ALPI (A. T., 17-18-19)
Storia della conoscenza. - Il nome Alpi si trova per la prima volta in Erodoto (lV, 46), che ricorda l'Alpis e il Karpis come due affluenti del Danubio; ma è probabile che lo storico greco, piuttosto che equivocare fra un monte e un fiume, come i più pensano, volesse effettivamente alludere a un corso d'acqua. Certo i Greci ebbero scarsissime notizie sulle Alpi; anche Eratostene sapeva solo genericamente che esse erano montagne elevate a nord dell'Italia. Le prime notizie un po' men0 vaghe si trovano in taluni scrittori delle guerre puniche, che se ne occuparono a proposito del famoso passaggio di Annibale (218 a. C.): Polibio conosce alcuni caratteri generali delle Alpi e quattro valichi, ma non ha ancora un'idea precisa di tutto il sistema montuoso. Le guerre che condussero alla sottomissione dei popoli alpini sotto Augusto e Tiberio valsero ad accrescere di molto le conoscenze, e di fatto accenni più o meno diffusi si trovano in tutti i geografi dell'età di Augusto, Plinio, Mela, Strabone, ma invano si cercherebbe allora, e per tutta l'età antica, una descrizione sistematica della grande catena.
Gli scrittori antichi le delimitavano genericamente a mari supero ad inferum (così nel monumento della Turbia); Plinio dà ad esse per confini i fiumi Varo ed Arsia (Nat. Hist., III, 132), Strabone, che è il più esplicito, dice che esse hanno principio a Vada Sabatia (Vado, non lungi dal Col di Cadibona) e disegnando un grande arco al centro del quale è il paese dei Salassi (Val d'Aosta) terminano al M. Albio (Nevoso). Ma agli scrittori romani interessavano soprattutto i valichi e le strade; inoltre i popoli alpini, le loro risorse, ecc. Alpis, al singolare, designò anzi presso i Romani di preferenza un valico (per esempio Alpis Cottia, il Monginevro; A. Graia, il Piccolo S. Bernardo); il plurale Alpes, esteso ad una sezione della catena o all'intero sistema montuoso, è di uso più tardivo. Nella letteratura romana si trovano i nomi A. Maritimae, Cottiae, Graiae, Poeninae, Reticae, Tridentinae, Noricae, Carnicae e più tardi (in Ammiano) quelli di A. Venetae e A. Juliae; ma nessun accenno chiaro ai limiti di queste sezioni; pochissimi nomi di vette o altri nomi orografici (di solito nomi di montagne che dànno origine a fiumi importanti, come il Vesulus da cui scaturisce il Po, l'Adula da cui provengono il Reno e l'Adda), nessuna decrizione particolare di ghiacciai o altri fenomeni proprî dell'alta montagna. Si trovano invece ricordati alcuni rappresentanti caratteristici della fauna alpina, come l'alce e il bue selvatico.
Poco diversamente stanno le cose per il Medioevo. Nei primi secoli di questo, anzi, caduta in parte in abbandono la rete stradale romana attraverso le Alpi, la penetrazione nel cuore di esse dovette divenir più difficile; ma presto si apersero i primi ospizî (quello del Cenisio risale al principio del sec. IX); dopo il sec. VIII si moltiplicarono i passaggi di eserciti attraverso le Alpi (si contano, tra il 754 e il 1267, 127 passaggi nei due sensi); più tardi ancora, nel sec. XIII, si aprì, attraverso il Gottardo e la valle della Reuss, una nuova grande via di comunicazione, non battuta nell'età romana e d'importanza grandissima invece nella storia del commercio medievale e moderno; nuove strade, poco frequentate nell'età romana, acquistarono importanza (Sempione, S. Bernardino, Tonale, ecc.). Qualche cronista (per esempio Ottone di Frisinga) ci dà vivaci quadri di paesaggi alpini ma una descrizione sistematica di tutto il sistema non si trova neppure per tutto il Medioevo. Anche la rappresentazione che dànno le più antiche carte corografiche d'Italia (sec. XIV e XV) è molto sommaria; i nomi orografici ben conosciuti sono assai pochi; soltanto in carte parziali di regioni di confine (ne abbiamo qualcuna buona per la regione veneta sin dal sec. XV) si ha un maggior numero di particolari.
Le descrizioni delle Alpi, che si trovano nelle opere di Flavio Biondo e di Leandro Alberti, elaborano quasi unicamente materiali attinti a fonti classiche. Ma nel sec. XVI appaiono i primi scritti che si riferiscono in modo particolare alle Alpi, il De prima ac vera alpina Rhetia cum cetero alpinarum gentium tractu di Egidio Tschudi (Basilea 1538), poi la Descriptio Vallesiae e il Commentarius de Alpibus di Josias Simler (1574), presso il quale troviamo, tra l'altro, i primi precisi accenni a nevi permanenti e a ghiacciai. Della prima metà del sec. XVI è anche un atlantino di carte corografiche della Svizzera; del 1555 e anni seguenti le carte di Giacomo Gastaldi (Piemonte, Lombardia), del 1560 e seguenti le carte dell'Austria di W. Lazio (Typi chorographici Austriae), che si possono annoverare fra i primi tentativi di rappresentazioni di parti notevoli del sistema alpino. Di gran lunga migliori sono le figurazioni contenute nelle carte di G. A. Magini (Atlante d'Italia pubblicato postumo nel 1620; v. magini); la sua carta d'Italia del 1608 delinea chiaramente le Alpi come una catena continua ricingente l'Italia dal Mar Ligure al Quarnaro. Ma i fenomeni peculiari dell'alta montagna sono tuttora pochissimo conosciuti; le ascensioni a noi note di monti un po' elevati sono in numero molto esiguo (si ricordino quella del M. Ventoso fatta nel 1335 dal Petrarca e quella del Rocciamelone fatta nel 1358 da Bonifacio Rotario); anche sulle altezze dei monti si hanno idee del tutto errate (passa per il più elevato il M. Viso), sono ignoti i nomi stessi delle cime più eccelse (il nome di M. Bianco appare solo nel sec. XVIII; il nome di M. Rosa, o meglio della Ròisa, nel sec. XVI).
Naturalmente idee più esatte sull'altezza delle cime alpine non si potevano avere prima dell'applicazione del barometro (si veggano, in pieno secolo XVII, le opinioni disparatissime di dotti come Varenio, Riccioli, Kircher); il primo ad applicarlo un po' largamente nelle Alpi fu il naturalista svizzero J. Scheuchzer, cui si debbono notevoli opere (Itinera alpina, 1708; Helvetiae storiographia et geographia, 1716) e una grande carta delle Alpi (1712), ma le sue misure sono ancora incerte e contradittorie. Nella seconda metà del sec. XVIII si iniziano i metodi trigonometrici (Schuchburckt nel M. Bianco, ecc.), coi quali si accerta che nessuna vetta supera i 5000 m. (il Riccioli ammetteva ancora, un secolo prima, che le altezze massime arrivassero a 21.000 m.!); si fanno i primi studî sui ghiacciai (Gruner 1760); appaiono carte fondate su basi scientifiche (risale al 1680 quella del Piemonte di T. Borgonio; del 1786 sono quelle della Svizzera del Weiss, del 1774 la carta del Tirolo di P. Anich, ecc.).
L'esplorazione sistematica delle Alpi si fa giustamente cominciare con Orazio Benedetto de Saussure (1740-99) autore dei celebri Voyages dans les Alpes e della prima ascensione al M. Bianco (1787; v. de saussure). Nel sec. XIX poi, la conoscenza delle Alpi procede molto rapidamente per il concorso di varî fattori, tra i quali è da porsi, in prima linea, il rilevamento topografico compiuto da tutti gli stati che hanno parte nella regione alpina; ad esso si collegano i rilievi geologici, gli studî sui ghiacciai, le osservazioni meteorologiche d'alta montagna, ecc.; molto ha contribuito anche il grande sviluppo dell'alpinismo e la fondazione di Club Alpini (francese, svizzero, italiano, tedesco-austriaco), ai quali si debbono studî e ricerche di grande interesse scientifico e pubblicazioni di alto valore..
L'Italia ha da tempo compiuto il rilevamento topografico delle Alpi italiane alla scala di 1 : 25.000, ricavandone poi la carta fondamentale al 100.000; il lavoro è ormai completato anche per la parte orientale, già inclusa nella monarchia austro-ungarica, uniformando al tipo nostro i rilievi austriaci. Questi sono pubblicati alla scala di 1 : 75.000 (Spezialkarte, 1a ed., 1875), ma il lavoro topografico originale è anche qui eseguito al 25.000. Alla stessa scala (al 50.000 solo per alcune zone di alta montagna) sono i rilievi svizzeri, dai quali è ricavata poi la fondamentale carta al 100.000 (la così detta Carta Dufour, dal nome del generale W. H. Dufour, che diresse i lavori; terminata nel 1864); ma anche le tavolette originali sono ora pubblicate, formando il così detto Atlante Siegfried. La Francia iniziò il rilievo topografico delle Alpi Occidentali prima di ogni altro stato (nel 1824), scegliendo la scala di 1 : 80.000 (1 : 40.000 per le minute originali); il lavoro, terminato nel 1864, era pari allora, per eccellenza, alla carta Dufour; ma oggi è superato dalla pubblicazione dei rilievi originali a scala maggiore degli altri paesi. Si è perciò intrapreso, in Francia, un nuovo rilievo al 20.000. Dalle carte topografiche originali deriva poi una folla di carte corografiche, alpinistiche, turistiche, ecc. Per tutti i maggiori centri di alpinismo si vanno ora pubblicando carte speciali, a colori, al 25.000 o al 20.000, di grande efficacia anche per la rappresentazione della montagna e delle sue forme. Il rilevamento geologico è variamente progredito, come si dirà a suo luogo; gli studî sulla tettonica alpina hanno preso grandissimo sviluppo dopo il 1880; le più disparate ipotesi orogenetiche trovarono campo di applicazione nelle Alpi; dal principio del nostro secolo in poi la teoria delle falde di ricoprimento (Schardt, Termier, Argand, Lugeon, Dal Piaz, Kossmat, Kober, ecc.) ha portato una vera rivoluzione sulle idee per l'innanzi prevalenti. Per la conoscenza dei ghiacciai attuali sono classici i lavori dell'Altmann, dell'Agassiz, del Hugi, del Tyndall, dello Studer, del nostro Stoppani, del Riehter, dei Vallot, ecc.; oggi un organo internazionale, la Zeitschrift für Gletscherkunde, fondata nel 1906, raccoglie il contributo di studi e osservazioni di tutti i paesi. Ricerche di geologi e geografi condussero poi a riconoscere le tracce di un'età passata, nella quale i ghiacciai avevano uno sviluppo di gran lunga maggiore in tutto il sistema alpino, l'epoca glaciale, a cavallo fra il Terziario e il Quaternario. Sull'argomento, che ha una grandissima importanza anche dal punto di vista antropogeografico, è apparsa nell'ultimo cinquantennio una serie numerosissima di ricerche particolari, alle quali presero e prendono parte onorevolmente studiosi italiani. Una grande sintesi di queste ricerche è l'opera di A. Penek ed E. Brückner, Die Alpen im Eiszeitalter (Lipsia 1909, voll. 3), dalla quale emerge convalidata la constatazione che l'epoca glaciale risulta frazionata in fasi di espansione dei ghiacciai (corrispondenti a periodi di clima freddo e umido), intercalate da fasi di ritiro (corrispondenti a periodi di clima caldo e secco). Vedi più sotto.
Lo studio scientifico delle Alpi è ben lungi dall'essere terminato: restano da risolvere una folla di questioni geologiche, morfologiche, glaciologiche (tra queste lo studio delle oscillazioni dei ghiacciai attuali e del loro sincronismo); restano da completare e coordinare gli studi sul clima delle Alpi, sui fiumi ed il loro regime, sulla flora alpina, come pure sull'uomo nelle Alpi e sui particolari caratteri della vita alpina.
Bibl.: Per la storia della conoscenza delle Alpi v. soprattutto: F. Umlauft Die Alpen. Handbuch der gesammten Alpenkunde, Vienna 1887; W. A. B. Coolidge, Les Alpes dans la nature et dans l'histoire, Parigi 1913 (traduz. francese; l'originale inglese è del 1908); W. Lehner, Die Eroberung der Alpen, Zurigo 1922. Per la cartografia: H. Ferrand, Essai d'histoire de la cartographie alpine, Grenoble 1903; E. Oberhummer, Die Entstehung der Alpenkarten e Die Entwicklung der Alpenkarten in 19. Jahrh., serie di articoli nella Zeitschr. der deutsch. österr. Alpenverein, 1901-1905, con saggi dei varî tipi.
Le pubblicazioni periodiche più importanti dei Club Alpini sono: Rivista mensili del Club Alpino Italiano, Torino, dal 1881; Bollettino, id. id., dal 1867; Le Montagne (Riv. del Club Alp. Franc.), Parigi, dal 1874; Jahrb. des schweiz. Alpenclub, Friburgo dal 1864; Alpina (del Club Alpino Svizzero), Zurigo, dal 1893; Zeitschr. des deutsch. österr. Alpenvereins, Vienna, dal 1870; The Alpine Journal, Londra, dal 1864.
Situazione, limiti e partizioni.
Situazione. - Nella zona dei rilievi recenti che attraversa l'Europa meridionale da est a ovest, sull'orlo della fascia di sprofondamento mediterraneo, le Alpi costituiscono la massa più alta e potente. Nessun altro sistema montuoso è più ricco di forme ed ha maggiore importanza, così nei rapporti fisici come negli storici. Le Alpi dividono il mondo dell'Europa centrale da quello del Mediterraneo, così diversi tra loro; formano la zona limite di tre grandi gruppi linguistici, il latino, il germanico, lo slavo; sono oggi frontiera fra molti stati d'Europa: Italia, Francia, Svizzera, Germania, Austria, Jugoslavia, e, coi loro grandi impianti idroelettrici, fanno sentire la loro importanza economica anche a distanza su tutta l'Europa industriale.
Largo nella sua maggiore estensione fra 160 e 250 km., lungo km. 1200, fra il Mar Ligure e la Pianura Pannonica, il sistema alpino non rappresenta però una barriera insormontabile per i popoli, i commerci, la civiltà, ché anzi i suoi passi depressi e le sue numerose valli trasversali hanno permesso, fin dagli albori della storia, un insediamento umano precoce anche nell'interno della sua massa, e comunicazioni relativamente facili fra l'Europa Centrale e il bacino del Mediterraneo.
Le Alpi non sono costituite da una sola catena o gruppo montuoso, bensì da una serie di massicci e di fasci di catene nettamente distinti fra loro per natura e posizione reciproca, i quali tuttavia nel loro insieme formano un unico "sistema", ben distinto dagli altri dell'Europa meridionale. Però la varietà grandissima geologica, morfologica, antropica delle varie parti del Sistema Alpino, sono fuse in una grande unità, dovuta soprattutto al caratteristico "paesaggio alpino", che costituisce un'individualità, dove si trovano gli elementi fisici, biologici e umani più varî, provenienti dalle regioni periferiche.
Del resto, la continuità anche orografica delle Alpi con gli altri sistemi europei è interrotta ad occidente dal piegarsi di questa catena verso S. sul golfo di Genova, cosicché fra le Alpi Occidentali e i Pirenei v'è una larga interruzione costituita dalla depressione della Garonna e dal solco del Rodano che fanno risentire le influenze atlantiche e settentrionali sull'alto bacino mediterraneo. A oriente la depressione del Danubio separa il nostro sistema dal Massiccio Boemo e dal corrugamento carpatico, mentre a SE., per una forte depressione - da cui scendono sull'alto Adriatico le influenze continentali pannoniche - le pieghe orientali alpine si prolungano nelle Alpi Illiriche sull'orlo occidentale della penisola balcanica; come invece quelle occidentali, sul Golfo di Genova, trapassano alle pieghe Appenniniche che formano l'ossatura della penisola italiana.
Limiti. - La determinazione dei limiti estremi del grande arco alpino non è facile, ché sia a occidente verso la catena appenninica, sia ad oriente verso i rilievi della regione balcanica, il trapasso è insensibile e gli autori non sono tutti concordi nello stabilire la linea di confine.
Ad ogni modo, come limite tra Alpi e Appennino, i più convengono nel designare il Colle di Cadibona (m. 460), come quello che non solo è il più basso di tutti i valichi proposti, ma è anche l'insellatura che presenta maggiore ampiezza e depressione, giacché, entro un raggio di 16 km., non ha vette sorpassanti i 1000 m. Ad oriente invece, verso il sistema illirico, per la mancanza di valli subaeree e di netti valichi, la separazione è più incerta, ma si concorda da molti di portare il limite al Passo di Vrata (m. 879), fra le propaggini meridionali del Monte Nevoso e quelle del Gran Capella, ad oriente di Fiume.
Quanto ai limiti periferici del sistema orografico alpino, essi sono ancor meno precisi, ché le estreme propaggini, specie sul versante esterno, vanno a morire con le ondulazioni della fascia subalpina entro la zona di alta pianura.
Il circuito esterno del grande arco alpino, nelle sue linee fondamentali, è quindi segnato dalla costa alta della Riviera Ligure di ponente fino a Marsiglia, dall'ampia valle del Rodano, che lo divide dal Massiccio Centrale francese, fino a Lione, poi, fino al Lago di Ginevra, dallo stretto solco del Rodano che lo separa dal Giura Svizzero. Di qui le falde dei rilievi più esterni vanno degradando, senza netto passaggio, all'ondulato Altipiano Svizzero fino al Lago di Costanza, poi a quello Svevo-Bavarese fino all'Inn, e quindi sulla vasta depressione del Danubio, la quale divide il Sistema Alpino dalla Selva Boema, fino a Greifenstein, che può considerarsi come la propaggine più settentrionale della Selva Viennese, lambita dal Danubio.
Così rimarrebbero esclusi dal sistema alpino propriamente detto tutti i dossi fra i 400 e 500 metri di altezza, di origine fluvio-glaciale, che costituiscono il paesaggio collinare di queste alte pianure pedemontane, compreso il maggiore rilievo diluviale di esse, il Hausrück (m. 800), fra l'Inn e la Traun.
Ancora più irregolari e indeterminabili sono i limiti orientali, dove le catene alpine si aprono sull'alta pianura pannonica e le ondulazioni delle ultime pieghe vanno immergendosi sotto i depositi diluviali del piano ungherese. A ogni modo, i confini di solito più accettati sono quelli, che dal bacino di Vienna vanno a Sopron (Ödenburg), quindi alla propaggine più orientale di Güns (m. 882) e per le falde delle Alpi Stiriane giungono a Graz, di dove seguono i Monti Bacher fino a Marburgo, il piede dei Colli di Cilli fino alla Sava, la valle del fiume Gurk e le conche carsiche dell'alta Kulpa per giungere al Passo Vrata, sopra al Quarnaro. Ad oriente di questa linea rimarrebbero solo alcune alture diluviali inferiori ai 300 m. s. m., i monti granitici della Leitha (m. 480) e dell'Ivanshchiza (m. 1061), e dello Slieme (m. 1036) e i rilievi miocenici degli Uscocchi (m. 1181), legati ai monti di Schiavonia.
Il versante interno cade più ripido sulla pianura padano-veneta, cosicché il limite con essa è più facilmente seguibile ai piedi dei rilievi alpini. L'orlo pedemontano, dallo sbocco del Tanaro in pianura, corre sull'alto delle conoidi dei fiumi piemontesi fino ad Ivrea, segue di qui lo sbocco dei laghi lombardi fino al Lago di Garda, contorna le falde molto nette delle Prealpi Venete, di quelle Giulie e del Carso Triestino, nonché le coste alte dell'Istria fino al Vallone di Buccari. Rimangono quindi fuori delle Alpi i rilievi delle Langhe, che per i loro caratteri si riattaccano piuttosto al sistema dell'Appennino, i colli del Monferrato e quelli di Torino, tutti gli anfiteatri morenici allo sbocco delle valli alpine e dei grandi laghi, nonché i rilievi vulcanici dei Berici e degli Euganei, e il dosso del Montello.
Partizioni. - I criterî di divisione di un sistema montuoso in genere e di quello alpino in ispecie, hanno dato luogo a numerosissimi dibattiti fra i geografi, volendo gli uni dar massimo valore al punto di vista geologico della natura intrinseca del sottosuolo, gli altri a quello orografico dell'unità estrinseca del rilievo montuoso, e finalmente altri ancora a quello corografico di raggruppamenti di complesse regioni naturali. Il primo criterio è prevalente fra i geomorfologi della scuola tedesca (Diener e Von Böhm), il secondo è sostenuto dalla tradizionale scuola italiana (G. Marinelli e Porena), il terzo dalla più recente scuola francese (Blanchard e De Martonne). Ognuno di questi criterî può fondarsi su buone ragioni, giacché la forma e il tipo esterno orografico risentono in parte della natura litologica e tettonica delle pieghe montuose; come il poter tener conto di tutti gli altri fenomeni morfologici, climatici, biologici ed economici della montagna permetterebbe la costituzione di unità veramente geografiche. Tuttavia la semplicità e chiarezza indispensabili per una classificazione non possono essere date che dalla divisione in gruppi orografici, giacché il rilievo è l'elemento essenziale di un sistema montuoso ed ha i suoi limiti chiaramente segnati dalle depressioni che lo circondano (valli e valichi) senza possibilità di incertezze e sfumature. Queste invece sono sempre possibili nei caratteri geologici, tanto più che la moderna geomorfologia non riscontra rapporti molto stretti fra la forma esterna delle Alpi e la costituzione del sottosuolo; maggiori poi sono le incertezze nei tipi corografici, i quali di solito sono diversi sui due versanti dello stesso gruppo montuoso, non permettendo così una ripartizione esatta ed una sicura attribuzione del nome, perché l'unità è data in questi casi dalle vallate, le quali invece separano i massicci montuosi.
Dall'andamento e costituzione del sistema alpino appare subito evidente, sia dal punto di vista geoloġico che orografico, una struttura zonale longitudinale rispondente assai bene, anche nelle Alpi Occidentali, a fasci di catene mediane prevalentemente cristalline ed antiche, dove si hanno le massime elevazioni, e dove corre quasi dovunque la linea di spartiacque principale, che rappresenta l'ossatura spinale del sistema e stabilisce un limite divisorio ben netto fra versanti a condizioni geografiche distinte, le quali si riflettono in ambienti spesso diversi per morfologia, clima, vegetazione, ecc. Per la loro situazione e per i caratteri prevalenti di alta montagna, questi fasci mediani hanno nome propriamente di Alpi (fr. Alpes; ted. Hochalpen). Ai lati delle Alpi mediane, su tutto il lato esterno del grande arco, e su gran parte di quello interno, sono affiancate altre catene parallele calcaree o arenaceo-marnose, con caratteri di solito di media-montagna e che, indipendentemente dalla loro morfologia, sono sempre per situazione gruppi esterni prospicienti alle pianure contermini e che hanno preso il nome scientifico (anche se spesso non corrispondente alla toponomastica locale) di Prealpi (fr. Petites Alpes; ted. Voralpen).
Queste zone longitudinali del sistema sono di solito separate da larghi solchi o tronchi vallivi essi pure longitudinali, che sono una caratteristica del sistema alpino a confronto di altri sistemi orografici europei e che hanno il massimo sviluppo sul lato orientale del sistema, dove si aprono a ventaglio sulla pianura pannonica.
Ammesso ormai da tutti che non le cime montuose e le creste, ma solo le depressioni (valli o valichi) possono essere elementi nettamente divisorî di gruppi orografici, la più vecchia divisione trasversale del sistema alpino è in due parti - Alpi occidentali ed Orientali - al passo del Gottardo, che era ritenuto il punto di mezzo dell'arco alpino (von Buch, 1802). Essa durò a lungo, sebbene il limite fosse spostato, secondo i varî autori, allo Stelvio, al passo di Resia, al Brennero e per alcuni anche al Gran S. Bernardo. Ma i tentativi di una triplice divisione del grande arco alpino sono pure molto vecchi (Pinkerton, 1811; Ritter, 1825 e Pasini, 1839) e basati soprattutto sulla situazione e sull'andamento del sistema alpino, che nella sua parte occidentale è prevalentemente diretto da sud a nord, nella centrale si presenta compatto da ovest ad est, e nella parte orientale è caratterizzato dalla divergenza delle catene. Quest'ultima divisione ebbe poi grandissimo seguito fra i geografi.
Ma i geologi, cominciando dal Mojsisovics (1873), hanno sostenuto nuovamente una divisione in due parti, prendendo come limite fra le Alpi occidentali e orientali una linea che dal Lago di Costanza per lo Spluga scende al Lago di Como, la quale rappresenterebbe una zona di differenziazione geognostica e tettonica del sistema e che fu accettata da molti dei geografi recenti, soprattutto geomorfologi (Penck, Krebs, De Martonne) o anche da scrittori d'arte militare, come meglio rispondente alla delimitazione dei varî settori d'operazioni belliche.
La preferenza data da molti autori alla triplice divisione trasversale del sistema alpino, è dovuta alla anzidetta insufficienza dei criterî geologici, - per l'incunearsi delle diverse facies geognostiche nella zona limite della proposta duplice partizione - a determinare delle divisioni ben nette fra le varie parti, mentre gli argomenti orografici meglio corrispondono ad una triplice divisione trasversale, con caratteri individuali per ciascuna delle tre partizioni, e che giustificano la loro separazione.
Le Alpi Occidentali - che vanno dal Colle di Cadibona (m. 460, al limite con l'Appennino Ligure) al Col de Ferret (m. 2488, a nord del M. Bianco) - sono incurvate a ferro di cavallo attorno alla pianura padana con direzione prevalente sud-nord; mancano della serie prealpina calcarea interna, sono particolarmente divise in gruppi a limiti irregolari, dati da valli trasversali, a causa della complessa tettonica, che ha rapporti incerti con la morfologia attuale; presentano la maggiore elevazione di tutte le Alpi (Monte Bianco, m. 4807).
Le Alpi Centrali - dal Col de Ferret al passo del Brennero (m. 1370) - si stendono compatte a decorso quasi rettilineo da SO. a NE., e per quanto anch'esse a tettonica assai sconvolta e ad elevati massicci (M. Rosa, m. 4638), tendono ad allargarsi sempre più trasversalmente, fiancheggiate da catene prealpine calcaree o arenaceo-marnose su ambedue i versanti, dove cominciano a prevalere le valli longitudinali.
Le Alpi Orientali - dal passo del Brennero (m. 1370) al passo di Vrata (m. 879), al limite col Gran Capella e la pianura pannonica - con tettonica più semplice ed elevazioni meno importanti (Gross Glockner, m. 3797), vanno sempre più estendendosi a ventaglio, col predominio assoluto di ampie valli longitudinali, con due larghe fasce prealpine, di cui l'esterna prosegue diretta a NE., e l'interna - geologicamente dipendente dal sistema dinarico - s'incurva attorno alla pianura veneta fino a collegarsi poi con le Alpi Illiriche.
Ancora più discordi sono i pareri per l'ulteriore divisione dei grandi gruppi montuosi alpini, tenendo alcuni in conto le distinzioni scientifiche, altri quelle tradizionali, altri quelle strategiche o turistiche, e via di seguito. Così si dica della nomenclatura dei singoli gruppi, la quale essendo soltanto opera tarda e frammentaria di geografi e cartografi - ché non esiste una onomastica popolare di interi gruppi montuosi, sconosciuti agli abitanti delle singole vallate - manca di uniformità e di accordo fra i varî geografi, sia pel nome prescelto, sia per la sua estensione.
Una revisione completa dell'onomastica alpina, su basi puramente scientifiche, non sarebbe pratica, per il disordine che porterebbe alla toponomastica usuale, la quale è prevalentemente geografica, cosicché è preferibile accettare i nomi tradizionali - checché ne pensi in proposito qualche scrittore straniero - per non moltiplicare sinonimie e aggravare la confusione già esistente nell'onomastica alpina. Tra questi nomi tradizionali sono in ogni caso da porre in prima linea tutti quelli che ci vengono dall'età classica, i quali tuttavia sono in piccolo numero e talora non si possono neppur localizzare con tutta esattezza. È ovvio poi che nell'uso nostrano si debba dare la preferenza ai nomi italiani, anche oltre confine, quando essi siano di uso comune. Una commissione nominata dal Comitato geografico nazionale italiano ha proposto una delimitazione e una nomenclatura dei grandi gruppi (1926), mentre ha rinunziato a entrare nei particolari delle minori suddivisioni.
Geologia.
La catena alpina fa parte di quell'immensa fascia di corrugamento della crosta terrestre, che dal Marocco occidentale si propaga verso oriente abbracciando l'Algeria, la parte meridionale della penisola Iberica, i Pirenei, gli Appennini, le Alpi propriamente dette, i Carpazî, la regione Balcanica, il Caucaso, i rilievi dell'Asia Minore, della Persia, del Turkestan meridionale e della regione himalaiana, la quale trova poi la sua prosecuzione geologica nella penisola di Malacca e nelle isole dell'arcipelago della Sonda.
Tutto questo insieme di catene, che rappresenta il più recente corrugamento della crosta terrestre, ha indubbiamente un'unità genetica e strutturale e viene compreso per ciò sotto un'unica denominazione: Alpidi.
Le Alpi propriamente dette, piccola parte del vastissimo fascio delle Alpidi, vanno dal Golfo di Genova alle porte di Vienna, dalla pianura padana alla pianura svizzero-bavarese.
I materiali e i periodi. - Dal punto di vista dei materiali che la costituiscono, la catena alpina risulta di rocce svariatissime, che vanno dai prodotti magmatici intrusivi ed effusivi, ai sedimenti di origine meccanica, chimica ed organica; dalle brecciole e dai tufi vulcanici, agli scisti cristallini, che per complicati fenomeni di metamorfismo sono derivati dalla trasformazione dei diversi tipi rocciosi appartenenti alle varie categorie sopra ricordate. Non sono trascorsi molti lustri, che questi scisti cristallini (gneiss, micascisti, cloritoscisti, calcescisti, ecc.), così largamente rappresentati in tutte le Alpi, ma specialmente in quelle occidentali, venivano universalmente riferiti ai più antichi periodi della storia geologica (Arcaico). Geniali intuizioni sulla struttura dei monti della Savoia e fortunate scoperte di fossili in diverse località del versante italiano dimostrarono che buona parte della massa scistoso-cristallina delle Alpi Occidentali appartiene invece ad età ben più recenti.
Fatta eccezione ai lontani periodi dell'Algonchico e del Cambrico, che stanno alla base della serie cronologica dei terreni, nelle Alpi, prese nel loro insieme, vennero segnalati avanzi di fossili in tutti i periodi dal Silurico inferiore agli ultimi sedimenti del Quaternario.
I terreni del Paleozoico (Siluriano, Devonico, Carbonifero e Permiano) sono specialmente bene rappresentati nelle Alpi Orientali e precisamente nel Cadore, nel Trentino, nella catena Carnica, in quella delle Caravanche, nelle Alpi calcaree settentrionali, nei dintorni di Lubiana, di Graz, nel massiccio del Semmering, ecc. Le faune e le flore ricavate dai sedimenti paleozoici sono non di rado di una straordinaria ricchezza e forniscono agli studiosi il mezzo di ricostruire un quadro abbastanza completo della vita di quei lontani tempi.
Nelle Alpi Centrali scarsi avanzi di flore permiche e carboniche vennero segnalati nel Bresciano e nei dintorni di Lugano. Nelle Alpi Occidentali il Permo-Carbonico, talvolta fossilifero, è largamente rappresentato dai conglomerati psammitici, da gneiss e da scisti filladicosericitici ed arenacei della Savoia, dell'alta Valle d'Aosta, della Valle della Bormida, e da una parte dei sedimenti della lunga zona Brianzonese, comprendente la falda del Gran S. Bernardo.
L'èra mesozoica o secondaria si inizia con materiali arenaceo-argillosi per passare ben presto a terreni di natura calcarea e calcareo-marnosa. I fossili abbondano tanto nel periodo Triasico, come nel Giurassico, quanto in fine nel Cretacico, dalla penisola Istriana alle Dolomiti e alle Alpi del Salisburghese, dalle valli dell'Adige e del Piave ai monti calcarei fiancheggianti il lago di Como, da S. Gallo a Ginevra e di qui per Grenoble a Nizza, lungo l'orlo esterno delle Alpi Centrali ed Occidentali.
Nel Piemonte prendono invece largo sviluppo i calcescisti più o meno intensamente cristallini, che in gran parte rappresentano i terreni del Giurassico.
Il Cenozoico o Terziario, costituito di materiali arenaceo-argillosi e meno frequentemente di calcari, con non rare intercalazioni di tufi vulcanici, è largamente rappresentato alla base dei due versanti delle Alpi. Quest'epoca è di una ricchezza di flore e di faune veramente eccezionale. Fra i numerosissimi giacimenti vanno celebri quelli a mammiferi del Veneto e del Genovesato, quelli a pesci e rettili di Bolca, a molluschi, coralli, echinodermi, ecc. del Vicentino, del Trevigiano, del Veronese, del Friuli, del Piemonte, delle Basse Alpi, della Valle del Rodano, delle Prealpi Svizzere, della Baviera, ecc.
Il Quaternario, l'èra più recente, durante la quale l'uomo fece la sua comparsa, consta di sedimenti marini e continentali. La Valle Padana, profondo golfo dell'Adriatico, veniva via via colmata di alluvioni, mentre dalle valli alpine dei due versanti scendevano fino alla pianura grandiose correnti di ghiaccio. È l'epoca delle invasioni glaciali, che per alterne vicende meteorologiche ebbero a ripetersi secondo alcuni quattro volte, secondo altri soltanto due. L'ultima di esse lasciò, più di ogni altra, fresche testimonianze della sua esistenza e della sua estensione negli anfiteatri morenici costruiti all'estremità di ogni fiumana ghiacciata. Fra questi anfiteatri sono notevoli per evidenza di linee quello del Rodano presso Lione, quello di Rivoli presso Torino, quello di Ivrea, del Ticino, di Como, di Lecco, del lago d'iseo. del Garda, di Cogollo nella Valle dell'Astico, di Quero, di Vittorio Veneto, di Udine, di Klagenfurt, della Valle dell'Inn, ecc. Sul versante settentrionale, il contributo delle singole correnti era tale, che le fronti si fusero in un unica vastissima piastra di ghiaccio il cui orlo è segnato da un sinuoso succedersi di colline moreniche, attraversanti l'intera pianura svizzero-bavarese.
Scomparsi i ghiacciai o ritirati negli estremi recessi alpini, i torrenti ed i fiumi ripresero la loro azione erosiva, dando origine a quella successione di terrazzi fiancheggianti le valli, che divennero poi stazioni preferite dell'uomo preistorico. La fauna quaternaria meglio conosciuta è quella dei mammiferi, fra i quali si nota la presenza di elementi di climi freddi o di climi caldi, secondo che le condizioni dell'ambiente rispondevano a fasi d'invasione glaciale o a periodi interglaciali.
Completano la serie dei materiali costituenti le Alpi le numerose masse intrusive di evidente origine magmatica, ora granulari ed ora rese più o meno scistose da fenomeni che ebbero la principale causa determinante nei grandi movimenti orogenetici. Fra i diversi massicci di questo tipo ricorderemo anzitutto quelli, certamente molto antichi, dell'arco esterno delle Alpi e cioè quelli dell'Argentera, di Pelvoux, del M. Bianco e dell'Aar-S. Gottardo. Nell'arco scistoso detto pennidico, che succede immediatamente sul lato interno di quello or ora descritto, vanno ricordati il nucleo tonalitico di Valsavaranche, i gneiss ghiandoni, qua e là granitoidi, della zona pretriasica Maira-Gran Paradiso-Monte Rosa, che trova poi la sua prosecuzione orientale nella finestra dei Tauri. Ancora più interna è la serie costituita dal massiccio granitico di Savona, e dal complesso dioritico-kinzigitico Sesia e della Dent Blanche. Immediatamente successivi alla serie pennidica, verso la pianura padana, si trovano le zone di Ivrea, quella di Strona, la catena Orobica, i massicci dell'Ortles-Cevedale e dell'Otz che ad oriente trovano la loro prosecuzione geo-tettonica nei rilievi che decorrono sul versante meridionale dei Tauri fino al Bacher ed al Semmering. Tutte queste zone scistose, e specialmente quelle comprese sotto il nome di Austridi, sono letteralmente lardellate da rocce intrusive che vanno dalle pirosseniti ed anfiboliti fino ai graniti più acidi. Attraverso la piastra dolomitica del Trentino meridionaleorientale, sorge la massa granitica di Cima d'Asta, che dai più è ritenuta di età prealpina, mentre altri la riferiscono al Terziario.
Assai più recenti dei varî complessi magmatici cui abbiamo fatto cenno finora, sono i nuclei intrusivi tipicamente granulari che si trovano nella zona delle radici fra Alpi e Dinaridi, oppure che attraversano la coltre stratigrafica già dislocata. Intendiamo riferirci alle masse di Traversella-Brosso, Val Cervo, Bregaglia, Adamello, Monte Croce, Ivigna, Bressanone, Vedrette Giganti e forse quelle del lontano Bacher e delle isole intrusive della Valle dell'Avisio e del Vicentino.
A questi materiali vanno aggiunte infine le vaste e potenti colate di porfido quarzifero permiano di Bolzano, del Luganese e del Piemonte; le porfiriti coi loro tufi del Triasico superiore, le colate e i filoni basaltici terziarî dei Lessini e dei Berici, seguiti più a mezzodì dall'interessante apparato vulcanico dei Colli Euganei.
La tettonica. - Una conoscenza ancora incompleta dei varî terreni, della loro età e dei reciproci rapporti di giacitura, ha portato i vecchi geologi a vedere nella struttura delle Alpi una certa disposizione simmetrica. Alla zona mediana od assiale, costituita di scisti cristallini che si ritenevano di età molto antica, seguivano ai lati le zone paleozoiche della grovacca, poi quelle mesozoiche dei monti calcarei del lato settentrionale e del lato meridionale, qua e là interrotte o sepolte da sedimenti alluvionali, ed alla fine i terreni del Terziario inferiore seguiti da quelli della Molassa.
La concezione sulla tettonica dell'intera catena alpina non poteva rispondere quindi, nell'idea fondamentale, che a linee molto semplici e cioè ad una grande anticlinale mediana a nucleo cristallino, seguita ai lati dalle coltri stratigrafiche più recenti e più o meno ripiegate a sinclinali ed anticlinali, adagiate sui fianchi della ruga mediana.
Studiata meglio la serie delle rocce scistose, provato che molte di esse sono di età relativamente recente, anche se occupano la zona assiale della catena, constatato che in parecchie località terreni di età antica poggiano su materiali di gran lunga più recenti, e dimostrata quindi l'esistenza di grandiosi scorrimenti che si protendono per decine e decine di chilometri e che male si conciliano con le vecchie concezioni, l'interpretazione tettonica delle Alpi si impostò ben presto su altre e più vaste basi, meglio rispondenti ai risultati delle nuove e interessanti scoperte.
Quando le novelle concezioni furono annunciate la prima volta, molti geologi si dichiararono decisamente contrarî, poi vennero le conversioni; i dati di fatto andavano ogni giorno più incalzando, tanto che la nuova teoria, diventata ormai dottrina ogni giorno più salda, perchè sempre più ricca di scoperte e di riconferme, finì col trionfare completamente, segnando una delle più belle e geniali conquiste della geologia moderna.
Secondo le nuove vedute, le Alpi sono costituite da una serie di falde stratigrafiche ed ultra pieghe fra loro sovrapposte, che una poderosa spinta venuta da sud avrebbe rovesciato e fatto scorrere fino a raggiungere e ricoprire i lontani terreni terziarî della pianura svizzera. Se noi cerchiamo di svolgere ed analizzare questa grandiosa ed intricata matassa di materiali, troviamo ch'essa consta di varie coltri sovrapposte, dette falde di ricoprimento, fra loro accavallate, ma che l'erosione ha profondamente inciso svelandone la sovrapposizione.
Il tratto più avanzato della falda viene indicato col nome di fronte, mentre la zona di origine, o regione alla quale la falda va collegata per stabilirne la continuità, è detta radice. La prima di queste falde venne detta elvetica: essa è la più antica e le sue radici sono ricoperte e nascoste dalle falde che le succedono più a sud. I materiali costituenti la falda elvetica, per quanto il cammino sia stato breve, investirono direttamente e ricoprirono in parte i massicci cristallini dell'Argentera, di Pelvoux, del Monte Bianco, dell'Aar-S. Gottardo, ecc., che rappresentano i residui di una vecchia e preesistente catena montuosa ritenuta autoctona.
Alla falda elvetica succede immediatamente, sul lato interno delle Alpi, la falda pennidica, costituita da una svariata serie di materiali, dei quali la caratteristica fondamentale è data dalla presenza delle pietre verdi e dei calcescisti (schistes lustrés). Questa falda, che assume un grande sviluppo nelle Alpi Occidentali, scompare verso oriente cacciandosi sotto ad altre coltri più giovani che la ricoprono, salvo in corrispondenza dell'Engadina e delle Schieferhülle (completata dai nuclei pretriasici dei Tauri), dove la profonda erosione, distrutto e asportato il mantello che la nascondeva, torna a metterla in evidenza attraverso una finestra.
Non meno potente ed estesa è la terza falda, indicata col nome di austro-alpina, che abbraccia gran parte delle Alpi Orientali. Salvo che nei tratti delle ricordate finestre, essa ricopre i più alti elementi pennidici (Dent Blanche) e consta di svariatissimi elementi litologici, fra i quali particolarmente sviluppate le filladi quarzifere, i micascisti, le masse cristalline laminate della Silvretta, dell'Otz, della zona esterna alla finestra dei Tauri, della Stiria, i calcari saccaroidi di Laas, quelli zonati dell'Ortles, delle Telve Bianche, del Tribulaun, ecc.
Tanto le falde pennidiche, quanto le austro-alpine, nei loro tratti interni sono precedute dalle rispettive zone di radici, nelle quali la scistosità ha un andamento verticale esitante. È molto interessante e suggestivo osservare, ad esempio, nella Valle del Mallero, come la potente palizzata delle radici austro-alpine (tirolidi e grisonidi) si corichi gradualmente sul lato settentrionale e si trasformi poi in vera e propria falda che ricopre le sottostanti masse serpentinose della serie pennidica.
Notevole fra gli altri, nella zona delle radici austro-alpine, quel lungo e sottile complesso di materiali prevalentemente calcarei, che decorre da Lienz a Villacco e poi oltre nelle Caravanche, e che passa sotto il nome di Drauzug. Da esso avrebbero avuto origine le Alpi calcaree settentrionali, lungo e frastagliato rilievo dai caratteri morfologici che ricordano non di rado il paesaggio dolomitico e che si estende da Vienna fin quasi alle rive dell'alto Reno.
L'ultima parte della catena alpina è costituita dalla cosiddetta Tavola dinarica, comprendente la zona calcarea meridionale, propria delle Venezie e della Lombardia, a facies normale, cioè non metamorfosata, con substrato od infrastruttura più o meno cristallina. Il contatto fra Alpi e Dinaridi, detto confine alpino-dinarico, comincia a rendersi manifesto presso Ivrea, attraversa la regione dei laghi lombardi, il versante settentrionale delle Orobiche, la Val di Sole, passa presso Merano e segue poi verso oriente lungo le valli della Rienza e della Gail. Che le Dinaridi si siano cacciate contro le Alpi spingendole e rovesciandole, è fenomeno che si mostra con molta evidenza lungo tutta la zona di contatto, ai cui bordi, per la grandiosità delle pressioni, gli scisti filladici da un lato, ed i calcari dall'altro, sono ridotti ad una milonite che si sfascia facilmente in una specie di sabbia.
È questa, sotto alcuni aspetti, una zona di separazione e nello stesso tempo di sutura fra Alpi e Dinaridi, lungo la quale s'insinuarono qua e là delle masse magmatiche di tipo tonalitico, non sempre distribuite rigorosamente sul decorso della linea di confine, ma connesse ad esso e in ogni caso legate come causa ad effetto al movimento di traslazione per il quale i due paesi, alpino e dinarico, vennero fra loro a contatto tettonico. Qualcuno di questi nuclei tonalitici (Bregaglia) attraversò la serie pennidica ed austroalpina proprio dove s'incurva l'arco che segna il passaggio da radici a falde, ciò che dimostra come l'età dell'intrusione sia posteriore o tutto al più contemporanea al fenomeno di dislocazione che diede luogo alla formazione della falda. Altri, come l'Adamello, per la vastità delle proporzioni raggiunte hanno distrutto l'evidenza dei rapporti locali, mentre altri ancora, quali sono i nuclei di Val di Sole, di Bresimo, di Rumo, di Monte Croce, di Ivigna, ecc., sono rigorosamente allineati lungo il contatto fra le radici della falda austro-alpina e il dorso dinarico. Questo non esclude naturalmente che in area talvolta assai discosta, completamente all'infuori della zona del contatto alpino-dinarico, non si siano avute, durante la stessa fase orogenetica, delle manifestazioni intrusive, come sono quelle del Biellese, di Traversella, di Baveno, di Predazzo, e non di rado anche effusive, di età egualmente alpina, come si verifica infatti nel Trentino, nei Lessini, nei Berici e più lontano ancora nei Colli Euganei.
Ricorderemo infine che mentre le varie falde elvetiche, pennidiche ed austro-alpine, sono nella loro quasi generalità rovesciate a nord e ad ovest, le Dinaridi formano una serie di rovesciamenti a sud, che vanno interpretati come pieghe di ritorno provocate dalla compressione esercitata dalla stessa massa dinarica contro i sedimenti alpini. Non di rado, persistendo il movimento, le pieghe di ritorno delle Dinaridi si convertirono poi in piccoli scorrimenti a scaglie embriciate, specialmente dove la natura parzialmente argillosa del primitivo nucleo della piega di ritorno facilitò la traslazione della copertura calcarea, costituita di terreni di età più antica.
