecento a.; per la coppia di fibule della tomba di Arnegunda del sec. 6° a Saint Denis (ora a Parigi, Direction des Antiquités Historiques de la Région Parisienne) ne sono stati utilizzati centoquaranta e per il reliquiario di Teuderigo, del sec. 7°, nel tesoro dell'abbazia di SaintMaurice d'Agaune, in Svizzera, più di mille. Queste indicazioni sono sufficienti a chiarire l'importanza del commercio di tali pietre.
Le tecniche più semplici di incastonatura dell'a., di origine ellenistica (con alveoli costituiti da alti bordi in lamina), comuni nelle regioni meridionali del Caucaso e nelle città del mar Nero, si diffusero dal sec. 4° nei territori del bacino medio e inferiore del Danubio abitato dai Germani, in seguito alle migrazioni dei popoli nomadi, in particolare degli Unni. Successivamente tali tecniche raggiunsero le regioni a N delle Alpi e infine l'area mediterranea (Roth, 1980; Arrhenius, 1985). Già nel corso del sec. 5° si aggiunsero e si diffusero notevolmente nuovi modelli di alveoli di forma complessa, quasi esclusivamente geometrica (Arrhenius, 1985, figg. 4, 5, 69, 70-73, 192, 197, 203). Mentre nelle regioni germaniche a N delle Alpi si continuarono a realizzare opere caratterizzate da tale struttura alveolare di forma geometrica o curvilinea e, nell'oreficeria profana, da una policromia piuttosto moderata, le opere a cloisonné di area mediterranea, comprese quelle di età visigota in Spagna, si distinguono per gli alveoli a motivi vegetali, per una più vivace policromia e anche per bordature di perle o di vetro colorato a imitazione delle perle. Ciò vale soprattutto anche per la c.d. 'area franca di corte del regno occidentale' dei Merovingi (Vierk, 1974). Nella lavorazione ad alveoli di area mediterranea, in parte con rappresentazioni figurate, si utilizzò sporadicamente lo smalto colorato per meglio evidenziare la policromia, come per es. negli orecchini di Senise (Napoli, Mus. Archeologico Naz.) e nelle fibule a disco del sec. 7° di Canosa (Londra, British Mus.) e Comacchio (Baltimora, Walters Art Gall.).
Oltre all'impiego di granati o di a. tagliati a lastrine a facce piane nella tecnica a cloisonné già ricordata e nelle applicazioni singole a cabochon, va ricordata l'utilizzazione degli a., soprattutto nel sec. 5°, nelle lavorazioni a giorno, in cui gli alveoli non sono formati da tramezzature sporgenti dalla superficie metallica di fondo, ma dalla traforatura di questa, come per es. nei reperti di Petroasa in Romania, del sec. 5° (Bucarest, Muz. de Istorie), o nella coppa di Cosroe del sec. 6° (Parigi, BN). Ancora nei secc. 5° e 6° non di rado si ritrovano gli a. in castoni realizzati con lamine di bronzo (per es. il tesoro di Desana: Bierbrauer, 1974, tavv. 10, 2; 11, 2).
La tecnica più semplice e al tempo stesso più antica per montare i granati è quella di bordarli di metallo. Le lamine d'oro su cui venivano appoggiate le pietre e che servivano a ravvivare l'effetto luminoso dell'a. - di un rosso più o meno intenso, ma in ogni caso traslucido - erano inizialmente lisce, ma, a partire dal sec. 5°, vennero decorate più frequentemente con un motivo a reticolo (Waffeldekor) che produceva un ulteriore risalto della luminosità. L'uso di lamine dorate rendeva tuttavia necessario l'impiego del mastice sul fondo della montatura a cloisonné per garantire una presa sufficiente sia alla lamina, sia alla fascia intorno al bordo. Questo mastice consisteva all'inizio di materiali organici (per es. resina); in seguito, nei secc. 5° e 6°, vennero usati mastici cristallini come gesso e aragonite, calcite e sabbia quarzifera. Per Arrhenius (1971) l'analisi del mastice, unitamente alle caratteristiche tecniche degli alveoli, permette di stabilire l'esistenza di rapporti fra le diverse botteghe e l'individuazione di quelle locali. Su un fondamento che resta però in gran parte ipotetico, la studiosa ritiene di poter individuare nel sec. 5° e nei primi anni del 6° una bottega centrale a Costantinopoli con poche altre botteghe satelliti in Ungheria e in Renania, dove si usava come mastice il gesso. I mastici di calcite e di sabbia quarzifera finemente macinata, che sono propri della lavorazione a cloisonné soprattutto del sec. 6°, le permettono di individuare numerose officine nei territori tribali altomedievali a N delle Alpi, inclusa l'Inghilterra e la Scandinavia.Nel sec. 7° è constatabile a N delle Alpi una significativa diminuzione di opere con granati a cloisonné, dovuta molto probabilmente alla penuria di queste pietre dure, ma anche alla decadenza cui andò in gran parte soggetta la tecnica della loro lavorazione. Nel tardo sec. 6° e nei primi anni del 7° la tecnica cloisonnée è ancora imitata nella damaschinatura, per poi essere soppiantata nel sec. 8° dalla smaltatura policroma ad alveoli. Le poche opere a cloisonné dei secc. 7° e 8° sono per lo più preziosi arredi ecclesiastici, nei quali non di rado sono stati riutilizzati granati provenienti da oggetti preesistenti; nell'insieme, però, anche in essi all'uso dei granati si sostituisce una vivace policromia (pietre dure variamente lavorate a cabochon, vetri di diversi colori, smaltatura; Elbern, 1965, p. 115 ss.) determinando così l'avvicinamento della produzione dell'Europa settentrionale a quella tardoantica e altomedievale di area mediterranea. Lavori a cloisonné con granati come fondamentale elemento decorativo in oggetti profani furono prodotti nel sec. 8°, oltre che nell'ambito artistico bizantino-mediterraneo, solo in Scandinavia e questo fino al 9° secolo.
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