SEGAUDI, Aimeric
– Nacque a Chevrette, un villaggio della diocesi di Luçon, in Vandea, sul finire del XIV secolo o ai primi anni del XV da genitori sconosciuti. Forse per influenza dello zio, Jean de Polley, abate dell’Ordine degli antoniani di Vienne, abbracciò la carriera ecclesiastica entrando nel suo stesso Ordine.
Il primo documento che lo ricorda risale al 6 aprile 1418 quando – già diacono e baccelliere in diritto canonico – gli fu assegnata la precettoria di S. Antonio di Boutiers che gli garantiva una rendita di 300 lire tornesi. Ordinato prete e completati gli studi in diritto canonico, ottenne dal papa la facoltà di studiare diritto civile il 30 luglio 1425. Divenuto priore di Saint-Antoine-en-Viennois nei primi mesi del 1432, grazie all’appoggio dello zio poté mantenere la carica pur svolgendo le funzioni di cavaliere referendario presso la Curia romana per quasi tre anni, dal 3 marzo 1435 al 18 dicembre 1437, quando fu nominato vescovo di Belley.
Giurista rinomato e abile negoziatore, come altri esponenti del suo Ordine partecipò attivamente alle sessioni del Concilio di Basilea, dove fu notato dal duca Amedeo VIII (futuro papa Felice V, eletto il 5 novembre 1439), che lo volle presso di sé con le funzioni di reggente della cancelleria al posto del vicecancelliere o del cancelliere stesso. Tale incarico sarebbe stato ricoperto da Segaudi prevalentemente dal novembre del 1440 all’ottobre del 1442. Presente anche al Concilio di Ferrara (1438-39) e poi a Firenze, sempre in bilico tra le due opposte obbedienze, appose il suo nome tra le sottoscrizioni della 25a sessione, celebrata nel capoluogo toscano il 6 luglio 1439, che vide la riunificazione della Chiesa greca a quella romana.
Intanto, a Ferrara, Segaudi si era accordato con Percivalle de Balma, vescovo di Mondovì, per uno scambio di diocesi, e il 28 novembre 1438 fu nominato al suo posto nella sede episcopale monregalese.
Mondovì era una delle città più importanti del Ducato sabaudo, in piena espansione sia dal punto di vista economico sia da quello sociale e culturale; costituiva una tappa fondamentale per le comunicazioni con la Riviera di Ponente, con Savona e con Genova. Era sede di un convento francescano e di uno domenicano. All’annuncio della nomina il clero monregalese, secondo la Cronaca dei vescovi del canonico Giovanni Andrea de Regibus (1528), esultò perché il vescovo era «litteris eruditissimus, moribus ornatissimus, devotissimus» (Cronaca dei vescovi, in Grassi di Santa Cristina, 1789, II, p. 368). È probabile che questa affermazione sia stata inserita a posteriori dal canonico, memore delle benemerenze del prelato, in quanto non risulta che prima di scambiare la sede di Belley con quella monregalese egli si sia mai recato a Mondovì.
Dal momento dell’istituzione della nuova diocesi (con la bolla Salvator noster di Urbano VI, Perugia 1388) molto rimaneva ancora da fare: si sarebbe dovuto istituire un collegio di canonici composto dallo stesso numero di quelli astigiani, dieci (ma i predecessori di Segaudi non ne avevano avuto né i mezzi né la forza), la dotazione della mensa vescovile era piuttosto carente e l’obbedienza al vescovo in taluni villaggi completamente disattesa. Pur rimanendo presso il duca Amedeo VIII – che, nel frattempo, dopo la composizione dello scisma, era divenuto cardinale legato – assumendo le funzioni di suo cancelliere, Segaudi si prodigò a favore della propria sede. Istituì infatti le prime otto dignità del Capitolo, che conferì a esponenti del suo entourage, ma anche a membri del patriziato cittadino.
Segaudi ottenne anche dal papa la conferma dell’appartenenza alla diocesi di quei villaggi che, come Niella, Pamparato, Torre e San Michele, fino ad allora erano rimasti fedeli al vescovo di Asti, anche se la loro obbedienza sarebbe stata ancora a lungo solo teorica, entrando a far parte effettiva della diocesi di Mondovì nel 1768. Per accrescere la dotazione della mensa vescovile e per l’istituzione di quella capitolare ottenne poi dalla Curia alcuni provvedimenti significativi: Eugenio IV in primo luogo soppresse l’antica abbazia benedettina di S. Dalmazzo del Borgo (Borgo San Dalmazzo) conferendone i beni alla mensa vescovile quando si fosse resa vacante la carica abbaziale (28 novembre 1438).
Il passaggio effettivo alla mensa vescovile fu però tutt’altro che semplice: l’abate in carica, Giovanni ‘de Brozio’ dei signori di Castellamonte, nominò immediatamente un procuratore per rassegnare l’abbazia nelle mani del papa, ma pretese una pensione vitalizia di 270 fiorini piccoli di Savoia e il mantenimento del titolo di abate, condizioni che il pontefice accettò su sollecitazione di Amedeo VIII. Segaudi tuttavia si lamentò che le rendite dell’abbazia non potevano sopportare un tale esborso, riuscendo a ottenere il differimento del passaggio. Per tale motivo il duca convocò le parti nell’eremo di Ripaille, ma il compromesso non trovò d’accordo il vescovo di Mondovì, che lasciò decadere l’unione.