L'origine degli edifici montuosi si è fatta meno nebulosa ed incerta da quando gli studî sullo sviluppo delle geosinclinali dimostrarono che entro queste grandi fosse non soltanto si accumulano i sedimenti che future dislocazioni porteranno a formare nuove montagne, ma si svolgono anche tutti quei complessi fenomeni di metamorfismo e di sviluppo di centri intrusivi ed effusivi che accompagnano sempre o quasi sempre la formazione di un sistema montuoso.
La Tetide, o mare mediterraneo del Mesozoico, è la geosinclinale che fu culla delle Alpi. All'esterno, nella penisola iberica, nei Vosgi, nella Selva Nera, ecc., i residui di un antico continente ercinico (il Vorland), del quale i massicci alpini autoctoni rappresentano le propaggini più meridionali. Al sud, la tavola africana (il Ruckland), di cui le Dinaridi emerse non rappresentano che l'orlatura settentrionale. La lenta ma continua traslazione della tavola africana da sud verso nord provocò il corrugamento profondo dei sedimenti della Tetide, che spinti e rovesciati poi sui rilievi ercinici della vecchia Europa costituirono le varie falde di ricoprimento. Successivamente, nel Terziario medio, le radici delle falde alpine furono raggiunte dalle stesse Dinaridi, che si saldarono in un unico complesso orografico.
Dall'unione di queste due grandi entità tettoniche, le Alpi propriamente dette, prevalentemente cristalline e rovesciate a nord, e le Dinaridi, in gran parte calcaree rovesciate a sud, ebbe poi origine, per lenti e concomitanti movimenti di sollevamento, il meraviglioso edificio della catena alpina, campo fecondo ed inesauribile di studio e di ricerche di geologi di tutti i tempi e di tutti i paesi.
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Carte geologiche: Carta geologica d'Italia; carta d'insieme al milione; carta geologica al 400.000 e fogli al 100.000 del Piemonte e della Liguria del R. Ufficio geologico italiano, Roma; carta geologica delle Tre Venezie al 100.000 del R. Magistrato alle acque, Venezia; Geologische Karte der Schweiz; carta d'insieme e fogli in varie scale (Spezialkarten) della commissione geologica Svizzera con sede a Berna; Carte géologique de la France; Services de la Carte géolog. de la France, Parigi, carta d'insieme e fogli 1 a 80.000, specialmente i fogli delle Alpi Occidentali; Geologische Spezialkarte der Österr. Mon. e d. Republik Ösetrr. al 75.000, Vienna, specialmente i fogli delle Alpi Orientali.
F. Noe, Geologische Ubersichtskarten, Vienna 1890; Argand, Essai de carte structurale des Alpes Occidentales; Commission géologique suisse; Staub, Tektonische Karte der Alpen, in Beiträge zur geologischen Karte der Schweiz, n. 77, Lief. 52, Berna 1924; Moret, Carte Géologique de la Savoie et des régions limitrophes, Chambéry 1928.
Molte altre carte e numerosi profili fanno parte dei lavori descrittivi citati nell'elenco bibliografico.
La glaciazione quaternaria. - Durante il periodo glaciale, il sistema alpino era come una grande isola in paragone con la grande calotta nord-europea. Per quanto notevoli siano state le fasi di maggiore avanzata dei ghiacciai quaternarî alpini, i principali fra essi giunsero bensì fin presso allo sbocco delle loro valli, ma non poterono invadere il piano (o comunque la zona pedemontana) se non in dati casi e per estensioni limitatissime. Circostanza questa da tener presente quando si accenni all'azione e alle dimensioni di quei ghiacciai, che pur ebbero non di rado entro valle una larghezza di più decine di chilometri e uno spessore di oltre 1000 e financo 1600 metri.
Non vi è accordo fra gli studiosi intorno al numero e all'importanza delle espansioni glaciali alpine. Le classificazioni più note sono quelle di Penck, Brückner e du Pasquier (1894-1909), i quali credettero di poter riconoscere quattro espansioni glaciali o glaciazioni distinte (Iª o di Günz, IIª O di Mindel, IIIª o di Riss, IVª o di Wu̇rm, nomi tolti da località del bacino danubiano), press'a poco equivalenti fra loro e separate da fasi interglaciali contrassegnate da totale ritiro dei ghiacciai fino ai limiti attuali e anche meno.
Stella (1895) sostenne invece che nel versante italiano delle Alpi si aveva testimonianza di due sole glaciazioni, la seconda delle quali in doppia fase. Bayer e Schaffer (1911-1927) segnano il ritorno alle idee di Stella, affermando: 1° che la glaciazione Günziana non è mai esistita; 2°, che le altre tre glaciazioni si possono ridurre a due, e cioè la diluviale antica (Mindeliana), seguita da un vero interglaciale lungo, caldo e con ritiro totale dei ghiacciai, e la diluviale recente, svoltasi con due principali fasi di avanzata (Rissiana e Würmiana), separate da un interglaciale breve, fresco e con ritiro dei ghiacciai soltanto parziale.
Con tale classificazione il glaciale alpino sarebbe perfettamente coordinato con quello dell'Europa settentrionale, dell'America settentrionale e dei principali sistemi montuosi. All'espansione Würmiana tenne dietro, durante l'Alluvium, il ritiro progressivo dei ghiacciai, anch'esso con fasi di sosta (stadî), di cui le principali presero il nome di stadî di Bühl, di Gschnitz e di Daun.
I limiti raggiunti dai ghiacciai nelle fasi massime delle singole glaciazioni non differiscono fra loro che di poco, nel versante meridionale delle Alpi, cosicché le rispettive morene terminali si trovano per lo più l'una a ridosso all'altra nelle medesime zone (zone degli anfiteatri morenici). Le morene più antiche (e che si giudicano tali dal grado di avanzata degradazione dei materiali) occupano peraltro la parte basale più esterna degli anfiteatri, o sono addirittura al di fuori di essi e in gran parte distrutte, indicando un'estensione alquanto maggiore della glaciazione Mindeliana o diluviale antica. La differenza è molto saliente invece nel versante settentrionale delle Alpi, in relazione col maggiore sviluppo dei ghiacciai da questo lato: è quivi possibile disegnare, anche su carte a piccola scala, il limite della glaciazione antica distinto da quello delle espansioni diluviali recenti (cfr. l'unita cartina). E si calcola che il limite delle nevi fosse nel Mindeliano circa 100 m. più basso che nel Würmiano; ciò che bastava perché ad es. in Isvizzera i ghiacciai riuniti potessero in parte valicare il Giura, perché il ghiacciaio dell'Enns si potesse spingere a 40 km. più oltre che nel Würmiano.
L'area glacializzata senza discontinuità si estendeva da Klagenfurt a Lione, e dal margine della pianura padana all'altipiano bavarese, fino alla linea Monaco-Augusta; nelle Alpi Marittime arrivava fino a una trentina di chilometri dal mare. Non bisogna figurarsi quest'area come occupata da una colossale calotta di ghiaccio analoga alla Groenlandese. Limitatamente alla parte centrale del sistema, si estendeva bensì un'ampia calotta, ma dominata da elevate creste nevose, che obbligavano i ghiacciai a scorrere in determinate direzioni. Le singole correnti assai larghe costituivano una fitta rete così da offrire molti punti non solo di confluenza, ma anche di diffluenza e di transfluenza dall'uno all'altro bacino idrografico.
Il limite delle nevi perpetue correva 1200-1300 m. al di sotto dell'attuale, durante il colmo della glaciazione diluviale recente: si manteneva cioè ad un'altezza sul livello marino, variabile secondo le plaghe, dai 2000 m. (Valle d'Aosta) ai 1400 (Alpi Giulie) ai 1100 (Alpi Austriache). Nella regione centrale la calotta suaccennata aveva leggiera pendenza e culminava a circa 2500 m.; il cappuccio ghiacciato si stendeva continuo, tormentato solo dalle alte creste nevose alimentatrici, finché la sua superficie si poteva mantenere sopra il limite delle nevi. Attorno a quest'area si aveva una prima zona in cui la superficie glaciale, restando sotto il limite delle nevi, era rotta da rilievi separanti i ghiacciai vallivi, e portanti (se abbastanza elevati) piccoli ghiacciai locali; seguiva poi verso la periferia una zona percorsa soltanto dai ghiacciai vallivi, e talora (massime ad oriente) si aveva anche una zona più esterna ormai al di là delle fronti glaciali, ma elevantesi qua e là ad altezze sufficienti per originare piccoli gruppi di ghiacciai locali. Nel versante sud, le aree libere fra i singoli ghiacciai vallivi erano più estese e si addentravano di più fra valle e valle, per essere quivi più ripidi e profondi i solchi fluviali preglaciali, in cui i ghiacciai si incanalavano scorrendo più veloci e arrivando più presto al di sotto della linea delle nevi; per la stessa ragione è in questo versante che sono meglio sviluppati gli anfiteatri morenici. A nord i ghiacciai avevano bisogno per sciogliersi di una larga superficie, ed infatti la linea delle nevi tagliava ad esempio i ghiacciai dell'Inn e della Salzach al loro sbocco dalla zona montana, mentre tagliava già presso Spittal il ghiacciaio della Drava e sopra Trento quello dell'Adige.
Il ghiacciaio del Rodano, maggiore fra tutti, occupava il Vallone del Giura, la depressione del Lago di Ginevra, e si spingeva fin quasi a Lione, mentre al nord colmava la depressione del lago di Neuchâtel riunendosi al ghiacciaio dell'Aar Quest'ultimo occupava le bassure dei laghi di Brienz e di Thun, spingendosi fino a Berna; quello della Reuss, scendente dal Gottardo, invadeva le conche del Lago dei Quattro Cantoni, di Zug e di Zurigo e raggiungeva il Reno allacciandosi con quello della Linth. Il ghiacciaio del Reno veniva ad occupare la depressione del Lago di Costanza e si espandeva al di là di essa a ventaglio, per un largo raggio, fino a toccare quasi il Danubio. I ghiacciai della Lech e dell'Isar ricoprivano il posto degli attuali laghi di Ammer e di Würm, mentre quelli dell'Inn e della Salzach stendevano le loro fronti ad ampio ventaglio occupando varî bacini, fra cui il lago di Chiem. Fra Lienz e Vienna scendeva verso il Danubio il ghiacciaio dell'Enns; ad oriente arrivava fino ai colli di Judenburg quello della Mur, e, fino all'estremità orientale del bacino di Klagenfurt, il ghiacciaio della Drava.
Nel versante italiano, dal Tànaro al Chisone, nessun ghiacciaio arrivava a sboccare fuor delle valli. Dei grandi anfiteatri morenici il più occidentale è quello di Rivoli o della Dora Riparia, sdoppiato in due sistemi di cerchie e contenente i laghi di Trana e di Avigliana. Entro-vallivi furono i ghiacciai delle Valli di Lanzo e dell'Orco. Massimo fra tutti gli anfiteatri nostri è quello di Ivrea, o della Dora Baltea, esteso nel piano per 600 kmq. e racchiudente, oltre ai laghi scavati nella roccia dioritica presso Ivrea, quelli intermorenici di Candia e di Viverone. Non raggiunsero il piano, né il ghiacciaio assai grande della Val Sesia, né quello notevolissimo della Toce, che in parte transfluiva nel ghiacciaio del Ticino, in parte si stendeva nella conca del Lago d'Orta.
Assai complicati erano gli anfiteatri del Ticino e dell'Adda: quello sviluppato a sud del Lago Maggiore e nel Varesotto; questo esteso nella Brianza e reso complesso non soltanto dalle accidentalità del suolo brianteo, ma anche dalla suddivisione del ghiacciaio sdoppiantesi secondo i due rami del Lago di Como. Rami dei ghiacciai del Ticino e dell'Adda si collegavano attraverso la depressione del Lago di Lugano.
Si arrestarono entro valle (rispettivamente a Piazza Brembana e a Selva di Cusone) i ghiacciai del Brembo e del Serio. Quello della Val Camonica scendeva fin oltre la conca del Lago d'Iseo, costruendo un anfiteatro piccolo, ma caratteristico. Il più grande ghiacciaio del versante meridionale delle Alpi fu quello dell'Adige: esso scendeva a occupare la conca vastissima del Garda, costruendo il grandioso anfiteatro che la circonda a mezzodì da Garda a Salò, e la cui cerchia esterna corre per un centinaio di chilometri. A ponente un ramo transfluiva nel ghiacciaio del Chiese e con esso colmava la depressione del Lago di Idro; ad oriente un altro ramo scendeva per la Val d'Adige fino a costruire il piccolo, ma tipico anfiteatro di Rivoli Veronese, e un altro ramo ancora si collegava col ghiacciaio del Brenta, che non giungeva al piano. Il ghiacciaio del Piave si arrestava con una lingua in corrispondenza delle cerchie moreniche di Vittorio Veneto, e con il ramo principale in corrispondenza delle cerchie, pure introvallive, di Quero. Ultimo anfiteatro verso oriente, che sia costruito nel piano, è quello bellissimo del Tagliamento, racchiudente il lago intermorenico di S. Daniele e la cui arena fu già occupata da un lago ora interrato, in corrispondenza dell'attuale campo di Osoppo. Il ghiacciaio dell'Isonzo terminava molto entro valle, a S. Lucia di Tolmino.
Negli stadî di Bühl, di Gschnitz e di Daun il limite delle nevi era rispettivamente 900, 600 e 300 m. più basso di oggi. Il progressivo ritiro dei ghiacciai era accompagnato da un grandioso lavoro di incisione fluviale e di trasporto di materiale, mentre apparivano specchi lacustri che in parte si venivan colmando, e grandiosi scoscendimenti precipitavano dalle pendici ancora nude.
La vegetazione rigogliosa anche presso le fronti glaciali, almeno nel versante meridionale, riconquistava gradatamente il terreno; ma talune specie, come il Rhodondendron ponticum, erano definitivamente perdute per il sistema alpino.
Orografia.
Per altezza assoluta le Alpi presentano bensì le massime elevazioni d'Europa (M. Bianco, m. 4807), ma queste sono di quasi metà più basse delle cime massime dell'Himālaya (Everest, m. 8882) inferiori di 2000 m. a quelle delle Ande dell'America Meridionale (Aconcagua, m. 7000) e meno elevate delle cime dell'Africa orientale (Kilimangiaro, m. 5930).
La superficie coperta dal sistema alpino, entro i limiti stabiliti, è di circa kmq. 262.260, dei quali 60.650 appartengono alle Alpi Occidentali, 71.580 alle Alpi Centrali e 130.030 alle Orientali.
La media altezza delle masse alpine sarebbe, secondo il Sonklar, di m. 1300 circa. Questo enorme zoccolo s'eleva però da livelli di base assai diversi, perché è circondato da depressioni a varia altezza sul mare. Ad ovest, a sud e a est, le Alpi si innalzano sopra i bassopiani del Rodano, padano e pannonico, mentre a nord sorgono sull'alta pianura germanica; quindi le masse montuose appaiono meno imponenti viste dal lato esterno che da quello interno. La media altezza dell'altipiano settentrionale si aggira fra i 500 e 600 m. s. m., mentre sul lato esterno occidentale il solco del Rodano sale sul livello del nare a 200 metri e la pianura pannonica si aggira attorno ai 175 m. La grande pianura padana invece ha una generale pendenza verso oriente, e dall'altipiano piemontese, dove la falda pedemontana si trova a 534 m. a Cuneo, scende a m. 75 a Gorizia.
L'elevazione della massa montuosa è soprattutto in rapporto con la natura geognostica dei varî terreni. Dove il corrugamento ha portato a grandi altezze i terreni sedimentarî della falda superiore, ha permesso un più accentuato logorio degli stessi per gli agenti esterni, che hanno messo a nudo i terreni cristallini sottoposti più tenaci (falda pennidica e massicci ercinici), cosicché le Alpi Occidentali e Centrali hanno massicci più elevati che non le Orientali, mentre le radici delle falde strappate nel ripiegamento hanno formato la zona alpina esterna più depressa, insieme alle pieghe superficiali autoctone delle Prealpi. L'erosione infatti, secondo il Heim, sarebbe stata da 5 a 6000 m. nelle pieghe occidentali, dove sono quasi scomparśi i terreni sedimentarî, da 1000 a 3000 nelle Alpi Centrali e Orientali, per quanto il loro sollevamento sia più antico, dove i calcari delle falde austroalpine sono ancora in posto, finalmente da 500 a 1000 m. sulle zone prealpine esterne, e sulle falde interne delle Dinaridi, già più depresse tettonicamente.
Superiori ai 4500 m. s. m. non si hanno che 11 cime in tutto il grande arco alpino, delle quali tre nel gruppo del M. Bianco, che ha le vette più alte di tutto il sistema, 6 nel gruppo del M. Rosa, e 2 in quello del Mischabel (Alpi Pennine). Anche le brevi aree superiori ai 4000 m. sono raggruppate nell'angolo NO. della cerchia alpina ed appartengono ai gruppi del M. Bianco, delle Alpi Graie, delle Alpi Pennine e delle Alpi Bernesi; nel resto del sistema soltanto il Bernina, nelle Alpi Retiche, raggiunge i 4050 m. s. m. Le aree invece fra i 3000 e i 4000 m. sono molto più estese in tutta la zona mediana alpina a rocce cristalline, dalle Alpi Cozie fino agli Alti Tauri, mentre poi le superficie più vaste si hanno fra i 2000 e 3000 m., nella zona mediana alpina e sulle Alpi Orientali, e anche in quella esterna ed interna periferiche, non rimanendo al di sotto di 2000 m. che la zona calcarea e un breve orlo nella fascia calcarea delle Prealpi Austriache e Venete.
Nel complesso quindi, la massa alpina si presenta come un enorme fascio di catene disteso ad arco, a linee di creste salienti dall'esterno verso la concavità interna, le cui cime degradano però da ovest ad est, con fianchi più precipiti a sud.
Le cime montuose sulla media altezza di cresta sono tanto meno elevate quanto più alta è la massa montana, e quanto più predominano le rocce cristalline (nelle Alpi Occidentali e Centrali si hanno rapporti che vanno da 1 : 14 a 1 : 11). Di qui l'aspetto più ardito che assumono invece le cime delle Alpi Orientali, prevalentemente calcaree e più depresse, con rapporti che stanno fra 1 : 5,3 e 1 : 4,6.
Morfogenia. - La teoria, ormai accettata, delle "falde di ricoprimento" per la spiegazione della tettonica alpina ha portato una profonda rivoluzione anche nel campo della interpretazione della sua morfologia.
Mentre infatti si riteneva che le grandi valli longitudinali e trasversali alpine fossero fin dall'origine stabilite lungo linee di demarcazione litologica e tettonica, oggi si riconosce che nella maggior parte delle Alpi non si trova corrispondenza fra orografia e struttura geologica, giacché i ripiegamenti complessi delle grandiose falde di ricoprimento sarebbero avvenuti a profondità di più migliaia di metri, sotto una massa di strati oggi completamente asportata dall'erosione, che in superficie aveva pieghe assai più semplici che in profondità.
Se quindi, in origine, la posizione delle grandi vallate doveva in realtà essere stata determinata da condizioni tettoniche simili a quelle che oggi riscontriamo nelle Prealpi o nel Giura, attualmente di tale struttura superficiale più nulla rimane e i maggiori corsi d'acqua attraversano terreni di natura e tettonica differentissime. I più importanti di essi, a forte portata e potente erosione, hanno mantenuto però la loro posizione primitiva, anche se, man mano che erano asportati gli strati superficiali, venivano ad incontrare le pieghe di profondità coi loro complessi contorcimenti e varietà litologiche di struttura (valli sovraimposte). Essi quindi incidendo gole ristrette o valli strozzate, a seconda della tenacità degli strati incontrati nell'erosione in profondità, isolarono gruppi orografici dei quali si può dire che poco ormai hanno a che vedere con la struttura geologica.
Gli affluenti secondarî invece, per la loro minor forza erosiva, non potendo fare altrettanto, furono dominati da quelli di loro che scorrevano su rocce meno resistenti e che ebbero la prevalenza, adattando il dettaglio della morfologia alpina alla sua struttura geologica. Così, mentre la parte alta di tutte le valli alpine (Moriana, Tarantasia, Vallese, Reno posteriore, Engadina, Pinzgau, Val d'Aosta, Valtellina, Val Venosta, Pusteria, ecc.) hanno percorsi che nulla oggi hanno più a che vedere coll'andamento delle pieghe alpine - tagliando indifferentemente creste di anticlinali e nuclei di sinclinali, tenaci graniti e marne tenere, strati orizzontali ed inclinati, - i loro affluenti invece, seguendo l'andamento delle pieghe, si adattano assai bene alla natura del suolo, che si manifesta nel dettaglio morfologico.
Ne deriva che la morfologia attuale è tanto meno rispondente alle condizioni tettoniche oggi visibili, quanto essa è più antica, e più grande lo spessore degli strati asportati.
La corrispondenza fra forme e natura del suolo è quindi minima nei massicci centrali delle Alpi mediane e alquanto maggiore nelle fasce laterali, dove la rete valliva e l'orientazione della cresta montuosa risponde, in massima, all'andamento generale della tettonica.
Ritenendosi oggi che la massima attività di corrugamento alpino corrisponda alla metà del Terziario, fin da questo periodo l'azione erosiva dei corsi d'acqua dovette agire sul rilievo, specie sul lato orientale, prima corrugato, contrastando con l'erosione lo sforzo di sollevamento orogenetico; cosicché già alla fine del Miocene, sulle Alpi Orientali, o al principio del Pliocene, su quelle Occidentali, il sistema alpino doveva essere ormai ridotto ad uno stadio di maturità morfologica, con superficie spianate. Questa ipotesi è confermata dal fatto che le creste alpine anche più ardite si allivellano quasi tutte pressoché ad una media altezza, varia nelle diverse parti del sistema ("legge delle vette"), e che, viste dall'alto, le sommità montuose si mostrano quasi come avanzo di un ampio pianoro profondamente inciso dalle valli attuali. Inoltre nella zona prealpina e sulle alte pianure pedemontane si hanno enormi depositi di ciottoli a strati inclinati, che ricoprono spesso depositi pliocenici, e che si ricollegano a una idrografia precedente all'attuale, la quale appunto aveva spianato il rilievo interno delle catene.
Ma nel Pliocene si ebbe un ringiovanimento di tutto il sistema idrografico, dovuto ad un nuovo sollevamento della massa alpina, che diede luogo all'erosione delle valli attuali, che incidono l'antico penepiano come dei profondi fossati, dando oggi l'impressione di due mondi morfologici ben distinti, quello più antico delle zone di altezza e quello attuale delle depressioni vallive. A questo nuovo sollevamento corrisponde sia un salto nel profilo del corso interno di molte valli alpine, che dà luogo a dei ripiani in roccia, resti di antichi fondi di valli plioceniche, sia un visibile spostamento dell'inclinazione originaria degli antichi ed enormi depositi fluviali intravallivi e di quelli di sbocco periferici, i quali ultimi si mostrano sopraelevati sulle pianure attuali, di circa 500 m. nelle Alpi del Varo sul Mar Ligure, di oltre 800 nell'Hausruck nell'Austria superiore, e di più di 300 sul Montello, nella pianura veneta.
Con questo ringiovanimento del rilievo è coinciso pure un cambiamento del clima, che ha abbassato il limite delle nevi perpetue di circa 1500 m. sotto il limite attuale, riempiendo alla fine del Pliocene tutte le valli di enormi fiumi di ghiaccio, che hanno straripato sulle pianure subalpine (Epoca glaciale quaternaria). All'attività di queste glaciazioni si devono le forme contrastate caratteristi- che della morfologia alpina, a confronto delle forme molli, dominanti nei sistemi montuosi che non furono soggetti a glaciazioni recenti. È all'attività di questa glaciazione quaternaria, la quale si è sovrapposta al ringiovanimento vallivo pliocenico, che si devono i tratti salienti dell'attuale morfologia alpina, con tutti i suoi caratteri grandiosi e pittoreschi, con le grandi vallate sopraescavate, coi larghi ripiani interni e i depressi valichi, per cui si risentono, nell'interno delle masse alpine, le influenze esterne climatiche, botaniche ed antropiche, che hanno permeato dalla periferia tutto questo mondo montano.
Caratteri dell'orografia. - I tratti salienti dell'odierna orografia sono dati, come dicemmo, dall'antica idrografia sovraimposta al rilievo attuale, e risultano soprattutto da due serie di valli interne longitudinali, indipendenti tra loro, ma che comunicano alle loro testate, attraverso selle assai depresse, aperte largamente dai ghiacciai quaternarî anastomizzati fra loro.
Tale allineamento di solchi vallivi si presenta sempre più netto verso oriente e nelle zone periferiche prealpine, per la maggiore corrispondenza che si nota qui fra andamento longitudinale dei fasci di pieghe ed orografia. Nelle Alpi Orientali, questi grandi corridoi vallivi si aprono a ventaglio sulla pianura pannonica, massimamente fra l'arco di corrugamento dinarico e le pieghe alpine ad andamento rettilineo, che divengono tangenti fra loro nel cuore delle Alpi Venete.
Due sono specialmente questi maggiori allineamenti vallivi - percorsi oggi da tratti di fiumi diversi, che sboccano al piano attraverso a "chiuse" normali all'andamento delle catene - suddivisi in distinte conche vallive designate talora da nomi regionali.
Un primo allineamento è esterno, ed è dato dai tronchi mediani dei fiumi Varo, Verdon, Durance, Drac (Devoluy), Isère (Graisivaudan), Arly, Rodano (Vallese), Reno Anteriore, Ill (Vorarlberg), Inn, Salzach (Pinzgau), Enns, Mur. L'altro è interno e mancante nelle Alpi Occidentali, dove è assente la fascia prealpina; esso s'inizia coi tratti medî dell'Adda (Valtellina), del Noce (Val di Sole), dell'Isarco, per proseguire poi con la Rienza e la Drava (Pusteria) fino alla pianura ungherese.
Queste due serie di corridoi vallivi convergono nel cuore delle Alpi Centrali, verso il Gottardo, che è uno dei nodi idrografici principali delle Alpi (fiumi: Reuss, Reno anteriore, Ticino, Rodano); mentre divergono di quasi 200 km. sulla pianura pannonica, separando le due fasce esterne alpine da quella propriamente interna.
La zona esterna è data da masse arenaceo-marnose e calcaree ristrette, separate in blocchi o catene allineate, e tagliate da brevi valli trasversali parallele fra loro, che raggiungono il solco vallivo longitudinale, il quale è posto così in diretta comunicazione con l'alta pianura periferica. La zona interna, per essere il solco vallivo longitudinale più addentrato nella massa montuosa e per la natura geologica delle pieghe delle Dinaridi, ha invece una rete fluviale più estesa, complessa e divergente da nodi idrografici, che l'ha smembrata in massicci isolati, separati da valichi elevati e lontani dal solco longitudinale, per cui i rapporti con la sottostante pianura sono più difficili.
La zona intermedia delle Alpi mediane, dove s'innalza il maggior rilievo e corre la linea spartiacque elevata oltre i 3500 m., ha un'antica idrografia conseguente sovraimposta, che intaglia profondamente in più punti la zona spartiacque, con passi transitabili assai numerosi, che mettono in comunicazione i due versanti, specie su quello interno delle Alpi occidentali, da dove si scende direttamente sulla pianura padana, mentre verso oriente i valichi, sebbene più depressi ed ampî, si fanno più radi.
Caratteri della morfologia. - Il dettaglio della morfologia dipende invece molto più dalla natura litologica delle varie rocce che costituiscono l'edificio complesso delle Alpi.
L'estensione delle rocce cristalline nella zona mediana costituisce anche il carattere saliente dei grandi colossi delle Alpi Occidentali e Centrali. Gneiss e graniti con le loro diaclasi e piani di scistosità contribuiscono a dare agli alti versanti la loro fisonomia a creste frastagliate e cime ardite, mentre la decomposizione a scaglie parallele e la tenacità della roccia conserva all'intero massiccio le forme imponenti a groppe ampie ed estese; cloritoscisti e scisti seritici meno metamorfosati e più teneri, specie nelle Alpi Occidentali, dove sono assai estesi, contribuiscono a un addolcimento dei versanti con estese falde di detrito; mentre gli scisti, poco sviluppati, del Carbonico, così nelle Alpi Centrali esterne come in Carnia, dànno generalmente dei pendii regolari e creste unite. Di carattere tutto diverso sono invece le colate porfiriche della Val d'Adige, attorno a Bolzano, dovute ad un'estesa attività eruttiva effettuatasi alla fine dell'èra primaria, per cui si estendono a formare elevati altipiani, che mantengono la loro originaria orizzontalità e le pareti verticali proprie della tenacità e improvvisa consolidazione di queste rocce vulcaniche.
Ma la maggior parte dei materiali caratteristici delle Alpi Orientali e delle fasce esterna ed interna dell'arco alpino, è formata di rocce stratificate, depositate durante l'èra secondaria.
Tutti i tipi di calcari vi sono rappresentati, da quelli compatti e ceroidi, che dànno groppe rilevate ed unite, come nelle Prealpi Venete, a quelli finemente stratificati e scistosi che si frantumano in un'abbondante massa detritica, che affoga le cime montuose, come in alcune zone delle Prealpi calcaree francesi, a quelli dolomitici, ad enormi acrocori e potenti strati suborizzontali, poggianti su marne ed argille tenere, come nelle Alpi Dolomitiche, le quali per la friabilità della loro base crollano costantemente mantenendo verticali i loro torrioni e le loro piramidi ardite, fino a quelli marnosi e arenacei delle Alpi esterne centrali, che si plasmano in forme più molli ed unite.
Estesi pure sono i depositi detritici dell'èra terziaria nelle fasce esterne delle Alpi Centrali ed Orientali, che hanno ricevuto il nome complessivo di flysch, i cui strati sottili arenacei, alternati con marne, dànno luogo generalmente a forme molli, collinari, a meno che l'azione glaciale non ne abbia contrastato il rilievo, mentre dove predominano i depositi detritici più grossolani e recenti della molassa miocenica coi conglomerati o i banchi d'arenaria, si hanno cime ardite e pareti ripide, come in più punti delle Prealpi Svizzere.
Ma abbiamo detto che soprattutto al modellamento glaciale quaternario si devono le forme più caratteristiche delle nostre Alpi, in opposizione a quelle di gruppi montuosi che non subirono questa azione. I ghiacciai quaternarî, nella loro massima espansione, avevano una potenza che superava i 1000 m. entro le valli maggiori, scendendo dal cuore delle Alpi fino ben addentro nelle pianure subalpine, dove hanno accumulato enormi depositi detritici (morene e alluvioni fluvio-glaciali). Il ghiacciaio del Rodano si espandeva fino al pianoro delle Dombes a nord di Lione, quello dell'Aar copriva tutto l'altipiano Svizzero, e superava la catena del Giura; il ghiacciaio del Reno occupava tutta l'alta pianura fin sui pianori del Giura Svevo, oltre il Danubio. Nelle Alpi Orientali, dove i ghiacciai erano meno estesi per la minore elevazione della massa montuosa, quelli dell'Inn, della Salzach e dell'Enns coprivano tuttavia gran parte dell'altipiano austriaco fino ai piedi della Selva Boema. E se nelle valli orientali della Mur, della Drava e della Sava le fronti dei rispettivi ghiacciai rimanevano entro le loro lunghe vallate, tutta l'alta pianura padana era ornata invece di colli morenici e colmata di depositi fluvioglaciali.
Ma le forme lasciate dall'erosione glaciale e la situazione e tipo dei depositi morenici abbandonati ci illuminano sui caratteri della glaciazione quaternaria; che ebbe delle variazioni notevolissime, così da potersi distinguere vari periodi glaciali, ad ampia escavazione intravalliva e a prevalente fase di accumulazione nella zona subalpina, nonché periodi interglaciali a fase di erosione torrentizia entro la zona alpina e a incisione dei depositi precedenti pedemontani. E se oggi l'attività glaciale è ridottissima, i ghiacciai vallivi limitandosi soltanto alle parti superiori dei maggiori massicci sulle Alpi Occidentali e Centrali, evidenti sono però dovunque le tracce della glaciazione quaternaria.
Nella zona di vetta alpina - al di sopra di una certa altezza, che va elevandosi da valle a monte fino al limite delle nevi perpetue - pur nelle sue varietà a creste ardite, a picchi aguzzi, a massicci tabulari, predomina una forma elementare e caratteristica, detta di circo nei paesi latini (Kar nei paesi germanici, zanoga in quelli slavi). Si tratta di una nicchia ad anfiteatro, chiusa all'ingiro da pareti ripide e che si apre a salto verso la valle, con fondo pianeggiante o a conca, che spesso racchiude un laghetto (lago di circo), e sbarrato da una soglia rocciosa donde il torrente scende a cascata. Ancor oggi si vede il circo occupato da piccoli ghiacciai - talora sospesi sopra la soglia del circo stesso - oppure coperto dal nevaio, e ciò ci spiega la genesi di questa forma. Il ghiacciaio attuale o quello scomparso, che occupava questa nicchia della montagna, ne ha scavato il fondo e scalzato le pareti soprastanti, lasciando intatta la soglia dalla quale esso precipitava a valle, mentre le pareti superiori, scoperte dalla neve e dal ghiaccio, subivano l'attacco del gelo, che spezzava le rocce e faceva crollare le creste. Se più circhi si affiancano tra loro e si estendono lateralmente, non lasciano sussistere che una piramide a pareti concave, come quella del Cervino, del Monviso e di alcune cime del M. Bianco.
Ma tracce sempre maggiori dell'attività glaciale quaternaria sì manifestano con lo scendere da monte a valle, dove più potenti divenivano i ghiacciai vallivi e più notevole la loro azione abrasiva sulla ringiovanita morfologia pliocenica, anch'essa sempre più sviluppata verso il livello di base inferiore. Quindi, alla testata delle valli che immettono ai grandi valichi alpini, attraverso ai quali si anastomizzavano i ghiacciai quaternarî, l'azione glaciale meno intensa ha lasciato spesso sussistere le tracce della forma originaria, non raggiunta ancora dal ringiovanimento pliocenico, notandosi qui piani in contropendenza, residui di una diversa linea di spartiacque fra i versanti, ed ampî e uniformi corridoi di valico, dovuti al primitivo spianamento, appena modellati dall'azione glaciale che ne ha lisciato i fianchi e scavato nel fondo piccole conche lacustri (Cenisio, Gottardo, Maloggia, Brennero, ecc.).
Più in basso le valli secondarie hanno sezione largamente aperta, fondo pianeggiante e ripidi versanti, con terrazzo orografico che ne accompagna l'orlo superiore, spesso intagliato dai torrenti laterali che precipitano a cascata (profilo ad U) e che rappresenta il fondo della vecchia valle pliocenica, sovraescavato dal ghiacciaio quaternario.
Anche il profilo longitudinale di tali vallate - a fondo irregolare, e gradinata di successivi bacini ampiamente aperti e separati da forre strette e precipiti, intagliate entro barre rocciose che attraversano la valle - si deve all'azione glaciale, che ha modellato una valle ringiovanita e non ancora sistemata, allargandone le conche nei tratti pianeggianti e solamente lisciando le barre rocciose nei salti in roccia, per la minore adesione che qui aveva il ghiaccio sul fondo; barre che dovevano essere poi incise dall'azione torrentizia post-glaciale.
Il carattere più importante di queste valli secondarie sta nello sbocco loro, sospeso al di sopra delle valli principali, nelle quali il torrente scende a cascata o incidendo strette forre. Tale anomalia, rispetto alla rete valliva normale, è dovuta ad un ritardo nell'escavazione delle valli confluenti più alte, in confronto a quella delle valli influenti inferiori, dovuta all'azione più intensa della maggiore massa glaciale nella valle principale, di fronte alla minore massa di quelle secondarie, che hanno più conservato l'antica morfologia pliocenica dei corsi d'acqua minori..
I tronchi inferiori, infine, delle grandi vallate hanno caratteri assai più complessi, perché qui il ringiovanimento pliocenico era più avanzato, maggiore la massa glaciale abradente, e nettamente sensibile il periodico avanzamento e ritiro di questa, nei varî stadi glaciali ed interglaciali; ciò ha lasciato molto nette tracce di cornici e terrazzi sui fianchi vallivi in serie sovrapposte di livelli (ital. piani; fr. replats; ted. Ebenen), che hanno grande valore nell'economia agricola e pastorale alpina e sulla distribuzione delle dimore. Per queste stesse ragioni, le grandi vallate periferiche sono profondamente scavate, a profilo longitudinale più regolare, con conche largamente aperte alla confluenza di valli secondarie, fondo molto ampio che tende sempre più ad aprirsi verso valle, tanto che alcuni tratti delle vallate del Rodano, del Reno, dell'Inn, dell'Adda, dell'Adige e della Drava sono delle vere pianure allungate entro la massa montuosa.
Ma, per la precoce scomparsa in esse delle più estese e antiche digitazioni glaciali quaternarie, furono sottoposte a una più diuturna azione delle acque correnti postglaciali e dei fenomeni meteorici, che ne hanno attenuato il caratteristico profilo ad U, con frane, detriti di falde, conoidi di affluenti e soprattutto estesi depositi alluvionali, che hanno colmato e livellato il fondo, mentre molte di esse terminano oggi in bacini lacustri molto profondi, nella zona valliva prealpina, dovuti alla sovrescavazione della fronte glaciale, che li ha approfonditi talora sotto il livello del mare. Si ha così quella serie di grandi laghi subalpini intravallivi, che si stendono soprattutto sui due versanti delle Alpi Centrali, e costituiscono uno dei caratteri precipui di questo paesaggio prealpino.
Il sollevamento pliocenico e la seguente glaciazione quaternaria hanno dato dunque, non solo le forme pittoresche e varie del paesaggio delle Alpi, ma hanno aperto largamente le vie alle influenze esterne climatiche, biologiche ed umane, fin dentro al cuore della massa montuosa.
Ghiacciai attuali. - Sebbene oggi i ghiacciai alpini non siano che un ultimo avanzo della grande glaciazione quaternaria, tuttavia essi rappresentano la maggiore manifestazione glaciale che si abbia in Europa, se si esclude la grande glaciazione subartica della penisola scandinava.
Nell'elevata zona mediana delle Alpi, i ghiacciai sono ancora oggi l'elemento essenziale del paesaggio, essendo la loro superficie di 3800 kmq.; dei quali ben 1800 in territorio svizzero, dove essi occupano il 20% dell'area, nelle Alpi Bernesi, e fino al 40%, nel massiccio della Jungfrau, mentre diminuiscono al 10% nei Tauri, nelle Alpi Orientali, e si limitano solo a piccoli ghiacciai e macchie di neve nelle fasce periferiche alpine, dove corrispondono appena al 0,9% dell'area montana.
I ghiacciai, colla loro diversa estensione, che va diminuendo col diminuire della massa montuosa verso oriente, servono a determinare il limite medio delle nevi permanenti, al di sopra del quale cioè le precipitazioni nevose invernali non sono completamente disciolte durante l'estate; limite che dipende quindi da un rapporto tra la quantità media di neve caduta e la temperatura media annua. Tale limite è però variabile negli stessi gruppi montuosi, e il suo andamento è reso irregolare dalle diverse caratteristiche geografiche dei singoli gruppi: morfologia e natura della roccia, esposizione dei versanti, durata delle ore d'insolazione, medie precipitazioni nelle varie zone climatiche e via di seguito.
Si comprende perciò facilmente come la linea che lo rappresenta sia molto irregolare e come sia di scarso valore la cifra media di m. 2800 s. m., data da alcuni autori, per il limite delle nevi permanenti su tutte le Alpi.
I singoli dati del limite climatico delle nevi perpetue si potrebbero raggruppare piuttosto come segue:
Questi dati darebbero una media altezza da 24.00 a 2500 m. nella zona esterna delle Alpi settentrionali, attorno a 3000 m. nei massicci maggiori delle Alpi mediane, e da 2600 a 2800 nella zona meridionale alpina. Ciò conferma che il limite altimetrico delle nevi sale coll'addentrarsi nella massa montuosa, ed è per questo più alto nelle zone asciutte delle Alpi mediane occidentali e centrali, che nelle zone periferiche a precipitazioni più abbondanti.
Se si tolgono i nevai, accumoli di neve che per particolari ragioni di riparo non si sciolgono sempre durante l'estate, i ghiacciai propriamente detti nelle Alpi appartengono quasi tutti al tipo cosiddetto alpino, con circo nevoso d'alimento e limitate lingue di ghiaccio, mentre sono rari i ghiacciai di pianoro che coprono cime gelate (es. M. Bianco nelle Alpi Occidentali, Marmolada in quelle Orientali). I maggiori sono ghiacciai vallivi o di prim' ordine, che da una vasta zona di rifornimento e, spesso anastomizzati fra loro, scendono con la loro lingua di ghiaccio assai lunga - rotta da crepacci e serracchi, ad ogni variazione brusca del profilo del fondo - fino a portare la loro fronte al di sotto del limite delle nevi eterne, entro le zone boschive ed anche abitate, dove depositano ampie ed arcuate morene frontali.
Più piccoli, ma molto più numerosi, sono quelli di second' ordine o vedrette, che racchiusi entro gli alti circhi verso le cime, mancano di una lingua di ablazione ben determinata e stanno completamente entro la zona delle nevi perpetue, distribuendo a ventaglio i loro depositi morenici sulla soglia del circo o sul ripido versante sotsostante.
Da quanto abbiamo detto si comprende che i ghiacciai vallivi o di prim'ordine predominano in tutta la zona mediana elevata delle Alpi Occidentali (Alpi del Delfinato, Alpi Graie, soprattutto nel gruppo del M. Bianco), in quella delle Centrali (Alpi Pennine, Lepontine e Bernesi), mentre sono scarsi nelle Alpi Marittime e Cozie, sottoposte al clima mediterraneo, per riprendere nelle Retiche e negli Alti Tauri della zona mediana delle Alpi Orientali.
I più importanti ghiacciai delle Alpi sono:
Nella fascia alpina periferica sono invece diffusi i ghiacciai di circo, specie nelle Alpi Lombarde, Dolomitiche e Venete, essendo qui il limite delle nevi più alto che sul versante esterno alpino.
Quanto al numero dei ghiacciai alpini esso è assai vario a seconda dei singoli autori, specie per quanto riguarda quelli di second'ordine, che spesso si scambiano per semplici nevai o rimangono ignorati. Il Heim ne dava 249 di prim'ordine, dei quali 138 in Svizzera, 25 in Francia, 71 in Austria e 15 in Italia, e 906 di second'ordine, dei quali 391 nel vecchio territorio della monarchia austroungarica, 333 in Svizzera, 119 in Francia e 63 entro il vecchio confine italiano. Complessivamente 1155 ghiacciai. Certo il loro numero è riconosciuto oggi essere molto maggiore, soprattutto per quelli di second'ordine, che predominano nelle Alpi Orientali. Una recente statistica (1925) di tutti i ghiacciai del versante padano, ne enumera complessivamente 773, dei quali 170 nelle Alpi Occidentali, 514 in quelle Centrali e 263 in quelle Orientali. La maggiore regione a ghiacciai di tutte le Alpi, è però la Svizzera, che ne comprenderebbe 471, quasi tutti di prim'ordine (superficie kmq. 1839).
Nelle Alpi Bernesi il solo Gruppo del Finsteraarhorn ne racchiude oltre 100, con un'area di 460 kmq. che coprono ⅓ del gruppo, e di questi 10 sono di valle, fra i maggiori delle Alpi: come il Gh. dell'Aletsch, il Gh. dell'Unteraar e quello del Fiescher. Segue per importanza glaciologica il gruppo del M. Bianco, con 40 ghiacciai di circo e 20 di prim'ordine, fra i quali la Mer de Glace.
Anche le Alpi del Delfinato contengono 10 ghiacciai di primo ordine, attorno ai gruppi del Pelvoux e Grandes Rousses, ma sono largamente superati dalle Alpi Pennine che ne hanno 15 vallivi e 120 di circo, il maggiore dei quali è il Gh. del Gorner, sul versante settentrionale del Gruppo del M. Rosa.
Nelle Alpi Retiche il più grande centro di glaciazione è il Gruppo dell'Ötz, con 220 ghiacciai, dei quali 20 di 300 kmq. di superficie (14,9% dell'area), i maggiori dei quali sono quelli del Gepatsch e del Gürgler, sul versante settentrionale. Nuclei di grandi ghiacciai sono pure nei gruppi del Bernina e Silvretta, specialmente il Gh. di Morteratsch e quello del Roseg col 12,2% dell'area ghiacciata nonché quelli dell'Ortles in numero di 94 (kmq. 191) e dell'Adamello (n. 55, kmq. 99), che coprono il 9,5% dell'area montuosa. Nelle Alpi Orientali i ghiacciai sono molto minori, ma predominano quelli di circo; il maggiore ghiacciaio vallivo è il Pasterze, il più lungo delle Alpi Orientali, nel gruppo del Gross-Glockner, il quale ultimo è gelato per il 17,1% della sua area. Più ad oriente, così nelle Alpi esterne Orientali come nelle Dolomiti e nelle Alpi Venete, non si hanno che ghiacciai di second'ordine, che coprono appena l'1,1% dell'area (Vedretta della Marmolada, kmq. 3,3), dei quali solo due superano 1 kmq. di superficie.
Variazioni storiche dei ghiacciai alpini. - Sulle variazioni dei ghiacciai alpini nell'epoca storica, si hanno dati sicuri solo per gli ultimi secoli. Per via indiretta - e cioè in base a fenomeni geologici, floristici, paletnologici, ecc., che con le fasi glaciali procedono, più o meno in concomitanza - si crede da taluno poter riscontrare alla fine del Paleolitico un'importante fase di accrescimento, ed un'altra più tardi, nel bel mezzo del primo millennio a. Cristo.
Per i tempi più vicini a noi, si hanno tracce di variazioni plurisecolari, cui se ne sovrappongono altre di minore durata, circa tre per secolo. Si tratta naturalmente di variazioni di molto minore portata, rispetto a quelle preistoriche sopra citate.
Sappiamo che in certi periodi dal Medioevo, e probabilmente anche nel Rinascimento, i ghiacciai alpini hanno avuto un'estensione notevolmente minore dell'attuale, permettendo così l'insediamento umano più in alto che oggi non sia, e un'attivo scambio attraverso valichi alpini ora ghiacciati e quasi inaccessibili. Negli ultimi secoli si sono invece succedute fasi di grande sviluppo, coi massimi intorno agli anni 1602, 1643, poi 1818, 1852. In Savoia quelle del sec. XVII, quasi ovunque altrove quelle del XIX, sembrano essere state le maggiori espansioni dei tempi storici.
L'avanzata delle lingue ghiacciate ha portato in più casi alla distruzione di boschi e anche di casolari alpini, altrove allo sbarramento di corsi d'acqua e formazione di laghi temporanei, famosi per le catastrofi prodotte al loro improvviso discarico (Ghiacciaio del Vernagt in Tirolo, ecc.). Appunto la memoria conservata di tali fenomeni periodici, è una delle fonti più sicure per ricostruire le singole fasi di avanzata e di regresso, almeno degli ultimi tre secoli, fasi che rientrano sensibilmente nei periodi climatici trentacinquennali di Brückner. Per un certo numero di ghiacciai maggiori le epoche di avanzamento sarebbero state: 1595-1610, 1631-36, 1677-81, 1710-16, 1736-48, 1760-83, 1811-22, 1840-55.
Delle due prime fasi del secolo XIX, in generale fu più importante la prima, ma nelle Alpi Orientali pare sia avvenuto il contrario, o si è avuto un progresso eguale, così intorno al 1820 come tra il 1850 e il'60. È notevole anche che, da ovest verso est, si è verificato un ritardo di alcuni anni nell'inizio e nel termine delle oscillazioni.
La fase di piena dell'ultimo decennio del sec. XIX colpì solo una parte (poco più di un terzo) dei ghiacciai alpini. Cosicché il maggior numero di essi si trovava ancora, al principio del sec. XX (taluni ancora in questi ultimi anni), in costante ritiro dal 1850-60, se non addirittura dal 1820. Il ritiro si è fatto di nuovo generale dal 1900 al 1910. In questo ultimo anno molti piccoli ghiacciai presero a progredire, successivamente anche parecchi dei maggiori. La fase di accrescimento (più sensibile nelle Alpi Occidentali, che nelle Orientali) fu quasi generale e contemporanea in tutte le Alpi, però di portata limitata. Essa andò estinguendosi intorno al 1920-22. Ora l'80-90% dei ghiacciai è di nuovo in fase regressiva molto accentuata.
Se si confronta lo stato attuale dei ghiacciai con quello del secolo scorso, l'entità del ritiro complessivo (continuo o interrotto dai brevi progressi ora menzionati) risulta di parecchie centinaia di metri, perfino di qualche km. alle fronti dei ghiacciai maggiori. Complessivamente nelle Alpi, l'area ghiacciata si può ritenere ridotta del 30-40% e numerosi piccoli ghiacciai sono scomparsi.
Nel decorso secolo andò via via aumentando il numero dei ghiacciai sottoposti a controlli metodici e rigorosi. Una commissione internazionale (Commission internationale pour l'étude de la variation des glaciers) curò dal 1895 al 1913 la compilazione di speciali rapporti riassuntivi, che vennero pubblicati nell'Annuario del Club Alpino Svizzero e negli Annali di Glaciologia (Zeitschrift für Gletscherkunde, Lipsia).
Durante e dopo la guerra i singoli comitati nazionali, fra cui quello italiano, continuarono le ricerche per conto proprio.
Bibl.: E. Richter, Geschichte der Schwankungen der Alpengletscher, in Zeitscrift d. Deutsch. u. österr. Alpenvereins, 1891; H. Hess, Die Gletscher, Brunswick 1904; P. Mougin, Études glaciologiques en Savoie, Parigi 1905; U. Monterin, Le variazioni periodiche dei ghiacciai italiani, in Boll. del Comitato glaciologico italiano, Torino 1915 seg.; H. Gams e R. Nordhagen, Postglaziale Klimaänderungen und Krustenbewegungen in Mitteleuropa, Monaco 1923.
Idrografia.
I fiumi. - L'acqua ha una grande importanza in tutto il paesaggio e l'economia alpina. L'essere questo sistema montuoso il più elevato d'Europa e al limite fra due zone climatiche diverse quella del Mediterraneo e quella dell'Europa Centrale, spiega cosi l'abbondanza delle precipitazioni, come il diverso regime dei varî corsi d'acqua alpini. D'altra parte, la varietà di natura geologica delle diverse catene, e la morfologia glaciale ringiovanita di tutto il rilievo, dànno il carattere prevalentemente torrentizio degli alti corsi alpini, a profilo assai irregolare, con grandi differenze di livello e possibilità di utilizzazione industriale delle numerose cascate d'acqua.
La portata dei singoli corsi d'acqua dipende dal quoziente di deflusso, cioè dal rapporto tra l'acqua caduta nel bacino imbrifero e quella scolante nei fiumi, rapporto che di regola nelle Alpi è di circa quattro volte quello delle zone collinari e pianeggianti dell'Europa centrale, giacché per la forte inclinazione dei versanti l'acqua piovana non ha tempo, né d'infiltrarsi, né di evaporare.
Naturalmente però i valori variano da bacino a bacino, a seconda che si tratti di fiumi prealpini, a prevalenti rocce calcaree fessurate e senza grandi riserve nevose, o fiumi entro-alpini a rocce compatte impermeabili e vaste zone di ghiacciai. Così, mentre l'Arve, che viene dal M. Bianco, defluisce il 90% dell'acqua caduta, l'Inn l'82%, e l. Adige, pure nel cuore della massa alpina, il 73%, l'Enns, che ha un bacino prevalentemente prealpino, ha un quoziente del 62%, la Sava del 60%, e l'Isar, ancora più esterno, del 59%, mentre il Drac, nelle Prealpi calcaree del Delfinato, emunge appena il 50%.
Rispetto all'andamento delle portate nelle varie stagioni dell'anno, i fiumi alpini dipendono dai varî regimi idrometrici delle diverse zone climatiche, ma tutti risentono del fenomeno nivale, così caratteristico nelle Alpi. I grandi fiumi, che provengono dalla regione interna e settentrionale a numerosi ghiacciai, hanno un regime appunto detto alpino, legato allo scioglimento delle nevi eterne, con un minimo invernale e un solo massimo estivo, da giugno ad agosto, che supera fin 5 volte le portate invernali. Così l'Arc e l'Arve, nel loro corso superiore, il Rodano fino al suo sbocco nel lago di Ginevra, l'Aare fino al lago di Thun, il Reno fino a quello di Costanza, l'Inn fino ad Innsbruck, la Salzach a Salisburgo; regime che riflette talora anche le variazioni diurne della temperatura, come il Rodano nel lago di Ginevra.
Ma gran numero dei fiumi alpini ha un regime niveo-fluviale o alpino di transizione, meno accentuato del precedente, con magre invernali, ma morbide anticipate che culminano in maggio con lo scioglimento delle nevi, e discesa più lenta e ritardata per le acque di fusione dei ghiacciai e le piogge autunnali. Sono questi i fiumi alpini esterni come l'alta Durance, l'Isère, l'Enns, la Drava. I corsi settentrionali, invece, hanno regime prealpino e devono le loro morbide alle piogge e allo scioglimento delle nevi primaverili (maggio), con magra autunnale (Reuss, Limmat, Iller, Lech, Isar, Traun, Ybbs, Mur, ecc.).
I corsi d'acqua prealpini meridionali, invece, risentono del clima mediterraneo di transizione, con due minimi, uno invernale e l'altro estivo, dovuto alle alte temperature che esasperano l'evaporazione, mentre il massimo primaverile delle piogge coincide con lo scioglimento delle nevi. Così tutti i fiumi lombardi, prima del loro ingresso nei laghi subalpini (la Toce, il Ticino, l'Adda, l'Oglio, ecc.), e quelli veneti (Brenta, Piave, Tagliamento, Isonzo), ed anche lo stesso Adige, che pure ha la massima parte del suo bacino nella zona alpina interna, ma che presenta due massimi e due minimi, con preponderanza di quello invernale.
Nei corsi d'acqua delle Prealpi esterne francesi, infine, l'influenza mediterranea è esagerata. Il Drôme, l'Aygues, l'Asse, il Verdon, ecc. hanno acqua in autunno e inverno, mentre sono completamente secchi per i tre mesi estivi.
Queste differenze stagionali di regime e di portata hanno grande importanza per le industrie idroelettriche alpine, le cui centrali sono in molti casi legate fra loro per compensare vicendevolmente le deficienze temporanee dovute al diverso regime idrico.
I laghi. - Essi rappresentano una delle attrattive maggiori delle Alpi, che ne sono disseminate, così sull'orlo periferico esterno ed interno, ove sono i più estesi, come nell'interno delle valli o verso le cime montuose.
Quasi tutti questi laghi devono la loro esistenza all'attiviià glaciale quaternaria, quando erano ancor più numerosi ed estesi che non ora, poiché molti fondi vallivi sono stati oggi colmati o trasformati in torbiere.
Essi sono generalmente di due tipi: quelli di circo, verso le cime montuose, numerosissimi, elevati, piccoli, poco profondi, dovuti all'azione glaciale attuale, e quelli di valle, profondamente scavati dalla lingua di ghiaccio quaternaria per parecchie centinaia di metri, e anche al di sotto del livello del mare (lago di Garda, m. - 281), sbarrati spesso da depositi morenici, i cui maggiori si attestano allo sbocco delle grandi vallate settentrionali e meridionali delle Alpi Centrali, dove maggiore è stata la glaciazione.
Non mancano quelli dovuti a sbarramenti per frana (es. lago di Alleghe nelle Alpi Dolomitiche), ad alluvione (lago Mezzola, Chiavenna), a sbarramento glaciale (Märielen See, che è formato dal Gh. dell'Aletsch), ecc., ma sono relativamente pochi rispetto a quelli d'origine glaciale.
È assai difficile determinare il numero totale dei laghi alpini perchè molti dei più piccoli o dei più alti sfuggono all'osservazione, oppure son compresi nella zona alpina gli stagni e i laghi delle regioni pianeggianti subalpine. Il numero totale fu stimato, certo esagerando, di oltre 4000, con una superficie di kmq. 4447, ma solo recentemente (1925) si ebbe una statistica dei laghi di tutto il versante interno delle Alpi, che ne ha noverati 238. I maggiori laghi vallivi subalpini in ordine d'estensione, ed esclusi quelli interamente entro-alpini, (fra i quali il lago di Ginevra, di Zurigo, di Zug, di Costanza, il Chiemsee, ecc.), sono:
Come si vede, i maggiori sono all'orlo esterno delle Alpi Centrali, mentre molto minori sono quelli delle Alpi Orientali, e mancano quasi del tutto in quelle Occidentali.
I grandi laghi subalpini sono i regolatori del regime dei fiumi che li attraversano, raccogliendo le piene eccessive e conservando il deflusso nei periodi di magra: hanno quindi una grande funzione nell'economia alpina. Tale funzione di serbatoio naturale è tanto più notevole, quanto più grande è il volume della conca lacustre per ciò il lago di Garda, che ha un volume di 50 kmc., ha una superficie assai più stabile che non il Lago Maggiore (vol. kmc. 37), il quale risente di variazioni, anche di qualche metro in pochi giorni, e del lago d'Iseo (kmc. 7,6), il cui livello riflette tutte le variazioni di portata dell'Oglio. Di qui la ricchezza e costanza d'acqua, nei fiumi subalpini della pianura lombarda e dell'altipiano svizzero, che attraversano tutti grandi laghi, a confronto del carattere torrentizio dei corsi inferiori del Delfinato e della Provenza, nonché della pianura veneta.
Il colore di questi specchi d'acqua (misurato sulla scala di Forel di 10 tonalità, dall'azzurro al verde) risente della profondità e natura dei versanti, della temperatura e dell'abbondanza dell'alimentazione. Così i grandi laghi italiani sono noti per il loro azzurro cupo, in confronto al verde predominante nei laghi svizzeri; ma i colori tipici di ogni lago sono più spiccati d'inverno che d'estate, anche per il confronto coi colori chiari delle sponde. Caratteristici per la limpidità e trasparenza sono i piccoli laghetti di circo, che riflettono il cielo e le cime che li ricingono ("occhi della montagna"); alcuni hanno riflessi metallici (lago di Carezza).
La temperatura superficiale delle acque dei grandi laghi è d'inverno assai elevata a causa della massa d'acqua, con inversioni di temperatura; la superficie non gela quasi mai, specialmente se hanno ricca alimentazione glaciale, perché le acque fredde e più dense scendono al fondo. Nell'estate essi presentano un notevole salto di temperatura verso i 15 o 20 m. di profondità, dove si ha di solito uno strato a temperatura costante, essendo la superficie leggermente più fresca.
Di qui l'influenza dei grandi laghi subalpini nell'addolcire il clima delle regioni circostanti per cui sono celebri per la ricca vegetazione le rive del Lago di Ginevra, del Lago Maggiore, del Lago di Como, ecc.,
I laghi piccoli e poco profondi invece, come quelli di circo per la loro elevazione, o quelli di valle alimentati da piccoli torrenti, sono spesso gelati d'inverno e ad acque assai calde d'estate.
Clima.
La regione alpina presenta le caratteristiche climatiche proprie dei grandi rilievi orografici, pure risentendo, nelle sue varie parti, l'influsso delle regioni adiacenti, così che il clima del versante settentrionale risulta da una combinazione del clima alpino e di quello dell'Europa centrale, la parte orientale risente l'azione del clima continentale, mentre il versante meridionale è sotto l'influsso del clima mediterraneo. Tuttavia il fattore che domina sopra tutti gli altri nel determinare il clima delle varie località è l'altezza (cfr. tabella a pag. 608).
È noto infatti che, al crescere di questa, diminuiscono la pressione, la temperatura e l'umidità assoluta, cioè la quantità in peso di vapore acqueo contenuta in un mc. d'aria; e che, in conseguenza di tali diminuzioni, le località elevate risentono, in misura assai più cospicua che quelle basse, l'azione dell'irraggiamento solare e di quello terrestre.
Per esempio, dalle misure eseguite dal Rizzo a varie altezze, nella regione del Monte Rosa, risulta che, mentre al livello di 500 metri la radiazione da parte del sole (supposto allo Zenit) è di 1,61 calorie per cmq. e per minuto; essa è di 1,98 a 1722 m., di 2,09 a 2824 m. ed arriva a 2, 13 alla quota di 3537 m.
Particolarmente notevole è l'aumento che subiscono le radiazioni ultraviolette le quali hanno tanta importanza nel determinare le condizioni di vita vegetale e animale.
Naturalmente le cause stesse che determinano un aumento della quantità di energia raggiante assorbita dal suolo durante il giorno, provocano pure un aumento dell'energia emessa durante la notte; ed infatti le misure eseguite in diverse parti della regione alpina hanno provato che l'emissione di energia raggiante va crescendo al crescere dell'altezza.
Per quanto riguarda la distribuzione della temperatura a varie altezze nella regione alpina, riportiamo gli esempî seguenti:
Per il Gran S. Bernardo (2467 m.) la temperatura media del mese più freddo è di −9; quella del mese più caldo è di 6,2. Per il Sonnblick (3106 m.) le medie dei mesi estremi sono rispettivamente −14,5 e 0,9. Dalle osservazioni raccolte in due anni consecutivi nel mese di agosto alla capanna Regina Margherita sul M. Rosa, alla quota di 4560 m., risulta come temperatura media per detto mese, −7,0.
In media, nella regione alpina la diminuzione di temperatura per 100 metri di elevazione oscilla fra 0,5 e 0,6 gradi. La media per le Alpi Occidentali è di 0,53, per le Alpi Orientali di 0,52. Però la distribuzione verticale della temperatura dipende da un insieme di fattori che la rendono variabilissima da luogo a luogo e da tempo a tempo.
La precedente tabella dedotta da J. Hann, in base ad una ricca serie di osservazioni eseguite sulle Alpi Orientali, mostra come la diminuzione di temperatura dipenda dalla stagione e dall'esposizione del pendio. Precisamente la diminuzione è più rapida nei mesi caldi che nei mesi freddi.
Probabilmente la forte diminuzione, che è particolarmente sensibile nella prima parte dell'estate, dipende dal fatto che, al principio della stagione calda, le valli sono già libere dalla neve che persiste ancora lungo i pendii, e quindi le prime si scaldano intensamente, mentre nei secondi il calore solare viene quasi totalmente assorbito nella fusione delle nevi. Inoltre la diminuzione è più rapida lungo i versanti esposti a mezzogiorno.
Ancora la diminuzione di temperatura è più rapida lungo i pendii di un monte isolato che su quelli di un massiccio montuoso. Sulle vette alpine isolate la temperatura è notevolmente inferiore che sui massicci interni a pari altezza. In generale poi la temperatura è più bassa, a pari altezza, nelle valli alpine chiuse verso S. e verso O. che in quelle chiuse a N. e ad E.
Un fenomeno interessante, che si osserva frequentemente nella regione alpina, è quello dell'inversione della temperatura. Durante l'inverno con tempo calmo la temperatura nelle vallate va crescendo al crescere dell'altezza. Questo fenomeno, che si osserva anche nell'atmosfera libera, in regime anticiclonico, è più frequente e più regolare specialmente nelle vallate chiuse da qualche rilievo anche nella loro parte inferiore (conche, bacini). Il fenomeno è effetto dello scarso riscaldamento diurno in conseguenza dello schermo opposto dai monti circostanti, del forte irraggiamento nelle notti serene e del movimento di discesa dell'aria che, raffreddata lungo i pendii durante la notte, va ad occupare il bacino nel quale ristagna, mantenendovi bassa la temperatura almeno nelle prime ore del mattino quando i pendii vengono riscaldati dal sole.
Avviene così talvolta che al fondo della valle la temperatura, in qualche mattina d'inverno, coincida con quella delle più alte vette che la sovrastano anche di 3000 m. Secondo il Hann nei giorni compresi dal 16 al 18 dicembre 1879 la temperatura media di Klagenfurt (a 440 m.) fu di −16°,2; quella del monte Obir (a 2040 m.) fu di −4,5. L'orientamento delle valli e la struttura del fondo influiscono notevolmente. Così per esempio le nostre valli larghe, aperte a mezzogiorno, presentano il fenomeno in misura ridotta, mentre esso è cospicuo nelle valli chiuse, come quella dell'Adige, la quale è sensibilmente più fredda della contigua regione del Garda.
È appunto l'intenso raffreddamento invernale delle valli che consiglia spesso gli alpigiani a costruire i villaggi sopra i pendii o sui coni di deiezione.
Riguardo alle variazioni periodiche della temperatura alle diverse altezze, diremo brevemente che da questo punto di vista i rilievi alpini (come del resto tutti i grandi rilievi otografici), presentano una certa analogia climatica con le zone costiere. Oscillazione annua e diurna della temperatura minore che nelle regioni piane, e ritardo nei periodi di massima e di minima temperatura. Per esempio: su̇l Sonnblick (a 3100 m.) negli Alti Tauri, l'escursione annua della temperatura è, in media, di 14°,3, mentre nella Valle del Po l'escursione stessa supera, in media, i 20°. L'escursione diurna media è di 1°,9 sul Sonnblick, mentre a Klagenfurt (a 448 m.) essa è di 8°.
Si è accennato al fatto che l'umidità assoluta va decrescendo al crescere dell'altezza, tanto nell'atmosfera libera, quanto nelle regioni montuose, e si può aggiungere che tale diminuzione è molto rapida. Però la legge vale soltanto per l'umidità assoluta, non per quella relativa, la quale non presenta variazioni regolari per il fatto che la diminuzione di umidità assoluta è accompagnata dalla diminuzione di temperatura. Tuttavia si può dire che le località elevate sono, generalmente, asciutte.
Interessante è la variazione della nebulosità, variazione che dipende principalmente dalla stagione e dall'ora del giorno. In generale la nebulosità sulle Alpi è massima nell'estate e minima nell'inverno, è maggiore nelle prime ore del pomeriggio che nel mattino e nella notte e, in media, va crescendo al crescere dell'altezza nell'estate, decrescendo durante l'inverno. Per esempio la nebulosità media dell'altipiano svizzero (a 420 m.) è di 7,3 nell'inverno, di 5,2 nell'estate, al Sonnblik (3100 m.) è di 5,7 nell'inverno, di 7,3 nell'estate.
Tenendo conto di quanto si è detto relativamente alla temperatura, si vede come i pendii elevati, specialmente se rivolti a mezzogiorno, presentino nell'inverno una notevole superiorità climatica rispetto alle valli. I primi hanno temperatura mite e scarsa umidità; le seconde presentano temperature rigide e forte umidità.
L'annuvolamento abbondante nelle ore pomeridiane estive lungo i pendii alpini è conseguenza evidente dei movimenti ascendenti che si svolgono nella stagione e nelle ore più calde. L'aria che sale si raffredda e, ad una quota variabile con la temperatura e con l'umidità iniziali, il vapore d'acqua che essa contiene si condensa dando origine alle nubi.
Per quanto riguarda la distribuzione delle precipitazioni sulle Alpi, si può dire, in generale, che la quantità annua di precipitazioni va crescendo col crescere dell'altezza, raggiunge un massimo, per poi diminuire alle quote successive. Dalle osservazioni eseguite per 7 anni in varie stazioni nel gruppo del Monte Bianco, si traggono i seguenti risultati:
Come si vede, il massimo di precipitazioni si presenta all'altezza di circa 2500 metri.
Si può ritenere che per tutta la regione alpina l'altezza delle massima piovosità sia tra i 2000 e 2500 m.
In generale l'effetto delle Alpi sulle piovosità, comincia a manifestarsi nella pianura anche a distanza considerevole dalla catena di monti; ciò dipende dal fatto che l'aria trascinata contro il pendio si solleva in blocco per uno strato di notevole spessore, in modo che la parte superiore dello strato raggiunge le condizioni di saturazione.
Si nota pure che nelle Prealpi (che sono le prime a ricevere e deviare verso l'alto le correnti) le precipitazioni sono abbondantissime; e che, comprendendo le Alpi più catene disposte parallelamente e solcate da profonde valli longitudinali e trasversali, lungo le catene esterne a N. ed a S. le precipitazioni sono molto copiose; ricche di piogge sono pure, almeno nelle loro parti inferiori, le valli trasversali, mentre le valli longitudinali sono straordinariamente secche. Esempî caratteristici sono forniti dalla Valle dell'Inn, dall'Engadina, dalla Val Venosta e dalla Val d'Aosta, che hanno clima di una secchezza veramente eccezionale.
Al di là delle grandi valli trasversali, verso il massiccio alpino la piovosità va crescendo nuovamente senza raggiungere però i valori a cui arriva lungo le catene esterne.
Per esempio, sulle Prealpi Venete, si raggiungono i 3000 ed anche i 4000 mm., nella regione dei laghi si superano i 2000 mm., come pure nelle Prealpi del Delfinato e della Baviera. Al contrario, nell'Alto Adige la piovosità scende fino a 400 mm. ed a 630 a Modane.
Notevoli massimi di precipitazioni si hanno sulle Prealpi Venete, Vicentine e Giulie (2, 3, 4 m.) e nella parte più alta delle Alpi Salisburghesi e delle Alpi Austriache nelle quali si arriva a 2 metri.
Per le Alpi Orientali e Centrali, nelle quali le catene sono orientate da occidente ad oriente, cioé nella direzione dei venti dominanti, non esiste quella distinzione netta tra versante piovoso e versante secco che ha notevole risalto in altri sistemi montuosi. Si nota invece un influsso sensibile delle regioni climatiche a cui i versanti sono rivolti, influsso che si manifesta particolarmente nella distribuzione annua delle piogge, le quali presentano un massimo estivo sul versante settentrionale, un massimo autunnale sul versante rivolto a sud.
Il contrario avviene nelle Alpi Occidentali, le quali lungo il versante francese sono colpite direttamente dai venti dominanti di O. e presentano, nella parte settentrionale, una piovosità molto superiore a quella del versante opposto, mentre nella parte meridionale riprende a dominare il clima mediterraneo con un massimo di precipitazioni nell'autunno.
Fattore climatico interessante è il limite delle nevi. Qui conviene distinguere il limite temporaneo da quello climatico. Il primo dipende dalla stagione e dall'esposizione. Più interessante è il secondo, che coincide col primo in agosto. Esso dipende dalla temperatura, dall'esposizione del pendio e dalla quantità annua di precipitazioni. Per esempio, nei Tauri, il limite delle nevi è a 2660 m., lungo il versante settentrionale; a 2800 m., lungo quello meridionale.
Sulle Alpi Salisburghesi settentrionali e sulle Dolomiti, che sono ricche di precipitazioni, il limite oscilla tra 2500 e 2700 m.; sulle Alpi del Vallese, che sono scarse di pioggie, detto limite sale a 3100-3200 metri.
Lungo le valli e i pendii alpini si svolgono quei venti periodici, che sono noti col nome di brezze di monte e di valle, e che traggono la loro origine dalle differenze di temperatura che si stabiliscono durante il giorno e durante la notte tra i pendii e le valli. Senza entrare in particolari sull'origine di tali venti (v. brezze), ci limiteremo ad osservare che la loro regolarità e la loro intensità dipendono dalla struttura della valle e dalla stagione. In media, nelle valli alpine, la brezza di monte (corrente d'aria discendente) si svolge tra le ore 21 e le 10; le brezza di valle (corrente ascendente) fra le 10 e le 21. La prima è più intensa nell'inverno, la seconda nell'estate.
Un fenomeno caratteristico delle grandi catene di monti, che fu osservato e studiato per la prima volta nelle vallate a N. delle Alpi, è quello che appunto in dette valli ha assunto il nome di föhn. Si tratta di un vento intenso, caldo e secco, che scende dall vette lungo le valli con direzione da SE., da S., o, più raramente, da SO. Esso è un vento prevalentemente invernale, ed è vincolato a una particolare situazione isobaricai con alta pressione a S. delle Alpi e basse pressioni a NO. La sua origine e le sue caratteristiche furono spiegate completamente dal Hann (v. föhn). Gli sbalzi di temperatura e di umidità relativa provocati dal föhn sono fortissimi; la prima può salire anche a 17° sopra il valore normale, la seconda può scendere fino al 58% sotto il valore normale. Si capisce quindi come esso possa esercitare un sensibile influsso sul clima delle vallate nelle quali è più frequente. Queste hanno infatti una temperatura media superiore a quella delle valli, nelle quali il fenomeno è raro oppure non si presenta affatto, e la differenza è tanto notevole da determinare condizioni di vita vegetale considerevolmente diverse.
Il föhn è frequente nelle valli trasversali del versante settentrionale delle Alpi e particolarmente nella regione compresa tra Ginevra e Salisburgo; ma non mancano casi di föhn anche nel versante meridionale, dove si rende sensibile talvolta sino a Milano ed a Venezia. Naturalmente in tali casi esso è provocato da una situazione isobarica press'a poco inversa a quella che corrisponde al föhn delle vallate settentrionali.
Sulle Alpi Occidentali non sembra che il fenomeno si manifesti.
Infine ricorderemo, come fenomeno caratteristico del clima alpino, anche la bora: vento freddo ed asciutto che scende dagli altipiani del Carso verso le coste dell'Istria e della Dalmazia, soffiando con raffiche violente (v. bora). Anche questo è un vento discendente, ma appare freddo perché la temperatura del territorio di origine è molto più bassa di quella delle coste alle quali arriva.
Vegetazione.
Il tappeto vegetale che riveste i territorî alpini è quanto di più ricco e vario si possa immaginare, e va dal leccio e dai cisti a foglie sempreverdi, che ricordano le contrade bagnate dal Mediterraneo, ai giganteschi faggi ed abeti dell'alta zona forestale, dagli arbusti nani con i rami accostati al terreno, come difesa dal mantello di neve e dalla furia dei venti, alla microscopica Chlawydomonas nivalis che tinge di rosso le nevi eterne. Ciò si deve alle diversissime condizioni di suolo, di clima, di esposizione, di altitudine, alla conservazione di una parte dell'autoctona flora prequaternaria e più ancora all'accessione di nuovi coloni, che da regioni diverse dell'Europa e dagli stessi territorî mediterranei raggiunsero i paesi alpini in seguito alle complesse vicende dell'epoca glaciale e postglaciale. Notevole è pure, specialmente nei settori che non risentirono l'influenza delle glaciazioni, il numero delle specie endemiche o che le Alpi hanno in comune con remoti distretti montuosi. A tutto ciò si aggiunga il contributo dell'uomo, da una parte distruttivo, specialmente a danno del bosco, e dall'altra introduttivo di piante agrarie o forestali delle più diverse scaturigini. Si vennero così costituendo svariati consorzî spontanei o colturali di cui il fatto, sotto un certo punto di vista, più saliente e che colpisce anche il profano, è la distribuzione a zone delle piante sociali che li compongono: distribuzione che riproduce nel senso dell'altitudine, ed in scala ristretta, quanto si constata su scala più vasta, ma spesso con le stesse specie e formazioni, nel senso della latitudine. E qui ci limiteremo ad illustrarla brevemente con speciale riguardo ai consorzî di piante legnose dove essa è più evidente, mentre altre notizie sui componenti della vegetazione alpina saranno date a suo luogo nella voce italia.
Le zone più importanti sono le seguenti: inferiore o submontana, montana, subalpina o prealpina ed alpina.
La zona inferiore, nel versante nord delle Alpi, meno riscaldato di quello meridionale, è caratterizzata dal limite inferiore di alberi, come il faggio e gli abeti, che costituiscono le essenze dominanti della zona soprastante; ma dove il clima è più mite, come nella media valle del Rodano, lungo le basse pendici meridionali del Giura, nel Vallese e nei territorî dove solfia il föhn, si trovano pure querceti e castagneti ed altrettanto si verifica ai piedi orientali delle Alpi della Stiria, della Bassa Austria, ecc., dove i querceti a base di Q. lanuginosa, Q. cerris e Q. sessilis con Staphylea pinnata, Colutea arborescens, Cornus mas e sanguinea ricordano da vicino le analoghe formazioni della zona illirico-balcanica. Attraverso il solco vallivo del Rodano e di alcuni suoi affluenti, al ritiro definitivo dell'imponente ghiacciaio ed in coincidenza, come molti fitogeografi ammettono, di un periodo detto xerotermico, a clima più caldo e più secco dell'attuale, molte piante mediterranee risalirono la valle e si espansero nelle valli laterali, costituendo nelle Alpi Lemanniane, Savoiarde, ecc., colonie di piante termofile.
Ma un più deciso rilievo ed un più ampio sviluppo acquista questa zona nel versante alpino meridionale, le cui formazioni spontanee e colturali sono per grande parte una continuazione di quelle insediate nella pianura padana, nelle colline torinesi, negli apparati morenici extralpini, nei distretti isolati dei Colli Euganei e Berici, ecc. Vi predominano (e più ancora dovette essere nel passato) i querceti a base di Q. lanuginosa (sino a 600-800 m.) nei substrati più aridi e nelle esposizioni più soleggiate, accompagnata e poi, dove il suolo è più fresco e profondo, sostituita dalla rovere (Q. sessilis) che si interna e s'innalza a maggiore altezza (1200-1300 m.), sino ad interferire con il limite inferiore del faggio; frequente è anche Q. cerris (cerro), che in generale si tiene alla periferia, ma che può penetrare ben addentro nelle vallate; più rari sono i boschi di Q. pedunculata (farnia) che acquistano qualche importanza nel Piemonte, dove c'è pure, ma sporadica, la Q. tora che è un elemento atlantico. Con i querceti si associano e possono ad essi sostituirsi alberi ed arbusti caducifogli (Fraxinus ornus, Ostrya carpinifolia, Corylus avellana, Rhus cotinus, Philadelphus coronarius, Pistacia terebinthus, Cercis siliquastrum, ecc.) formanti boschi e boscaglie, soprattutto nelle Alpi Orientali; queste, anche più delle formazioni boschive sopra ricordate, si avvicinano ai boschi misti con predominio del frassino da manna, e ad alcune delle formazioni a sibljak della Balcania (v.). Nei colli presso Duino e Monfalcone, nel medio Isonzo presso Gorizia, in una stazione dell'alto Friuli occidentale presso Trasaghi, e, su scala incomparabilmente più vasta, nella mite conca del Garda (ricca di oliveti, e dove fiorisce e matura il limone), nella bassa valle del Sarca, sino alle pendici che circondano i laghi di Toblino e S. Massenza, nella media valle dell'Adige, dalla Chiusa sino alla conca di Avio, nella valle trasversale di Mori-Loppio, ecc., ai querceti formati in prevalenza di Q. lanuginosa si mescola e, nei settori più favorevolmente esposti, si può dire si sostituisce il leccio (Q. ilex, la quercia sempreverde più comune nei territori circummediterranei) che si spinge sino a 700-800 m. (e sino a 1000 m. in individui isolati); questo, con il Cistus albidus L. delle basse pendici del Baldo presso Garda, con la Phillyrea che si trova nei lecceti della bassa valle del Sarca, con i boschetti di alloro lalcuni dei quali in stazioni che hanno tutta l'apparenza di essere naturali), i cespugli di rosmarino e di oleandro che prosperano nella Riviera bresciana e con tutto il corteo di piante erbacee termofile, che non è qui il luogo di ricordare, ci rappresenta la più imponente espansione mediterranea di questo versante. Ma altre colonie di piante siffatte si trovano nella media valle del Chiese (Erica arborea), attorno al Lago di Como, di Lugano, in fondo al Lago Maggiore (Cistus salvifolius), ecc. Sono pure da ricordare per questa zona i boschi di castagno, senza confronto più sviluppati, che nel versante nordico possono penetrare bene addentro (come, ad esempio, nell'alta valle del Sarca) arrestandosi ad una quota media di 900 m., ma sorpassandola per es. nel Canton Ticino (1000-1100 m.), nelle Alpi Marittime (1000 m.); essenza forestale quasi sempre confinata nei settori silicei, e di cui fedele compagno è il Sarothamnus scoparius, una genistea che trova il suo equivalente nello Spartium junceum nei lecceti impiantati su suolo calcareo. Su suoli silicei vanno pure ricordate le brughiere, boschive o no, in cui domina sovrana la crecchia (Calluna vulgaris).
La zona montana è principalmente caratterizzata dal faggio e da alcune conifere. Il limite inferiore della faggeta è nella Svizzera settentrionale a 400 m., mentre verso la pianura padana si può collocare fra 700-900 m. con un alone di 100-200 m. di individui sporadici i quali dimostrano che nel passato il limite era più basso (Negri), ma in valli interne molto piovose come nella Val Cellina (Friuli, ecc.) e nella Carnia si possono incontrare le faggete sin da 400-600 m. Il limite superiore medio è a 1600 m., ma è di frequente sorpassato, mentre nella Svizzera è collocato dal Christh a 1200 come foresta pura e a 1500 m. mescolata con altre essenze, ma nella Svizzera insubrica si spinge sino a 1600 m. (Bettelini). Al faggio si associano tre specie di aceri, alcuni tigli, il frassino di montagna, l'agrifoglio, nonché, molto frequentemente, l'abete bianco ed il rosso, da cui risulta una formazione mista di latifoglie e di aghifoglie.
Delle Conifere il primo posto è occupato dall'abete rosso (Picea excelsa), che costituisce anche formazioni pure tra 1000-2000 m., ma è spesso mescolato all'abete bianco (Abies alba), che ben di rado forma consorzî a sé, e ciò si verifica nei suoli freschi e nelle posizioni ombrose, soprattutto nei paesi prealpini occidentali, come la catena del Giura; l'abete rosso ha un limite inferiore di 200-300 m. a quello del suo consocio ed in generale non si spinge tanto alto, equilibrandosi quasi sempre alla quota di 1500 m. Nelle abetarie alpine è presente quasi dovunque il larice (Larix decidua), che del resto può formare lariceti puri; i suoi limiti inferiore e superiore coincidono con quelli dell'abete rosso, ma dove la montagna sale oltre i 2000 m., e specialmente nei settori esposti all'azione refrigerante dei ghiacciai e nevai, l'abetaia mista è coronata da una fascia di lariceto puro, che può spingersi sino a 2300-2400 m., ma quote superiori alle 2000 sono pure raggiunte qua e là dalla Picea. Diffuso in tutte le Alpi, dalle Marittime alle Trentine, in Svizzera, Carniola, ecc., è il Pinus cembra, che può costituire consorzî puri o si mescola col larice, di cui condivide l'attitudine a vivere anche nelle zone più elevate, ovvero si trova sporadico: non discende mai al disotto di 1600-1800 m., e sale sino a 2364 m. nelle Alpi Pennine, a 2515 sul M. Rosa, a 2500 nel Delfinato, ecc., ma i suoi boschi non hanno mai l'estensione delle abetaie e dei lariceti ed è anzi una specie in via di regresso e probabilmente di estinzione. Nella zona del faggio e delle conifere sono inoltre compresi i consorzî a base di pino di Scozia (P. silvestris), tra le quote 300-1300 m. ed anche sino a 1900 m. nella Val Cellina, e del pino d'Austria (P. nigra), il secondo limitato alle Alpi Orientali (400-1000 m. e sino a 1300 m.), a base di Carpinus betulus (raro), boscaglie di nocciuolo (Corylus avellana), di betulla, ecc.
Con gli avamposti del larice e del cembro si penetra nella zona subalpina o prealpina, caratterizzata, tra l'altro, da alberi ridotti a cespugli, da alberetti a rami prostrati e contorti, da cespugli eretti o prostrati. Noi ricordiamo anzitutto un pino, il P. monitana con le sue varie razze (Mughus, pumilio, uncinata) - che del resto nei solchi dei torrenti e negli scoscendimenti possono scendere e trovarsi a quote più basse - l'Alnus alnobetula (A. viridis) dei terreni silicei od anche decalcificati, i Rhododendron ferrugineum ed hirsutum, che vegetano anche nella fascia forestale, alcuni salici, la varietà montana del comune Ginepro dei litorali, ecc.
Sopra questa fascia, più o meno estesa, si estolle la zona propriamente alpina, le cui principali formazioni sono: i pascoli con Graminacee e, quando sono umidi, con Ciperacee e Giuncacee, le formazioni delle rupi asciutte ed umide, gli sfagneti, ospitanti piante in assoluta prevalenza erbacee, ma perenni, rari i suffrutici, rarissime le annuali. Come limite superiore di questa zona si suole prendere quello inferiore delle nevi perpetue, ma il Heer per la Svizzera, il Vallot per i Pirenei hanno dimostrato che parecchie sono le specie che si spingono più in alto, dovunque vi sono rupi e pendici che restano scoperte nell'estate. Da noi il Vaccari ha segnalato per la Valle d'Aosta 202 specie che si trovano al disopra di 2600 m. e 61 al disopra di 3200 m. (piante cacuminali) e ne conclude che in questa valle la vegetazione non ha un limite superiore: ha inoltre rilevato che la flora cacuminale è eminentemente xerofila e che di conseguenza il numero delle specie artico-alpine diminuisce con l'altitudine rispetto a quello delle alpine.
In una regione così estesa e proteiforme come le Alpi, più o meno vasti settori della zona inferiore e lembi di quella montana furono accaparrati dalle colture di piante agrarie ed industriali, quasi sempre a spese di formazioni boschive abbattute in epoca antica o anche recente. Per il versante meridionale deve essere prima di tutto ricordata, anche per il suo interesse geograficoclimatico, quella dell'olivo: essa prende inizio nelle propaggini più meridionali delle Giulie, nei dintorni di Duino, Gradisca, Gorizia, s'interrompe ai piedi delle Alpi friulane, riprende con piccoli nuclei, in esposizioni eccezionalmente favorevoli, nelle trevigiane tra Piave e Brenta, penetra alquanto nella Valsugana sopra Bassano; riveste poi con maggiore intensità la zona pedemontana da Bassano attraverso il Vicentino e più ancora attraverso il Veronese (Lessini) con qualche isola nella media Val d'Adige e precisamente nella conca di Avio, si sviluppa qua e là nei ridossi morenici dell'anfiteatro del Garda, donde si espande lungo le pendici che ricingono la mite conca lacustre specialmente della Riviera bresciana (dove raggiunge la quota di 400-470 m.), e passa quindi nella bassa valle del Sarca, dove presso Vezzano a 320 m. tocca l'estremo limite polare (46°5′ lat. N.), arrestandosi dove cessa il leccio. È questa la massima espansione dell'olivo, coincidente con condizioni climatiche straordinariamente favorevoli, come lo indicano, oltre le piante spontanee già ricordate, i boschetti di alloro, il cipresso, l'agave, il melograno, la coltura redditizia dei limoni, che infondono al paesaggio caratteristiche di plaga mediterranea.
Ad occidente sino alle Alpi Marittime non si ha più traccia di olivicoltura, ma alberi coltivati per ornamento s'incontrano nel Canton Ticino e nella Valle d'Aosta: nel Nizzardo torna ad essere frequente e raggiunge le quote di 450-780 m., è abbondante nella Provenza, s'incunea nella valle del Rodano dove si arresta all'altezza di Montélimar o poco oltre, cioè ad una latitudine inferiore che nell'espansione gardense-trentina.
Nella zona dell'olivo, ma anche dove questo non esiste, ha largo sviluppo la coltura della vite che si spinge ad una maggiore altitudine (600-800 m.; in Val d'Aosta sino a 1200 m.) e si effettua anche nel versante nord, come nel Vallese (462-811 m., ma anche 1020 m. secondo Christ) ed altrove. È pure questa la zona della coltura del gelso e degli alberi da frutta, ma il ciliegio raggiunge nel Comelico l'altezza media di m. 1306, inferiore di appena 13 m. a quella delle abitazioni permanenti (O. Marinelli). Parecchie vallate di ambedue i versanti hanno il tabacco e quasi tutte le colture granarie, patata, lino, canape, ecc.; il granoturco nelle valli di Falcade e di Zoldo raggiunge il limite superiore medio a 1137 ed il massimo a 1258 m., sul Comelico si ha una media di 952 m., mentre le colture di patata, orzo, avena, segale, lino toccanti una media altitudine di m. 1410, di appena 9 m. inferiore a quella degli stavoli. Nel versante nord le colture di segale ed orzo (d'estate), del lino, ecc., si spingono in media sino a 1235 m., quella della patata a 1560 m., ma come altezza massima giungono sino a 1700 metri. Sul M. Rosa (versante sud) le colture di montagna si arrestano a 1910-1982 m., a Valsavaranche nelle Alpi Graie a 2043 metri.
Coltura esclusiva di zone montuose è quella del grano saraceno (Polygonum fagopymm L.).
Fauna.
La fauna alpina colpisce per la sua rassomiglianza generale più con la fauna circummediterranea orientale che con la fauna nordica. Essa presenta tutti i caratteri di una fauna di immigrazione, e ciò in perfetto accordo con la storia geologica della regione.
Uno degli elementi più caratteristici è lo stambecco (Capra ibex), una volta diffuso nelle Alpi e nel Tirolo, ora confinato in pochi luoghi elevati e inaccessibili, dove è oggetto di particolare protezione. Più di 2800 individui vivono nel Parco nazionale del Gran Paradiso (nelle Alpi Graie) comprendente essenzialmeme il massiccio del Gran Paradiso e quello della Grivola. Qualche esemplare vive anche nelle riserve limitrofe al Parco, sopra Saint-Marcel e a sinistra della valle di Rhêmes. In Svizzera circa 120 esemplari vivrebbero attualmente liberi nel Parco nazionale dell'Engadina, al Piz d'Acla, al Piz Terza-Trespöl, nel gruppo del Graue Hörner. In Austria fino a pochi anni or sono viveva una colonia di stambecchi nella provincia di Salisburgo, nelle vicinanze del Passo Lueg, dove erano stati introdotti, ed anche in Iugoslavia eravi una colonia di stambecchi presso Kranj: in entrambi i casi si dubita che si trattasse di razze pure. Congeneri alfini allo stambecco sono la Capra pyrenaica della Spagna, la C. Falconeri dell'Afghānistān, la C. aegagrus che abita dal Caucaso al Sind, la C. sinaitica dell'Arabia, della Palestina è dell'Egitto, ecc.
Il camoscio (Rupicapra rupicapra) è invece diffuso non solo in tutta la regione alpina, ma in tutta la zona montuosa che si stende dalla Spagna al Caucaso. Il capriolo (Capreolus capreolus transylvanicus) si ritrova qua e là nelle Alpi orientali.
Rosicanti notevoli sono la marmotta (Marmota marmota) che vive anche nei Pirenei e nei Carpazî, l'Evotomys glareolus con cinque sottospecie variamente localizzate nella regione alpina, l'arvicola delle nevi (Microtus nivalis) che tra i mammiferi è quello che raggiunge le maggiori altitudini (fu trovato fin verso i 4000 metri, sui monti del gruppo del Bernina) e conduce vita quasi perfettamente sotterranea, il Microtus incertus delle Alpi Orientali, l'Arvicola italicus della Svizzera italiana, il Pitymys druentius delle Alpi sud-occidentali, il P. Fatioi del Zermatt, il P. multiplex della Svizzera italiana, e infine il lepre delle Alpi (Lepus Varronis) che si trova fino a 3500 m. di altitudine e non discende al disotto dei 1000 metri.
Un insettivoro particolare delle Alpi è il toporagno alpino (Sorex alpinus), localizzato in varî siti (S. Gottardo, valli di Oberötz e Wispert al disopra dello Zermatt, a Bertolsgrade sul Grimsel, nella valle di Chamonix, presso Gastein, presso il Gross Glockner) a considerevole altitudine, fino a 2200 metri.
La donnola (Mustela nivalis) e l'ermellino (M. erminea) sono spesso frequenti: quest'ultimo, diffuso nell'Europa centrale, giunge nelle Alpi al suo limite meridionale.
Un caratteristico pipistrello è il Vesperugo maurus proprio del M. Bianco e del S. Gottardo.