Nel frattempo il duca era stato eletto papa dal Concilio di Basilea come Felice V, e i monaci rimasti e le comunità della valle Gesso fecero pressione presso di lui perché si definisse una volta per tutte la questione. Egli con una bolla del 19 gennaio 1440 considerò nulla la precedente decisione di Eugenio IV e stabilì che il passaggio alla mensa vescovile dovesse avvenire secondo quanto concordato a Ripaille; il tenore del compromesso fu inserito nel testo del documento papale.
Inoltre, Felice V permise a Segaudi di poter scegliere anche tra gli Ordini mendicanti gli otto religiosi destinati al servizio della chiesa abbaziale. La lunga vertenza fu risolta solo con l’abdicazione del papa di Basilea: la bolla di Eugenio IV fu rimessa in vigore, il vescovo accettò di pagare all’abate la pensione stabilita, di provvedere al culto e di mantenere otto monaci necessari al servizio divino; prima Niccolò V nel 1449 e poi Callisto III nel 1456 confermarono definitivamente i termini dell’accordo.
Meno difficile fu la soppressione di alcuni priorati benedettini dipendenti da lontane abbazie, poste nelle diocesi di Asti, Ivrea e Pavia, i cui beni furono attribuiti alla mensa capitolare con un documento del 16 settembre 1440.
In quei medesimi anni, inoltre, il vescovo trattò a lungo con la città di Mondovì, che si era impegnata a fornire non solo una sede prestigiosa come sua abitazione, ma anche una dotazione patrimoniale cospicua. Fu individuata a tale scopo una vasta area ai confini della città, ancora in gran parte da estirpare e dissodare, il cui reddito era calcolato in 1700 fiorini piccoli di Savoia. Siccome la città si mostrava piuttosto riluttante, il vescovo la scomunicò, citandola a comparire presso l’auditore della Camera apostolica: solo allora la concessione divenne effettiva.
Fra Basilea e Ginevra, nell’estate del 1442 e nell’autunno del 1445, Segaudi riuscì poi a comporre la vertenza con i signori Costa, signori di Bene e Trinità, e con i Beggiamo, signori di Sant’Albano, per lo ius decimandi, che essi rivendicavano sulla base dell’infeudazione avvenuta alcuni anni prima da parte del duca: il diritto di decima gli venne riconosciuto in cambio della concessione del dominio diretto e utile che gli spettava come erede dei privilegi del vescovo astigiano.
Il vescovo si preoccupò anche di avere una cattedrale che fosse adeguata al prestigio della sua sede; non ritenendo tale quella antica di S. Donato, fondata sul Monte di Vico, dove era sorto il primo nucleo della futura città alla fine del XII secolo, cercò di scambiarla con la chiesa dei francescani. Costruita assai vicino al palazzo vescovile, era in effetti molto più comoda rispetto al S. Donato dalla parte opposta della città alta; inoltre si presentava a cinque navate e in essa avevano la cappella gentilizia alcune tra le principali famiglie cittadine.
I francescani furono pertanto sollecitati a effettuare la permuta, adeguatamente compensata, tra le due chiese. Sia che essi non volessero trasferirsi lontano dal loro convento, sia che non gradissero la presenza accanto a loro dei domenicani, contigui a S. Donato, lo scambio non si fece: i minori, benché allettati da un indennizzo di 1000 fiorini di Savoia, non si lasciarono convincere. Anche l’intervento diretto del papa, che, derogando da quanto aveva stabilito Bonifacio VIII per gli Ordini mendicanti (bolla Super cathedram del 18 febbraio 1300), aveva concesso loro di effettuare lo scambio, non produsse alcun risultato. Del resto, la città stessa era contraria e il vescovo dovette desistere e accontentarsi di S. Donato.
L’influenza esercitata da Segaudi su Amedeo VIII non cessò con il figlio Ludovico. Nel 1450 fu infatti inviato, insieme con Giacomo Valperga dei conti di Masino, a trattare la pace con il duca di Milano Francesco Sforza, pace siglata il 27 dicembre di quello stesso anno.
Negli ultimi anni della sua vita il vescovo fu particolarmente legato al Capitolo dei canonici, che beneficò in ogni modo. Cedette infatti alla mensa capitolare tutti i redditi delle 500 giornate piemontesi che aveva ricevuto dalla città e, in cambio, chiese di essere ricordato ogni settimana con una messa feriale cantata nella sua cappella, appena fatta costruire in S. Donato, preceduta da dodici rintocchi della campana grande, in ricordo dei dodici apostoli. Dotò inoltre la chiesa di prestigiosi arredi sacri ornati della sua arma, come calici, libri e reliquie.
Già dal Concilio di Basilea Segaudi aveva ottenuto la facoltà di poter testare. Con il suo testamento, redatto l’8 marzo 1470, stabilì che un terzo dei suoi beni andasse al Capitolo della cattedrale di Mondovì, ma scelse di farsi seppellire nella chiesa di Saint-Antoine-en-Viennois, dove il suo corpo venne tumulato nella cappella, ornata di statue, che si era fatto costruire fin dal 1460, legando la somma di 200 scudi per la celebrazione di tre messe settimanali.
Morì il 12 marzo 1470 dopo trentadue anni di governo della diocesi monregalese.
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