Più numerosi sono gli uccelli. Il grifone (Gypaetus barbatus) è ormai divenuto raro, mentre l'aquila reale (Aquila chrysaëtus) è meglio rappresentata. Il rondone alpino (Apus melba) e la rondine montana (Cotyle rupestris) sono abbondanti. Notevoli sono la cincia bigia alpestre (Parus montanus), la cincia mora (P. ater), la cincia dal ciuffo (Lophophanes cristatus), il picchio muraiolo (Tichodroma muraria), il merlo alpino (Turdus alpestris) che nidifica non solo nelle Alpi, ma anche sui Carpazî e sui Riesengebirge, il codirossone (Monticola saxatilis), il sordone (Accentor collaris), lo spioncello (Anthus pispoletta), il fringuello alpino (Montifringilla nivalis), ecc. Menzioneremo ancora due corvi (Pyrrhocorax graculus e P. alpinus), la coturnice (Caccabis saxatilis), che d'estate vive fino a 3000 m. d'altitudine, il gallo cedrone (Teitao urogallus), più proprio delle Alpi Orientali, la pernice bianca (Lagopus mutus), il fagiano di monte (Lyrurus tetrix).
Varî rettili e anfibî vivono nelle Alpi, tra gli ultimi la salamandra nera. La trota (Salmo fario) e il gobio (Cottus gobio) popolano numerosi laghi alpini; il salmerino (Salmo salvelinus) si trova specialmente nelle acque delle Alpi Orientali.
Tra gli invertebrati, numerosi e caratteristici, ci limitiamo a ricordare la pulce delle nevi (Desoria glacitahs) e il falangio alpino (Phalangium glaciale).
L'uomo sulle Alpi. Il popolamento.
La posizione geografica, le caratteristiche geo-morfologiche, le condizioni climatiche e fitogeografiche, le complesse e svariate contingenze antropiche assegnano al grande sistema alpino una funzione storica ed economica di primaria importanza. In nessun altro sistema orografico, come in quelli alpino, l'uomo ha potuto far sentire il peso della sua attività e capacità volitiva, come in nessun altro sistema l'ambiente ha potuto crearsi e plasmarsi un tipo umano così distinto per le sue manifestazioni ed estrinsecazioni. Le Alpi infatti non hanno mai costituito effettivamente una barriera insormontabile alla marcia di avvicinamento dei popoli. Le loro lunghe ed ampie valli, erose dalle grandi glaciazioni e allargate dai torrenti perenni ed edaci, hanno costituito invece grandi solchi di penetrazione, anzi di intercomunicazione, di popoli di razze diverse; esse hanno così affratellate le genti attraverso gli scambî e creata una zona di interessante simbiosi etnica.
Esistono, del resto, nel sistema alpino zone di popolamento con densità certamente non inferiore alla media densità demografica delle regioni contermini. La cifra generale di densità media che si suole portare per il sistema alpino (25 ab. per kmq.) senza detrarne l'improduttivo, rappresentato, com'è noto, da una percentuale cospicua, non dice nulla per sé, poiché la cifra di densità, specie nelle zone montuose, è vera ed istruttiva solo quando vien messa in rapporto con la potenza produttiva del suolo, così vario da luogo a luogo. La densità demografica dei grandi solchi lacustri delle Prealpi e del grande solco atesino, nelle Alpi italiane, quella del Graisivaudan (Delfinato), valle fiancheggiata da imponenti muraglioni orografici, quella delle grandi direttrici del Vallese e dell'Inn, superano di gran lunga la densità delle zone collinari periferiche, o dei coni dl deiezione del quaternario antico ferrettizzato, o degli anfiteatri morenici che pure s'incuneano nelle pingui pianure.
Ma l'uomo non ha vinto o domato soltanto l'ambiente naturale delle valli più ampie o di più facile penetrazione, ma è risalito sui fianchi e nei valloni laterali, costruendovi le sue dimore, ha dissodato i terreni dei ripiani lisciati dai ghiacciai ed ha spiegata la sua attività fino ad altezze inverosimili.
Non così è avvenuto negli altri sistemi montuosi europei, dove l'uomo difficilmente ha abbandonate le valli, lasciando invece alle foreste l'incontrastato dominio delle alte zone.
Non è il caso di discutere qui se le pendici alpine siano state popolate a partire dall'alto (Vidal de la Blache), o dalle valli, o ancora se il richiamo delle genti siano stati i massicci (Flu̇ckiger); il fatto certo è che l'insediamento umano e quindi la popolazione hanno subito nel tempo dei continui spostamenti.
Possiamo immaginare che, ad un dato momento, l'uomo si sia impiantato sporadicamente lungo le arterie fluviali e nei fondo valle, poi che il divagare delle acque lo abbia respinto progressivamente sui pendii e sulle terrazze vicine, e che le invasioni e le grandi correnti di popoli (e questo valga specialmente per le Alpi Centrali e Orientali), l'abbiano obbligato a cercare, sino alla fine del Medioevo, un rifugio nelle valli laterali più alte. Gli invasori saranno poi cacciati essi stessi dai nuovi invasori, e allora si sceglieranno posizioni difensive che vediamo tuttora, specie nelle grandi valli di passaggio, sormontate da ruderi di castelli. Lentamente l'uomo monterà, o rimonterà second0 i casi, sui versanti per trovare o ritrovare i piani abitabili e la protezione dell'altezza contro i danni del suo simile e della natura. Con l'uomo risaliranno evidentemente le colture. Talvolta il popolamento è dovuto ad un monastero, che crea tutt'attorno un mondo economico nuovo e generalmente complesso, se non completo. Lo sfruttamento delle ricchezze naturali, legnami, pietre, lastre da copertura, ecc., accentuerà l'attività economica, specialmente nel periodo medievale; poi appariranno le miniere metalliche con tutte le conseguenze che ne deriveranno nel campo nella vita economica ed antropica.
Ma i due elementi essenziali del fissarsi dell'uomo alpino sono senza dubbio la strada e l'alpeggio. Di essi si dovrà quindi trattare più ampiamente in seguito.
Insomma, da un capo all'altro delle Alpi l'uomo ha lasciato tracce della sua svariata attività. L'attestano all'evidenza gli infiniti sentieri che solcano le valli e le pendici, intagliati nel vivo della roccia, gettati sui torrenti per mezzo di due travi mal connesse, strapiombanti sui precipizî, cura ancora oggi di tutta la comunità che, al suono della tromba o al rullo del tamburo, accorre nel periodo primaverile a riattarli (roide); l'attestano gli infiniti rigagnoli, i ru, i cianalot, le bisses, catturati generalmente a grandi distanze, che conducono spesso un semplice filo d'acqua ai prati assetati dei terreni di riporto permeabilissimi, con turni di sfruttamento scrupolosamente mantenuti, e motivo di continue contese; lo attestano i muricciuoli arditi che trattengono la scarsa coltre di terra coltivabile, lo attestano le rocce ricoperte di un leggiero strato di terra, faticosamente portatavi a dorso d'uomo, da cui nascerà stentatamente il grano saraceno, e finalmente le infinite casupole, deposito di foglie e di fieno accumulato faticosamente con la falciatura delle prode dirupate.
Ma oggi le strade ordinarie, miracolo dell'ingegneria, superano i colli ritenuti intransitabili, mentre la locomotiva, e più recentemente il locomotore, risalgono senza fatica le valli e s'addentrano nelle gallerie, rivoluzionando tutte le leggi naturali dell'ambiente, portando nel mondo alpino un soffio di vita nuova.
Il movimento della popolazione. L'emigrazione. - Effettivamente, come dicemmo, le Alpi non hanno costituito e tanto meno costituiscono una barriera divisoria dei popoli e degli scambî, ché anzi le grandi valli, simili a golfi rispetto alle grandi distese pianeggianti che attorniano la catena, sono state invase da tre nazionalità diverse, la slava, la germanica, la latina, e solo affiorano qua e là alcuni isolotti etnici più antichi.
Come anche in seguito si vedrà, la ripartizione di questi tre gruppi etnici non ha subito modificazioni notevoli dal Medioevo ad oggi. Hanno subito invece profonde trasformazioni la densità e l'area del popolamento, fino a raggiungere, a un dato momento, un alto grado di saturazione demografica. Naturalmente i periodi del popolamento e dello spopolamento, che sogliono avverarsi anche sulle Alpi, quasi in obbedienza alla legge dei corsi e dei ricorsi, non si succedono nelle diverse parti del sistema con eguale intensità e fisionomia. Si riscontrano tuttavia dei periodi, durante i quali il fenomeno demografico presenta caratteristiche comuni attribuibili a contingenze economiche d'indole generale. Così è avvenuto, ad esempio, per la deforestazione. Negli ultimi secoli del Medioevo gli Slavi e i Germani si accostano alle dense foreste alpine, vi affondano le loro accette e le diradano, mentre nelle Alpi Svizzere, Francesi ed Italiane l'attività colonizzatrice dei grandi conventi si svolge essa pure - e più intensamente ancora - in piena zona forestale nella quale i monaci ed i loro homines vanno aprendo larghi spazî da adibire alle colture e all'allevamento. Attorno alle grange conventuali si addensa la popolazione, si creano i villaggi e prendono vita nuove forme di sfruttamento della terra e di patti colonici. Lo sviluppo del prato stabile e del campo, a danno della foresta, provoca l'immigrazione di braccia, tanto che nel sec. XVI in talune zone alpine, come s'è detto, si nota una vera saturazione demografica. Il fenomeno si accentua decisamente nel sec. XVIII, anche per il persistere delle guerre e per la crescente natalità della popolazione, la quale vive ormai sotto l'incubo della miseria e della fame.
La valvola di sicurezza era naturalmente l'emigrazione. Precisamente nel sec. XVIII si accentua quell'emigrazione stagionale così varia nelle sue forme, talvolta strana nelle sue manifestazioni ed espressioni. È ben noto, ad esempio, che fin dai sec. XVII e XVIII i braccianti valdostani, i muratori e gli scalpellini biellesi e valsesiani, i carpentieri canavesani, solevano varcare le Alpi o scendere in Lombardia o nel Veneto in cerca di lavoro, malgrado i ripetuti divieti legali. Torino, Milano, Lione, Marsiglia, Parigi, Zurigo, vedevano, durante la lunga stagione invernale, scendere dalle valli alpine frotte di montanari, talvolta intere famiglie, che si dedicavano ai lavori più diversi. Il colportage (vendita ambulante) si sviluppò precisamente in quei tempi di accentuata emigrazione temporanea.
Ma intanto il fenomeno urbanistico, dapprima timido, si accentua e s'intensifica fissando l'emigrazione temporanea delle zone montuose. Nella prima metà del sec. XIX il montanaro emigrante lascia addirittura la sua patria, spesso a frotte, a villaggi, attraversa l'oceano e fonda colonie. I Valdesi delle valli omonime, per ragioni politico-religiose e per la persistenza delle malattie delle patate, fondano colonie fiorenti nell'Uruguay e negli Stati Uniti, l'Argentina accoglie villaggi interi delle Alpi Francesi, i montanari delle Alpi Svizzere scendono nella pianura padana a speculare sul bestiame da ingrasso e quelli della Val Venosta si dedicano nelle grandi città italiane ed austriache al commercio delle frutta.
L'emigrazione reca con sé notevoli benefici: riduce da un lato la saturazione demografica, provocando di conseguenza la valorizzazione delle terre, e dall'altro assesta, con le rimesse, gli esausti bilanci familiari. Ma sul finire del sec. XIX il fenomeno emigratorio si fa preoccupante anche per la diminuita natalità. In alcuni distretti delle Alpi Francesi si calcola che la popolazione sia diminuita del 50%, e così è avvenuto, sia pure in proporzioni minori, per buona parte delle Alpi Occidentali italiane, del Cantone dei Grigioni, dell'alto Vallese e delle Alpi Bernesi. Nelle Alpi Austriache il fenomeno è meno accentuato per cause locali, tuttavia in alcune valli la percentuale di diminuzione raggiunge il 35%. Il íenomeno generale ha naturalmente le sue eccezioni: esistono infatti nella zona alpina aree di notevole aumento demografico, corrispondenti per lo più ad aree di maggiore intensid industriale, o ad aree di intensificata coltura e di migliorato allevamento, o anche ad aree di rinnovato sfruttamento forestale, ricchezza impensata un tempo, oggi, in un periodo di larghe ed affannose richieste, fonte di guadagno sicuro e continuo.
Nel periodo attuale assistiamo del resto a un fatto sintomatico, cioè al lento ripopolamento delle Alpi in relazione allo sviluppo industriale che utilizza in sommo grado le forze idriche e idroelettriche. Ma anche in questo caso il popolamento ha caratteri diversi da luogo a luogo; mentre cioè si nota per gran parte delle zone centrali ed orientali un lento ritorno del montanaro stesso dal piano al monte, nelle Alpi Francesi, regioni di bassissima natalità, e, per quanto in minor proporzione, nelle Alpi Piemontesi, le valli vengono invase da un'emigrazione straniera, che può benissimo ormai esser chiamata cosmopolita.
Le zone di vegetazione e la loro funzione antropica ed economica. - Le industrie nuove che si vanno affermando non riescono tuttavia a distruggere e nemmeno a variare, per ora, la fisionomia economica fondamentale del sistema alpino, che è rappresentata sempre dallo sfruttamento delle risorse della terra e cioè dall'attività agricolo-pastorale. Questa attività, com'è noto, è governata e caratterizzata dal succedersi altimetricamente delle zone di vegetazione già in precedenza considerate sotto l'aspetto fitogeografico. Considerate ora nella loro funzione antropica ed economica e cioè utilitaria, possono fornirci elementi utili per una sufficiente valutazione dei problemi agricolo-pastorali della zona alpina.
Le zone prese in considerazione sono le seguenti: zona di fondo valle, zona del castagno, sottozona della vite, zona del campo, zona delle foreste e zona dei pascoli alpini.
La zona del fondo valle varia di aspetto secondo che essa è adibita a colture agricole o a prato stabile. I limiti tra i due aspetti colturali non sono facilmente definibili, perché le due colture sono spesso interferenti e la loro interferenza è in istretto rapporto con le condizioni morfologiche locali e specialmente con l'apertura, l'ampiezza e la direzione delle singole valli. Esistono difatti nelle valli alpine molto aperte, dei veri golfi, per usare l'indovinata espressione del De Martonne, di agricoltura intensiva; come, p. es. sul versante meridionale italiano e francese, dove i benefici del clima mediterraneo possono operare profondamente fin nel cuore del sistema, tanto da permettere alle colture cosiddette mediterranee limiti polari veramente eccezionali. È a tutti noto che l'olivo fruttifica in molte località delle Alpi e si spinge in Francia fino oltre Sisteron e Puget Théniers, mentre nel versante italiano abbellisce le rive dei laghi alpini e specialmente del Garda, dove, in via del tutto eccezionale, troviamo pure largamente praticata la coltura degli agrumeti (Salò), disposti a gradini affinché possano meglio godere i benefici dei raggi solari.
Ma una buona parte dei fondo valle è occupata dal prato stabile. La larga possibilità d'irrigazione e la necessità di integrare con l'allevamento lo scarso reddito dell'agricoltura specialmente in regime di economia chiusa, hanno spinto il pastore a sistemare a prato i ghiaieti dei torrenti divaganti (gravere; gravières), le terrazze alluvionali e i coni di deiezione. Spiccano fra i prati i fienili che proteggono il prodotto della fienagione fino all'epoca delle nevi. In molte località queste costruzioni sono scomparse o cadono in rovina, soppresse dalle migliorate condizioni della viabilità, grazie alle quali il pastore può adesso trasportare direttamente alle stalle il prodotto della fienagione.
La zona del prato stabile di fondo valle, nel versante mediterraneo, si confonde spesso con la zona del castagno. Il nemus castanearum dei cartarî medievali fascia ancora oggi, quasi ininterrottamente, tutte le valli che più direttamente sentono l'influenza del Mediterraneo (limite superiore medio metri 1000 s. m.). Il castagno è invece completamente assente nel versante settentrionale del sistema alpino. D'importazione antichissima, sviluppatosi probabilmente a spese del faggio, il castagno può essere considerato indigeno, perché la sua coltivazione si perde nella notte dei tempi. Come zona colturale e utilitaria, quella del castagno ha avuto fino alla metà del sec. XIX un'importanza veramente fondamentale, perché il suo frutto fu largamente usato come cibo, anzi fu considerato, ridotto in farina, come base dell'alimentazione. L'estensione della zona ha subito, nel corso dei tempi, delle notevoli variazioni, a vantaggio specialmente della zona "parassitaria" della vite, che ha preso grande sviluppo nel Medioevo, all'epoca dei grandi dominî monastici e con l'intensificarsi della policoltura. La diminuzione dell'intensità della zona, invece, va messa in relazione con l'ampliarsi della praticoltura intensiva e con l'estendersi delle industrie, le quali richiedevano abbondanza di legname, com'è avvenuto per le industrie del sec. XVIII e della prima metà del sec. XIX e in questi ultimi decennî per la nuova industria del tannino. Il nemico ultimo - e il più temibile - è la malattia dell'inchiostro che in qualche zona ha fatto scomparire quasi completamente il bosco. Ancora oggi il castagno costituisce la più ricca fonte di guadagno di alcune valli cuneesi, ed è perciò oggetto di cure attente, rivelate anche dalla persistenza dei seccatoi, tipiche costruzioni temporanee che servono di ricovero e nello stesso tempo di deposito nel periodo della raccolta autunnale. È bene ricordare che il commercio delle castagne, in molte importanti città prealpine (Mondovì, Cuneo, Saluzzo, Torino, ecc.), dà luogo in epoche fisse a un largo movimento di persone, in modo che ne resta largamente interessata l'antropogeografia della contrada.
La sottozona della vite trovasi diffusa a spese del castagno nelle Alpi Occidentali italo-francesi o a spese della quercia nelle altre regioni alpine. Essa è prevalentemente diffusa nelle valli profonde e larghe e sulle alture che si affacciano ai laghi. Nelle Alpi Occidentali s'incunea profondamente nella Valle d'Aosta, sul versante a solatio, dove esistono particolari condizioni di secchezza, e vi dà ottimi prodotti; essa penetra nella Valle di Susa fino alla stretta serpentinosa di Exilles (vini di Chiomonte), mentre nelle altre valli occidentali, più strette e meno sviluppate, la vite risale i ripidi pendii di sinistra, fortemente soleggiati, e distribuisce i suoi tralci sugl'imponenti massi detritici, a pergolato. Il suo limite superiore nelle Alpi Occidentali italiane può essere stabilito sugli 800 metri. Nelle Alpi Centrali italiane la vite viene largamente coltivata in Valtellina, nel Canton Ticino, nelle Prealpi Bresciane e Bergamasche, fino ad un limite che non supera in nessun caso i 1000 metri. Nelle Alpi Orientali è largamente diffusa nella Valle dell'Adige e abbraccia poi larghe estensioni delle pendici prealpine venete (Lessini, colline di Conegliano, ecc.) dove forma anzi la base dell'agricoltura locale. Nelle Alpi Francesi la vite s'innalza fino ai 1000 metri in Moriana (Orelle), dove si hanno valli profonde e riparate, mentre nel Graisivaudan, valle più aperta ai soffî freddi, la vigna non arriva che ai 750 metri. La mancanza di braccia e la fillossera hanno ridotto anche nelle valli francesi l'estensione della vite. Nelle Alpi Svizzere la vite prospera quasi esclusivamente nel Vallese, dove va perdendo in estensione a vantaggio dell'intensità.
La vite, nelle regioni più interne delle Alpi, va considerata come complemento della policoltura: sotto questo aspetto presenta quindi un grande interesse nel campo antropogeografico. Generalmente il proprietario della vigna abita nella parte superiore della valle; di qui la necessità di costruzioni temporanee locali (tinage nelle Alpi Franco-provenzali; nazets nel Vallese svizzero) che servono di ricovero per gli attrezzi, per gli uomini e sono anche utilizzate per la fabbricazione del vino. In molte località, col progredire delle vie di comunicazione, tali costruzioni vanno scomparendo, ma il fenomeno nomadistico non perde tuttavia il suo interesse come elemento di complessità nel campo antropogeografico.
Sui ripiani erosi e lisciati dai ghiacciai, a solatio, lungo i pendii più morbidi delle grandi conoidi, il pastore ha creato, non senza fatica, la zona del campo. Zona già fervida di vita, oggi è in evidente trasformazione: il campo difatti cede il posto al prato e l'abitazione permanente all'abitazione stagionale. Qui si alternavano le colture più diverse, spinte ad altezze inverosimili, che fornivano al pastore il cibo e le materie del vestiario durante il periodo classico della policoltura. Ogni famiglia, ad esempio, aveva il suo campicello di canapa, oggetto di cure particolari. Questa coltura oggi è scomparsa in quasi tutta la zona alpina: le comunicazioni l'hanno cacciata in sedi più favorevoli, nelle pingui pianure. Sono rimasti ancora qua e là, nei centri più interni, le ruote per pressare la canapa (presse-batour), di proprietà comunale e quindi della collettività, mentre i folloni continuano, in alcune valli, a differenza delle presse che tacciono, a pestare e a comprimere i panni che i vecchi telai del pastore s'attardano a tessere. Ma la trasformazione è progrediente, la policoltura sta per cedere il posto, definitivamente e dappertutto, al pascolo e all'allevamento razionale e intensivo.
Comunque è facile constatare che l'agricoltura nella zona alpina, fino ad oggi, ha una doppia fisionomia derivante essenzialmente dalla situazione delle due ben distinte zone del campo: 1. una zona di fondo valle, a carattere intensivo, per nulla diversa dall'agricoltura delle pianure contermini, propria quindi delle valli aperte e sviluppate; 2. una zona di ripiani e di pendio, avanzo della policoltura, che si attarda a scomparire nelle zone delle alte valli, più lontane dalle vie di comunicazione, quindi complemento necessario dell'economia pastorale.
Sui 1200 m. circa e secondo le condizioni di suolo e di esposizione, si inizia la zona forestale, rappresentata quasi essenzialmente dalle conifere e dal faggio. In alcune località delle Alpi Italiane e Francesi persiste il bosco di quercia. L'abete è proprio delle regioni più secche e quindi regna sovrano nelle Alpi Bavaresi ed Austriache, dove del resto trova favorevoli anche la legislazione e la cura dell'uomo. L'epicea ed il larice trovano l'habitat più confacente nelle regioni centrali, più alte, più secche e più soleggiate.
I limiti altimetrici della zona forestale sono naturalmente in rapporto con le condizioni climatiche, ma l'opera dell'uomo è il principale coefficiente dell'abbassamento di tali limiti. Uno spiccato abbassamento si può riscontrare nelle catene esterne, mentre il limite superiore medio s'innalza in corrispondenza dei grandi massicci e delle grandi catene spartiacque. Le depressioni più forti (1400-1500) corrispondono evidentemente a un abbassamento trasversale delle Alpi, oppure a una maggiore intensità di piogge che in talune località si possono ritenere veramente eccezionali (regioni del Lago Maggiore, Ticino, Grigioni, Alpi Carniche e Giulie). Se vogliamo poi discendere alle particolarità in fatto di distribuzione, possiamo constatare in tutta la catena notevoli differenze di densità e di altitudine quando mettiamo a confronto i fianchi delle valli diversamente esposti. È chiaro che l'importanza della zona forestale si riverbera sulle manifestazioni dell'attività umana, poiché la densità più o meno forte della zona forestale determina nelle diverse località modi di vivere differenti e può influire sulla forma della casa, sull'economia locale, sulle industrie tradizionali e sullo stesso fenomeno emigratorio stagionale. Né va dimenticata la funzione importante della zona forestale come complemento della zona del pascolo, tanto è vero che il limite fra le due zone non è sempre definibile, anche per le variazioni a cui tale limite va soggetto per l'opera dell'uomo.
La zona del pascolo è senza dubbio da considerarsi, dal lato economico, la più importante, certamente la più caratteristica anche dal lato antropogeografico, tanto che qualche studioso vi ha fissato senz'altro l'area del primitivo popolamento alpino.
Per circa tre mesi in questa zona ferve la pastorizia; qui il il lavoro e i modi di sfruttamento si manifestano svariatissimi nelle loro forme, generando quella varietà e complessità di vita che è propria del mondo alpino. Il valore economico della zona pastorale non dipende soltanto dall'abbondanza dell'erbaggio, ma anche dalla qualità di esso. Questi due caratteri, che spesso sono in ragione inversa l'uno dall'altro, possono naturalmente influire sul carico della zona e sullo stesso regime della proprietà dei pascoli. Attraverso l'esperienza è possibile constatare che i migliori pascoli sono quelli situati nelle regioni francesi e italiane dei calcescisti (schistes lustrés dei Francesi), anche per le condizioni morfologiche che essi determinano, mentre le zone calcaree orientali agiscono, si può dire, repulsivamente, sia per la nota mancanza di acque superficiali, sia per la mobilità del suolo (Sieger).
Attualmente le forme della proprietà dei pascoli alpini sono due. Esistono cioè una proprietà collettiva, che è la preponderante, e una proprietà individuale. Quest'ultima forma ripete la sua origine da tempi molto antichi ed è in evidente relazione con le condizioni geografico-economiche dei territori, poiché la sua importanza è in ragione inversa del carattere estensivo dello sfruttamento. La proprietà collettiva può essere sfruttata o da società di individui o dai comuni. I pascoli in società possono essere di origine recente o antica: questi ultimi, di origine medievale, sono originati da patenti di cessioni a favore di individui designati nominalmente, mentre i primi derivano dallo sfruttamento dei pascoli che i pastori hanno comperato dai comuni per addivenire a un più razionale sfruttamento pastorale. La proprietà dei pascoli deriva in gran parte dalle cessioni che le comunità rurali hanno ottenuto dai signori e dai monasteri medievali. Talvolta la proprietà pastorale dei comuni prealpini è a notevole distanza, frammista cioè a quella dei comuni delle alte valli.
I tipi antropici ed economici fondamentali. - Le zone di vegetazione, considerate nella loro funzione utilitaria, sono adunque fattori importanti di differenziazione antropica ed economica. Se accanto ad esse aggiungiamo, come fattori di differenziazione, da un lato le condizioni morfologiche e dall'altro le condizioni etnico-storico-religiose, il modo di circolazione e l'attività industriale abbiamo la possibilità di individuare nel sistema alpino alcuni tipi antropici ed economici fondamentali, i quali, analizzati, ci possono fornire elementi sufficienti per porre in rilievo le caratteristiche più salienti della vita alpina.
1. Tipo arcaico delle valli interne, la policoltura, la vita pastorale, il nomadismo pastorale. - Esso rappresenta il tipo dominante nei tempi passati ed è caratterizzato dalla persistenza della policoltura e della vita nomadistica, varia nelle sue forme e nella sua intensità. L'occupazione fondamentale è naturalmente l'allevamento del bestiame, rappresentato da bovini nelle regioni più umide, da ovini nelle regioni più secche o anche in egual misura da bovini ed ovini. Le trasformazioni antropiche ed economiche delle zone alpine hanno respinto questo tipo verso le alte valli e in genere intorno ai grandi massicci centrali, dove il soffio della nuova vita non è ancora giunto o comunque non ha potuto far sentire, in modo decisivo, i suoi effetti trasformatori. Questa vita pastorale si manifesta a tutte le altitudini, dai 585 m. dei pascoli alpini friulani fino ai 2000 m. del cantone dei Grigioni, e si svolge indifferentemente, se pure con diversa intensità, nelle zone più diverse per la loro costituzione, poiché la troviamo nelle regioni dolomitiche del Tirolo, negli scisti dei Grigioni e delle Alpi Francesi, nello gneiss del Canton Ticino e delle Alpi Occidentali, nei calcari dell'Oberland bavarese, nei graniti del cantone di Uri. La vita pastorale, a sua volta, ha piegato alle sue necessità i popoli più diversi delle Alpi. Non fa quindi meraviglia che la vecchia parola Alpi, con tutti i suoi derivati locali, abbia perso già fin dal periodo medievale il suo significato generale, tanto che è così indifferentemente usata per denotare tanto la catena, quanto i pascoli alpini.
L'alpeggio è la base dell'economia montana e caratterizza la vita pastorale di montagna con gli spostamenti che esso implica, e cioè col fenomeno del nomadismo pastorale. Fenomeno antropogeografico interessante, il nomadismo ripete la sua origine, antica quanto lo sfruttamento pastorale delle Alpi, dal bisogno di nutrire un numero di capi di bestiame superiore a quello che la zona del prato possa sopportare. Per questo ancor oggi l'alpeggio è curato specialmente in quelle zone nelle quali persiste il tipo arcaico.
A una data epoca la mandria, spesso variamente raccolta, lascia il villaggio di fondo valle o di costa e sale lentamente la valle, poi ne abbandona il fondo per inerpicarsi nei valloni laterali fino a raggiungere i pascoli, sale cioè all'alpe, alle casere, agli châlets, alle montagnes, o alle Almen. Lo sfruttamento del pascolo estivo è perfettamente organizzato: ogni pastore ha le sue funzioni speciali e sull'alpe esiste anche una particolare gerarchia. In settembre o sul finire di agosto il gregge ridiscende verso le stalle delle valli o della costa. Questo tipo di nomadismo è naturalmente il più semplice (pastorale puro), mentre, generalmente, il ritmo del nomadismo è molto più complesso, perché intramezzato dalle esigenze della policoltura, cosicché, nel caso del nomadismo denominato agricolopastorale, fra le due stazioni estreme esiste un'altra zona di sfruttamento, su cui l'attività del pastore-agricoltore si esplica nel periodo primaverile e autunnale. È la zona questa delle meire e delle muande delle Alpi cuneesi e delle Valli di Lanzo, dei fourest delle valli valdesi e provenzali, delle campagne della Tinea, delle casine delle Alpi Centrali, delle montagnette delle Alpi Savoiarde, Valdostane e del Vallese, dei mayen, dei voralp delle Alpi della Svizzera tedesca, dei niederalp del Lungau.
2. Tipo pastorale intensivo, la zona specializzata del prato stabile. - Nelle zone esterne del sistema, a dolce pendio, dove esistono grandiosi coni di deiezione e grandiose distese di relitti glaciali a contatto quindi dei centri subalpini o in comunicazione diretta coi grandi centri delle pianure, dove è possibile smerciare più facilmente il latte o i latticinî, si è andato affermando, a danno del manto forestale e mercé l'opera secolare dell'uomo, uno speciale tipo di sfruttamento pastorale. In queste zone il pastore o meglio l'allevatore-casaro ha dedicata tutta la sua attività al prato stabile, trascurando quasi completamente la coltivazione dei campi. Tutte queste zone sono naturalmente molto ricche di fienili e di caselli da latte e quindi assumono anche nel paesaggio antropogeografico un aspetto del tutto particolare.
Questo tipo è largamente rappresentato nelle regioni prealpine della Svizzera e in quelle del Vorarlberg e dell'Algau, mentre nelle zone prealpine interne, cioè della valle padana, il tipo è meno continuo a causa delle particolarissime condizioni geologiche delle Prealpi Lombarde, dell'assenza della zona prealpina nelle Alpi Piemontesi, tanto che è appena individuabile nelle valli dei Lessini, nelle prealpi fra Piave e Tagliamento e nelle Prealpi Carniche, dove del resto le precipitazioni sono più abbondanti e quindi le condizioni più favorevoli. In queste regioni di grande produzione foraggiera il nomadismo nelle sue forme ora ricordate è completamente assente.
3. Tipo agricolo pastorale prealpino. Sue trasformazioni. - In tutte le altre zone prealpine la pastorizia è naturalmente accompagnata dall'agricoltura, anzi spesso questa ha la decisa preminenza nell'economia locale. Il fenomeno del nomadismo pastorale può sussistere ancora, ma, generalmente, è limitato o si presenta nel suo aspetto più semplice, perché ad un solo tramuto. Questo tipo si presenta molto vario nelle sue forme e nelle sue manifestazioni antropogeografiche ed economiche. Nelle zone più ingrate, nelle quali né la pastorizia, né l'agricoltura sono sufficienti a mantenere la popolazione, questa si dedica largamente ad altri mestieri o si indugia nei lavori speciali che nel lungo esercizio delle generazioni hanno acquistato un alto grado di specializzazione e di notorietà. Caratteristica, ad esempio, è la nota fabbricazione degli orologi nelle prealpi svizzere e degli oggetti di legno artistici in molte valli anche italiane. Le industrie che fruiscono del carbone bianco e la progrediente industria turistica ed alberghiera sono gli agenti principali della trasformazione di questo tipo prealpino, tanto che, o con l'assorbimento di braccia, o con l'imposizione di nuovi metodi di vita, o con la richiesta di determinati prodotti della terra o dell'allevamento quelle industrie spingono il pastore-agricoltore alla specializzazione delle sue colture. Così, in molte località dove è possibile l'irrigazione, il tipo agricolo-pastorale prealpino si trasforma, specializzandosi, nel tipo pastorale puro o a prato stabile, e altrove il pastore lascia il gregge e si dedica alla frutticoltura o al giardinaggio.
4. Tipo agricolo a carattere intensivo. - È rappresentato dai golfi agricoli. Le caratteristiche antropogeografiche non si differenziano molto da quelle delle zone agricole delle pianure, delle quali sono una dipendenza; tutt'al più si nota una diminuzione e una restrizione di certe colture, come quella del mais e quindi alcune variazioni nella forma e nell'ampiezza della casa e dei sistemi colturali.
L'allevamemo: sue trasformazioni. Il carattere attuale delle fiere. Il fenomeno della transumanza. - La funzione economica attuale delle Alpi è bene individuata. Scomparsa in parte la policoltura col progredire delle comunicazioni o con il nuovo tenore di vita provocato anche dalle emigrazioni, la zona alpina attualmente va considerata come importatrice di cereali e di manufatti ed esportatrice di prodotti di allevamento. L'antica vita pastorale, come si è visto, è in evidente decadenza: l'allevamento e il commercio del bestiame in compenso sono in piena prosperità, poiché la diminuzione del numero è andata a vantaggio della qualità e del rendimento. Anzi il commercio del bestiame tende sempre più ad ampliarsi nel piano. Le Alpi infatti sono diventate le grandi fornitrici di carni delle metropoli.
Così le caratteristiche fiere dei più importanti centri alpini trasformano la loro fisionomia, diventano cioè sempre più specializzate nella concentrazione e nell'esportazione del bestiame, e perdono ormai quella fisionomia di scambî multipli che le caratterizzava nel periodo della policoltura. Le fiere tendono poi a scomparire in relazione al decadere della transumanza pastorale, con la quale erano e sono tuttavia intimamente legate.
Questo fenomeno antropogeografico così importante nei tempi passati, che, allargando la funzione del nomadismo locale, metteva in relazione la zona di allevamento alpino con le zone agricolo-pastorali delle pianure, attualmente è ristretto, si può dire, alle zone di tipo arcaico. La transumanza degli ovini è in decadenza sempre più accelerata, poiché essa mal si concilia con l'agricoltura intensiva. Sempre in efficienza è invece la transumanza nelle basse Alpi, dove l'allevamento ovino non trova ostacoli, anzi rappresenta l'unica fonte di reddito, date le condizioni del suolo. Anche la transumanza bovina, così importante nei tempi passati da non rispettare i confini politici, è in decadenza, sebbene in proporzioni non paragonabili con quelle della transumanza ovina. Resistono sempre in molte valli italiane i margari, che comprano il fieno dagli agricoltori del piano, che albergano altresì la mandria transumante dietro un compenso o il rilascio del concime. Accanto alle forme di transumanza normale, vi sono delle forme di transumanza inversa (dal piano al monte) praticata da certi allevatori che possiedono numerosi greggi, come pure esiste la transumanza, chiamata dall'Arbos commerciale, che invia alla montagna animali di provenienza straniera destinati all'ingrassamento.
L'abitazione alpina: 1. Abitazione permanente. - Il fenomeno geografico strettamente legato alla nostra vita, l'abitazione umana, mentre è da riconoscersi effimero rispetto alla edacità del tempo, conserva tuttavia nei suoi caratteri generali e specialmente nelle sue forme una certa persistenza e permanenza che possiamo attribuire, oltre che alla tradizione, anche alle condizioni naturali dell'ambiente. Quindi tale persistenza è soprattutto accentuata nelle regioni montuose, dove l'uomo è più intimamente e fortemente attaccato all'ambiente fisico, e dove le condizioni antropiche ed economiche assumono caratteri veramente originali. Il Brunhes nota giustamente che tra i fenomeni della vita di montagna i cui rapporti con la vita pastorale sono particolarmente interessanti per il geografo, sono senza dubbio da mettere in prima linea l'abitazione e la circolazione.
I fattori naturali che maggiormente influiscono sulla distribuzione e sulla posizione topografica dell'abitazione umana sono evidentemente le condizioni morfologiche (pendio, stabilità del terreno, ecc.) e le condizioni climatiche (esposizione). In tutta la zona alpina l'uomo ricerca il sole: la sua casa quindi è sempre orientata in modo che i raggi del sole nascente raggiungano subito la facciata. Ma, se le case isolate nei bacini più largamente aperti possono rivolgersi e si rivolgono precisamente a solatio, il problema non è sempre identico quando si tratta di case agglomerate, le quali, bene spesso, hanno bisogno di affacciarsi sulla strada. Ma se consideriamo il villaggio come unità, constatiamo subito che in quanto all'orientazione obbedisce esso pure alla legge generale. In tutta la zona alpina si rivela quindi l'opposizione tra il versante del sole e quello dell'ombra, tra l'endroit e l'envers, tra l'indritto e l'inverso, tra l'adret e l'ubac, tra la Sonnerseite e la Schattenseite.
Le condizioni morfologiche spiegano, oltreché la distribuzione, anche i tipi e le forme degli aggruppamenti. Troviamo difatti villaggi agglomerati sulle terrazze o sull'apice dei coni di deiezione, villaggi allungati lungo le strade di grande comunicazione, villaggi a croce all'incrocio di strade e di valli, villaggi a spalliera lungo i pendii a solatio, villaggi a pan di zucchero sui rialzi già a difesa di valli e quindi chiusi da mura. Né si deve dimenticare l'acqua come causa efficiente della distribuzione dell'abitazione alpina e del suo carattere accentrato o sparso.
Sole, acqua, rialzi di terreno hanno la funzione di condizioni influenti per l'insediamento umano, ma altri fatti hanno invece la funzione di condizioni restrittive.
Le abitazioni fuggono le parti basse dei thalweg per il pericolo delle inondazioni e della troppo forte umidità. Il vento stesso, in certi casi, respinge ed ostacola l'insediamento, come avviene nell'alta valle della Reuss, dove si scatena sovente e violentemente il föhn, il quale costringe le abitazioni a nascondersi al riparo nelle valli laterali. Cause restrittive di decisiva importanza sono poi le valanghe e i periodici scoscendimenti.
Ma le condizioni fisiche non sono sempre sufficienti a spiegarci da sole la distribuzione delle abitazioni, anzi spesso bisogna ricorrere all'analisi degli elementi etnici, antropici ed economici locali. Il fatto stesso della persistenza in determinate località della casa agglomerata, mentre in altre regna la casa sparsa, va riferito molto spesso a tradizioni etniche insopprimibili. Esempio classico è la tendenza ad isolarsi della casa germanica, mentre l'agglomeramento prevale in maniera assoluta nei versanti abitati da Latini. Quindi sono tipi di case da non considerarsi auctoctoni, ma che rispecchiano invece le caratteristiche fondamentali dell'insediamento proprio delle due razze.
L'influenza etnica molto spesso è quella che decide della forma e del modo di costruire la casa; poiché non affatto infrequente è il caso di costruzioni le quali usano - sia pure in via eccezionale - del materiale tratto e trasportato da luoghi lontani, in omaggio, senza dubbio, alla tradizione.
A proposito del materiale da costruzione è possibile tracciare una divisione - sia pure grossolana - dei tipi fondamentali delle abitazioni. E possibile cioè riscontrare un tipo del versante settentrionale e un tipo del versante meridionale.
Il tipo settentrionale, chiamato da taluni tipo germanico, partendo dalle Alpi Savoiarde abbraccerebbe tutto il versante settentrionale del sistema e terminerebbe nella Bassa Austria. Prevale in esso il legname; il tetto a forti spioventi è tanto largo da ricoprire larghe strisce del terreno circostante alla casa. La caratteristica fondamentale di questo tipo di casa è la semplicità e l'uniformità della costruzione. In essa infatti, sotto lo stesso tetto, sono contenute le stanze di abitazione e tutti gli ambienti accessorî. L'ampiezza della casa dipende quindi dal tipo persistente dell'economia locale, che agisce come causa efficiente sull'ampiezza della stalla e del fienile: conseguentemente la casa è più vasta dove è praticato l'allevamento dei bovini. L'abitazione generalmente è composta di tre parti: di una camera, della casa per eccellenza (Haus) e di una cucina. La stalla, che generalmente è sotto lo stesso tetto, è ricongiunta al corpo principale con un balcone. Naturalmente nelle regioni di maggior produzione foraggiera, e cioè nelle regioni umide della Savoia e del Vallese, sussistono dei fienili isolati. Spesso accanto alla casa germanica si trova un piccolo fabbricato costruito a distanza sufficiente per impedire la propagazione del fuoco; in quel fabbricato viene racchiuso il piccolo tesoro familiare, costituito dai costumi locali e dalla madia che contiene gli alimenti.
La semplicità della casa settentrionale si complica quando si passi l'Inn: il tetto si fa più ripido ancora, ma è meno sporgente, le costruzioni che albergano rispettivamente gli uomini e il bestiame sono divise, pur rimanendo tuttavia intercomunicanti. Da questo tipo si distacca la casa slava o di origine slava, distribuita in Carniola e in Stiria, caratterizzata dal tetto a sesto acuto e dalla ancora minore complessità, specialmente di accessorî, in confronto della casa tedesca.
La casa del versante meridionale delle Alpi è invece la casa della pietra o meglio del tetto di pietra. È la caratteristica casa a più piani, con gli spioventi del tetto assai ridotti. Questo tipo compare nelle valli italiane e nelle valli francesi meridionali, e cioè corrisponde alle zone più povere di legname, e nello stesso tempo è una derivazione della casa delle pianure contermini. Sono frequenti i balconi, che, oltre ad avere la funzione di corridoio di passaggio esterno, sono adibiti a deposito di legna da ardere. Spesso il fienile, che è quasi sempre in alto, al piano superiore, è circondato da tavole che favoriscono l'aerazione del foraggio e nello stesso tempo lo difendono dalle intemperie.
La forma della casa varia da regione a regione, se non da valle a valle, in obbedienza alle particolari condizioni morfologiche ed anche economiche locali.
È inutile ricordare che la persistenza dei tipi della casa indigena è avvertibile quasi essenzialmente nelle zone più interne.
In quanto alla distribuzione altimetrica dell'abitazione permanente si può osservare che essa raggiunge come limite superiore la zona forestale e talvolta vi s'insinua.
Abbiamo già ricordato che il limite superiore dell'abitazione permanente tende ad abbassarsi, e con esso il limite delle coltivazioni. Vi sono tuttavia dei villaggi nella catena alpina che si mantengono ad altitudini veramente eccezionali. Il villaggio più alto che suole essere ricordato è Juf in Svizzera a 2133 metri. Veramente tale villaggio non è abitato che per alcuni mesi dell'anno. Il villaggio più alto abitato effettivamente durante tutto l'anno nelle Alpi Occidentali è Saint Véran (Guil) a 2050 metri. Altri villaggi che si avvicinano ai 2000 m. sono, nelle Alpi Centrali, Chandolin in Val d'Anniviers (1936 m.), Tartar nella Valle di Thusis (1945) e nelle Alpi Orientali, Eishof nella Valle di Pfossen a 2076 metri.
2. Abitazioni temporanee. - Anche le abitazioni temporanee risentono dell'ambiente nel quale sono costruite. Prevalgono perciò le abitazioni in pietra e con la copertura di lastre gneissiche, nelle Alpi Occidentali e Centrali italiane, mentre nelle Orientali e nel versante settentrionale prevalgono quelle a copertura di legno o addirittura costruite con tavole e tronchi sovrapposti. Da quanto è stato esposto in precedenza deve apparir chiaro che le abitazioni temporanee si sovrappongono, potremmo dire, a stratificazioni e che tali stratificazioni assumono diversa fisionomia, intensità e complessità secondo la tradizione, la morfologia, nonché secondo le diverse contingenze economiche..
Si può constatare che le abitazioni temporanee estive sono tutte, o almeno in gran parte, al di sopra della zona forestale, mentre quelle di mezza stagione sono distribuite nella zona del campo o del prato di ripiano, e quindi al di sotto della zona forestale.
Se poi vogliamo precisare alcuni limiti per mezzo delle cifre, possiamo osservare che nella zona orientale austriaca (Sieger) la media altezza raggiunge i 1800 metri nei massicci centrali, mentre essa è inferiore ai 1000 metri in tutta la zona delle Alpi calcaree. Sul versante meridionale delle Alpi Orientali la differenza è ancora più evidente, se mettiamo a riscontro le Alpi Carniche e le Alpi Friulane, che hanno rispettivamerite un limite medio di 1400 metri e di 700 metri. Nelle Alpi Occidentali, dove la zona calcarea interna è completamente assente, i limiti medî si rialzano, come nei massicci orientali, sui 1800 metri. Per ultimo ricorderemo che esistono delle abitazioni temporanee che raggiungono e superano la rispettabile altezza di 3000 metri, come la Bergeria di Charmontan, nella Valle di Bagnes (3050 metri). Nelle Alpi Italiane si ha un'abitazione temporanea a 2940 metri sull'Adamello.
È possibile quindi concludere che il limite superiore della pastorizia varia dai 700 ai 2000 metri.
3. Le città alpine. - La zona alpina non è favorevole allo sviluppo dei grandi centri. Le condizioni fisico-antropiche ed economiche non possono favorire la concentrazione delle risorse e quindi la funzione dei grossi centri umani. Infatti non esistono città alpine che raggiungano i 100.000 abitanti e non esistono città sopra i 1000 metri, perché la circolazione e la vita febbrile dei grossi centri sarebbero eliminate per varî mesi dell'anno dalla neve. Solo Grenoble e Innsbruck si avvicinano ai 100.000 abitanti, ma esse devono questa loro preminenza a condizioni specialissime della loro situazione, che ne hanno fatto città industriali, commerciali e turistiche di prim'ordine.
Le città alpine sono soprattutto centri di fondo valle, perché sono legate alle condizioni della viabilità, anzi gran parte di esse - e trattasi qui delle città interne - sono centri d'incrocio di strade e di concorrenza di valli. Ma anche - e forse soprattutto - il sito ci può spiegare l'origine e lo sviluppo delle città alpine, poiché per quanto un centro possa godere di una buona posizione geografica, se non trova nella topografia locale condizioni favorevoli, non ha, specialmente nelle zone alpine sempre insidiate da elementi sfavorevoli, la possibilità di svilupparsi e d'ingrandirsi. Così troviamo le città alpine generalmente sui rialzi delle conoidi o su terrazze molto rilevate. Talvolta le città alpine o prealpine sono doppie, constano cioè di una città vecchia costruita su di uno sperone fortificato a difesa, mentre la nuova si affianca sullo stradone che lambe la fortezza o si agglomera attorno alla stazione ferroviaria. Così è di gran parte delle città prealpine piemontesi.
Le industrie. - L'industria alpina, intesa nel senso più recente del termine, appartiene alla storia economica di questi ultimi decennî: essa infatti è nata e cresciuta sotto l'influenza del progredire delle vie di comunicazione.
L'antica industria, come del resto l'antica agricoltura, aveva il solo e precipuo scopo di produrre per soddisfare gli immediati bisogni locali. In tutti i paesi e in tutte le borgate lavoravano i telai primitivi e si tessevano le tele di canapa e le lane, ricavate dal gregge allora più numeroso. Quando poi la lavorazione era praticata in un opificio, essa manteneva sempre il suo carattere prettamente casalingo e familiare.
Solo nel sec. XVIII, con lo sviluppo delle relazioni commerciali, si può parlare di un'industria tessile producente per l'esportazione: sono noti a questo riguardo i drappi delle Baronnies, che venivano esportati in tutta Europa, e i loden del Tirolo e del Vorarlberg. La coltura del gelso, intensificatasi nelle valli alpine italiane e nella Francia meridionale, provoca l'affermarsi dell'industria serica, largamente favorita dalla ricordata saturazione di braccia, in modo che gli scambî del prodotto fra i due versanti si vanno intensificando.
L' industria tessile, in quanto a intensità, a metodi di lavorazione e a distribuzione geografica, ha subito una radicale trasformazione. Nelle Alpi Italiane si è concentrata sul margine, dove si serve largamente delle perennità degli emissarî e delle forze idroelettriche non solo, ma anche dell'abbondanza della mano d'opera, e - nel caso specifico dell'industria serica - dell'abilità tradizionale della maestranza. In Francia, l'industria tessile moderna è concentrata nel Delfinato, allo sbocco delle valli, a contatto delle forze idroelettriche e dei bacini carboniferi; in Svizzera prospera sui margini alpini di nord-est (broderies di S. Gallo e di Glaris - seterie di Wintenthur e di Zurigo), in Austria nel Vorarlberg, nella Bassa Austria e in qualche località della Carinzia.
La metallurgia, sparsa ovunque e specialmente nelle regioni più ricche di boschi e di miniere (Bassa Austria, Stiria, Carinzia, valli bergamasche e bresciane, ecc.), era rappresentata da piccole officine, nelle quali si fabbricavano comuni utensili di ferro, non solo, ma spesso anche oggetti di non comune valore artistico. Quest'industria, come quella del rame non meno caratteristica, è andata attualmente concentrandosi là dove si sono scoperti giacimenti carboniferi (Alpi Francesi e Austriache); altrove invece è scomparsa, soffocata dalla concorrenza, e in qualche località si è mantenuta per tradizione e per la specializzazione della maestranza (Bresciano). Le valli dell'Orco, famose per la lavorazione del rame già estratto sul posto, continuano a fornire i caratteristici magnani, che vediamo gironzolare per tutti i paesi della pianura padana.
Conviene poi ricordare l'estrazione del carbone, che tuttavia nella catena alpina ha scarsa importanza. Nelle Alpi Italiane si hanno mediocri giacimenti di antracite nella Valle del Tanaro e in quelle di Aosta; in Stiria sono notevoli i giacimenti di lignite; nelle Alpi Francesi si hanno i giacimenti della Mure, che hanno però scarsa importanza per quantità e per qualità. Degli altri minerali sono da ricordare i giacimenti di piombo di Raibl e di Villaco, quelli di mercurio di Idria, di talco e graffite delle valli pinerolesi. Le Alpi hanno invece notevole importanza per la varietà del materiale da costruzione, tra cui ricorderemo i marmi, i cementi e gli scisti lamellari per coperture e per marciapiedi.
Ha mantenuto il carattere che aveva in passato, per ragioni ovvie, la lavorazione casalinga del legno, nelle regioni più dense di boschi. Esistono tuttavia nelle regioni orientali importanti segherie, che assumono tutte le caratteristiche proprie della grande industria, sia per la somma di lavoro, come per i capitali in esse impiegati e per il largo smercio del prodotto all'estero.
Altre industrie da ricordare, sia per la loro importanza, come per le loro mutate caratteristiche, sono: 1. quella della carta, largamente distribuita lungo i corsi d'acqua della quale necessita; 2. quella dei guanti, praticata specialmente nei dintorni di Grenoble, dove ha assunto un'importanza veramente mondiale. L'industria del vasellame, comune in tutte le zone argillose delle Prealpi, è ora cessata, vinta dalla concorrenza e dall'uso sempre più largo del vasellame metallico.
Industria del carbone bianco. - È questa l'industria che ha veramente trasformato l'ambiente economico alpino. Non solamente lo sviluppo di questa industria è pienamente in atto, ma le applicazioni e conseguentemente le trasformazioni anche spaziali delle industrie che da quella prendono la forza, interessano molto da vicino le caratteristiche dell'ambiente antropogeografico. È inutile ricordare l'importanza fondamentale della corrente elettrica come modificatrice della composizione chimica dei corpi, tanto che l'elettrochimica e l'elettrometallurgia vanno acquistando sempre maggiore importanza, anche per la solidarietà degli interessi comuni. Il mondo alpino, coll'uso del trasporto dell'energia a distanza, si è avvicinato sempre più ai grandi centri subalpini e alle metropoli.
Le centrali idroelettriche sono naturalmente distribuite lungo i corsi di acqua di maggiore o di più costante portata. Persiste tuttavia la preoccupazione della mancanza d'acqua, che trova d'altronde la sua ragione nei regimi così varî dei torrenti alpini. Di qui il largo e progrediente uso dei bacini, più frequente appunto in quelle località nelle quali il regime stagionale non permette una continuata e tranquilla utilizzazione. Lo stesso fatto comporta la necessità di un vasto collegamento delle centrali, non solo dei territorî vicini o nazionali, ma anche delle centrali di stati contigui. Ancora una volta è possibile osservare che le Alpi non sono ostacolo all'unione dei popoli alpini, ma anzi servono a cementarne i rapporti economici.
Nelle Alpi Italiane gran parte delle forze trovansi scaglionate lungo i margini, ma ormai gli imponenti impianti di bacini attraggono questa industria nell'interno delle valli. Ricordiamo, nelle Alpi Piemontesi, gli impianti del Roia, della Maira (70.000 HP), che alimentano le reti per la trazione elettrica delle grandi linee della Dora Riparia (Moncenisio), della Val d'Aosta con le sue numerose centrali, e della Toce; nelle Alpi Lombarde, oltreché i noti impianti sul Ticino e sull'Adda, costruiti da molti anni, vanno ricordati quelli della Valtellina, ai quali possono essere aggregati gli impianti svizzeri di Poschiavo, quelli dell'Oglio e specialmente di Isola, i recenti e imponenti dell'Adamello, del Ponale, di Idro; nelle Alpi Venete gli impianti dell'alto Adige, del Trentino, del lago di S. Croce e del Cellina.
Nelle Alpi Svizzere le centrali sono tutte di alta caduta. Esse sono naturalmente molto numerose ed hanno complessivamente circa un milione di HP. e cioè circa la metà delle forze utilizzate dell'intera confederazione. Le più potenti centrali sull'Albula e sulla Landquart, affluenti di destra del Reno, sono quelle di Albula, del lago di Heid, di Kloster Kublis; sulla Linth, la centrale di Löntsch; sulla Reuss, quelle di Amsteg e di Engelberg; sulla Kander, quelle di Kandergrund e di Spiez. Nel bacino dell'alto Rodano sono da ricordare le centrali di Chippis, di Martigny, di Fully che ha la più alta caduta del mondo (1635 metri). Nel bacino del Ticino ricordiamo la centrale di Ritom e quella di Biaschina.
Nelle Alpi Francesi le forze idroelettriche rappresentano il 55-60% del totale. Le centrali sono largamente distribuite e s'intensificano specialmente nelle Alpi del nord più piovose e quindi ricche di corsi di acqua che hanno una portata più costante. Il bacino dell'Isère produce gran parte di tali forze; fanno seguito gli impianti del Rodano.
L'industria turistica e l'alberghiera. - La maggior conoscenza delle bellezze alpine, aiutata dallo sviluppo delle vie di comunicazione, il bisogno insopprimibile di riposo per ritemprare lo spirito e il corpo, esausti dalla dinamicità della vita quotidiana, lo sviluppo del turismo, dell'alpinismo e degli sport invernali sono tutti fatti che provocano il richiamo imponente di masse verso la catena alpina. Di qui l'affermarsi dell'industria alberghiera che tende sempre più ad organizzarsi e a concentrarsi. Non è possibile, almeno per ora, per la mancanza o per la difficoltà dei rilievi statistici, dare cifre che valgano ad esprimere l'intensità e l'importanza del fenomeno turistico; è possibile però affermare che il turismo costituisce oggi uno dei grandi e più sicuri profitti dell'alpigiano e un altro mezzo di più stretta unione e di più intima relazione tra il mondo alpino e quello urbano. La Svizzera ha dimostrato, più che ogni altra regione alpina, la sua abilità e attitudine nello sfruttare le bellezze dei suoi monti, dei suoi laghi, delle sue cascate e dei suoi ghiacciai. Qui l'industria del forestiero è organizzata perfettamente, mediante un largo impiego di capitali, di réclame all'estero mediante una diligente preparazione del personale alberghiero, mediante la creazione di alberghi su tutti i punti più in vista, ai quali si accede facilmente con ferrovie, teleferiche, cremagliere, valendosi di biglietti circolari a prezzi ridotti e a lunga scadenza, e mediante la creazione di ottime stazioni per sport invernali, in modo che la clientela possa avvicendarsi stagionalmente nelle più diverse parti della confederazione. Fra le stazioni più note sono da ricordare Davos e Klosters, nell'alta valle del Reno, Zermatt, Fionnay, nel Vallese, Interlaken, Grindelwald, ecc., nell'Oberland Bernese.
Anche le Alpi Francesi sono il teatro di un'attiva circolazione di viaggiatori. Quest'attività turistica è in funzione della latitudine, e cioè è molto più intensa nel nord che nel sud, per evidenti ragioni climatiche. L'Alta Savoia viene in prima linea per importanza con le stazioni di Chamonix ed Èvian-les-Bains; ad essa fa seguito la Bassa Savoia con Aix-les-Bains, Challes, Brides-les-Bains, e Pralognan-la-Vanoise, poi la regione dell'Isère con Allevard e Uriage, la Chartreuse e l'Oisans.
I villeggianti parigini, marsigliesi e lionesi invadono sempre più le valli alpine e molti di essi hanno fatto costruire le loro ville estive nelle zone più recondite e più interne del Queiras, della Moriana e della Savoia. Le comunicazioni sono favorite da un eccellente servizio automobilistico, controllato dalla Compagni Paris-Lyon-Méditerranée, che offre molte facilitazioni anche con le linee automobilistiche che uniscono, nel periodo estivo, le valli francesi con le italiane.
L'Austria alpina è attrezzata per ricevere specialmente i turisti tedeschi. La sua industria, considerata globalmente, ha perso molto della sua importanza col passaggio all'Italia dell'Alto Adige, dove l'industria del forestiero in genere e alberghiera in ispecie è molto ben sistemata ed organizzata.
L'Italia in questi ultimi anni ha largamente perfezionato la sua industria alberghiera. L'attività fattiva del T.C.I., dell'E.N.I.T. e della C.I.T. hanno dato all'industria turistica alpina una sistemazione, non inferiore per mezzi, potenzialità, organizzazione, a quella degli altri stati. Nelle Alpi Marittime ricordiamo Tenda (climatica), Limone (sport invernali), Valdieri (termale); nelle Alpi Cozie molte stazioni nelle alte valli, che si popolano di alberghi e di pensioni, come Sampeyre, Crissolo, Torre Pellice, Pragelato, Bardonecchia, Moncenisio, ecc.; nelle Graie le valli di Lanzo in genere, meta domenicale dei torinesi, nella Valle dell'Orco, Ceresole Reale ltermale e climatica) e tutte le più importanti stazioni valdostane con Cogne, Courmayeur, Valtournanche, Saint Vincent, Gressoney, ecc. Importanti stazioni posseggono: il Biellese, con Oropa, Piedicavallo, Cossila, Graglia; la Valsesia, con Alagna, Varallo; la Valdossola, con Formazza, Bognanco, ecc. I meravigliosi laghi prealpini, oasi climatiche di fama mondiale, attraggono i forestieri nei mesi primaverili ed autunnali. Sul Lago Maggiore vanno ricordate Stresa, Pallanza, Ghiffa, Cannobbio e le Isole Borromee, sul Lago di Como, Bellagio e Menaggio, sul lago di Garda, Desenzano, Sirmione, Punta di S. Vigilio, Salò, Gardone, Riva, ecc. Nel Varesotto affluiscono i milanesi; nelle Alpi Bergamasche, dove troviamo l'importante stazione termale di S. Pellegrino, e nelle Alpi Bresciane, con l'acceleramento dei mezzi di trasporto, si vanno creando nuovi centri di villeggiatura visitati sempre più dagli abitanti, che fuggono le calde pianure della Lombardia. Superfluo accennare all'Alto Adige, con Merano, Bolzano, Santa Cristina, Dobbiaco, Carezza, ecc., al Cadore, con Cortina d'Ampezzo e a tutte le altre infinite stazioni servite meravigliosamente dalla splendida strada delle Dolomiti. Non va dimenticata la grande attrattiva della zona carsica, e in special modo vanno ricordate le Grotte di Postumia e di S. Canziano.
Le comunicazioni. - Come abbiamo notato, le Alpi non costituiscono una barriera divisoria dei popoli e del commercio; l'uomo alpino è stato aiutato invece dal carattere stesso del rilievo e dalla posizione geografica del sistema, che si sviluppa precisamente sull'asse delle grandi correnti commerciali. La catena delle Alpi si abbassa spesso a formare colli transitabili, a differenza di altre catene europee ed extraeuropee. I maggiori ostacoli non s'incontrano sui crinali, ma nelle valli, là dove spesso esse si restringono in strozzature o si presentano a pendii scoscesi o franosi, che bisogna superare con lunghi svolti, tanto è vero che l'importanza storica ed economica maggiore o minore di un colle è in relazione con la presenza o meno di tale ostacolo. L'uomo tuttavia, col progresso dei tempi, ha dovuto vincere tutti gli impedimenti naturali, per la stessa ineluttabile ed imperiosa necessità geografica, dato che le Alpi uniscono e dividono le regioni del mondo mediterraneo e le regioni nordiche e orientali, così diverse climaticamente ed economicamente. Dapprima l'uomo ha girato le Alpi, là dove è più facile il passaggio, e cioè lungo i margini delle Alpi Orientali, da un lato, per scendere nel bacino danubiano e nella valle padana, dall'altro lungo il mar Ligure, per raggiungere il grande solco del Rodano e della Saône. Le emigrazioni nell'interno del sistema hanno in seguito fatto conoscere i colli, che congiungono le diverse valli, e l'allargamento dell'orizzonte commerciale, determinato dal fissarsi dei popoli nomadi, ha creato, col progredire del tempo, nuovi e più vasti movimenti, tra le regioni più lontane, raddoppiando l'importanza della funzione dei colli dello spartiacque. E specialmente oggi, sotto i nostri occhi, col progredire della tecnica, questa accentuazione del valore delle Alpi, come regione di transito, è in atto. Il mulo, il cavallo e l'asino, ad esempio, sono in evidente diminuzione come mezzi di trasporto, sostituiti dal carro nelle regioni più alte e dagli automezzi nelle più basse, trasporti che non ammettono più le vecchie mulattiere; il turismo a sua volta aumenta sempre più la circolazione nelle Alpi e richiede la costruzione di strade ben sistemate; l'intensificarsi delle colture prative e il conseguente specializzarsi dell'allevamento, crea un'infinità di strade vicinali, che sono spesso l'embrione della futura strada di grande comunicazione.
Le strade di grande comunicazione, nella zona alpina, veramente non si sono iniziate che all'epoca napoleonica. Esse in generale sono tracciate sulle mulattiere o sulle carreggiabili a fondo naturale del Medioevo o anche del periodo romano. La scelta dei colli, come si disse, dipendeva, per il passato, quasi esclusivamente dalle condizioni morfologiche delle valli di accesso: di qui la preferenza data per molti secoli alla Val Sugana anziché alla bassa Valle dell'Adige, costretta in una chiusa; di qui l'abbandono della via del Maloggia, e l'utilizzazione tardiva dei grandi colli largamente sfruttati oggi, come il Sempione con le gole di Gondo, lo Spluga con le gole della Via Mala, il S. Gottardo con le gole di Schöllenen.
I colli alpini percorsi da strade di grande comunicazione, di carattere cioè internazionale, furono già ricordati.
Il Colle di Tenda (1873 m.) unisce Cuneo con Ventimiglia e Nizza. Esso è percorso da una carrozzabile aperta tra il 1779 e il 1782 dai duchi di Savoia, che univano con questa arteria i loro possessi piemontesi con la Contea di Nizza.
Il Colle dell'Argentera o della Maddalena (1995 m.), che unisce Cuneo con Barcelonnette (Ubaye) noto certamente ai Romani, importante nel Medioevo, percorso spesso dalle armate francesi, ebbe la sua strada carrozzabile da Napoleone.
Il Monginevra (1854 m.) è stato da tempi immemorabili il principale passaggio tra la Francia e l'Italia. Fu largamente sfruttato dai Romani (Alpis Iulia di Livio) ed è ricordato da tutti i geografi classici e medievali. Il Monginevra passò in seconda linea con l'intensificarsi dei traffici attraverso il Cenisio che univa direttamente fra di loro i possessi savoiardi. La strada carrozzabile del Monginevra è stata aperta nel 1806, ma attualmente la sua funzione economica è molto limitata.
Il Moncenisio (2101 m.) è stato aperto fra il 1803 e il 1810.
Il Piccolo S. Bernardo (2188 m.) è un colle senza storia, dato che unisce due regioni chiuse, la Valle d'Aosta e la Tarantasia. La strada carrozzabile risale al 1871.
Quasi di fronte trovasi il Gran S. Bernardo (2472 m.), molto noto, a cominciare dai tempi più antichi. La sua importanza economica attualmente è assai diminuita, per quanto sia percorso abbastanza intensamente da turisti e da emigranti. La carrozzabile non è stata ultimata che nel 1908.
La strada del Sempione (2008 m.), costruita fra il 1801 e il 1805. ha tolto allo storico colle medievale di Antrona la sua importanza per il transito tra la Val d'Ossola e la Svizzera.
Il S. Gottardo (2114 m.) è senza dubbio, data la sua posizione geografica, il più importante passaggio delle Alpi Centrali, poiché ha il vantaggio di unire direttamente la valle del Reno con quella del Ticino. Tali condizioni di favore sono minorate dalle condizioni fisiche delle valli di accesso, per cui la manutenzione della strada, costruita tra il 1820 e il 1830, è assai difficile e costosa.
Il Colle di Lucomagno, percorso da una strada carrozzabile costruita tra il 1871 e il 1872, non ha attualmente che un'importanza regionale. Altra strada carrozzabile che ha interesse internazionale, ma che è compresa tutta in territorio svizzero è la strada del Colle di S. Bernardino. Ad est del S. Bernardino trovasi il Colle dello Spluga (2117 m.) di scarsa importanza fino a quando non vi è stata aperta la carrozzabile (1818-1823). Ha soprattutto importanza turistica. Ricordiamo poi il Colle di Umbrail (2505 m.), il famoso Braulius degli antichi classici, che unisce la valle di Münster con l'alta valle dell'Adige e che è unito alla grande rotabile del Colle dello Stelvio (2760 m.), costruita nel 1820-1825 dall'Austria.
Il Brennero occupa un posto privilegiato non paragonabile a nessun altro, in modo che la sua storia si confonde con la storia delle relazioni commerciali, politiche e militari fra l'Italia e i paesi germanici. Poco elevato (1370 m.) in confronto degli altri colli, posto in modo che vi si può accedere da ogni lato con valli rettilinee, a pendio unico, questo passaggio costituisce la migliore strada tracciata dalla natura attraverso la catena alpina.
Ricordiamo poi il passo di Monte Croce (1360 m.) menzionato dall'Itinerario di Antonino, percorso specialmente nel Medioevo dai commercianti che volevano evitare le tasse del Colle di Pontebba. È stato reso carrozzabile nel 1836.
Le strade di Pontebba e del Predil si ricongiungono a Tarvisio.
Nelle Alpi Austriache va considerato il Colle di Rastadt (1738 m.), percorso dalla strada che congiunge Klagenfurt con Salisburgo e ricordato dalla Tavola Peutingeriana, e il colle del Semmering, che unisce Vienna con Graz. Per ultimo ricorderemo, per quanto ormai fuori dalla vera zona alpina, la famosa Alpis Iulia della Tavola Peutingeriana (il Mons Ocra di Strabone), che non costituisce un vero colle, ma piuttosto una grande porta d'invasione e di passaggio dei popoli.
Le comunicazioni ferroviarie e la loro importanza economica.
Le rotabili di grande comunicazione debbono il loro sviluppo quasi essenzialmente ai fattori strategici e politici. Le spese di costruzione e di manutenzione superano spesso i vantaggi economici.
La costruzione delle ferrovie transalpine ha invece non solo portato una vera rivoluzione nello sviluppo e nella fisionomia dei transiti, ma ha interessato vivamente tutta l'economia della montagna e più ancora quella degli stati alpini. L'uomo quindi non ha badato agli ostacoli e alla spesa, ha cercato e creato anzi la via più breve per congiungere gli opposti versanti. L'audacia dell'ingegneria aumenta e giganteggia addirittura col progresso del tempo; poiché alla tendenza di sviluppare le linee, fruendo fino al massimo dei thalweg delle valli più alte e meno ripide, si è andata sostituendo la perforazione delle grandi gallerie che abbassano l'altimetria della linea, con vantaggio della velocità e quindi della celerità del traffico.
La costruzione della prima linea ferroviaria veramente alpina risale al 1834 ed è quella del Semmering. Ad essa fa seguito la linea del Brennero (1862) che, a differenza di tutte le altre linee alpine, attraversa la catena spartiacque senza l'aiuto di gallerie. La linea del Fréjus, detta comunemente del Cenisio, inaugurata nel 1871, ha il primato, se non per il tempo, per l'arditezza del progetto, poiché sottopassa le Alpi con una galleria di chilometri 14, che costituisce, anche per le difficoltà incontrate e per i mezzi primitivi adoperati, un vero miracolo dell'ingegneria di quel tempo. Dieci anni dopo venne aperta al transito la ferrovia del Gottardo, ferrovia ardita, ricca di opere grandiose, che sottopassa il crinale a 1100 metri con una galleria della lunghezza di 15 chilometri. La ferrovia dell'Arlberg, inaugurata nel 1884, sale ancora a 1300 metri; non così quella del Sempione, inaugurata nel 1906, che sale appena ai 700 metri, ma in compenso ha una galleria di ben 20 chilometri. In Austria si rinuncia al transito di Rastadt perforando gli Alti Tauri tra Gastein e Villaco, e si scavano due gallerie, per unire direttamente Trieste col suo retroterra, successivamente attraverso le Caravanche e il massiccio del Tricorno.
La funzione economica delle linee ferroviarie del sistema alpino è di per sè evidente: le valli alpine, a contatto della linea, hanno ripreso vigore e si sono popolate di opifici e ripopolate di braccia, gli stati alpini hanno intensificati i loro traffici e quindi le relazioni commerciali. Si sente ormai il bisogno di vincere la congestione e la saturazione del traffico, che s'ingorga nel transito, e si vanno pensando nuovi progetti di vie transalpine. Nelle Alpi Occidentali è stata recentemente inaugurata la linea Cuneo-Nizza, si sta discutendo sul progetto della Torino-Marsiglia, attraverso o il Queyras o Briançon, mentre la linea del Monte Bianco, data la sua indubbia importanza, ha molta probabilità di essere effettuata a non lunga scadenza.
In questi ultimi anni si sono accentuate le annose discussioni sull'utilità delle linee del Greina, dello Spluga e dello Stelvio.
La ferrovia ha ucciso la strada, intesa questa come mezzo di transito commerciale tra stato e stato: di conseguenza la circolazione si è concentrata in determinati punti, la cui importanza è in stretta dipendenza con la posizione dei grandi centri economici e delle vie di accesso interessate, sia pure a distanza, nel traffico alpino internazionale.
Insomma il problema della circolazione ha assunto un aspetto internazionale, poiché le valli alpine sono diventate i grandi corridoi obbligati del commercio imponente e necessario tra il nord e il sud dell'Europa. Fatto, questo, che interessa non solo l'economia, ma anche la politica degli stati alpini.
Bibl.: La bibliografia generale sulle Alpi si riduce a poche pubblicazioni recenti. È invece abbastanza ricca la bibliografia particolare che non possiamo naturalmente riportare che in minima parte, quella cioè che può essere più facilmente accessibile.
Pubblicazioni sulle Alpi in generale: A. R. Coolidge, Les Alpes dans la nature et dans l'histoire, Parigi 1913; H. Reishauer, Die Alpen, Lipsia 1909; E. De Martonne, Les Alpes - Géographie générale, Parigi 1926.
Pubblicazioni generali su parti del sistema alpino: R. Blanchard, Les Alpes françaises, Parigi 1925; N. Krebs, Die Ostalpen und das heutige Österreich, 2ª ed., Stoccarda 1928.
Sul popolamento, sulla densità della popolazione e sull'emigrazione: J. Robert, La densité de la population des Alpes françaises, in Revue de Géographie Alpine, VIII (1920); G. Roletto, La densité de la population des Alpes occidentales (versant italien), in Rev. géog. Alp., 1922; N. Krebs, Die Verteilung der Kulturen und der Volksdichte in den Österreichischen Alpen, in Mitteilungen der Geographischen Gesellschaft, Vienna 1912; H. De Montbas, Le peuplement des Alpes suisses, Friburgo 1919; D. Muralis, L'émigration alpin en France, in Revue géog. Alp., 1925.
Per le Alpi Svizzere è interessante seguire la bibliografia inserita nel Brunhes (La Géographie humaine, 3ª ed.), specialmente da pag. 173 a 180.
Per le Alpi Italiane vedere anche tutte le pubblicazioni di geografia alpina inserite nelle Memorie geografiche del Dainelli e le pubblicazioni del Commissariato dell'emigrazione.
Sulla vita pastorale ed agricola: vedere per le Alpi Italiane le citate monografie delle Memorie del Dainelli e gli Studî del Serpieri (Marinelli, Toniolo, Roletto, De Gasperi), del Marchettano, del Voglino, citati dal vol. L'Apicoltura della Federazione Consorzî Agrarî di Piacenza; O. Marinelli, Studi orografici sulle Alpi orientali, Roma 1902; G. Dainelli, Il Monte Bianco, e specialmente i capitoli "Vita pastorale" e "Vita cooperativa", Torino 1926; P. Landini, La vita pastorale nell'alta valle Varaita, in Bollettino della R. Società geografica, Roma 1927. Per le valli bresciane, interessante la pubblicazione in quattro volumi della Camera di Commercio locale (L'economia bresciana, Brescia 1927); G. Roletto, La transumanza in Piemonte, in Riv. geogr. italiana, Firenze 1920.
Per le Alpi Francesi un eccellente lavoro è quello di Ph. Arbos, La vie pastorale dans les Alpes françaises, Parigi 1923, che riassume tutte le pubblicazioni dell'attivo Institut de Géographie Alpine di Grenoble, diretto da R. Blanchard, e che riporta aggiornata tutta la bibliografia sull'argomento.
Per le Alpi Svizzere è fondamentale il lavoro di A. Strüby, Die Alp, und Weidewirtschaft in der Schweiz, Soletta 1914, a cui conviene aggiungere i numerosi studî delle università di Friburgo, di Berna, ecc.
Per le Alpi Austriache, oltre il lavoro del Krebs e gli studî diretti dal Sieger, che citeremo in seguito, è da ricordare la pubblicazione di A. v. Kerner, Der Wald und die Alpenwirtschaft in Österreich und Tirol, Berlino 1908.
Sull'abitazione alpina, oltre i noti lavori dei Bancalari, del Meitzen, dell'Arbos e del Krebs, e, per l'Italia in particolare, i lavori già citati di geografia alpina, sono interessanti i lavori di J. Hunzicher, La maison suisse d'après ses formes rustiques et son développement historique, Losanna 1907, voll. 4; N. Krebs, Die bewohnten und unbewohnten Areale der Ostalpen, in Geographische Zeitschrift, 1912; Vesserau (Mele), L'adret et l'ubac dans les Alpes occidentales, in Annales de Géographie, Parigi 1921; R. Blanchard, L'habitation en Queyras, in la Géog., Parigi 1909; R. Sieger, Zur Geographie der zeitweise bewohnten Siedlungen in den Alpen, in Geographische Zeitschrift, 1907; e specialmente: R. Sieger, Beiträge zur Geographie der Alpen in Österreich, Graz 1925.
Sulle industrie nelle Alpi: per l'Italia le pubblicazioni delle Camere di Commercio interessate e le statistiche ufficiali, e specialmente le pubblicazioni del Ministero dei LL. PP.
Per il carbone bianco: H. Cavaillès, La houille blanche, Parigi 1922; D. Civita, Il problema idroelettrico in Italia, in Impresa elettrica, Roma; Servizio idrografico del Po e Magistrato delle acque (varie annate) e loro monografie; R. Riccardi, Appunti sui laghi-serbatoi d'Italia, in Bollettino della Reale Soc. geografica italiana, 1926.
Sul commercio e comunicazioni: Per le Alpi Occidentali: G. Barelli, Le vie del commercio fra l'Italia e la Francia nel Medioevo, in B. soc. stor. sub., Torino 1906; D. Gribaudi, Il Piemonte nell'antichità classica, Torino 1927; M. Blanchard, Les routes des Alpes occid. à l'époque napoléonienne, Grenoble 1920.
Per le ferrovie già costruite o da costruire: gli articoli di Brunhes, Savini, Gribaudi, Regis, Henry, Michieli, Govi, ecc., pubblicati in varie riviste.
Per le Alpi Svizzere e Orientali specialmente: A. Schulte, Geschichte des mittelalterlichen Handels und Verkehrs zwischen Westdeutschland und Italien, Lipsia 1900, voll. 2; J. Müller, Das spätmittelalterliche Strassen und Transportwesen der Schweiz und Tirols, in Geographische Zeitschrift, 1905.
Per le fiere e la loro importanza antropogeografica, specialmente: A. Allix, The Geography of Fairs, illustred by old World examples, in Geographical Review, New York 1922; G. Roletto, Le condizioni geografiche delle fiere di Pinerolo, in La Geografia, 1921.
Descrizione orografica delle principali parti del sistema alpino.
La nostra descrizione orografica segue in sostanza la divisione dei grandi gruppi proposta dalla Commissione nominata dal Comitato geografico italiano (1925), che ha per fondamento un criterio orografico, con limiti ben precisi, segnati da valli e valichi, mentre i dati altimetrici e la toponomastica dei singoli accidenti orografici si fondano sulla carta del T.C.I. e sulla carta fisica qui annessa.
1. Le Alpi Occidentali (fr. Alpes Occidentales; ted. Westalpen; ingl. Western Alps) hanno per limiti: a nord, il Rodano, da Bellegard- a Ginevra e il lago Lemano; ad est, il Rodano fino a Martigny, il fiume Drance, il Col de Ferret (m. 2488), la Dora Baltea fino ad Ivrea, l'orlo pedemontano della pianura piemontese fino a Mondovì; il corso del Tanaro fino a Ceva, il Colle di Cadibona (m. 460), il torrente Letimbro fino a Savona; a sud, il Mar Mediterraneo da Savona a l'Ètang de Berre; ad ovest, la piana della Crau, l'orlo prealpino sulla depressione del Rodano, l'Isère fino a Voreppe, la depressione di Voiron (m. 290), il torrente Guiers fino alla confluenza col Rodano, questo fiume fino a Bellegarde. La preferenza data al Col de Ferret (m. 2488), a confronto del Gran S. Bernardo (m. 2467), scelto da molti autori quale limite tra le Alpi Occidentali e le Centrali, si deve a ciò che il primo, poco più elevato, è allineato con la Dora di Val Ferret e la Drance de Ferret, le quali formano un solco breve e rettilineo, che costituisce una vera fossa divisoria fra il massiccio del M. Bianco e quello del M. Rosa.
Le Alpi Occidentali sono costituite da un fascio di catene e da numerosi massicci, disposti ad arco per 400 km., che per il loro andamento in direzione meridiana si distinguono dalle catene parallele delle Alpi Centrali e Orientali a direzione prevalentemente rettilinea. In esse si presentano due zone tettoniche, una interna di terreni cristallini detta del M. Rosa, l'altra esterna o del M. Bianco i cui nuclei cristallini isolati sono rivestiti da formazioni sedimentarie; e fra le due s'intercala la zona detta del Brianzonese di calcari e scisti antichi, che dalle Alpi Liguri va fino ai Grigioni, passando più volte al di qua e al di là della linea spartiacque.
Sull'orlo esterno v'è poi una larga fascia di terreni calcarei del Mesozoico e Cenozoico, che forma la zona prealpina, la quale sul Mediterraneo, fra il Varo e il Tolone, è costituita anche da una serie di terreni arcaici e paleozoici addossati alla catena alpina, ma da questi geologicamente indipendenti. Una linea tettonica di disturbi stratigrafici, sinclinali, fratture, ribaltamenti, lunga circa 200 km. che si riflette sulla orografia con un grande allineamento di valli longitudinali, è quella che dalla valle del Rodano, a oriente del lago di Ginevra, per la valle di Chamonix, per quella dell'Arly, per il tratto longitudinale della valle dell'Isère, il Graisivaudan, e la valle del Drac, giunge alla Durance, separando una zona interna propriamente alpina da una esterna calcarea prealpina, che manca sul versante piemontese.
Le cime maggiori delle Alpi Occidentali sono: il Monte Bianco, la più alta vetta d'Europa (m. 4807), il Pelvoux (m. 4103), il Gran Paradiso (m. 4061).
I valichi, specie trasversali, per quanto assai elevati, assumono in questa divisione un grande valore per le comunicazioni fra i due versanti alpini, cosicché merita dar qui l'elenco dei principali:
Col di Cadibona (m. 460), fra il Letimbro e il Bormida (Po); ferrovia Savona-Ceva.
Col di Tenda (m. 1870), fra il Roia e il Vermenagna (Gesso, Stura, Tanaro, Po); ferr. Ventimiglia-Cuneo (galleria di Tenda, m. 8099).
Col della Maddalena o dell'Argentera (m. 1996), fra la Ubayette (Ubaye, Durance, Rodano) e la Stura (Tanaro, Po); carrozzabile Barcelonnette-Cuneo.
Col della Croce (m. 2309), fra il Guil (Durance, Rodano) e il Pellice (Chisone, Po); mulattiera fra l'Echalp e Torre Pellice.
Col Bayard (m. 1246), fra il Drac (Isère-Rodano) e il Gap (Durance-Rodano); carrozzabile Grenoble-Gap.
Monginevra (m. 1854), fra la Durance (Rodano) e la Dora Riparia (Po); carrozzabile fra Briançon e Bardonecchia.
Moncenisio (m. 2084), fra l'Arc (Isère-Rodano) e il Bardonecchia (Dora Riparia-Po); carrozzabile Lanolsbourg-Susa.
Colle del Fréjus (metri 2537), fra l'Arc (Isère-Rodano) e la Dora Riparia (Po); ferrovia Modane-Torino (galleria del Fréjus, m. 13.636).
Col di Galibier (m. 2660), fra la Valloire (Arc-Isère-Rodano) e la Guisane (Durance-Rodano); strada militare Briançon-St. Jean de Maurienne.
Piccolo S. Bernardo (m. 2188), fra l'Isère (Rodano) e la Thuile (Dora Baltea-Po); carrozzabile Moûtiers-Bouig St. Maurice- Aosta. Col de Ferret (m. 2488), fra il Ferret (Drance-Rodano) e la Dora di Ferret (Dora Baltea-Po); mulattiera Orsières-Morgex.
Col des Montets (m. 1445), fra l'Eau Noire (Val Trient-Rodano) e l'Arve (Rodano); ferrovia di montagna Chamonix-Martigny.
Le Alpi Occidentali sono distinte da varî autori in otto sezioni, delle quali cinque propriamente alpine (A. Marittime, A. Cozie.
A. Graie, A. di Provenza e A. del Delfinato) e tre prealpine esterne (Prealpi di Provenza, Pr. del Delfinato, Pr. di Savoia).
a) Le Alpi Marittime, dal Passo di Cadibona al Col della Maddalena, si estendono ad arco di cerchio molto aperto per quasi 100 km., con uno sviluppo di cresta di 180 km., disposte nel senso dei paralleli, ciò che le distingue dalle contigue Alpi Cozie, insieme alla assai diversa entità altimetrica, essendo le creste delle Alpi Marittime, salvo in poche vette, inferiori ai metri 3000, e, nella loro estremità orientale, inferiori ai 2000.
Le Alpi Marittime anche geologicamente formano una propria unità, giacché compare sul loro versante interno la zona gneissica esterna del M. Bianco (ellissoide del Mercantour), circondata da formazioni calcaree, mentre a nord si sviluppa la zona del Brianzonese, cosicché esse hanno una costituzione simmetrica, con due serie di catene calcaree e marnose, che fanno ala ad una catena mediana di rocce antiche.
Di qui il predominio delle valli longitudinali, sul lato interno fra la zona del Brianzonese e quella mediana (Stura, Tanaro, Bormida), e in quello esterno a contatto con le formazioni terziarie (corso medio del Varo, torrente Arroscia).
Le cime maggiori sono la Punta o Rocca dell'Argentera (m. 3297) e Cima dei Gelas (m. 3135).
Le Alpi Marittime si distinguono di solito in due gruppi separati dal Colle di Tenda (m. 1870): il gruppo orientale cui si dà il nome di Alpi Liguri, più depresso, a prevalenti terreni sedimentari, ha foreste sub-montane, ed è una vera zona di passaggio all'Appennino, pur superando, per notevole estensione, i metri 2000 s. m.; il gruppo occidentale, cui si può dare il nome di Alpi del Varo, presenta invece caratteri di alta montagna, che si affermano sempre più col prevalere dei terreni cristallini al gruppo del Mercantour, con cime superiori ai 3000 m. e dove si annidano i piccoli ghiacciai della Meledia e del Clapier, che rappresentano l'odierno limite meridionale del glacialismo alpino. Le zone calcaree e scistose periferiche hanno invece forme monotone, giogaie allineate ed ampie vallate, larghe in alcuni punti varî chilometri.
b) Le Alpi Cozie, dal Col della Maddalena al Moncenisio, formano un'unità geologica ed orografica ben distinta con un nucleo centrale gneissico, dove corre la linea spartiacque spostata fortemente sul versante interno, a cui si affianca una fascia di eufotidi, porfiriti, serpentine (rocce verdi), che si eleva come una muraglia di picchi scoscesi (Monviso, m. 3841) sulla pianura piemontese, con un caratteristico parallelismo dei contrafforti montuosi, separati da valli brevi e ripide (Grana, Maira, Varaita, Po, Pellice, Chisone, Dora Riparia). Sul lato esterno invece, dove si appoggia la zona dei calcari paleo-mesozoici del Brianzonese, si ha il dominio delle falde di ricoprimento con pieghe ribaltate contro il nucleo gneissico, con valli diramate ad andamento prevalentemente longitudinale (Duranee, Guisane, Arc), ma non profondamente incassate, cosicché predominano i massicci compatti a morfologia meno evoluta.
Le cime maggiori sono: il Monviso (m. 3841), sul cui versante settentrionale nasce il Po, l'Aiguille de Chambeyron (m. 3400) e il Dente d'Ambin (m. 3378)..
Esse possono dividersi in tre gruppi, separati dal Col della Croce (m. 2309) e dal Monginevra (m. 1854). A sud il Gruppo del Monviso ha diramazioni trasversali e parallele, che si staccano dalla linea spartiacque, le Alpi del Monginevra con centro orografico assai modesto (Punta di Boucier, m. 2998), da cui si dirama una serie di catene, in tutte le direzioni, separate da larghe valli longitudinali, fra cui l'arcuata catena gneissica dell'Assietta (M. Orsiera, m. 2878) fra il Chisone e la Dora Riparia; ed infine la Catena del Cenisio fra l'Arc e la Dora Riparia, dove corre lo spartiacque negli scisti cristallini e nei calcari paleozoici (M. Tabor, m. 3177, il punto più occidentale della frontiera italiana), incisa da numerosi passi, per quanto elevati (Colle del Fréjus, m. 2537, attraversato dalla galleria ferroviaria Modane-Bardonecchia di m. 13.636).
c) Alpi Graie. - Dal Moncenisio al Col de Ferret, si presentano con una grande varietà di caratteri litologici e geologici, ma con una certa uniformità orografica, data soprattutto dalle profonde ed ampie vallate periferiche, largamente modellate dai grandi ghiacciai quaternarî, quali la Val di Susa (Dora Riparia), la Moriana (Arc), la Tarantasia (Isère), la vallata di Chamonix (Arve), la Val d'Aosta (Dora Baltea), ecc.
Due nuclei cristallini formano l'ossatura delle elevate creste spartiacque, quello interno del M. Rosa e quello esterno del M. Bianco, fra i quali si insinua la fascia di calcari e scisti del Brianzonese, che assottigliandosi fra i massicci del Gran Paradiso e del M. Rosa costituisce quella profonda fossa, tra il Piccolo S. Bernardo, il Col de Ferret e il Vallese, a cui sovraincombe la gran massa di protogino del M. Bianco, e che orograficamente segna un netto limite fra le Alpi Occidentali e quelle Centrali. Sul lato occidentale, invece, prevale una zona di falde di ricoprimento a pieghe assai complicate, a calcari e graniti, che con la fascia del Brianzonese costituisce la parte relativamente più depressa della sezione. I due enormi contrafforti che si diramano a oriente e ad occidente della zona spartiacque, il Gran Paradiso e il massiccio de la Vanoise, nei quali prevalgono gneiss e scisti cristallini arcaici, si collegano fra loro all'elevato Col du M. Iseran (m. 2769), fra le sorgenti dell'Arc e dell'Isère a formare un nodo orografico di grande importanza, dove traggono la loro origine i fiumi Isère, Arc e Orco.
Questa sezione presenta dovunque caratteri morfologici di alta montagna, in rapporto alla elevazione media della massa montuosa, che ha tutte le creste dei singoli gruppi superiori ai m. 3000 e spesso anche ai 4000, per cui si ha anche oggi una grande estensione delle creste gelate e dei grandi ghiacciai vallivi.
Le cime maggiori, che sono fra le massime del sistema alpino, sono: il M. Bianco (m. 4807), il M. Maudit (m. 4468), il Gran Paradiso (m. 4061), e la Grande Casse (m. 3861).
Le Alpi Graie si suddividono in tre gruppi, separati dal Piccolo S. Bernardo (2188) e dal Col du M. Iseran (m. 2769).
Il Gruppo del Gran Paradiso, sovraincombente alla pianura piemontese, è costituito da un importante massiccio gneissico della zona cristallina del M. Rosa, circondato da una cintura di rocce verdi e calcari paleozoici, a creste elevate, uniformi, impervie. L'altezza media delle creste supera i 3000 m. con numerosi ghiacciai di prim'ordine, quali i ghiacciai della Tribolazione, del Traio, di Montaudain, Moncorvé, del Rutor, della Gliaretta, della Conteline e, sul versante francese, i Ghiacciai dell'Evettes e del Rocciamelone.
Le Alpi della Tarantasia, fra l'Isère e l'Arc, sono formate da un'elevata dorsale a struttura geologica assai varia; di calcari triasici all'esterno e di scisti marnosi all'interno, con diversa elevazione e morfologia, dai quali sorgono come spuntoni isolati le rocce cristalline del Massiccio de la Vanoise le quali si elevano in alti pianori e creste aguzze, che riparano fra gli altri il ghiacciaio de la Vanoise, uno dei più estesi ghiacciai di pianoro.
Il Gruppo del Monte Bianco, che costituisce quasi la cerniera attorno alla quale si gira il grande arco alpino e contiene la massima elevazione di tutto il sistema, è geologicamente assai complesso, essendo costituito da un'enorme massa di protogino disposta a ventaglio, circondata da un anello di scisti e calcari paleozoici, che si prolungano poi verso sud. La parte maggiore cristallina settentrionale, lunga 55 km., dal Rodano al Col du Bonhomme (2340), forma una vera catena, la cui cresta non scende mai sotto i 3300 m., rivestita da una copertura quasi continua di ghiacciai, di cui 17 di prim'ordine, fra i più noti dei quali sono da ricordare, sul versante settentrionale, i Ghiacciai du Tour, d'Argentière, la Mer de Glace, i Ghiacciai de Bossons, de Trélatete; e su quello meridionale, i Ghiacciai de la Vallée Blanche, del Miage, della Brenva, di Triolet, du Mt. Dolent, du Trient, ecc. La sua prosecuzione sud-occidentale, a prevalenti rocce calcaree, è molto più depressa fra i fiumi Isère e Arly, con vette che raggiungono appena i 3000 m. e che mancano di grandi ghiacciai.
d) Alpi di Provenza. - Sul lato esterno della zona spartiacque vi sono due gruppi con caratteri prevalentemente alpini: le Alpi di Provenza e quelle del Delfinato. Le prime fiancheggiano ad occidente le Alpi Marittime, tra il solco Ubaye-Durance e quello segnato dal Verdon. Nella parte settentrionale più elevata predominano catene a zone concentriche, parallele all'orlo esterno delle Alpi, formate da pieghe raddrizzate e compresse di scisti cristallini; la parte inferiore più depressa è costituita da una serie di dossi di calcari giurassici o cretacei incisi da torrenti conseguenti, ricchi di frane e slavine, che rendono il paesaggio brullo e desolato.
Le cime più elevate sono: Trois Èvêchés (m. 2927), la Blanche (m. 2510), Tête de Brouisses (m. 2404).
Le Alpi di Provenza si sogliono distinguere in due parti di diversa natura e morfologia: il Gruppo dell'Asse, costituito da catene parallele calcaree, con caratteri anche prealpini, al di sott dei 2000 m., che degrada in pianori calcarei fra l'Asse e il Verdon e il Gruppo della Bléone, formato da catene scistoso-cristalline, superiori ai m. 2000, diramate verso SO., che si raccordano alla cima di Trois Èvêchés, che è la maggiore elevazione e forma il centro orografico del gruppo.
e) Alpi del Delfinato. - Fiancheggiano ad ovest le Alpi Cozie e parte delle Graie e nel complesso hanno i caratteri dell'alta zona alpina, giacché anche geologicamente vi affiorano i nuclei granitici e scistosi delle Alpi Occidentali con tutte le complicazioni tettoniche delle falde di ricoprimento che le caratterizzano. La massima elevazione si ha nella parte centrale (Massiccio del Pelvoux) con creste che superano i 4000 m. e circhi elevati, nei quali si annidano numerosi ghiacciai di primo ordine. Le propaggini meridionali, a prevalenti zone scistose e calcaree e a fasci di pieghe disposte parallelamente all'asse di corrugamento, attraversate da profonde valli trasversali, sono limitate all'ingiro dalle ampie vallate longitudinali dell'Arc e della Durance, aperte nella fascia esterna dei calcari giurassici e della zona paleozoica del Brianzonese, che le separa dalle Alpi Cozie.
Le cime maggiori sono: la Barre des Écrins (m. 4103), il Bonvoisin (m. 3560), le Aiguilles d'Arves (m. 3514).
Si sogliono dividere in tre gruppi: quello più meridionale del Champsaur, a sud del torrente Séveraisse, con una zona di scisti cristallini, in cui si eleva la cima massima, Bonvoisin (m. 3560), privo di ghiacciai e con creste uniformi nei calcari eocenici meridionali; il massiccio centrale del Pelvoux, fino alla Romanche e al Col du Lautaret (m. 2058), le cui cime maggiori, attorno ai m. 4000, sono rilevate nella massa degli scisti e dei graniti attorno al circo di Vénéon, che raccoglie 10 ghiacciai di prim'ordine, fra i quali i Ghiacciai de la Bonne Pierre, du Vallon, Blanc, Noir, du Sélé, de la Platte, ecc.; la sezione settentrionale o Alpi di Moriana, nel grande angolo fra l'Isère e l'Arc, distinta in tre catene, separate da brevi valli longitudinali, l'una di calcari giurassici (Chaîne de Belledonne, m. 2381), l'altra di scisti cristallini (Grandes Rousses, m. 3478) e la terza di terreni paleozoici e triassici (Massif du Galibier, m. 3514).
f) Le Prealpi di Provenza. - Si appoggiano alle Alpi Marittime, e degradano verso il mare, limitate a nord e ad est dalla Durance, dal Verdon, dal Collet de Rouaine (m. 1124), dal Colomb e dal Varo fino al mare. Sono pieghe depresse, calcaree, dirette da est ad ovest, frazionate in cupole elissoidali da un'idrografia matura longitudinale, con forme di media montagna, mentre a sud la zona subalpina granitica e scistosa - geneticamente distinta dal rilievo alpino - ha pieghe disposte secondo l'andamento equatoriale, con aspetto di paesaggio collinare, degradante verso occidente in pianori calcarei. che giungono fino alla depressione del Rodano.
Le cime maggiori sono il Saint-Bernard (m. 1913), il Taillon (m. 1824) e lo Cheiron (m. 1778).
La varietà geologica e il frazionamento orotettonico permettono di distinguere parecchi gruppi minori: 1° uno orientale, fra il Varo e il Verdon, formato da catene calcaree nude, che si potrebbero denominare Chaînes des Plans; 2° una bassa catena calcarea settentrionale, parallela al corso inferiore della Durance, suddivisa a sua volta in altri rilievi brulli, che fu chiamata Montaigne de S.te Victoire; 3° la catena calcarea costiera della Sainte Baume, che sovraincombe arida e brulla a Marsiglia e a Tolone; 4° infine, isolati geneticamente e orograficamente lungo la Riviera, i colli cristallini arcaici, selvatici e boschivi, che di poco superano i 400-500 m. dei Monts des Maures e dell'Esterel.
g) Le Prealpi del Delfinato. - Appoggiate alle Alpi di Provenza e del Delfinato, degradano al solco del Rodano, fra la Durance e l'Isère.
Si tratta nel complesso di formazioni calcaree, che vanno dal Giurassico al Cretacico, con terreni miocenici sull'orlo occidentale, le quali dànno un aspetto brullo e roccioso a tutte le catene. Queste invece hanno andamenti diversi rispondenti alla tettonica, a nord-est allineate lungo l'asse della catena alpina, con groppe superiori ai 2000 m. tagliate da valli profonde ed incassate, di aspetto di media montagna; più a sud si hanno dossi isolati, spianati, non superiori ai 1500 m., normalmente disposti alla catena alpina, a sviluppata idrografia carsica, che degradano in terrazze sul corso del Rodano.
Le cime maggiori sono: la Grande Tête de l'Obiou (m. 2793), la Montagne d'Aurouze (m. 2712), il Grand Ferrand (m. 2761).
In questa sezione si possono distinguere: 1° la Montagna del Léberon, una ristretta e compatta catena inferiore agli 800 m.. parallela al tratto inferiore della Durance; 2° le Montagne di Valchiusa, formate da numerose catene calcaree parallele, a idrografia carsica, simile a quella dei sottoposti altipiani, da cui sgorga la celebre sorgente intermittente di Valchiusa; 3° il Massiccio del Dévoluy, nell'angolo superiore fra il Drac, la Durance e il Buech, a catene calcaree di più netto tipo montano, che raggiungono anche i 2712 m. al Pic de Bure; 4° il Vercors, più ad occidente fra l'Isère, il Drac e ii Drôme, a pieghe calcaree allineate e regolari, che giungono fino a 2300 m. d'altezza, a morfologia simile al Giura, a cui si riattacca geneticamente attraverso alle Prealpi di Savoia, dalle quali è tuttavia separato dal profondo solco trasversale dell'Isère.
h) Le Prealpi di Savoia si appoggiano alle Alpi Graie e del Delfinato e si diramano verso il Rodano, e il lago di Ginevra, limitate ad est e a sud dal Trient, dal Col des Montets (m. 1445), dall'Arve, dal Col du Mégève (m. 1150), dall'Arly e dall'Isère.
Geologicamente presentano fra le loro parti grandi varietà spesso contrastanti con le unità orografiche, e ciò per la complicata tettonica a più falde di ricoprimento sovrapposte e le rispettive radici ancora in posto; per quanto l'unità orografica di questa sezione sia ben individuata dalla sua situazione esterna e dai solchi profondi che la circondano. Nella parte settentrionale si hanno quattro zone: una più interna di rocce cristalline (Aiguilles Rouges, m. 2966), una seconda di calcari giurassici (catena del M. Buet, m. 3109), la terza di flisch con calcari neocomiani (Dent du Midi, m. 3260), la quarta esterna collinare di calcari cretacei e giurassici. A sud dell'Arve si hanno poi due zone parallele all'andamento delle pieghe alpine, una più interna, di calcari giurassici e cretacei a creste compatte ed unite fin oltre i 2500 m., l'altra più esterna di colli subalpini di molasse mioceniche, che compare nella sinclinale fra i rilievi alpini e le pieghe del Giura.
Le cime maggiori sono il Dent du Midi (m. 3260), la Tour Saillère (m. 3222), le Aiguilles Rouges (m. 2966).
Si possono distinguere: 1° le Alpi dello Sciablese formate da pieghe complesse di varia natura, valli longitudinali e cime elevate fra 2500 e 3200 m., con caratteri d'alta montagna e molti ghiacciai di second'ordine; salvo che nella zona costiera del Lemano a dorsali tondeggianti inferiori ai 2500 m., di tipo di media montagna; 2° la Chaîne du Reposoir, fra l'Arve e il lago d'Annecy, con la cresta maggiore che si allinea alla sua estremità orientale (Pointe Percée, m. 2752); 3° il massiccio detto les Baujes, fra il lago d'Annecy e il lago di Bourget, costituito da una serie di catene calcaree che si raggruppano ad oriente in un vero massiccio (Pointe d'Arcalod, m. 2223); 4° il massiccio della Grande Chartreuse, zona calcarea a pieghe regolari fra il solco dell'Isère e il Rodano, che si elevano fino a m. 2033 (Grand Som) e che rappresenta il passaggio tra il ripiegamento prealpino e quello del Giura.
2. Le Alpi Centrali (fr. Alpes Centrales; ted. Mittelalpen; ingl. Central Alps). - Vanno dal Col de Ferret al Brennero e hanno per limiti: a nord, l'orlo prealpino sull'altipiano svevo-bavarese, ad est il corso dell'Inn, quello del Sill, il Passo del Brennero (m. 1370), l'Isarco, l'Adige, a sud la zona pedemontana della pianura lombarda e piemontese, ad ovest la Dora Baltea, la Dora di Ferret, il Col de Ferret (m. 2488), la Drance di Ferret, la Drance e il Rodano fino al lago di Ginevra. Quanto alla preferenza data al Passo del Brennero, in confronto al Passo di Resia (m. 1510), come confine orientale, essa è dovuta non solo alla maggiore depressione del primo, ma anche al fatto che, come ha dimostrato il Penck, esso rappresenta una vera zona di depressione del crinale alpino, non essendovi, per un raggio di 10 km. all'ingiro, altezze superiori ai 2000 metri.
Le Alpi Centrali sono costituite da fasci di catene assai complessi e disturbati, i cui nuclei sono dati da scisti cristallini inglobanti massicci gneissici, fra i quali s'insinuano estesi filoni granitici, a contatto delle linee di maggiori disturbi tettonici; fra queste la "linea delle Giudicarie", sulla parte orientale di questa divisione, che da sud a nord penetra nel cuore della massa alpina, fin presso il Passo del Brennero, venendo lungh'essa a contatto i terreni secondarî con quelli arcaici, con intrusioni di graniti e basalti paleozoici. Sul lato poi esterno e interno di queste Alpi, si affiancano terreni sedimentarî (calcari, marne, arenarie), sia mesozoici sia terziarî, disposti in serie regolari, sui due fianchi dei fasci mediani cristallini, e che rappresentano le radici prealpine delle grandi falde superiori di ricoprimento asportate dall'erosione.
Caratteristica orografica è la prevalenza delle valli longitudinali di prim'ordine, ampiamente sovraescavate dai grandi ghiacciai quaternarî, anastomizzate fra loro da valichi elevati ma molto ampî. La valle del Rodano, il Passo del Furka, e il Reno Anteriore dividono due serie di catene mediane ad ovest, mentre il solco segnato dal lago di Como, Val Bregaglia, Passo del Maloggia, Inn, ne dà una seconda serie ad oriente. Sul lato esterno poi v'è una zona continua prealpina, dal lago di Ginevra a quello di Costanza, mentre sull'interno questa comincia solo ad oriente del lago Maggiore fino alla Val d'Adige.
Le cime maggiori delle Alpi Centrali sono: il M. Rosa (metri 4633), il Bernina (m. 4052), il Finsteraar Horn (m. 4273).
I valichi alpini, sia longitudinali sia trasversali al crinale, sono molto numerosi ed hanno avuto ed hanno grande importanza, nelle comunicazioni alpine. I principali sono i seguenti:
Passo del Gran S. Bernardo (m. 2467), fra Val d'Entremont (Rodano) e il Buthier (Dora Baltea-Po); carrozzabile Martigny-Aosta.
Col del Gemmi (m. 2329), fra il Kander (Aare-Reno) e il Dala (Rodano); mulattiera Kadersteg-Lenk, parallela alla ferrovia del Lötschberg da Briga a Thun (galleria m. 14.592).
Passo del Moser (m. 1283), fra il Sarine (Aare-Reno) e il Simme (Aare-Reno); ferrovia Montreux-Thun.
Passo del Sempione (m. 2009), fra il Saltine (Rodano) e il Diveria (Toce-Ticino); ferrovia Domodossola-Briga (galleria metri 19.730, la più lunga d'Europa).
Passo dei Grimsel (m. 2164), fra il Rodano e l'Aare (Reno); carrozzabile Briga-Brienz.
Passo della Furka (m. 2436), fra il Rodano e la Reuss (Reno); carrozzabile Briga-Andermatt.
Passo del S. Gottardo (m. 2114), fra la Reuss (Reno) e il Ticino (Po); ferrovia Zurigo-Bellinzona (galleria m. 14.990).
Passo dell'Oberalp (m. 2048), fra la Reuss (Reno) e il Reno Anteriore; carrozzabile Andermatt-Muster.
Passo di Pragel (m. 1554), fra il Muota (Reuss-Aare-Reno) e il Klön (Linth- Limmat-Aare - Reno); mulattiera da Muotathal a Netstal.
Passo del Lucomagno (m. 1917), fra il Reno di mezzo (Reno Anteriore) e l'Eveno (Brenno-Ticino-Po); carrozzabile Disentis-Biasca.
Passo di S. Bernardino (m. 2063), fra il Reno Posteriore (Reno) e il Mesa (Ticino-Po); carrozzabile Thusis-Bellinzona.
Passo dello Spluga (2117), fra il Reno Posteriore (Reno) e il Liro (Mera-Adda-Po); carrozzabile Thusis-Chiavenna.
Passo del Maloggia (m. 1817), fra l'Inn (Danubio) e il Mera (Adda-Po); carrozzabile Chiavenna-St. Moritz.
Passo del Bernina (2330), fra il Bernina (Inn-Danubio) e il Poschiavino (Adda-Po); ferrovia di montagna Tirano-St. Moritz.
Giogo dello Stelvio (m. 2759), fra lo Stelvio (Adda-Po) e il Trafoi (Adige); la più elevata carrozzabile d'Europa, Tirano- Prato di Venosta.
Passo dell'Arlberg (m. 1802), fra l'Alfenz (Ill-Reno) e il Rosanna (Inn-Danubio); ferrovia Innsbruck-Feldkirch (galleria m. 10.270).
Passo di Fern (m. 1209), fra il Loisach (Isar-Danubio) e il Gurgl (Inn-Danubio); carrozzabile Lermoos-Imst.
Passo d'Aprica (m. 1181), fra l'Adda (Po) e il torrente di Corteno (Oglio-Po); carrozzabile Edolo-Tresenda.
Passo del Tonale (m. 1884), fra l'Oglio (Po) e la Val Vermiglio (Noce-Adige); carrozzabile Edolo-Malé.
Passo di Resia (m. 1510), fra il Sille (Inn-Danubio) e l'Adige; carrozzabile Landeck-Malles-Mazia.
Passo del Brennero (m. 1375). fra il Sill (Inn-Danubio) e l'Isarco (Adige); ferrovia Fortezza-Innsbruck.
Nelle Alpi Centrali si distinguono otto sezioni, delle quali sei propriamente alpine (Alpi Pennine, A. Lepontine, A. Retiche, A. Bernesi, A. di Glarona e A. Bavaresi) e due prealpine (Prealpi Lombarde e Pr. Svizzere).
a) Le Alpi Pennine, dal Col de Ferret al Passo del Sempione, sono un gruppo compatto di rocce cristalline disposte a ventaglio, la cui massa va innalzandosi sopra i 4000 m. verso oriente; ad essa si affiancano anageniti del Verrucano e calcari triassici. L'asse centrale, unico ed unito, ha valichi molto elevati e ghiacciati, idrografia conseguente, valli trasversali parallele, chiuse a fondo cieco da enormi circhi colmi di ghiacciai.
Questi sono 190, con una superficie totale di 720 kmq., dei quali 9/10 sono sul versante settentrionale; 4 sono di prim'ordine, cioè il ghiacciaio del Gorner. a nord del M. Rosa (area 68 kmq.), il Durand o Zinal, il ghiacciaio del Findelen, quello del Corbassière, ecc.
Le cime maggiori sono la Punta Dufour del gruppo del M. Rosa (m. 4633), il Gran Combin (m. 4317) sulla cresta occidentale, il Cervino o Matterhorn (m. 4478) caratteristico per la sua piramide triangolare.
Le Alpi Pennine si possono distinguere in due gruppi. Il maggiore e più elevato è quello fra la Val d'Aosta e il Vallese, detto dagli Svizzeri Alpi del Vallese, a pendio settentrionale assai ripido, con diritti, brevi e brulli solchi vallivi dalle alte creste ghiacciate, sboccanti a salto sulla sovraescavata valle del Rodano, dove invece sul fondo riparato si coltivano la vite (fino a 550 m.), il granoturco, mandorli e fichi; mentre in rapporto all'altezza della massa montuosa si innalzano più che altrove i limiti delle colture (cereali fino a quasi 2000 m.) e quelli delle dimore permanenti (Zermatt in Val Nikolai, m. 1620; Zinal in Val d'Anniviers, m. 1678, Chamois, nella Valtournanche, sul versante meridionale, m. 1815).
A sud si appoggia il Gruppo della Val Sesia, che, a valle di una serie allineata di alti affluenti longitudinali di questo fiume, con i suoi dossi scistoso-granitici che di poco sorpassano i 2500 m., scende con caratteri prealpini sull'alta pianura biellese.
b) Le Alpi Lepontine si estendono dal Passo del Sempione a quello dello Spluga, e geologicamente sono costituite da una grande massa di granito ("massiccio del Ticino") circondata da un'ampia fascia di scisti cristallini e calcareo-argillosi (schistes lustrées) disposti in doppia piega rovesciata con numerosi disturbi tettonici, i cui avanzi compaiono sulle cime maggiori (calcari del M. Leone e di Antigorio). In genere le Alpi Lepontine rappresentano una zona di depressione nella linea di vetta mediana, poiché hanno cime inferiori ai 3500 m.; mancano di ghiacciai ed hanno numerosi valichi, percorsi in tutto il Medioevo e anche oggi (Sempione con galleria ferroviaria, sotto il M. Leone, S. Gottardo con galleria ferroviaria, Lucomagno, S. Bernardino e Spluga), con vie che convergono tutte verso Milano, per cui è ritenuta la zona di maggiore penetrazione umana delle Alpi Centrali.
A differenza che nelle Alpi Pennine, la linea spartiacque è spostata notevolmente a nord, soprattutto per l'estendersi del bacino fluviale del Ticino. Il nodo del S. Gottardo (m. 2959) rappresenta un centro idrografico di primissimo ordine, attorno al quale scaturiscono, in un raggio di una quindicina di km., fiumi importantissimi quali il Roddno, l'Aare, la Reuss, il Reno Anteriore, il Ticino e la Toce.
Le cime maggiori sono date dal M. Leone (m. 3552), dall'Adula (Reinwald-Horn, m. 3398), da Punta d'Arbola (m. 3236).
Nelle Alpi Lepontine si sogliono distinguere tre gruppi, in rapporto alle grandi valli che le intersecano.
Gruppo del Monte Leone, allungato fra l'alta Valle del Rodano, il Gottardo e la valle d'Antigorio, con scisti calcareo-argillosi, cime arrotondate e fianchi franosi, sul versante settentrionale, gneiss e calcari arcaici a punte piramidali, circhi rocciosi e piccoli ghiacciai, in quello meridionale, con valli brevi e diritte, che scendono nelle profonde gole della Val di Vedro (Diveria) e della Val d'Antigorio (Toce).
Gruppo dell'Adula, fra il Reno Anteriore, quello Posteriore, la Val S. Giacomo, il lago di Como, Bellinzona e la Val Leventina, con estesi terreni scistosi, graniti e anageniti paleozoiche, a cresta spartiacque diramata da numerose ampie e profonde vallate convergenti verso l'Adula (Safien Tal - Rabiusa, Rheinwald Tal - Reno Posteriore, Val Mesolcina - Moesa, Val Blenio, ecc.). Verso queste cime si annidano numerosi ma ristretti ghiacciai di circo, fra cui il Rheinwaldgletscher, che dà origine al Reno Posteriore.
Alpi Ticinesi, che comprendono gran parte del Canton Ticino, ad occidente di questo fiume, e fra il lago Maggiore e la Toce: rocce cristalline a pieghe in gran parte verticali, dove le valli trasversali (Verzasca, Maggia e Vigezzo) hanno spostato alla periferia la linea di cresta, con cime fra i 2000 e i 3000 m., con pochi e piccoli ghiacciaietti di circo, a forme rudi e caratteri di alta montagna, con fianchi spogli, ripide pareti e valli profondamente incassate.
c) Le Alpi Retiche, dallo Spluga al Brennero, sono un gruppo molto vasto e complesso, sia per costituzione geologica sia per raggruppamento orografico e tipo morfologico, ma conservano peraltro in tutte le loro parti l'aspetto d'alta montagna.
Sono comprese nella massa mediana di gneiss e scisti cristallini, includenti masse granitiche, come quelle del Bernina e dell'Adamello, o filoni, come quello delle Alpi Sarentine, accompagnati da espandimenti porfirici. Calcari triassici e liassici, e anche cretacei ed eocenici, s'insinuano nel cuore della massa cristallina, dove numerose faglie hanno spostato la posizione originaria delle rocce, specie nell'Engadina e lungo la linea delle Giudicarie che dal lago d'Idro si spinge fino al Brennero, cosicché in questa zona si ha la massima estensione trasversale delle Alpi.
Dopo il Passo dello Spluga la cresta mediana spartiacque si divide: la principale, diretta a nord-est, per il Bernina e le catene che limitano a nord la Val Venosta, si dirige al Brennero, un'altra diretta verso nord, per il Silvretta va al Passo dell'Arlberg, infine una terza dallo Stelvio volge a sud nell'Ortles e nell'Adamello. Le masse montuose si elevano fortemente, specie verso oriente; cosicché, mentre nel Bernina si ha la cima più alta della sezione (m. 4052), nelle Alpi Venoste si ha l'estensione maggiore dell'area al di sopra dei 3000 m., con numerosi ghiacciai. Valli longitudinali e trasversali, profondamente scavate dai grandi ghiacciai quaternarî. intersecano la sezione così sull'orlo (il Vorarlberg, Valle dell'Inn, Val d'Isarco, Val d'Adige, Valtellina) come nell'interno della massa montuosa (Engadina, Venosta, Passiria, Val di Sole, ecc.); queste comunicano fra loro con ampie e depresse selle, cosicché la sezione è suddivisa in numerosi gruppi.
Le vette più alte sono: il Bernina (m. 4052), il Wild Spitze (m. 3774), nel gruppo dell'Ötz, l'Ortles (m. 3902), l'Adamello (m. 3554).
Numerosissimi sono i gruppi nei quali può dividersi questa sezione. Fra i principali ricorderemo anzitutto il Gruppo dell'Albula e Silvretta, detto anche Alpi settentrionali dell'Engadina. Catena allineata, breve, sovraincombente all'alta valle dell'Inn, di focce cristalline, a tettonica fortemente complicata dalla "falda retica orientale", dove compaiono sedimenti di varia natura, a valli sovraimposte, parallele, diritte, specie verso il Reno, ed estesi circhi con numerosi ghiacciai ramificati attorno alla cima dell'Albula (m. 3422) col ghiacciaio della Suretta, e a quella del Silvretta (m. 3316) col ghiacciaio del Vermunt.
La catena è attraversata da numerosi ed elevati passi, percorsi da carrozzabili (Passo Giulio, m. 2287, Passo dell'Albula, m. 2315, percorso dalla ferrovia di montagna St. Moritz-Davos, Passo del Flüela, m. 2389). Nella Val Avers si trova Iuf (m. 2133), che è il più alto centro d'abitazione permanente d'Europa. Da questo gruppo si distaccano, verso il corso del Reno e il Vorarlberg, numerose diramazioni, in cui prevalgono le rocce sedimentarie variamente contorte e rovesciate, che dànno un carattere subalpino a queste catene poco elevate e a pendii dolci, quali quelle del Gruppo della Plessur (m. 2981) sopra la Jenazer Tobel (Val Davos), l'allungata e unita Catena del Reticone (Scesaplana, m. 2969) col piccolo ghiacciaio del Brandner, il Gruppo del Fervall con cime inferiori a 3000 m., forme dolci ma imponenti, sopra il Passo dell'Arlberg.
A sud dell'Engadina, e fra questa e la Valtellina, si stendono i Gruppi del Bernina e dell'Umbraglio separati fra loro dal Passo del Bernina (m. 2330), percorso dalla ferrovia elettrica Tirano-Samaden.
Il gruppo del Bernina, che appartiene ai grandi massicci delle Alpi mediane, ha rocce cristalline molto varie, forme compatte, numerose cime al di sopra di 3000 m. e molti ghiacciai, per complessivi kmq. 123, dei quali 8 di valle (Ghiacciaio del Morteratsch kmq. 24, Ghiacciaio del Roseg kmq. 23,5, ecc.) e 30 di circo. È quindi poco abitato e praticabile.
Quello dell'Umbraglio (m. 3031), sopra l'alta Valtellina e lo Stelvio, che lo divide dall'Ortles, è ramificato da grandi vallate, come l'italiana Val Livigno (affluente dell'Inn) e la svizzera Val di Monastero (affluente dell'Adige), con terreni sedimentarî del Liassico e Triassico a creste dentate, superfici detritiche, pochi ghiacciai; è abitato anche nell'interno.
Il gruppo che si estende fra l'Adige, l'Inn e le valli dell'Ötz e di Passiria, detto dai Tedeschi Ötztaler Alpen e in italiano Alpi Venoste è costituito prevalentemente da gneiss, graniti e scisti, che si elevano alle cime massime del Wild Spitze (m. 3774) e della Palla Bianca (Weisskugel, m. 3746), mentre l'altezza media si aggira intorno a m. 3010. Esso rappresenta la più estesa massa ghiacciata di tutto il tratto orientale delle Alpi, con 550 kmq. di ghiacciai, su kmq. 4130 dell'intero gruppo, fra cui molti di primo ordine, il maggiore dei quali è il Gepatsch Firn nella Kaunser Tal.
È continuato ad oriente dalle Alpi Bronie (Stubaier Alpen), fra la Valle dell'Ötz e il Passo del Brennero, con prevalenza di scisti micacei e calcari triassici sovrapposti; le quali non sono che la continuazione delle Alpi Venoste, con numerose vette assai ardite, campi di neve e ghiacciai, che vanno però deprimendosi attorno al Brennero, uno dei più bassi passi alpini. Per questa ragione è uno dei gruppi più abitati delle Alpi.
Ben diverso è invece il gruppo meridionale delle Alpi Sarentine, completamente isolato dalle larghe valli glaciali dell'Isarco, dell'Adige e di Passiria, foltamente abitate e con numerosi centri cittadini all'ingiro. Con scisti e gneiss a nord, graniti ad occidente, ed estesi pianori porfirici a sud, a cresta circolare non molto elevata, costituisce il cuore della regione dell'Alto Adige, di cui domina tutte le grandi vie d'accesso.
Il Gruppo dell'Ortles, fra la Val Venosta e lo Stelvio, la Val di Sole e il Passo del Tonale, è il più imponente e maestoso di tutte queste sezioni delle Alpi Retiche, costituito da una potente e diramata catena diretta verso est, dove predominano rocce scistose e lembi di calcari sovrapposti, con cime che raggiungono in media m. 3300, e 11 che superano i 3600 (Ortles, m. 3902) attraversato da pochi, elevati e gelati passi, con estesa copertura di ghiacciai (circa 60), di cui il maggiore è il Ghiacciaio del Forno, lungo 8400 m.
La sua prosecuzione nord-orientale di scisti cristallini, calcari e porfidi di carattere prealpino, che scende a picco sulla Val d'Adige e racchiude boscosi e abitati altipiani, costituisce i Monti della Val di Non o Anaunia che s'innalzano a m. 2433 al M. Luco e la cui cresta circolare è intaccata dal Passo della Mendola (m. 1360), che sovraincombe a Bolzano.
Diramazione meridionale è invece il Gruppo dell'Adamello (m. 3554), potente massiccio di tonalite, diviso dal Gruppo dell'Ortles dall'alta Val Camonica, dal Passo del Tonale, dalla Val di Sole (v. adamello). La Val Rendena e la depressione di Madonna di Campiglio (m. 1515) dividono questo dalle vicine Dolomiti di Brenta, magnifica regione dolomitica, vera oasi geologica e morfologica a pinnacoli, torri, pareti (Cima Tosa, m. 3176), nel paesaggio delle Alpi cristalline centrali, la quale degrada ad altipiani calcarei d'aspetto prealpino (Paganella, m. 2124) sul profondo solco dell'Adige, fino alle groppe del M. Bondone (m. 2180) e del Cadria (m. 2254) sopra Riva del Garda.
d) Le Alpi Bernesi fiancheggiano a nord le Alpi Pennine e parte delle Lepontine, fra i corsi trasversali del Rodano e della Reuss; hanno il carattere di catene compatte e molto elevate, con cime che vanno da 3 a 4.000 m., specie sul lato orientale, dove si hanno le massime elevazioni, e limiti ben netti, per le profonde depressioni longitudinali che corrono all'ingiro. Il nucleo centrale, a scisti e graniti assai ripiegati e sconvolti, è fiancheggiato alle estremità da calcari con inclusioni anche eoceniche, a numerose pieghe complicate, per cui i terreni giurassici si trovano sovrapposti direttamente agli gneiss. Costituiscono una grande muraglia uniforme sul versante del Vallese, con linee di cresta attorno ai 3000 m., con semplicità di forme topografiche nella parte a calcari e scisti; nella zona centrale, a rocce cristalline, si hanno guglie, pareti a picco, cime dentate, vasti circhi superiori ai 4000 m.
Nel versante settentrionale sono numerose valli trasversali, diritte, parallele, profondamente scavate, fra cui la Kander Tal che mette al Col del Gemmi (m. 2329) e la Hasli Tal che porta al Passo di Grimsel (m. 2164), con numerosi centri permanenti fra cui Mürren, la più elevata località abitata dell'Oberland Bernese, come si chiama la zona alta settentrionale di questo versante.
Il resto dello spartiacque è quasi tutto impervio, per la grande estensione dei ghiacciai, che sono più di cento di second'ordine, e sedici di vallata, con una superficie complessiva di oltre 500 kmq.
Le cime massime sono: il Finsteraar Horn (m. 4275) completamente gelato, il Mönch (m. 4104), la Jungfrau o gruppo della Vergine (m. 4166), l'Aletsch Horn (m. 4182).
La valle del Kander separa una porzione occidentale prevalentemente calcarea, che gli Svizzeri chiamano Gruppo del Wild Horn, dal nome della cima maggiore (m. 3264), con valli diramate affluenti alla Simmen Tal, pochi ghiacciai ed estesi pascoli. Più depresso è pure il gruppo orientale, detto delle Alpi di Uri, fra la valle dell'Aare e quella della Reuss, con catene calcaree e scistose isoclinali a creste unite, verticali a sud, dolci a nord-ovest, che si elevano a m. 3633 al Damma Stock, con catene parallele e numerosi ghiacciai di circo e di valle di complessivi kmq. 48, fra cui quello del Rodano a sud, lungo 9 km., e quello del Dammafirn.
Invece, di carattere del tutto alpino è il gruppo centrale che costituisce il Massiccio del Finsteraar Horn, il più potente delle Alpi settentrionali, con cime superiori ai 4000 m., con 2 o 3 catene parallele di scisti cristallini a pieghe verticali, mentre a nord degrada sui laghi di Thun e di Brienz, nei terreni secondarî e terziarî a forme sempre rudi.
Sul versante del Vallese scendono i grandi ghiacciai dell'Aletsch (lunghezza km. 24, superficie kmq. 103), del Lötschen e del Fiesch, a nord quelli del Kander, del Tschingel, del Grindelwald, del Gauli, dell'Unteraar, ecc., che sono tutti collegati fra loro nella zona alta gelata.
Anche i limiti biologici sono in questo gruppo particolarmente elevati, trovandosi, sul versante a mezzogiorno del Vallese, una flora meridionale xerofila con cipressi, che dà passaggio al bosco di faggio fino ai 1300 m., a quello di abete fino a m. 1900, con alberi isolati fino a m. 2000.
e) Le Alpi di Glarona, a nord delle Alpi Lepontine, fra la Reuss e il Reno, hanno, per le forme proprie dell'alta montagna e per la costituzione geologica, caratteri simili a quelli delle Alpi Bernesi, di cui sono anzi in sostanza la continuazione, per quanto le profonde valli della Reuss e del Reno le isolino orograficamente.
Constano di numerose pieghe parallele in più serie, formate da rocce cristalline, ricoperte da sedimenti calcarei rovesciati sovrapposti: presentano cime gneissiche a SO. che s'innalzano oltre i 3600 m., a forme dentate, mentre quelle settentrionali calcaree più compatte hanno pareti verticali, allo strappo della zona radicale delle falde di ricoprimento, ed estesi pianori di calcari nudi e corrosi (Märenberge). Nelle creste a sud si hanno ghiacciai di vallata (Hufi Gletscher) e sospesi (Claridenstock).
Le cime maggiori sono: il Tödi (m. 3623), l'Oberalp Stock (m. 3330) e il Piz Bargias (m. 3249).
L'alta valle del Sernf, divide questa sezione in due gruppi: quello del Tödi, formato da rocce gneissiche, a lembi calcarei inclusi nelle pieghe complesse del protogino, con tre catene diramate dalla cima maggiore del Tödi, donde scendono ghiacciai verso valli divergenti a nord, fra cui le valli della Linth, di Bisi e di Schächen, intensamente abitate sul versante sud, fino a 1300 m. (Panix); e il Gruppo della Sardona, a oriente della Sernf Tal, il quale ha versanti asimmetrici ed è costituito di rocce sedimentarie, dai conglomerati del Verrucano ai calcari del Triassico, che dominano nel cuore del gruppo, rovesciati sopra il flisch eocenico.
Le cime sono meno elevate (Sardona, m., 3056) con piccoli ghiacciai specie nella parte settentrionale, dove si hanno caratteri prealpini. È un gruppo assai poco abitato.
f) Alpi Bavaresi. - La grande valle longitudinale dell'Inn e il Passo dell'Arlberg separano nettamente la fascia cristallina mediana da quella esterna calcarea, con numerose zone a dolomie triassiche, a calcari cretacei e a molasse oligoceniche. Le Alpi Bavaresi, limitate ad ovest dal Reno e dal lago di Costanza, a sud e ad est dall'Inn, fanno seguito alle Alpi di Glarona e constano di catene allineate, parallele, a strati spesso raddrizzati, ma non molto sconvolti, che raggiungono al massimo i m. 3038 (Parseier), ma che di solito sono sotto i 3000.
Nella zona calcarea predominano le forme ardite a blocchi isolati, pareti a picco, valli chiuse, con molti piccoli laghi di circo, profonde valli trasversali, a selle depresse, che permettono le comunicazioni tra l'altipiano bavarese e l'interna valle longitudinale dell'Inn.
La zona più esterna va assumendo carattere prealpino nella fascia oligocenica, con dossi rotondeggianti e tabulari, che degradano fra i dossi morenici pedemontani. Mentre le cime calcaree sono nude e brulle, i versanti inferiori detritici e i fianchi di molasse sono ricchi di boschi e di colture.
Le cime maggiori sono: la Parseier Spitze (m. 3038), la Zug Spitze (m. 2964) e la Birkkar Spitze (m. 2756).
Le Alpi Bavaresi, assai note turisticamente per il loro paesaggio ardito, sono state divise in tanti gruppi particolari, anche in relazione al loro frazionamento orografico. Questi si possono però riunire nelle seguenti maggiori partizioni:
Le Alpi dell'Algovia fra il Reno e la Lech, con varietà litologiche e morfologiche ma predominio della dolomia, con cime imponenti, che si ergono sul piano sottostante, ed estesi pascoli sulle marne liassiche. Le Alpi della Lech, fra questo fiume, l'Inn e la testata dell'Isar, che immette alla gola di Scharnitz, dove passa la ferrovia di montagna Innsbruck-Garmisch: hanno dolomie triassiche e scisti liassici, con forme ancora più aspre, e vette con una media altezza superiore ai 2700 m., che racchiudono qualche piccolo ghiacciaio e dove, sopra un pianoro compatto, ricco di boschi e pascoli, specie sul tratto orientale, s'innalzano i massicci dolomitici, brulli, corrosi e sforacchiati dei Wetterstein Gebirge e dei Mieminger Gebirge. Finalmente fra l'Isar e l'Inn s'ergono i monti dell'Achen See, che nel loro lato occidentale hanno le masse dolomitiche dei Karwendel Gebirge, a catene calcaree parallele e strati fortemente contorti, a pinnacoli, piramidi, torri, con cime superiori ai 2600 m., mentre ad oriente degradano in dossi a forme dolci e depresse, inferiori ai 2000 m., come anche tutte le propaggini settentrionali che vanno a morire sull'alta pianura bavarese.
g) Le Prealpi Lombarde si stendono fra la Toce (lago Maggiore) e l'Adige, si appoggiano sul lato meridionale delle Alpi Lepontine e Retiche.
Rappresentano, nella parte più esterna, l'estrema assottigliata propaggine occidentale del rilievo dinarico, che muore al lago Maggiore; gli strati di questi raddrizzati e rovesciati, che constano di calcari e dolomie del Triassico, del Giurassico, e sulla pianura di lembi anche cretacei, hanno varietà di forme, mosse e ardite nelle cime dolomitiche (es. la Grigna, m. 2410, ad est del lago di Como), arrotondate e tabulari nei calcari, mentre nella parte più interna gli scisti cristallini, gli gneiss anfibolici e i massicci calcari permici assumono forme ed elevazioni di alta montagna.
Ma nel complesso predominano, per situazione, natura geologica e forme, i caratteri prealpini, specie sul lato orientale, dove vanno prevalendo le formazioni calcaree anche recenti. Questa vasta zona prealpina è tagliata trasversalmente da larghi solchi vallivi d'origine miocenica, sovraescavati dai ghiacciai quaternarî, ora trasformati in grandi laghi subalpini (Lago Maggiore, Lago di Lugano, Lago di Como, Lago d'Iseo, Lago di Garda).
Le cime maggiori della sezione sono: il Pizzo di Coca (m. 3052), il M. Redorta (m. 3037), la Grigna (m. 2410), il Pizzo di Gino (m. 2245), il M. Cadria (m. 2254).
La sezione può dividersi in varî gruppi.
Le Prealpi Luganesi si stendono fra il Lago Maggiore e quello di Como, con grandi varietà di caratteri geologici e morfologici, ma vette assai depresse, rese celebri turisticamente dalla ricchezza dei laghi vallivi e dai dossi isolati a larghissimi panorami (M. Generoso, metri 1701), con flora ricchissima submontana e mediterranea (Campo dei Fiori, m. 1226), che sovraincombono alla zona morenica pedemontana del Varesotto e della Brianza.
Le Alpi Orobie a sud del solco dell'Adda (Valtellina), fra il Lago di Como e la Val Camonica, rappresentano la parte più alpina ed elevata di questa sezione, sotto forma di un'ampia catena allineata sugli scisti e gneiss cristallini, con cresta unita che si eleva a m. 3052 (M. Coca), con numerosi circhi e qualche piccolo ghiacciaio; il versante settentrionale è ripido, a solchi torrentizî brevi e paralleli, e quello meridionale più aperto, smembrato dai bacini superiori diramati dei fiumi bergamaschi.
Le Prealpi Bergamasche rappresentano la fascia più esterna negli strati calcarei raddrizzati del Triassico e del Giurassico, con forme ardite, dolomitiche e nude all'estremità orientale del lago di Como (Grigna, m. 2410) e dorsi ampî e boscosi (Pizzo Arera, m. 2512) sul lato occidentale verso il Lago d'Iseo, dove sono incise profonde valli trasversali ricche d'acqua e d'industrie (Val Brembana, Val Seriana, Val Cavallina).
Le Prealpi Bresciane si elevano a sud del gruppo dell'Adamello tra l'Oglio e il Chiese, dove si accentuano i caratteri prealpini nei calcari triassici e paleozoici M. Colombine, m. 2214) e giungono fin sulla pianura lombarda, dove scendono assai ripide.
Le Prealpi delle Giudicarie o di Val di Ledro, fiancheggiano ad occidente il lago di Garda, dove i calcari giurassici e cretacei fortemente spostati contro il gruppo dell'Adamello, sono stati plasmati in forme molli e ampiamente terrazzate dall'azione glaciale (M. Cabione, m. 1976).
A sé stante, tra il Garda e l'Adige (Val Lagarina), v'è la groppa allungata del M. Baldo, col M. Maggiore (m. 2218) e l'Altissimo di Nago (m. 2079), i cui calcari giurassici e cretacei piegati in ampia volta alimentano una ricca flora endemica; esso, sebbene appartenga alla Venezia per la sua posizione ad occidente del solco dell'Adige, va inserito piuttosto nella sezione delle Prealpi Lombarde.
h) Le Prealpi Svizzere, si stendono fra il lago di Ginevra e quello di Costanza, a nord delle Alpi Bernesi e di Glarona, ed hanno carattere nettamente prealpino per la prevalenza delle marne e argille del flisch eocenico, della molassa oligocenica e di puddinghe mioceniche, con sovrapposizioni calcaree di terreni secondarî, dovute a rovesciamenti tettonici e complessi carreggiamenti.
Di qui, un frazionamento della massa montuosa, per un'ampia rete valliva, con dissimetria notevole dei versanti, e cime isolate, sopraelevate a cappello calcareo, da cui si dominano ampî panorami (Niesen. m. 2367; Pilatus, m. 2133; Rigi, m. 1800).
Questa zona prealpina va a morire, per lenta transizione, sui colli morenici dell'Altipiano Svizzero, e perciò manca ad essa un limite settentrionale ben definito.
Le cime maggiori sono: Le Vanil Noir (m. 2395), il Brienzer Rot Horn (m. 2353), Churfirsten (m. 2309), Säntis (m. 2504).
Fra il lago di Ginevra e quello di Thun si hanno le Prealpi della Simme, ad estesi boschi e pascoli, dai celebri prodotti del caseificio; fra il lago di Thun e quello dei Quattro Cantoni, il Gruppo della Emmen Tal, con gli stessi caratteri morfologici del precedente, ma a flora più povera; e ad oriente, fra il lago dei Quattro Cantoni e il Reno, le Prealpi di Schwyz o della Linth, dove la prevalenza del flisch e la sua sterilità, dànno una flora e un paesaggio più monotono dei precedenti, anche per le estese zone di frana e detrito di falda che coprono le pendici montuose.
3. Alpi Orientali (fr. Alpes Orientales; ted. Ostalpen; ingl. Eastern Alps). - Vanno dal Passo del Brennero al Passo di Vrata, ad est di Fiume, ed hanno per limiti: a nord, l'altipiano salisburghese e austriaco; a oriente, il Danubio fino a Vienna, il Bassopiano Pannonico, fino a Lubiana e al Kulpa, il Passo di Vrata (m. 879) e Fiume; a sud, il gradino carsico istriano, la pianura friulano-veneta, ad ovest il solco dell'Adige, il Passo del Brennero (m. 1370), il Sill, il corso dell'Inn. Discordi sono i pareri degli studiosi relativamente al limite alpino sulla Penisola Istriana, alcuni fissandolo al solco del Laibach, alla depressione di Postumia (m. 604) e al Vipacco, escludendo così tutto il Carso e il M. Nevoso, altri portandolo alle falde del Nevoso e al solco del Timavo superiore o Recca fin sopra Trieste, altri, infine, e sono fra questi i maggiori geografi italiani, comprendendo in esso anche i monti della Vena e il gradino carsico della Cicceria fino alla costa istriana, o almeno fino al solco dell'Arsa, della Fiumera e del Risano.
Le Alpi Orientali sono costituite da fasci di catene largamente divergenti, dirette, quelle settentrionali proprie del corrugamento alpino, a riord-est verso Vienna, e quelle meridionali, dovute all'arco dinarico, incurvate attorno alla pianura padana e appoggiate strettamente a quelle alpine lungo il solco tettonico Drava-Isarco. Le Alpi mediane sono anche qui molto estese con prevalenza di scisti cristallini e gneiss, che dànno forme di alta montagna, le quali vanno però rapidamente degradando verso oriente.
La zona esterna è data soprattutto da calcari del Triassico inferiore e superiore, a catene regolari e parallele, a forme rudi proprie della dolomia, mentre brevi zone di molassa e marne eoceniche collinari sono all'estremità verso il Danubio.
L'arco dinarico interno è costituito da catene pure prevalentemente calcaree, dal Paleozoico delle Alpi Carniche, al Triassico delle Alpi Dolomitiche e al Cretacico delle zone prealpine, pieghe variamente contorte e rovesciate sulla pianura friulano-veneta, divaricanti verso sud allo sbocco di Val d'Adige in relazione alla zona di dislocamento delle Giudicarie, alle intrusioni granitiche della Val Sugana e agli espandimenti porfirici paleozoici, intorno a Bolzano.
Le grandi valli longitudinali, proprie delle Alpi Orientali, vanno quindi convergendo verso la soglia di Dobbiaco, mentre poi si piegano a sud in relazione al solco Adige-Isarco.
Le cime maggiori delle Alpi Orientali sono: il Gross Glockner (m. 3798), il Gross Venediger o Gran Veneziano (m. 3660), il Gran Pilastro (m. 3523), la Marmolada (m. 3342).
I valichi alpini sono molto numerosi in questa sezione delle Alpi e assai depressi nella zona esterna, per il caratteristico frazionamento orografico della morfologia dolomitica, mentre sono radi ed elevati nelle catene mediane, a creste uniformi, fino agli Alti Tauri.
Passo di Gerlos (m. 1486), fra il Gerlos (Ziller-Inn-Danubio) e la Salzach (Inn-Danubio); carreggiabile Krimml-Zell am Ziller.
Soglia di Dobbiaco (m. 1209), fra la Rienza (Isarco-Adige) e la Drava (Danubio); ferrovia Fortezza-Lienz.
Passo di Rufreddo (m. 1544), fra la Rienza (Isarco-Adige) e il Boite (Piave); ferrovia di montagna Dobbiaco-Pieve di Cadore.
Passo di M. Croce di Comelico (m. 1636), fra il torrente di Sesto (Drava-Danubio) e la Padola (Piave); carrozzabile S. Candido-S. Stefano di Cadore.
Passo della Mauria (m. 1298), fra il Piave e il Tagliamento; carrozzabile Villa Santina (Carnia)-Pieve di Cadore.
Thurn Pass (m. 1273), fra il Kitzbühel Ach (Gross Achen-Alz-Inn-Danubio) e la Salzach (Inn-Danubio); carrozzabile Mittersill (Pinzgau)-Kitzbühel.
Radstädter Tauern (m. 1738), fra la Tauern Tal (Enns-Danubio) e il Taurach (Mur-Drava-Danubio); carrozzabile Radstadt-Mauterndorf.
Pyhrn Pass (m. 1945), fra il Teichl (Steyr-Enns-Danubio) e l'Enns (Danubio); ferrovia Linz-Selzthal.
Schober Pass (m. 849), fra il Palten (Enns-Danubio) e il Liesing (Mur-Drava-Danubio); ferrovia Selzthal-S. Michael presso Leoben.
Passo di Katschberg (m. 1641), fra la Mur (Drava-Danubio) e il Lieser (Drava-Danubio); carrozzabile Spittal-Tamsweg.
Sella di Neumarkt (m. 842), fra la Mur (Drava-Danubio) e il torrente Olsa (Gurk-Drava-Danubio); ferrovia Villaco-Leoben.
Soglia di Camporosso (m. 810), fra il Gailitz (Gail-Drava-Danubio) e il Fella (Tagliamento); ferrovia Villaco-Udine.
Passo del Predil (m. 1156), fra il Coritenza (Isonzo) e la Schlitza (Gailitz-Gail-Drava-Danubio); carrozzabile Tolmino-Tarvisio.
Passo dei Semmering (m. 980), fra la Schwarzau (Leitha-Danubio) e la Mürz (Mur-Drava-Danubio); ferrovia Bruck a. d. M.-Vienna
Varco di Longatico (m. 494), fra le depressioni del Vipacco (Isonzo) e del Laibach (Sava-Danubio); carrozzabile Gorizia-Lubiana.
Le Alpi Orientali sono distinte in dieci sezioni, delle quali sei veramente alpine (Alpi Noriche, A. Dolomitiche, A. Carniche, A. Giulie, A. del Salisburgo e A. Austriache) e quattro prealpine (Prealpi Stiriane, Caravanche, Prealpi Venete e Carso).
a) Le Alpi Noriche si estendono dal Brennero al Passo di Schober e sia geologicamente sia morfologicamente rappresentano la prosecuzione delle Alpi dell'Otz, per l'estensione degli scisti cristallini e gneiss, i quali includono nuclei granitici che costituiscono le più alte vette. Esse raggiungono le massime altezze delle Alpi Orientali, nella parte occidentale della sezione, con cime seghettate, alti e gelati valichi, numerosi ghiacciai di circo e alcuni anche di valle, dove l'altezza media della linea di cresta supera i 2700 m., mentre ad oriente vanno deprimendosi rapidamente nei Tauri ed assumendo forme unite e rotondeggianti.
Il Pizzo dei Tre Signori (m. 3500), al confine italiano, è un punto orografico assai importante, perché di qui una diramazione secondaria, nord-sud, scende alla Soglia di Dobbiaco e determina lo spartiacque fra il bacino dell'Isarco (Adige-Adriatico) e quello della Drava (Danubio-Mar Nero), collegandosi alla linea di vetta del rilievo dinarico, che fa pure da spartiacque fra la Drava e i fiumi veneti; mentre la cresta principale alpina prosegue lungo le Noriche dirette ad oriente, a dividere il versante danubiano settentrionale da quello meridionale della Drava.
I limiti settentrionale e meridionale della sezione sono dati dai due ampî corridoi longitudinali delle Alpi Orientali, solchi tettonici che l'azione glaciale quaternaria ha largamente aperto ed unito con selle molto depresse, talora a spartiacque incerto (Soglia di Dobbiaco).
Le valli secondarie, sul versante esterno della catena principale, sono brevi, ripide, profondamente incise a caratteristico parallelismo penniforme, mentre quelle meridionali, che appartengono a versanti di fiumi diversi, hanno un andamento molto più irregolare e a caratteristica divergenza, con numerosi esempî di cattura postglaciale di tronchi vallivi, le cui acque si versano oggi in direzione opposta all'andamento della valle (es. la Val di Sesto, l'Alta Pusteria, ecc.).
Le cime massime sono il Gross Glockner (m. 3798), il Gross Venediger (m. 3660), il Pizzo dei Tre Signori (m. 3500), il Gran Pilastro (m. 3523), tutti raggruppati nella parte occidentale della sezione, mentre il punto più settentrionale dello spartiacque Adriatico-Mar Nero è dato dalla Vetta d'Italia (m. 2914), dove oggi è portato il confine politico del Regno d'Italia.
Le Alpi Noriche si sogliono distinguere in parecchi gruppi principali, suddivisi poi dagli alpinisti in altri gruppi minori. Ad occidente sono i Tuxer Gebirge fra la Wipp Tal e la Ziller Tal, a cresta allineata nord-sud, a pareti ripide, con numerosi ghiacciai di second'ordine, e che s'innalzano a m. 3480 all'Olperer, mentre degradano in forme dolci sulla valle dell'Inn.
Le Alpi dello Ziller Tal fra quest' ultima valle, la valle Aurina e la Pusteria, tutte in scisti e gneiss, hanno creste seghettate che si elevano a m. 3523 al Gran Pilastro (Hochpfeiler) con numerosi ghiacciai di circo e 5 di primo ordine.
Gli Alti Tauri, fra il Pinzgau (Salzach) e la Drava, fino all'alto passo del Mur Törl (m. 2263), costituiscono il gruppo più esteso ed elevato delle Alpi Noriche, dove i nuclei granitici, inclusi fra gli scisti cloritici che presentano numerose ricchezze minerali, s'innalzano alle maggiori altezze assolute, con 17 cime che superano i m. 3400 (fra cui la piramide del Gross Glockner, m. 3798; Gross Venediger, m. 3660; Pizzo dei Tre Signori, m. 3500; Ankogel, m. 3253) a forme ardite, che si elevano da una media altezza di cresta di poco superiore ai m. 3000, ricchissime di ghiacciai di circo e d'altipiano ed alcuni di valle, fra i quali il maggiore è il Pasterzen Gletscher, che scende a sud del Gross Glockner verso la Möll Tal. Con bacini fluviali assai diramati sul lato meridionale (Rienza e Drava), che smembrano le masse montuose, sul versante esterno la catena è uniforme e precipita sul largo solco del Pinzgau (Salzach).
I Bassi Tauri sono la prosecuzione orientale della catena precedente, allineati fra la Mur e l'Enns fino al Schober Pass (m. 849), dove fra gli scisti e gli gneiss arcaici si sovrappongono anche calcari triassici. Gli gneiss e i calcari dànno luogo a forme ardite, che si elevano a 2863 m. all'Hochgolling e a m. 2746 all'Hohe Wildstelle, con caratteri nettamente alpini, mentre ad oriente, nel predominio degli scisti, la cresta si fa più unita, i versanti molli e largamente abitati. Caratteristico il parallelismo delle valli secondarie che incidono profondamente le spalle di questa uniforme catena.
A sé stanno le Alpi Carinziane, fra la Mur e la Drava, la Lieser Tal e il Lavant, diramazione sud-orientale degli Alti Tauri; la ca- tena alpina qui si deprime e assume il carattere delle medie Alpi all'Eisenhut (m. 2441, al Zirbitz Kogel (m. 2397), alla Sau Alpe (m. 2081), dove fra scisti e gneiss s'includono calcari del Carbonico e Devonico. Gran parte del gruppo è sotto il limite delle nevi permanenti e quindi ha una morfologia meno ardita degli altri gruppi, e degrada, nelle pendici più orientali della Sau Alpe, ad elevazioni e forme prealpine. La cresta è solcata da profondi valichi percorsi anche da ferrovia (Neumarkt Sättel, m. 842) e si chiude tutto all'ingiro al bacino del Gurk e alla profonda ed ampia conca di Klagenfurt (m. 446), con numerosi laghi vallivi pedemontani (Millstätter See, m. 580, kmq. 22, profondità m. 140; Ossiacher See, m. 488, kmq. 27,5, profondità m. 46; Wörther See, m. 440, kmq. 44,8, profondità m. 84, ecc.), e clima nettamente continentale, con i minimi invernali di tutte le Alpi (temperatura media gennaio −6°4).
b) Le Alpi Dolomitiche, si estendono ad oriente delle Alpi Retiche e a sud delle Noriche, fra l'Adige e il Piave, fra la Rienza e il Brenta e sono costituite essenzialmente di calcari e dolomie triassiche, a potenti banchi suborizzontali, d'origine coralligena, posanti sopra marne ed arenarie tenere paleozoiche, coperte di pascoli e abetine: queste, erose alla base, si aprono in ampî e depressi valichi e fanno crollare i sovrapposti nudi strati calcarei, che assumono per questo forme precipiti e ardite, le quali formano la meraviglia di questo paesaggio stupendo.
Formazioni dolomitiche si trovano anche nel Gruppo di Brenta, nelle Alpi Retiche, mentre sul lato sinistro dell'Adige prevalgono estesi pianori porfirici, e lungo la Val di Brenta le uniformi creste di scisti fillitici, che circondano l'ardita massa granitica di Cima d 'Asta.
La caratteristica orografica delle Alpi Dolomitiche è data da potenti e isolate masse montuose tabulari o a creste ruiniformi - che racchiudono piccoli ghiacciai di second'ordine - a pareti verticali, ed estesi detriti di falda (ghiaioni), ampie e molto depresse selle che uniscono i vari bacini contermini. L'idrografia è centrifuga con il nodo idrografico attorno alla Marmolada e al Gruppo del Sella (Gadera, Boite, Cordevole, Avisio, Gardena), per cui le comunicazioni furono facili e antichissime nell'interno della massa montuosa, a vasti ed aperti bacini (abitati da popolazione ladina), mentre i solchi vallivi periferici sono profondamente incisi in strette "chiuse".
La cima massima delle Alpi Dolomitiche è la Marmolada (m. 3342), a cui seguono l'Antelao (m. 3263), le Tofane (m. 3241), il Sass Long (in tedesco Langkofel, m. 3178), il Sella (Cima Boè, m. 3152).
Per il frazionamento orografico, proprio di questa sezione, gli alpinisti, che vi compiono numerosissime ascensioni, distinguono in essa una quantità di gruppi e sottogruppi, ma dal punto di vista orografico le Alpi Dolomitiche si possono dividere in:
Alpi di Gardena e Fassa, fra l'Avisio, l'Adige, l'Isarco e il Gadera, dove prevalgono le espansioni porfiriche dell'antichissimo centro eruttivo di Bolzano a formare ampî e boscosi pianori sul lato occidentale; mentre le tormentate torri e creste dolomitiche si elevano ad oriente, attorno agli alti bacini di Val di Fassa, di Val Gardena e di Val Badia, a Sass Rigais (m. 3027), al Catinaccio (Rosengarten, m. 3002), al Latemar (m. 2846), ecc.
Gruppo della Marmolada, fra l'alto Avisio e l'alto Cordevole nel cuore della zona dolomitica; è un ampio pianoro calcareo compatto e precipite a sud (m. 3342), inciso da numerosi circhi che accolgono piccoli ghiacciai, fra i quali quello di pianoro della Marmolada stessa, che è il maggiore di tutte le Alpi Orientali (kmq. 3,3).
Alpi Ampezzane e Cadorine, fra la Rienza, il Passo di M. Croce di Comelico, il Piave, il Cordevole e il Gadera, costituite da potenti masse dolomitiche prevalentemente suborizzontali, separate da profonde valli ed ampie selle, cosicché ogni massa forma un gruppo a sé, smembrate come sono da una ricca idrografia divergente. La cima massima è l'Antelao (m. 3263) fronteggiato dal Pelmo (m. 3168), a cui seguono il M. Cristallo (m. 3216) e le Tofane (m. 3241) attorno all'alto Boite (Ampezzo), e la Civetta (m. 3218) sopra il lago d'Alleghe (m. 966).
Per l'importanza alpinistica e strategica queste Alpi, lungo le quali correva il vecchio confine italo-austriaco, hanno una viabilità estesissima e presentano un'organizzazione turistica di prim' ordine.
Alpi della Valsugana e di Primiero si possono dire quelle comprese fra il Cordevole, la conca di Feltre, il Brenta e l'Avisio, sul cui lato occidentale si stende la catena quarzoso-porfirica del Lagorai, sovraincombente alla Val di Fiemme, mentre a sud la massa granitica di Cima d'Asta (m. 2848) si eleva dalle cupole e cime arrotondate degli scisti fillitici che scendono sui versanti brulli della Valsugana. Ad oriente del Cismon si elevano maestose le masse dolomitiche delle Pale di Primiero (m. 3193), sopra la conca smeraldina di S. Martino di Castrozza, e a nord del corso medio del Piave si stende la tormentata e nuda catena dolomitica delle Vette Feltrine (M. Pavione, m. 2334).
c) Le Alpi Carniche formano la cresta spartiacque DanubioAdriatico, fra il Passo di M. Croce di Comelico e la Soglia di Camporosso.
Ad ovest e nord-ovest prevalgono le dolomie con le loro forme caratteristiche, più ad oriente e a sud si hanno calcari e scisti carbonici permici, sottoposti a blocchi calcarei, per cui il paesaggio è assai vario e di aspetto diverso, così da quello nettamente alpino come da quello subalpino. Prevalgono le valli longitudinali che dividono catene parallele e, per la relativa depressione delle catene, mancano i ghiacciai.
Le cime maggiori sono il Sand Spitze (m. 2863), il M. Coglians (m. 2781), il Peralba, dove nasce il Piave (m. 2693), e il Rosskofel (M. Cavallo, m. 2234).
Si distinguono due catene: le Alpi della Gail, fra la Drava e la Gail, con torri e cime dolomitiche nella parte occidentale (Sand Spitze, m. 2863), mentre ad oriente la catena calcarea degrada a forma di media montagna, ampiamente rimaneggiata dal ghiacciaio quaternario della Drava, che lasciò l'allungato lago di Weissen (m. 924, prof. m. 97).
Le Alpi di Tolmezzo, fra la Gail e il Tagliamento, si presentano come una catena allineata e precipite sul lato esterno, dove si hanno scisti e calcari paleozoici a profonde selle, su cui s'elevano blocchi dolomitici, e dove corre il confine italo-austriaco; a sud un'ampia idrografia trasversale conseguente ha smembrata la catena in una serie di sproni normali alla catena principale: prevalgono le cime calcaree a pendici brulle e franose.
d) Le Alpi Giulie. - Dalla Soglia di Camporosso al Passo di Vrata: sono costituite nella parte settentrionale in prevalenza da potenti assise triassiche con calcari e dolomie, e presentano forme imponenti, non tanto per elevazione (cime tutte inferiori ai m. 3000), quando per le ardite forme a picco e la straordinaria profondità delle valli, che non hanno confronto con quelle delle altre Alpi calcaree. Ad oriente e a sud hanno potenti strati leggermente piegati del Cretacico ed anche dell'Eocene, che si stendono in alti pianori ondulati, i quali scendono a gradino sulle sottoposte depressioni, e dove è sviluppata una ricchissima morfologia carsica, con mancanza quasi assoluta di idrografia superficiale.
Le vette maggiori sono: il Tricorno (m. 2863), il Jôf del Montasio (m. 2754), il M. Canin (m. 2585), il M. Nero (Krn, m. 2245).
La parte veramente alpina della sezione prende il nome di Giulie Settentrionali, ed è compresa fra il Fella e la Conca di Lubiana. Qui s'innalzano, in una catena compatta, in un tratto relativamente breve, le cime maggiori con numerosi laghi di circo o tettonici, alcuni anche assai grandi (lago di Veldes, m. 478; lago di Wochein, m. 526), su cui incombono le cime calcaree e i versanti ricchi di boschi.
La prosecuzione ad oriente, oltre la depressione di Longatico o Nauporto, si deprime rapidamente in un altipiano carsico (che si eleva al massimo a m. 1253 al Bela Stena), a numerosi inghiottitoi e laghi temporanei (lago di Circonico - Zirknitz, m. 588), che ha nome Carso Carniolino. A sud-ovest, una serie di altipiani carsici, con pieghe a ginocchio degradanti, ricoperti di estese foreste di faggi e abeti si allineano fra l'Isonzo e la Kulpa, dominando fra i 1400 e i 1500 m. la profonda depressione della sottostante zona prealpina. Sono questi, partendo da occidente, l'Altipiano della Bansizza, fra l'Isonzo e il vallone di Chiapovano, la Selva di Tarnova col M. Goiac (m. 1496) fino alla depressione di Longatico, la Selva Piro fino a Postumia col M. Re o Nanos (m. 1299), l'Altipiano della Piuca col M. Nevoso (m. 1796), infine il Carso Liburnico (M. Risniak, m. 1528) che si riallaccia al Gran Capella del sistema dinarico.
e) Le Alpi Salisburghesi, si estendono, in continuazione delle Alpi Bavaresi, fra l'Inn e la Traun appoggiandosi al lato settentrionale delle Alpi Noriche, dalle quali sono divise per mezzo del grande solco longitudinale della Salzach. A nord di esso, e perciò sul lato esterno della zona mediana cristallina, si sviluppano in regolare serie geologica, gli scisti argillosi silurici e i conglomerati devonici, le potenti masse dolomitiche triassiche con lembi calcarei giurassici, e infine i depositi marnosi e conglomeratici del Miocene, che s'immergono sotto le alluvioni fluvio-glaciali dell'alta pianura.
La cresta spartiacque è spostata ad ovest, lungo il solco interno della Salzach negli scisti cristallini del Katzen Kopf (m. 2539) e dell'Hochkogl (m. 2255), divisa dal Passo di Thurn (m. 1273).
Le altre catene calcaree e dolomitiche, che prevalgono a nord e ad oriente, sono rotte e diramate in una serie di massicci isolati da un'estesa e complessa rete idrografica susseguente e dalle valli trasversali largamente approfondite dalla glaciazione quaternaria. Per quanto le vette non siano molto elevate (Hochkönig, m. 2938), raggiungendo raramente il limite delle nevi perpetue, tuttavia per le ardite pareti ed estesi pianori dolomitici, per le profonde e selvose selle, per il frazionamento dei gruppi montuosi, la sezione ha un netto carattere alpino e costituisce una delle zone turisticamente più importanti delle Alpi Orientali.
Il frazionamento orografico moltiplica i gruppi e sottogruppi montuosi, che contano una ricca bibliografia alpinistica. Si possono numerare fra i principali: le Kitzbühler Alpen fra la valle dello Ziller e il lago di Zell (m. 750, prof. m. 69) a rocce cristalline ricche di ferro e rame, con grandi pascoli ma eccessivamente diboscate; lo Steinernes Meer fra la Saalach e la Salzach, a potenti massicci dolomitici nudi, tabulari (Hochkönig, m. 2938), in blocchi separati da selle profonde e da depressi laghi glaciali (König-See, m. 602); i Kaiser Gebirge pure calcarei, isolati (m. 2344), che degradano nelle montagne di tipo nettamente prealpino (Sonntags Horn, m. 1965), che fronteggiano il lago morenico subalpino del Chiem See (m. 519, prof. m. 73); i Leoganger Stein Berge (metri 2634), che fra l'Achen e la Saalach scendono essi pure all'altipiano salisburghese. Ad oriente della Salzach la stessa natura dolomitica fraziona altri gruppi alpinisticamente importanti: i Tennen Gebirge, con campi carreggiati di dolomie e un piccolo ghiacciaio di pianoro (cima massima, Raucheck, m. 2428); il Dachstein (m. 2996), il gruppo più alto delle Alpi calcaree settentrionali, pure con piccoli ghiacciai, gli ultimi delle Alpi Orientali, che domina la serie dei laghi del Salzkammergut, regione con depositi salini del Paleozoico, che tanta importanza ebbero nel Medioevo; essa degrada in una serie calcarea del Cretacico a catene di schietto tipo prealpino (Höllen Gebirge, m. 1862) sovrastante ad una serie di laghi subalpini (Aber See. m. 465, prof. 114; Traun See, m. 422, prof. m. 191; Kammer See, m. 465, prof. m. 171).
f) Le Alpi Austriache sono le ultime diramazioni nord-orientali del sistema alpino e si stendono ad est della Traun e della Salza, e a nord del solco indicato dalla Mürz e dallo Schwarzau, degradando sempre più verso nord-est fino a morire sulle rive del Danubio.
Formano una sezione schiettamente calcarea, dagli strati silurici, che appoggiano sugli scisti cristallini, a quelli di tutta la serie dolomitica triassica, finché si degrada a nord alle catene periferiche cretacee e alle propaggini arenaceo-marnose del flisch sul Danubio, nella regione subalpina, con caratteri morfologici di montagna dolomitica ricca d'ogni bellezza di natura, con estesi boschi e verdi pascoli, e vanno a morire sulle formazioni moreniche pedemontane riccamente coltivate.
La cima maggiore è l'Hochtor (m. 2372), ma l'idrografia longitudinale dalla rete fluviale susseguente ha anche qui frazionato la sezione in molti piccoli gruppi orograficamente differenti tra loro.
I monti detti Totes Gebirge (Priel, m. 2514), massicci dolomitici carsici, hanno alti deserti rocciosi precipiti all'ingiro su una serie di laghi interni (Altausser See, m. 708; Grundl See, m. 709, prof. m. 64) e si continuano nel Gruppo del Pyhrgass (m. 2244), degradando poi negl'isolati e periferici Sengsen Gebirge (m. 1961).
Le Ennsthaler Alpen, nell'angolo fra l'Enns e il Palten (Hochtor, m. 2372) con massicci dolomitici, si riattaccano all'Hochschwab, a pianori calcarei precipiti all'ingiro (m. 2278), che ancora più ad oriente, sopra il celebre passo del Semmering (m. 980), si elevano a torrioni dolomitici e a tavolati carsici calcarei isolati nella Rax Alpe (m. 2009) e nello Schnee Berg (m. 2061).
A nord si degrada invece nelle Prealpi dell'Ötscher (m. 1892), calcaree nella parte alta carsica, marnoso-arenacee a nord sulle dolci groppe boscose. Da ultimo la ben nota Selva Viennese (Wiener Wald; Schöpfl, m. 893), uniforme, allungata groppa marnosa coperta di boschi, che va morendo al Danubio sopra Vienna, e che costituisce l'ultima propaggine settentrionale del sistema alpino, contro il Massiccio Boemo.
g) Le Prealpi Stiriane, si appoggiano ad oriente alle Alpi Noriche e degradano verso la pianura danubiana con propaggini che assumono via via un carattere sempre più nettamente prealpino. Negli scisti e negli gneiss delle estreme pieghe mediane delle Alpi Orientali, s'incurvano catene, con caratteri di media montagna, fiancheggiate all'esterno da calcari devonici metalliferi e da arenarie mioceniche, che vanno degradando in una serie di colli prealpini.
La vetta maggiore è l'Amering Kogel (m. 2184), negli scisti cristallini della cosiddetta Stub Alpe, nel cuore dell'arco prealpino, mentre verso settentrione si allineano la Glein Alpe (m. 1989) e la Hoch Alpe (m. 1643), ricche di miniere di ferro, e a sud la catena gneissica della Kor Alpe (m. 2144), che degradano verso i vitiferi colli stiriani (Windischen Bu̇hel o Slovenske Gorize); gruppi tutti che hanno un' idrografia convergente verso il corso inferiore della Mur.
A nord-est, oltre la Mur, si allineano i M. Stiriani, nella zona cristallina scistosa e nei calcari devonici, con le cime maggiori (Hoch Lantsch, m. 1722) raggruppate a nord-ovest, mentre le estreme marne mioceniche sono plasmate in colli fertilissimi (Bucklige Welt) verso i granitici Rosalien Gebirge.
h) Le catene delle Caravanche continuate dai Monti Pohorie (Bacher), s'insinuano fra le Alpi Noriche e le Giulie e si allineano ad est verso il bassopiano danubiano. Formano l'ultimo sviluppo delle Alpi calcaree meridionali e geologicamente rappresentano la prosecuzione dei calcari carbonici, permici e triassici delle Alpi Carniche, dalle quali sono separate dall'ampia valle longitudinale della Sava, come l'ampia conca di Klagenfurt e la Drava le dividono dalle Alpi Noriche. Catena stretta, allineata in direzione ovest-est, con creste unite e caratteri di media montagna, con profonde vallate boschive e alti valichi. La cima massima è il Grintouz (m. 2558), sopra la conca di Lubiana. I M. Pohorie formano un breve gruppo montuoso di gneiss e graniti, senza relazioni geognostiche con le Caravanche, bensì con la zona meridionale delle Alpi Mediane. Però con le prime sono in rapporto orografico (sullo stesso allineamento, con l'unico solco divisorio della valle del Missling) per il tipo di media montagna e le forme dolci e uniformi. La cima massima è la Velka Kapa (m. 1542).
i) Le Prealpi Venete si stendono fra l'Adige e l'Isonzo, appoggiandosi alle Alpi Dolomitiche, alle Carniche e alle Giulie. Sono una serie di allungate pieghe subalpine, ad anticlinale unico o complesso, che va rovesciandosi sulla pianura veneta, man mano che ci spostiamo verso oriente. Nella piega a ginocchio fra l'Adige e il Brenta prevalgono i calcari carsici del Giurassico superiore e del Cretacico a formare ampî e boscosi altipiani precipiti sulla pianura; più ad oriente sono quelli triassici che emergono in catene allungate e diramate con forme di media montagna, separate dalla catena alpina interna da ampia ed estesa sinclinale colma di marne, arenarie e conglomerati eocenici e miocenici: questi si ritrovano poi sul fianco pedemontano a strati raddrizzati, e dànno luogo ad un paesaggio collinare a creste parallele ed unite, che vanno immergendosi sotto la pianura friulana, mentre riappaiono in poggi dolci e verdeggianti ad occidente dell'Isonzo. Le cime più note sono: la Cima di Posta (m. 2200), il Pasubio (m. 2236), il M. Grappa (m. 1779), il M. Plauris (m. 1959).
Per lo sbocco trasversale dei fiumi entroalpini sulla pianura veneta, questa sezione è divisa in gruppi ben distinti: i Lessini fra l'Adige e l'Astico, costituiti da una piega a ginocchio di calcari giurassici e triassici, che si spingono entro l'alta pianura veneta con espansioni basaltiche sul lato orientale. Stesi ad altipiano ondulato attorno ai 1000 m. s. m., si elevano, coperti di boschi e di pascoli magri, a Cima di Posta (m. 2200) e al Pasubio (m. 2236).
Fra l'Astico e il Brenta, che rappresentano i solchi più brevi di penetrazione fra la Val d'Adige e la pianura veneta orientale, si erge ricco di boschi l'altipiano tettonico dei Sette Comuni o d'Asiago a conca centrale, ad una altezza di 1000 m. circa, chiusa all'ingiro da dossi rilevati, che si spingono a m. 2341 a Cima Dodici sovraincombente al profondo solco della Valsugana (F. Brenta). Fra il Brenta e il Piave s'innalza il M. Grappa (m. 1779), centro diramato di calcari nudi giura-liassici, precipiti sulla pianura veneta e articolati verso la conca di Feltre. Fra la valle trasversale del Piave e la depressione tettonica di Fadalto (lago di S. Croce, m. 382, lago Morto, m. 275) si allunga l'uniforme anticlinale delle Prealpi Bellunesi di calcari giurassici e cretacei (Col Visentin, m. 1763), sul cui lato meridionale s'allineano le vitifere catene parallele, monoclinali, degli strati raddrizzati di marne, arenarie e conglomerati miocenici, dette "corde" nel Trevigiano.
Fra la depressione di Fadalto (m. 489), da dove scendeva un ramo del ghiacciaio quaternario del Piave, e il corso trasversale del Tagliamento, si ergono più complesse e precipiti sulla pianura friulana, mancando qui la fascia subalpina, le Prealpi Carniche, a tipo dolomitico sull'angolo nord-ovest fra il corso medio del Piave e l'Alto Tagliamento (Cima dei Preti, m. 2703), a piega anticlinale cretacea uniforme, con rovesciamento pedemontano di schietto tipo prealpino sull'allineamento meridionale, il quale si erge fino a m. 2250 al M. Cavallo, che s'innalza sull'Altipiano del Cansiglio (m. 1000 circa).
Le Prealpi Giulie vanno dal Tagliamento all'Isonzo, con piega allineata di calcari triassici e cretacei, che raggiunge i m. 1959 al M. Plauris, mentre ai piedi si stendono le marne ed arenarie mioceniche dei dossi del "Collio" ad occidente di Gorizia.
l) Il Carso vero e proprio si stende ai piedi delle Alpi Giulie, fra l'Isonzo e il Golfo del Carnaro.
Sono pieghe degradanti, depresse, rovesciate di calcari cretacei ed eocenici, a completa idrografia e morfologia carsica, con dossi e pianori nudi, foracchiati da migliaia di doline e perforati da caverne, che geologicamente formano le zone di passaggio fra le Alpi calcari meridionali e il rilievo delle Dinaridi. Nelle strette sinclinali a marne eoceniche ed idrografia superficiale, v'è una ricca vegetazione, che contrasta con lo squallore e la monotonia del paesaggio carsico. Le depressioni e la diversa morfologia, permettono di distinguere: il Carso Monfalconese, basso e nudo scaglione avanzato sulla pianura friulana; il Carso Triestino, fra il Vallone e il solco del Timavo Superiore; l'Altipiano della Piuca e della Recca o Carso della Cicceria, fra il lago temporaneo di Circonico (Zirknitz, m. 588) e l'orlo precipite esterno della Cicceria sulla Penisola Istriana; altipiano che dal M. Javornik (m. 1268) e dal M. Nevoso (m. 1796) s'inflette nella sinclinale marnosa del Timavo Superiore, per poi elevarsi nell'anticlinale dei Monti della Vena, che si ripiegano a sud nei Monti Caldiera lungo la costa del Quarnaro, e innalzarsi al M. Maggiore (m. 1396) dominando tutta la sottoposta Penisola Istriana (v. carso).
Bibl.: E. Desor, Der Gebirgsbau der Alpen, Wiesbaden 1865; C. v. Sonklar, Allgemeine Orographie, Vienna 1873; C. Suess, Die Entstehung der Alpen, Vienna 1875; A. Heim, Handbuch der Gletscherkunde, Stoccarda 1885; A. v. Böhm, Die Einteilung der Ostalpen, in Penk's Geogr. Abhandlungen, Vienna 1887; Fr. Umauft, Die Alpen in Handbuch der gesammten Alpenkunde, Vienna 1887; E. Richter, Die Gletscher der Ostalpen, in Handbücher zur Deutscher Landes-und Völker-kunde, Stoccarda 1888; E. Levasseur, Les Alpes et les grandes ascensions, Parigi 1889; C. Diener, Der Gebirgsbau der Westalpen, Vienna 1891; E. Haug, Les régions naturelles des Alpes, in Annales de Géographie, Parigi 1894; Ch. Knapp e M. Borel, Dictionnaire Géographique de la Suisse, Neuchâtel 1902-10; H. Reishauer, Die Alpen, in Aus Natur-und Geistewelt, Lipsia 1909; O. Marinelli, I ghiacciai delle Alpi Venete, in Memorie geografiche, Firenze 1910; L. Kober, Bau und Entstehung der Alpen, Berlino 1923; Fr. Machatschek, Länderkunde von Mitteleuropa, in Enzyklopädie der Erdkunde, Lipsia e Vienna 1925; R. Blanchard, Les Alpes Françaises, Parigi 1925; E. De Martonne, Les divisions naturelles des Alpes, in Annales de Géographie, Parigi 1925; C. Porro, Elenco dei ghiacciai italiani, in Servizio idrografico del Po, Parma 1925; A. R. Toniolo, Revisione critica della partizione del sistema alpino occidentale, Firenze 1925; Comitato Geografico Nazionale Italiano, Nomi e limiti delle grandi parti del sistema alpino, in L'Universo, Firenze 1926; E. De Martonne, Les Alpes (Géographie générale), Parigi 1926; N. Krebs, Die Ostalpen und das heutige Österreich, 2ª ed., Stoccarda 1928.
Le Alpi nell'antichità.
Etimologia del nome Alpes. - I dati che si possiedono inducono a ritenerlo di origine ligure: abbiamo i nomi Alba od Albium di varie città di origine preromana della Liguria augustea: Alba Docilia, oggi Albissola; Alba Pompeia, oggi Alba Piemonte; Albingaunum, oggi Albenga; Albintinilium, oggi Ventimiglia (si vedano le singole voci); nomi apparentemente della stessa radice dati in età romana a località di varie regioni europee o originariamente liguri o nelle quali poterono agire influssi liguri (vedasi Nissen, Ital. Landeskunde, I, p. 140). Alpes Apuanae denominavansi i monti ai confini storici orientali della Liguria. Circa il nome di Alpini degli abitanti delle montagne della riviera di Ponente (Livio, XXVIII, 46) e l'attributo di alpinum dato all'oppidum Savo (Livio, ibidem), ci si può domandare se dai Romani sieno stati dati soltanto in relazione alla regione ed alla sua natura. Strabone stesso (Geogr., IV, VI, 1, p. 202) collegava il nome di Albium, di Albingaunum e di Albintimilium con quello delle "Αλπια, le quali in tempi più antichi sarebbero state denominate "Αλβια. Il nome "Αλβιον, secondo Strabone, era rimasto alla estrema parte occidentale della catena. Alba od Albium avrebbero pertanto un significato generico di abitato, città, colonia. Festo (Ep., 4) con erudita etimologia spiegava Alpes col sabino Alpus, latino Albus "credi potest nomen Alpium a candore nivium vocitatum". In ogni modo ancor oggi ci sono rimasti molti dati comprovanti la constatazione di Servio (Ad. Aen., passim) che in genere Alpes Gallorum lingua alti montes vocantur, mentre il singolare Alpis accompagnato dal nome di una località, sia presso i Romani sia in tempi posteriori, significò valico, non solo nelle Alpi propriamente dette, ma anche nell'Appennino.
H. Nissen, Italische Landeskunde, I, pp. 136-173 e 466-493; Partsch, in Pauly-Wissowa, Real-Encycl. d. class. Altertumswiss., s. v., voci Alba, Albion, Alpes, in A. Holder, Altceltischer Sprachschatz, Lipsia 1896-1904.
Il rilievo geografico delle Alpi, il più lungo e più elevato del continente europeo, lungi dal rappresentare per la scienza delle antichità una linea di divisione fra gli strati etnici e culturali del settentrione e quelli del mezzodì, fu sempre una zona grigia nella quale i varî strati s'incontrarono e si confusero. Zona essenzialmente di transito, razze e civiltà ora vi si avvicendarono, ora vi ebbero il tramite di contatto e di diffusione. Nell'antichità classica le vie di comunicazione attraverso le Alpi furono uno sviluppo dei valichi più o meno ardui già frequentati in età precedenti, sviluppo che venne man mano progredendo a misura che aumentava la forza di espansione delle civiltà fiorenti nelle regioni pedemontane e finitime.
Soltanto ai due estremi della catena alpina furono scoperte tracce dell'uomo paleolitico, in caverne cioè delle Giulie e nelle ultime propaggini delle Alpi Marittime (Balzi Rossi e caverna delle Fate nel Finalese). Gran beneficio era, ai due estremi, la vicinanza del mare. Di quell'età in tutto il resto della catena nessun altro avanzo antropozoico si scoprì, fatta eccezione per poche località ai margini italiano e transalpino della catena dove si ebbero ritrovamenti riferibili alle fasi paleolitiche più recenti.
Le Alpi solo col decorrere dei secoli, ritiratisi i ghiacciai e cessate le grandi alluvioni in fondo alle valli, cominciarono ad essere transitabili ed abitabili.
Appare allora l'uomo già in possesso della civiltà neolitica, verisimilmente dovuta alle stesse genti che in tempi molto posteriori si affacceranno alla storia col nome di Ligures, lungo tutta la catena alpina, in entrambi i versanti. Per il versante italiano cito le caverne di Finale Ligure, il riparo sotto roccia di Vayes in Val di Susa, i sepolcreti di Montiovet e di Villeneuve in Val d'Aosta, sepolcri e ripari sotto rocce nel Trentino, strati neolitici nelle caverne del Carso. Ma in altre parti della catena, ad esempio nelle Alpi Centrali, la scarsità di oggetti neolitici non permette di pensare a veri e proprî stanziamenti. Nessuna traccia, in genere, dell'uso di valichi alpini: le relazioni commerciali si svolgevano principalmente per la valle del Rodano e per le vie fluviali ad oriente delle Alpi.
Le medesime genti, secondo un'autorevole opinione, alla fine del neolitico e nelle successive fasi del rame e del bronzo, avrebbero dimorato anche nelle palafitte innalzate sui laghetti e sulle paludi al margine delle Prealpi e nella pianura padana e nelle "terremare" del Cremonese e dell'Emilia. Altri attribuisce invece le palafitte a nuove genti - italiche - scese per passi delle Alpi Centrali. In tempi posteriori ancora, durante l'età del bronzo, dalle Alpi Orientali sarebbero scesi gli affini "terramaricoli". Nelle palafitte italiane, svizzere e savoiarde, lungo tutto il margine settentrionale delle Alpi la civiltà è dappertutto simile o affine.
Durante lo svolgersi della civiltà del bronzo sempre meno scarse divengono le prove di uso dei valichi alpini. Le valli maggiori dappertutto (Trentino, ecc.) ospitano genti sempre più numerose dei medesimi ceppi etnici e della medesima civiltà di quelle del piano. Sul margine settentrionale delle Alpi la civiltà si presenta sempre un poco attardata.
Monumento di singolare importanza, per l'età del bronzo, ed in relazione forse con il culto solare e della montagna, sono le 14.000 incisioni su roccia (bovini, aratri, armi, utensili, ecc.) tutt'intorno alle falde dell'alto monte Bego nelle Alpi Marittime.
Chi ritenga liguri i palattificoli ed i terramaricoli deve necessariamente ammettere, verso la fine dell'età del bronzo, la discesa dal nord-est degli Italici (Umbri), a un dipresso nel tempo che vide un popolo illirico, i Veneti, occupare il paese tra i pendii delle Alpi orientali e il mare.
L'uso dei valichi alpini, specialmente orientali, fu frequente nelle ultime fasi della prima età del ferro (sec. VII-V a. C.) e nella successiva età gallica. Per essi perveniva dai mari settentrionali l'ambra; per essi si diffondevano oltralpe prodotti italici e veneti già da secoli compenetrati dalle influenze orientali. La stessa formazione oltralpe delle civiltà di "Hallstatt" e gallica si spiega con la forte azione della splendida civiltà dell'Europa meridionale. Ritrovamenti attestano anche l'uso dei valichi dello Spluga, del Maloia, del San Bernardino, del Piccolo e Gran San Bernardo. A questi passi taluno volle riferire la leggenda degli Argonauti. Liguri o liguro-italici ebbero sedi importanti intorno a Como, al lago Maggiore, nel cuore del Canton Ticino, dove, fortemente gallicizzati, continuarono fino all'età romana.
Bibl.: P. Barocelli, in Bull. di paletnol. ital., XLIV, p. 67 (caverna delle Fate); De Villeneuve, Boule, Verneau, Carteilhac, Les Grottes de Grimaldi, Monaco 1906-1912; P. Barocelli, Val Meraviglie e Fontanalba, in Atti d. Soc. piemontese di archeologia, X (1921), fasc. i (incisioni preistoriche di Monte Bego); A. Taramelli, Stazione neolitica di Vages in Val di Susa, in Bull. di paletnol. ital., XXIX (1903); Sepolcreto neolitico di Villeneuve in Val d'Aosta, in Notizie d. scavi di antichità, 1918, p. 253 (Barocelli); P. Barocelli, Les âges préromains dans la Vallée d'Aoste, in Augusta Praetoria, 193; I. Heierli e W. Oechsli, Urgeschichte des Wallis, in Mitteilungen der Antiquarischen Gesellschaft in Zürich, 1896; Viollier, il Canton Ticino nelle epoche preistoriche, in Riv. archeol. d. prov. di Como, 1927, fasc. 92-93; A. Magni, Notevoli scoperte nella Svizzera italiana, ibidem, 1925, fasc. 88-89; E. Scherer, Altertümer der Urschweiz, in Mitteilungen predette, 1916; I. Heierli e W. Oechsli, Urgeschichte Grandbundens, in Mitteilungen predette, 1903; Castelliere preistorico a Riva di Trento, in Notizie d. scavi d'ant., 1927, p. 117 (Marconi); Stazione preistorica di Collalbo nell'Alto Adige, in Notizie d. scavi di ant., 1928, p. 294 (Ghislanzoni); Battaglia, in Bertarelli, Duemila grotte (caverne del Carso); Battaglia, Necropoli e Castellieri del Carnaro, in Bullettino di paletnol. ital., XLVII, 1927; Peet, The Stone and bronze ages in Italy, Oxford 1909; Fr. von Duhn, art. Alpenpässe, in Reallexicon der Vorgeschichte, I (1924).
Agli albori del sec. IV popolazioni celtiche o galliche (nome quest'ultimo dato dai Romani) scesero secondo Livio (IV, 34) dai valichi alpini di nord-ovest (per Taurinos saltusque invios Alpes transcenderunt), sconfissero gli Etruschi nella pianura lombarda occidentale, s'impadronirono di tutta l'Italia settentrionale e di parte della centrale. In relazione con un passo piuttosto indeterminato di Polibio (II, 17, 3) si suppose che i Galli fossero scesi per le valli delle Alpi Centrali; ma non sarebbe in questo caso chiaro come, secondo una tradizione conservataci da Plinio (III, 133) e da Livio (V, 33, 11), elementi etruschi fuggendo dinanzi agl'invasori risalissero queste stesse valli. Altri, e segnatamente il Déchelette, sostenne che la discesa avrebbe avuto luogo per i valichi orientali: solo durante il sec. III sarebbero scesi direttamente dal nord nella Francia meridionale.
In ogni modo la diffusione delle monete massaliote e d'imitazione massaliota nell'Italia settentrionale durante il sec. III e il II a. C. è una delle prove dell'uso dei valichi alpini occidentali.
Coi nuovi invasori aumentarono anche nelle Alpi le mescolanze etniche: ai Romani stessi non era facile riconoscere l'origine di popolazioni aventi oramai un'uniforme civiltà di tipo gallico. Nei grandi sepolcreti, per esempio, di Ornavasso nella bassa Val d'Ossola e di Giubiasco presso Bellinzona, che ci conducono dal sec. IV a. C. all'impero romano, attribuibili a genti liguri, galliche erano le suppellettili, le armi, le monete.
Molto numerosi i nomi di populi o civitates alpine preromane nelle fonti romane. Si citano qui alcuni dei principali:
Ingauni nella regione di Albenga; Intimilii nella valle della Roia e vicine. Col nome generico di Comati erano indicati gli abitanti nel cuore delle Alpi Marittime. Queste e le Cozie rimasero sempre dominio ligure. Presso e a sud del Varo Oxibii e Deciati; Caturiges nell'alta valle della Druentia (Durance); Vocontii ad occidente dei Caturiges; Segusini ed altri nella valle della Duria Minor (Dora Riparia) limitrofi ai Taurini discesi da antiqua Ligurum stirpe (Plinio, III, 124). Liguri sarebbero stati anche i Salassi della valle d'Aosta e della regione di Ivrea ed i Lepontii dell'Ossola e dell'alta valle del Ticino, dappoiché Catone (presso Plinio, III, 134) riteneva Lepontios et Salassos Tauriscae gentis. Studî recenti del Terracini portano a considerare il leponzio come la lingua di un popolo assai fortemente celtizzato ed italicizzato ma con tratti liguri. Il nome Taurini, si confonde con Taurisci: si possono quindi pensare di origine ligure anche i Taurisci delle Alpi Orientali, in parte confusi coi Carni (Carnia), che a contatto coi Romani appaiono Galli (Polibio, II, 29, 4; 30, 3; ecc.).
Nella Savoia i Ceutrones (alta valle dell'Isara, oggi Isère), gli Allobroges (verso il Rodano); nel Vallese i Nantuates, i Varagri, ecc.
Sui due versanti delle Alpi Centrali, almeno per un lungo periodo di tempo, si estesero i Raeti, popolo fortissimo. Non è nota la loro origine etnica: forse era un popolo etnicamente mescolato. Si è accennato all'antica tradizione secondo cui i Reti sono discendenti degli Etruschi profughi dinanzi ai Galli. Ma questo non potrebbe spiegare di per sé la forza di espansione dei Reti. Sta in ogni modo il fatto che la toponomastica e le epigrafi preromane hanno in parte un innegabile carattere etruscoide. Le epigrafi retiche etruscoidi, delle quali il Pauli poté determinare varî gruppi regionali (Sondrio, Bolzano, ecc.), sono per la maggior parte del sec. II a. C.: tutte in ogni modo posteriori alla metà del sec. III. I Reti si sovrapposero forse ad occidente agli stessi Lepontii (Strabone, IV, 6, 8, p. 206), verisimilmente agli Orobii di Como e Bergamo dei quali Catone ignorava l'origine (Plinio, III, 124), alle genti antichissime che avrebbero abbandonato il paese tra Adria e le Alpi ai Veneti, e che ci appaiono oscuramente col nome di Euganei (Liguri). Verona era città Raetorum et Euganeorum (Plinio, III, 130). Nelle Alpi Bresciane Plinio (III, 134) nomina come Euganei i Trumplini della Val Trompia ed i Camunni della Val Camonica. Verona e Brixia (Brescia) durante la conquista romana ci appaiono però come città possedute dai Galli Cenomani (Livio, V, 35,1, ecc.). Popolo specificatamente retico appare essere stato quello dei Vennones o Vennonetes abitante nelle alte valli dell'Adda e dell'Inn. I Venostes occupavano la valle dell'Adige a monte di Bolzano; gli Anauni la valle di Non. Ad oriente anche i Tridentini (Trento) ed i Feltrini (Feltre) ci apparirebbero essere stati nell'ambito dei Reti (Plinio, III, 130), la cui influenza si sarebbe sentita anche nelle Alpi orientali (Strabone, VII, 5, 2, p. 314). I Reti confinavano ad est e a nord con i Norici ed i Vindelici (Plinio, III, 146). In queste regioni verisimilmente era forte l'elemento celtico. L'incertezza degli antichi stessi circa l'etnografia alpina risulta evidente dal fatto che Strabone (IV, VI, 8, p. 206) diceva di origine illirica i Breuni del Brennero.
I Romani con le guerre gallica (222 a. C.) ed istriana (221) avevano già conquistata l'egemonia dell'Italia settentrionale, tranne il Piemonte e la Liguria. Lo stesso anno (218) tuttavia, in cui a consolidamento del dominio venivano fondate le colonie di Placentia e di Cremona, Annibale superava le Alpi Occidentali. Quale valico fosse stato da lui passato, si disputava fino dall'antichità e diverse appaiono le opinioni degli stessi storici classici: le ipotesi più fondate sono per il Piccolo San Bernardo, o il Moncenisio o il Monginevra. Dopo Zama, i Romani in breve non solo riacquistarono il perduto, ricostituirono Placentia e Cremona e condussero la via Aemilia (anno 187), ma procedettero anche verso le Alpi. L'anno 197 C. Cornelius de Insubris Cenomanisque triumphavit (Livio, XXXIII, 23) e l'anno dopo Comum oppidum fu conquistato (Livio, XXXIII, 36). Furono così assicurati gli sbocchi delle vallate donde scendevano i Reti, e dove erano gli oppida di Comum, Bergomum in quel degli Orobii, Brixia (Brescia) e Verona in quel dei Cenomani. Fin d'allora verisimilmente la valle dell'Adige con Tridentum (Trento) passò in dedizione ai Romani. Con la deduzione della colonia latina di Aquileia (181) i Romani saldamente occuparono il maggior centro stradale, commerciale, militare ai piedi delle Alpi Orientali: da Aquileia mossero contro gli Istri (177), i Carni, i Taurisci, la Pannonia (156-155).
Nel corso degli stessi anni, ad occidente domarono i Liguri della riviera di Ponente (181), gli Statielli nella valle della Bormida (173); combatterono nelle Alpi Marittime gli Oxibii ed i Deciati (154), i Salassi nella regione di Ivrea (143-140).
L'anno 148 il console Sp. Postumio Albino costruì attraverso a tutta la valle padana da Genova a Piacenza e Cremona, e di qui ad Aquileia, la via che prese il suo nome, dalla quale doveva diramarsi e costituirsi a poco a poco quel sistema di vie colleganti le varie città ai piedi delle Alpi, che vediamo completo durante l'Impero.
I valichi alpini non erano però in possesso dei Romani. Polibio (presso Strabone, IV, 6, 12, p. 174) ne enumerava quattro, già sentieri usati durante le età preromane, ancora sempre precipitosi: uno per i Liguri nelle Alpi Marittime presso il mare; l'altro verisimilmente per il Monginevra ("per i Taurini, dove passò Annibale"); il terzo per il paese dei Salassi, ossia per la valle di Aosta (Piccolo o Gran San Bernardo?); il quarto per le Alpi Centrali, forse il Brennero ("attraverso il paese dei Reti").
Durante la seconda metà del sec. II in varî luoghi delle Alpi si ebbero piccole guerre di cui rimasero lacunose notizie: così l'anno 129 il console C. Sempronio Tuditano trionfò dei Giapidi: nell'antichissimo santuario dedicato al culto fluviale del Timavo erano verisimilmente sue statue, di cui rimasero le iscrizioni (Notizie degli scavi di antichità, 1925, p. 3 segg.).
Notevoli le operazioni nelle Alpi Marittime, che condussero alla costituzione della provincia della Gallia Narbonese. L'anno 125 il console M. Fulvio valicò le Alpi Occidentali, secondo una ipotesi per il valico dell'Argentera; al 122 risale la fondazione di Aquae Sextiae; al 120 la sottomissione degli Arverni e degli Allobrogi. In altre parti della catena alpina i valichi e le altre valli erano ancora malsicuri: l'anno 101 scesero i Cimbri per la valle tridentina e l'anno seguente, quando la pianura piemontese ed il Monferrato erano già in istato di progredita romanizzazione, fu dedotta la colonia Epredia (Ivrea), di diritto romano, a difesa contro le incursioni dei Salassi. Durante il sec. I le guerre combattute in Oriente e le lotte civili non solo impedirono ai Romani di continuare la sistematica conquista dei popoli alpini sempre fruenti di una relativa indipendenza, ma indebolirono il prestigio di Roma stessa.
Quando, lege Pompeia (89 a. C.), fu accordato il diritto latino a varî comuni della Transpadana, consta con certezza che ne avvantaggiarono anche Como, ch'ebbe il titolo di colonia, e Verona: verisimilmente ebbero il diritto latino anche altre città prealpine, quali Brescia e Trento. Sappiamo da Plinio (III, 138), senza più precisi particolari, che civitates alpine furono attributae municipiis, pure lege Pompeia. Plinio stesso (III, 134) parla specificatamente dei Trumplini e dei Camunni aggregati verisimilmente al municipio di Brescia.
L'anno 74 Pompeo, recandosi in Ispagna per combattere Sertorio, superò con l'esercito il valico del Monginevra, per il quale non molti anni dopo passò ripetutamente G. Cesare valendosi dell'amicizia del regolo segusino Donno. Al termine del secondo anno della guerra gallica Cesare stesso (De bello gallico, III,1) mandò nel Vallese il legato Sergio Galba: causa mittendi fnit quod iter per Alpes, quo magno cum periculo magnisque cum portoriis mercatores ire consueverant, patefieri volebat. Trattavasi del valico della Alpis Poenina, di cui non si comprende l'omissione in un passo di Varrone presso Servio (Ad Aen., X, 13) di difficile interpretazione, sulle cinque vie che in quel tempo traversavano le Alpi Occidentali: una quae est iuxta mare per Ligures, altera qua Hannibal transiit, tertia qua Pompeius ad hispaniense bellum profectus est, quarta qua Hasdrubal de Gullia in Italiam venit, quinta quae quondam a Graecis possessa est, quae exinde Alpes Graiae appellantur.
A Cesare risale la fondazione, ai piedi delle Alpi Marittime, di Forum Iulii (Fréjus). Egli (lege Iulia) concesse la cittadinanza romana ai Transpadani. Si può pensare che ne abbiano avuto vantaggio anche le città prealpine fra cui Como, che venne anche riforzata di nuovi coloni.
Ottaviano durante gli anni 35-33, ancora triumviro, vinse i Carni, i Taurisci ed i Giapidi nelle Alpi Orientali: a lui forse allora si dovette il sorgere di Iulium Carnicum (Zuglio) nel cuore delle Alpi stesse, divenuta colonia prima della morte di Claudio, di Forum Iulii (Cividale) e della colonia Iulia Concordia, e la deduzione della colonia di Tergeste (Trieste), l'anno 33 a. C. Ai piedi delle Alpi Occidentali curò forse una prima deduzione della colonia taurina (Iulia Augusta Taurinorum), oggi Torino.
Cessate le guerre civili, Ottaviano divenuto Augusto poté domare e pacificare tutti i popoli alpini. Le notizie scarse ed incomplete rimasteci in proposito negli storici classici si riassumono in quattro spedizioni, oggetto particolare di trattazione dell'opera dell'Oberziner (v. Bibl.).
Terenzio Varrone Murena vinse i Salassi (25 a. C.). Seguirono (a. 18) le spedizioni di P. Silio contro i Camunni ed i Vennonetés (Valtellina), di Druso e Tiberio contro i Reti ed i Vindelici (a. 15). Infine Augusto stesso vinse i Liguri delle Alpi Marittime (a. 14). Al sommo giogo di queste fu innalzato in suo onore il trofeo (a. 13) di cui restano notevoli avanzi, in località che dal monumento stesso prese il nome di Turbia; nell'iscrizione conservataci per gran parte da Plinio (III, 137; v. Corpus inscriptionum latinarum, V, 7817) è l'elenco delle gentes alpinae omnes.... a mari supero ad inferum.... sub imperium p(opuli) r(omani).... redactae.
Chiuse la serie delle guerre la vittoria contro i Pannoni ed i Norici ribelli (a. 14 e 12-11).
All'opera di guerra si accompagnarono quelle di sistemazione e di pace: non vi è valle alpina di qualche importanza in cui non siano vestigia dell'opera di Augusto. Con grandiosi lavori rese le principali vie alpine facilmente accessibili alle legioni, e le aprì al cursus publicus; oltre alla colonia Augusta Praetoria (Aosta; v.) nel paese dei Salassi, nel cuore delle Alpi, dedusse ai piedi delle Alpi Occidentali la colonia Iulia Taurinorum, che con la probabile seconda deduzione militare si nomò Iulia Augusta Taurinorum. Sorse pure Augusta Bagiennorum presso l'odierna Bene.
Sul versante opposto delle Alpi Occidentali stesse, città e vici presero nome da Augusto. Brixia divenne colonia Civica Augusta. Augusto stesso, dimorando ad Aquileia, ampliò ed abbellì la città.
A difesa dell'Italia Augusto costituì alcune provincie alpine, rette nei primi tempi da praefecti militari, in seguito da procuratores. Le provincie delle Alpes Maritimae e delle Alpes Cottiae erano estese in ambedue i versanti delle Alpi omonime ed i loro confini con le regioni augustee d'Italia IX ed XI erano segnati dalla linea doganale della quadragesima Galliarum corrente al margine della pianura (v. alpi marittime ed alpi cozie). Per tutto il resto della catena alpina il confine d'Italia dalla valle di Augusta Praetoria all'Alpis Iulia (reg. X ed XI) correva al sommo giogo. Solo l'estrema parte settentrionale di Val Venosta e della valle dell'Isarco faceva parte della provincia di Rezia (staz. doganale a Sublabio; v. oltre). Questa provincia, con capoluogo Augusta Vindelicorum, nel sec. I comprendeva anche la Vallis Poenina, oggi Vallese (Tacito, Hist., I, 11: procurator provinciae Raetiae et Vindeliciae et Vallis Poeninae): in seguito la Vallis Poenina con parte della Savoia costituì la provincia delle Alpes Atrectianae et Poeninae; le Alpes Graiae atque Poeninae dell'ordinamento di Diocleziano. Ad oriente il procurator del Regnum Noricum e la provincia Pannonia sotto un legatus Augusti.
Augusto aggregò popolazioni alpine alle colonie ed ai municipî del sottostante piano, affinché sotto l'influenza romana dallo stato di peregrinitas oppure di latinitas passassero successivamente a quello di cives optimo iure. Agli Anauni aggregati a Trento la cittadinanza romana fu concessa da Claudio (v. anauni); i Camunni ed i Sabini aggregati a Brescia, secondo il Pais, l'ebbero pochi anni dopo la morte di Plinio. Le civitates delle Alpi Cozie ebbero diritto latino: Segusio ed altre città piuttosto tardi divennero municipî di diritto romano. Le civitates della provincia delle Alpes Maritimae solo al tempo di Nerone ebbero tutte la latinità. Di questa godettero a lungo anche alcune delle popolazioni finitime chiamate Bagienni (v. alpi cozie, alpi marittime). Soltanto nell'età di Claudio l'ottennero gli Octodurenses, abitatori della Vallis Poenina, ed i Ceutrones della Tarantasia (Plinio, Nat. hist., III, 135). I Reti conservarono a lungo la peregrinitas: Augusta Vin delicorum fu fondata da Augusto, con ogni verisimiglianza, come semplice forum.
Nelle Alpi Orientali Bellunum (Belluno) apparirebbe dichiarato municipio da Plinio (Nat. list., III, 130). Iulium Carnicum divenne colonia almeno prima della morte dell'imperatore Claudio (Corp. inscr. lat., V, 1832 e 1838), mentre i Catali ed i Carni attribuiti alla colonia Tergeste (Trieste) ebbero la latinità molto più tardi, nell'età dell'imperatore Antonino Pio (Corp. inscr. lat., V, 532). Iulia Emona (Lubiana) è già detta colonia da Plinio (Nat. hist., III, 147).
Bibl.: G. Oberziner, Le guerre di Augusto contro i popoli Alpini, Roma 1900; G. De Sanctis, Storia dei Romani, III, Torino 1916-17 e IV, i, Torino 1923; E. Pais, Dalle guerre puniche a Cesare Augusto, Roma 1918; B. A. Terracini, Spigolature liguri, in Archivio glottologico italiano, XX (1927); I. Déchelette, Manuel d'Archéologie préhistorique, celtique et gallo-romaine, III, Parigi 1913; Fr. v. Duhn, art. Kelten, in Real-lexicon der Vorgeschichte; Bianchetti, I sepolcreti di Ornavasso, in Atti della Società piemontese di archeologia, VI, (1893).
La via litoranea Iulia Augusta. - Costrutta da Vada Sabatia (Vado) al Varo, da Augusto, di cui alcuni miliarî (a. 13 a. C.) recano il nome; altri miliarî hanno il nome di Antonino Pio; altri, scoperti al sommo dell'Alpe Marittima, dànno il nome ufficiale della via (Iulia Augusta), ed accennano a riparazioni di Adriano (Corp. inscr. lat., V, 8083; 8109). L'ascesa al sommo delle Alpi Marittime cominciava ad occidente di Ventimiglia, la romana Albintimihum, i cui avanzi furono da poco messi in luce da amplissimi sistematici scavi governativi. Il passo non era difficile né per asperità di via né per dislivelli, pur dovendosi soltanto superare qualche tratto soverchiamente angusto, come ai Balzi Rossi presso Grimaldi dove si conserva ancora un tratto tagliato nella roccia. Al sommo - in Alpe Maritima - era Tropaea Augusti, oggi La Turbia, nome, come si è accennato, tratto dal monumento eretto l'anno stesso della ćostruzione della via a commemorare le vittorie di Augusto sui popoli alpini: se ne vedono ancora notevoli ruderi. La via scendeva quindi a Cemenelum (Cimiez, presso Nizza) capitale della provincia delle Alpes maritimae. Della città romana restano ben conservati monumenti. Di qui la via proseguiva a Forum Iulii (Fréjus) ed Arelate (Arles).
Colle dell'Argentera. - Non si ha notizia che fosse frequentato per quanto non manchino nelle valli dei due versanti ritrovamenti di età romana, specie epigrafici. Notisi la esistenza di stazioni doganali della quadragesima Galliarum a Borgo S. Dalmazzo ed a Busca (v. alpi marittime).
La via del Mons Matrona (in Alpe Cottia), oggi Monginevra (m. 1680). - Conduceva da Augusta Taurinorum (Torino) per la valle della Duria Minor (Dora Riparia) e Segusio (Susa) al passo sacro verisimilmente alle Matronae. Vi sorgevano infatti costruzioni, in parte forse di mansione (Bull. épigr., 1882, p. 47), alle quali a lungo durante il Medioevo rimase legato il ricordo di un culto pagano (Chron. Novaliciense. III, 7). Dal passo la via scendeva per la valle della Druentia (Durance) a Brigantio (Briançon), donde continuava ad Ebrodunum (Embrun) e a Valentia (Valence) sul Rodano. Iscrizioni (Corp. inscr. lat., V, 7209-7214) attestano l'esistenza di un posto doganale della quadragesima Galliarum al confine tra la regione XI Augustea (Transpadana), e la provincia Alpium Cotiiarum nella località ad Fines presso Avigliana, allo sbocco cioè della valle di Susa nella pianura.
La via, che non presentò le difficoltà costruttive di altre alpine, fu sistemata definitivamente dal prefetto Cozio all'epoca di Augusto (Ammiano Marcellino, XV, 10). Cozio stesso eresse all'imperatore (9 a. C.) un arco onorario sulla via, immediatamente presso l'uscita occidentale di questa da Segusio (città aperta fino alla fine del sec. III od al principio del IV).
Alcuni miliarî rinvenuti nella valle di Susa portano il nome di imperatori del III e IV secolo.
Le vie della Alpis Graia e della Alpis Poenina. - Ad Eporedia (Ivrea) convergevano le vie da Vercellae e da Augusta Taurinorum, quindi, unica, la via percorreva la valle della Duria Maior (Dora Baltea) fino ad Augusta Praetoria (Aosta). Entrava nella città, della quale tuttora esistono mirabili monumenti, passando sotto un arco onorario di Augusto.
Da Augusta Praetoria una via, seguendo il corso della Duria, giungeva al sommo dell'Alpis Graia (Piccolo San Bernardo), dove sistematici scavi governativi misero in luce resti di due ampie mansioni e vestigia di un culto ad una divinità locale verisimilmente assimilata a Giove. Di qui la via scendeva per la valle dell'Isara (Isère) a ad Publicanos (Albertville), dov'era una stazione doganale, a Cularo (Grenoble), donde per Vienna (Vienne) perveniva a Lugdunum (Lione) sul Rodano. Pure a Lugdunum metteva capo la via da Augusta Praetoria per l'Alpis Poenina (Gran San Bernardo). Sul passo scavi governativi rivelarono avanzi di mansioni e del tempio di Iuppiter Poeninus. Dal passo la via scendeva ad Octodurum Varagrorum (Martigny) e proseguiva per Genava (Ginevra). La via dell'Alpis Poenina servì però specialmente, con le sue diramazioni, per comunicazioni con la regione svizzera occidentale.
La sistemazione definitiva delle vie augustane, i lunghi tagli di rocce per il loro passaggio (citiamo solo i tagli: di Donnaz, lungo oltre duecento metri, della Pierre Taillée a monte di Aosta e del sommo della Alpis Poenina), le grandi costruzioni in muratura, gli arditissimi ponti risalgono all'epoca di Augusto, come i miliarî di Donnaz (Cop. inscr. lat., V, 8074) e di Settimo Vittone (Notizie degli scavi d'antichità, 1900, p. 41). Strabone (IV, 6, 7 ed 11) dichiarava carreggiabile la via della Alpis Graia (restauri parziali al tempo dell'imperatore L. Vero nell'alta valle dell'Isara: Corp. inscr. lat., XII, 107), non carreggiabile quella dell'Alpis Poenina. La percorribilità con carri almeno fino al principio della salita all'Alpe medesima nel versante transalpino è tuttavia attestata dal miliario di Bourg-St. Pierre recante il nome di Costantino (Corp. inscr. latinarum, XII, 5519). I miliarî di St. Saphorin presso Vevey (Corp. inscr. .lat., . XII, 5528) e di St. Triphon a nord di St. Maurice recano il nome di Claudio: si può attribuire a questo imperatore, in uno con la sistemazione della Claudia Augusta nella valle dell'Adige (v. oltre), anche la sistemazione di questa via nel versante transalpino. In questo medesimo tratto transalpino si trovarono pure miliarî col nome di Costantino (Corp. inscr. lat., XII, 5520 segg.).
Valico del Sempione. - Si ignora se la via attestata in un'iscrizione rupestre di Vogogna a valle di Domodossola (Corp. inscr. lat., V, 6649) si limitasse a questo versante, o superasse il Sempione congiungendosi a quella che, per quanto non segnata dagli Itinerarî, verisimilmente percorreva tutta la Vallis Poenina. Il valico del S. Gottardo per la natura del luogo presentava difficoltà gravissime. Per quanto non manchino scoperte di antichità romane nel Canton Ticino e nelle attigue alte valli svizzere (la villa romana di Alpnach, ecc.), nessuna traccia vi si ha di via romana, come neppure lunghesso il valico del Lucomagno. Invece il valico del San Bernardino (m. 2003) tra le valli del Mesa e del Reno Posteriore, già usato nelle due precedenti età del ferro, era percorso da una vecchia via forse di costruzione romana, diramazione della via dello Spluga (v. oltre). Si ritiene che l'imperatore Costanzo partendo dai Campi Canini presso Bellinzona abbia usato appunto il valico del San Bernardino per recarsi a combattere gli Alamanni (a. 354)
La via: Mediolanum (Milano), Comum (Como), Clavenna (Chiavenna), Curia (Coira) per i passi dello Spluga (Cuneus Aureus), di Sett (Septimer Pass) e Giulio (Julier Pass). - A questi passi sembrano riferirsi le parole con cui Strabone (IV, 6, 6, p. 204) esaltò l'opera di Augusto, che aveva trasformato sentieri eccezionalmente aspri e pericolosi in grandi costruzioni stradali, oramai libere dai predoni. A Clavenna la via salendo si divideva. Un tronco per lo Spluga (Cuneus Artreus) e la valle del Reno (avanzi di probabile via romana strata, ecc.) scendeva a Curia. Un altro tronco risaliva la val Bregaglia; presso l'odierna Castelmuro il tracciato della via romana è facilmente riconoscibile e un'imponente muraglia dà ragione del nome Murus dato alla stazione negl'Itinerarî.
Alla testata della valle è il Septimer Pass, alto m. 2311, percorso da una via detta romana e molto frequentata durante il Medioevo. Al vicino passo Giulio le vestigia della via romana carreggiabile sono certe (solchi lasciati nella viva roccia dal passaggio dei carri, due colonne superstiti che potrebbero aver riferimento ad antico culto, ed altri ritrovamenti). I tronchi superanti questi due passi, i cui nomi hanno evidente origine romana, si riunivano sul versante settentrionale in località Bivio, donde la via scendeva direttamente a Curia. Qui si rinvennero ruderi ed altre vestigia romane; di qui varie vie irradiavano per Brigantio (Bregenz), Augusta Vindelicorum ed altre località.
La via: Verona-Tridentum (Trento), valico del Brennero (metri 1362), Veltidena (Welten presso Innsbruck), Augusta Vindelicorum. - Importante arteria militare, verisimilmente l'antichissimo valico "attraverso il paese dei Reti" ricordato da Polibio. La prima costruzione del tratto da Verona a Trento ed ai confini d'Italia risale forse ad epoca repubblicana. Augusto probabilmente curò la definitiva sistemazione fino ad Augusta Vindelicorum da lui fondata dopo la conquista della Rezia. Stazioni principali a monte di Trento: Pons Drusi presso Bolzano, la stazione doganale del portorium illyricum di Sublabio (Sabiona, presso Chiusa; Corp. inscr. lat., V, 5079-5080), Vipitenum (Vipiteno) ai piedi del Brennero, Veltidena. Di qui per il passo di Scharnitz la via raggiungeva Augusta Vindelicorum. Miliarî rinvenuti sia nella valle dell'Adige, sia a nord del Brennero attestano riparazioni avvenute sotto varî imperatori del sec. III e IV.
La via Claudia Augusta, da Altinum al Danubio. - Le iscrizioni di Feltre, e di Rablat presso Merano (Corp. inscr. lat., V, 2002) attestano che l'anno 47 l'imperatore Claudio fece riattare, eseguendovi importanti opere di arginatura ed imponendo il suo nome, la via costrutta dal padre suo Druso ab Altino usque ad flumen Danuvium dopo la sottomissione dei Reti (Alpibus bello patefactis). Un tronco pertanto della Claudia Augusta, a monte di Feltria (Feltre) percorreva la Valsugana e raggiungeva Trento: con questo almeno in gran parte si confondeva la via Opitergium (Oderzo)- Tridentum segnata nell'Itinerario Antoniniano. L'altro tronco della Claudia Augusta si distaccava dalla via del Brennero, risaliva la Val Venosta congiungendosi forse ad una via, non ricordata dagli itinerarî, che percorreva tutta la Valtellina, superava il passo di Rezia (m. 1490) e scendeva a Landeck sull'Inn, donde si diramavano varie vie.
La via: Aquileia, Julium Carnicum (Zuglio), Passo di monte Croce (m. 1360), Loncium (Mauten, nella valle del Gail), Aguontum (Lienz in Val di Drava), Val Pusteria, unendosi a quella del Brennero poco a valle di questo passo, metteva in diretta comunicazione Aquileia con Augusta Vindelicorum. Due vie, l'una da Iulia Concordia (miliarî, Corp. inscr. lat., V, 7995-7999, di Augusto e 7994, forse di Diocleziano) l'altra da Aquileia (Itin. Anton.: Aquileia, ad Tricenimum, Iulium Carnicum, ecc.) sembra si unissero allo sbocco della valle del Tagliamento. Nel cuore di questa valle raggiungeva Iulium Carnicum un tronco, probabile opera augustea come questa nuova fondazione alpina. Delle iscrizioni scolpite sulla viva rupe al sommo del passo di M. Croce, una accenna al culto di Giove (Corp. inscr. lat., V, 1863), un'altra fu posta dal servo di un conductor del portorium illyricum (ibidem, 1864), la terza ricorda riparazioni della via eseguite per munificenza degli imperatori Valentiniano e Valente (ibidem, 1862); rimane incerto se questo tronco di via fosse del municipio di Julium Carnicum o dell'Impero. A Loncium venne in luce un altro titolo riferentesi al portorium illyricum (Corp. inscr. lat., III, 4720). Miliarî scoperti in Val Pusteria nominano varî imperatori del sec. III. Si può credere che questa via abbia avuto una prima sistemazione ai tempi di Claudio.
La via Aquileia-Virunum (Zollfeld in Val di Drava), d'importanza militare, è attestata dagl'Itinerarî. Si può ritenere che si staccasse dalla precedente nel cuore della valle del Tagliamento, e passasse per Pontebba. Di Camporosso fra Pontebba e Tarvisio è un miliario degli anni 195-201 d. C. (Corp. inscr. lat., III, 5704). Verisimilmente si raggiungeva Tarvisio anche per la valle dell'Isonzo; le stazioni segnate negl'Itinerarî tra Aquileia e Santicum (Villaco) sono male identificabili. La colonia (?) Claudia Virunum era centro importante di vie.
La facile via partente pure da Aquileia della Alpis Julia (Selva Piro), commerciale e militare, era in uso da tempi molto remoti. Al di là del valico raggiungeva Nauportus, antica città dei Taurisci, presso cui fu fondata la fiorente colonia Iulia Emona (Lubiana), che la medesima via attraversava proseguendo a Celeia ed a Carnuntum, città e campo militare sul Danubio.
La via: Aquileia-Tergeste-Pola. - Si è già ricordato, in questa via, il sacrario di Timavi fons. Il tratto tra Tergeste e Pola, denominato via Flavia, fu dovuto a Vespasiano, come attestano i miliarî.
Bibl.: K. Miller, Itineraria romana (Römische Reisewege an der Hand der Tabula Peutingeriana), Stoccarda 1916; art. Alpes, in Pauly-Wissowa, cit.; Nissen, Italische Landesk., cit.; Corp. inscr. lat., III, V, XII (viae publicae); P. Barocelli, Albintimilium, in Monumenti antichi dei Lincei, XXIX (1923); E. Ferrero, La strada romana da Torino al Monginevro, in Mem. d. R. Accademia d. scienze di Torino, s. 2ª, XXXVIII, 1887; id., L'arc d'Auguste à Suse, Torino 1901; C. Promis, Le antichità di Aosta, in Mem. d. R. Accad. delle scienze di Torino, s. 2a, XXI, 1864; P. Barocelli, La strada e le costruzioni romane delle Alpes Graiae, in Mem. predette, s. 2ª, LXVI, 1924; H. Meyer, Die römischen Alpenstrassen in der Schweiz, in Mitteil. der antiquarischen Ges., Zurigo 1861; I. Heierli e W. Oechsli, Urgeschichte des Wallis, cit.; E. Scherer, Die vorgeschichtlichen und frühgeschichtlichen Altertümer der Urschewi, cit.; I. Heierli e W. Oechsli, Urgeschichte Graubündens mit Einschluss der Römerzeit, cit.; A. Magni, Notevoli scoperte nella Svizzera Italiana (il "Murus" dell'Itinerario di Antonino e Castelmuro, ecc.), in Riv. archeol. della provincia ed antica diocesi di Como, 1925, fasc. 88-89; P. A. Scheffel, Verkehrgeschichte der Alpen, I, Berlino 1908; E. Walder, Die Geschichte der Splügenpässe, in Die Alpen, febbraio 1926; W. Cartellieri, Die römischen Alpenstrassen über den Brenner Reschen Scheideck und Plöckenpass, in Philologus, XVIII (1926), fasc. i; Scoperta di un cippo miliare sulla via Aguntum-Vipitenum, in Notizie d. Scavi, 1928, p. 129.
Le Alpi nell'era medievale e moderna.
Le Alpi occidentali. - Un periodo nuovo di storia si apre per questa regione con la riforma provinciale dioclezianea. Le prefetture militari autonome di tipo augusteo vennero infatti ridotte a provincie regolari ed annesse alle grandi diocesi limitrofe: la provincia delle Alpi Marittime fu assegnata alla diocesi viennese, quella delle Alpi Cozie alla diocesi italica, quella delle Alpi Graie e Pennine alla diocesi lugdunense. Così la zona alpina venne ripartita fra Italia e Gallia, in due zone d'influsso, però con prevalenza della Gallia. Lo spartiacque infatti non fu preso in considerazione: la valle d'Aosta faceva parte delle Alpi Graie-Pennine; la Moriana e la valle superiore della Durance appartenevano alle Alpi Cozie; Nizza e le valli della Roia e del Varo alle Alpi Marittime. Sul finire del secolo IV, per organizzare la difesa dell'Impero, con alcuni distretti delle Alpi Graie si costituì nella valle del Rodano una provincia militare di sbarramento fra le Alpi e il Giura, col nome di tractus Sapaudiae: la Sapaudia però diventò presto una provincia ordinaria. In essa Ezio stabilì la tribù germanica dei Burgundi, i quali, dopo la metà del sec. V, liberatisi dalla dipendenza verso gl'imperatori, si estesero dalla Sapaudia, quasi centro di irradiazione, nelle valli della Saône, del Rodano, dell'Isère, urtando poi nella valle della Durance contro l'analoga espansione dei Visigoti di Tolosa che riuscirono, d'accordo con Odoacre re d'Italia, ad occupare le Alpi Marittime. All'Italia e agli Ostrogoti rimasero le Alpi Cozie. Così i tre popoli, Burgundi, Visigoti e Ostrogoti si spartirono il possesso della zona alpina occidentale. Cercarono poi i Burgundi di unificarla, quando Clodoveo re dei Franchi assalì il regno visigoto di Tolosa. Nella loro marcia verso il Mediterraneo, furono fermati dall'intervento italiano: Teodorico occupò militarmente le Alpi Marittime e la Narbonense e le incorporò al regno d'Italia. La Burgundia visse allora nelle sue sole provincie alpine grazie alla rivalità fra i regni d'Italia e di Gallia: ma, alla morte di Teodorico, iniziatasi la conquista dell'Italia da parte dell'impero bizantino, i re di Ravenna non poterono più ostacolare l'avanzata franca nella regione alpina occidentale. Allora la Narbonense II e le Alpi Marittime furono occupate dai figli di Clodoveo (536), e anche il regno burgundico scomparve. I Franchi, arrivati allo spartiacque ed impadronitisi anche della valle d'Aosta, poterono tentar la conquista del versante orientale delle Alpi e persino della valle padana. Solo dopo la vittoria definitiva sui Goti, l'impero poté organizzare la difesa, presidiando fortemente i passaggi alpini (claustra); sappiamo che a Susa risiedeva un magister militum.
Quando i Longobardi occuparono, verso il 570, l'Italia transpadana cercarono pure, attraverso le Pennine e le Graie, di penetrare nella regione alpina. I Franchi li respinsero dalla valle del Rodano, con una lotta durata diversi anni; poi, per premunirsi contro nuove invasioni, occuparono definitivamente la valle d' Aosta sino alla stretta di Bard, e la valle di Susa sino alla stretta di Santo Ambrogio (le Chiuse). L'attribuzione al regno franco favorì nei secoli successivi la formazione dei dialetti franco-provenzali e la diffusione del francese nelle vallate di Susa ed Aosta sotto l'influsso delle regioni transalpine. Dominando in tal modo virtualmente tutta la regione alpina e il versante italiano, poterono i Franchi nel sec. VIII riprendere le vecchie aspirazioni sull'Italia e abbattere il regno longobardo di Pavia. Dopo il 774, tutta la regione alpina occidentale venne unificata nell'impero di Carlo Magno. Ma una storia a sé presenta nel sec. VII la parte meridionale delle Alpi Cozie, quelle cioè comprendenti le Alpi ora dette Liguri, fra il Colle di Tenda e il Colle di Cadibona. Dopo l'arrivo dei Longobardi, le Alpi Cozie vennero dal governo bizantino unite con gli Appennini. Ma in seguito, avendo i Longobardi ampliato la loro occupazione, di esse rimase all'impero, per qualche decennio, solo la zona fra le Alpi ed il mare, come parte della provincia Marittima: fino a che con Rotari si ebbe l'occupazione della costa ligure e l'unificazione di tutte le Alpi Cozie sotto i Longobardi.
La conquista carolingia, alla fine del sec. VIII, chiude una fase storica e ne inizia una nuova. Carlo Magno, già nella divisione dei suoi stati, nell'806, stabilì che la zona alpina occidentale fosse divisa fra i figli Ludovico e Carlo: a questo doveva spettare la valle d'Aosta, al primo la val di Susa per poter accedere all'Italia; Pipino, re d'Italia, era invece ricompensato col possesso delle Alpi centrali. Il trattato di Verdun dell'843 fra i figli di Ludovico, creando la Lotaringia, venne a dare alla zona alpina occidentale un'organizzazione politica a sé, indipendente dalla Francia, che aveva i suoi limiti sulla linea dei fiumi Saône e Rodano, e dall'Italia, che conservava le Prealpi ed il versante orientale, limitato dalle Chiuse di val di Susa e di val d'Aosta. Nell'855, morto Lotario I, la Lotaringia si spezzò, e la zona alpina visse del tutto isolata da Italia, Francia, Lorena, quasi ricreando il regno burgundico del sec. V. Solo per alcuni anni, alla morte di Carlo figlio di Lotario, la zona alpina fu dominata da Ludovico II re d'Italia; poi passò a Carlo il Calvo; e finalmeme l'incapacità di Carlo il Grosso permise lo sfacelo dell'impero. Nella valle del Rodano si formarono, sotto Bosone e il figlio Ludovico, il regno di Provenza o Borgogna meridionale (879) e, sotto Rodolfo, quello di Borgogna settentrionale (888). I due regni si unirono però già nel 933, e tutta la zona alpina occidentale ebbe di nuovo unità politica col nome di regno di Borgogna. All'Italia rimaneva solo la fascia al di qua delle Chiuse. Dalla fine del sec. IX sin quasi alla fine del sec. X, le Alpi occidentali vennero infestate dalle scorrerie e dai saccheggi di alcuni nuclei saraceni stabilitisi nelle Alpi di Provenza, nella località detta dai contemporanei Frassineto (Garde-Fraînet?). Essi risalirono tutte le vallate del Rodano e dei suoi affluenti, occupando anche i valichi alpini, massacrando i pellegrini da prima, poi sottoponendoli a tributo e a riscatto. Solo circa il 980 i Saraceni vennero del tutto eliminati dalle Alpi e la vita sociale riprese il suo corso normale. Frattanto, nel 961 il regno d'Italia passava ai re di Germania che nel 1034 acquistarono anche quello di Borgogna: così, tutta la regione alpina appartenne ancora ad un solo signore. I tre regni rimasero però giuridicamente distinti. Fra Italia e Borgogna persisté la linea di difesa alpina, con le stazioni doganali di Bard e di Susa; il confine pare fosse allo spartiacque (sicut detinent Alpes inter regnum Burgundiae et Italicum regnum). L'unificazione dei tre regni d'Italia, di Borgogna, di Germania nell'orbita imperiale, permise un più rapido frantumarsi degli stati stessi e la formazione delle signorie feudali. Nella zona alpina, la disgregazione feudale fu facilitata pure dalla configurazione orografica: il feudo, o militare o abbaziale o episcopale, fu quasi sempre il trionfo delle tendenze autonomiste, naturalmente sviluppatesi nelle vallate e nelle conche montane. Sul versante italiano, la vita feudale ebbe tre centri principali: nella marca di Ivrea, sotto gli Anscarici, il cui confine correva lungo le Alpi Graie; nella marca di Torino, sotto gli Arduinidi, che lungo le Alpi Cozie scendevano al mare fra Ventimiglia e Albenga; nella marca di Savona-M0nferrato, sotto gli Aleramici, dal Po al mare, comprendendo la parte più orientale delle attuali Alpi Liguri. Nelle Alpi Marittime, si ebbero i conti di Provenza, di Ventimiglia-Tenda, di Forcalquier, di Diois, di Valentinois; nella valle dell'Isère, si organizzarono i conti di Vienne, di Avignone, di Arles, di Grenoble, di Savoia; sul Rodano i conti di Ginevra; sull'Arve, i signori del Faucigny. Dal secolo X all'XI, sorsero numerose signorie episcopali, in virtù di diplomi regi o imperiali, le quali furono assorbite, solo fra il sec. XII ed il XV, dai principati formatisi nei grandi feudi. Così i vescovi conti di Sion, di Tarantasia, di Embrun. Numerose sono le fondazioni monastiche alpine, come quelle della Novalesa, di Oulx, di San Maurizio d'Agauno, di Aulps, di Abbondanza, ecc. Feudo e monastero rappresentano il rinnovarsi ed il rafforzarsi della vita sociale ed economica nelle Alpi, dopo la desolazione del periodo barbarico e saraceno. Nel sec. XII, le due riforme cisterciense e certosina iniziano la costruzione di nuovi centri religiosi ed economici nelle Alpi; la Certosa famosa sorge appunto nel massiccio detto della Chartreuse sopra Grenoble.
La regione alpina fu teatro di una vivace lotta fra i grandi feudatarî a partire dal sec. XI, mentre l'autorità dei re d'Italia e dei re di Borgogna, ora detti d'Arles, andava lentamente diminuendo sì da diventar puramente nominale. La grande marca aleramica di Monferrato-Savona si spezzò nel sec. XI, dando origine a nord del Tanaro al marchesato di Monferrato, mentre dalla Bormida al mare si conservava il marchesato di Savona: questo, alla sua volta, si spezzettò nel sec. XII in molti marchesati, di Savona o del Carretto, di Bosco, di Ponzone, di Ceva, di Millesimo, i quali, indebolendosi per la loro crescente frammentarietà, furono minacciati a sud dalla potenza del comune genovese, e a nord dai marchesi di Monferrato, desiderosi di espandersi e di ricostituire nella sua integrità la marca di Aleramo. Anche la marca di Torino, alla morte della contessa Adelaide, s'infranse (1091): la parte settentrionale, con Torino e Susa, rimase ai Savoia, quali eredi dell'ultimo marito della contessa Adelaide; la parte meridionale, con il comitato di Auriate, passò agli Aleramici, discendenti da una sorella di Adelaide, per dare origine, quando il marchesato di Savona s'infranse alla morte di Bonifacio del Vasto, ad un marchesato a sé, detto di Saluzzo, ai piedi delle Alpi Cozie, nelle valli del Po e della Stura. Anche il marchesato d'Ivrea scomparve, dando origine a numerosi feudi sotto le famiglie discendenti da re Arduino e dal fratello suo, che formarono particolari signorie nelle valli delle Alpi Graie.
Dominanti sul versante italiano delle Alpi furono già nel secolo XI i conti di Savoia-Moriana, prima col possesso della marca di Torino, poi, dal sec. XII, con la loro politica di riconquista della marca torinese, e con le aspirazioni a prevalere sulle varie dinastie aleramiche ed anscariche. Analoga politica seguono i Savoia nella valle del Rodano, allo scopo di ricostituire nel proprio interesse l'antico regno burgundico. I conti di Savoia padroneggiano i tre valichi del Cenisio, del Piccolo e del Gran San Bernardo; lottano per affermare l'egemonia sui conti del Genevese, sui signori del Faucigny e del Vallese. Fiera resistenza trovano nella valle dell'Isère, dove i conti di Albon, poi detti Delfini di Grenoble, organizzano saldamente la loro signoria. Per cause non chiare i Delfini, o dalla metà del sec. XI o almeno dalla fine del secolo, hanno ottenuto una parte della marca di Torino, cioè l'alta valle della Dora Riparia, con Oulx e Cesana, dominando così il valico del Monginevra; e così pure dominano in Val Varaita, Casteldelfino, Bellino, Ponte Chianale e i colli dell'Agnello e dell'Autaret.
I conti di Provenza signoreggiano a loro volta le valli del Varo e della Roia e dei loro affluenti; esercitano diritti di sovranità sui conti di Ventimiglia-Tenda. A loro spetta quindi il controllo del passaggio dai colli di Tenda e della Maddalena, che offrono la possibilità di scendere nelle valli della Stura, del Gesso e del Tanaro, dove i marchesi di Saluzzo e di Monferrato sono in lotta fra di loro e con i varî consortili feudali aleramici. Sulla Durance, conti di Provenza e conti di Tolosa contrastano fra di loro, sino a che nel 1125 stabiliscono il fiume come linea di confine: gli uni e gli altri vanno soggetti fra il sec. XII e il XIII alla pressione esercitata dalla monarchia capetingia, che riesce nella prima metà del Duecento ad installare in Provenza un ramo cadetto della famiglia regnante. Analoga azione di penetrazione esercitano già durante il sec. XIII i Capetingi sulla sinistra della Saône e del Rodano, attirando nella loro orbita le dinastie feudali minori, mentre i Savoia vi sfuggono, stringendo legami di volontario vassallaggio coi re d'Inghilterra. Le comunicazioni facili fra il Piemonte e la valle della Durance causarono, nel sec. XIII, l'emigrazione nell'alta valle del Pellice e del Chisone dei Valdesi, che vi formarono un importante isolotto linguistico provenzale.
Verso la metà del sec. XIII i conti di Provenza, Capetingi del ramo angioino, attraversando l'Argentera sono riconosciuti signori di Cuneo, e ne fanno centro di una nuova contea che si allarga a tutto l'altipiano ai piedi delle Alpi Cozie e Marittime, col nome di Piedimonte o Piemonte, minacciando gli Aleramici di Saluzzo e di Monferrato; per assicurarsi libere comunicazioni attraverso ai valichi, al principio del sec. XIV l'alta valle di Stura coi castelli di Vinadio, Aisone, Roccasparviera viene amministrativamente incorporata nella contea di Provenza; e così avviene pure di Caraglio e Roccabruna, per sorvegliare Val Grana e Val Maira. Non riuscirono però i conti di Provenza ad affermarsi definitivamente sul versante italiano, presto oggetto di conquista da parte di coalizioni dei principi italiani. Di una sovranità feudale si dovettero accontentare i Delfini di Grenoble nella loro attività verso il marchesato di Saluzzo, che d'altro lato veniva lentamente indebolito dalla signoria dei Savoia, del ramo Acaia-Piemonte, ristabilitisi nella seconda metà del sec. XIII nelle valli del Pellice e del Chisone, con centro a Pinerolo.
Nella valle dell'Isère la lotta fra i conti di Savoia e i Delfini di Grenoble durò nei secoli XIII e XIV senza trovare soluzione, ché nessuna delle due dinastie ebbe forza sufficiente per abbattere l'altra ed unificare politicamente la vallata. I Savoia si rafforzarono invece nella Bresse e nel Genevese; i Delfini riuscirono ad impadronirsi del Faucigny. La monarehia francese approfittò del contrasto fra le due dinastie per imporsi ad esse. Punto di partenza della sua azione fu, nel sec. XIV, Lione, occupata definitivamente l'anno 1314. Nel 1349 il Delfinato stesso, desiderato dai Savoia e, non meno, dai papi per ampliare il loro stato di Avignone e del Contado Venassino, fu acquistato dai re di Francia; nel 1375 Carlo IV concesse al delfino i diritti di vicario imperiale nel regno d'Arles, riconoscendo così alla monarchia francese il predominio già virtualmente coriquistato nella regione alpina. La soladinastia sabauda resistette alla spinta francese, organizzando tutte le tradizioni autonomistiche locali, e sfruttando la propria posizione in Italia e nell'impero. Giuridicamente i Savoia si garantirono facendosi riconoscere da Enrico VII come principi dell'Impero, poi da Carlo IV come direttamente dipendenti da esso, ottenendo da lui i diritti di vicariato imperiale sui proprî territorî. Nel fatto cercarono, ma senza riuscirvi, di crearsi un confine sicuro sulla Saône, occupando tutta la Bresse; si appoggiarono alla linea del Giura con la-conquista del Gex; raggiunsero il lago di Neuchâtel, ricuperando ed ampliando il Vaud; si sforzarono, con l'appoggio dei vescovi di Sion, di signoreggiare il Vallese e il fianco settentrionale delle Alpi Pennine, sì da impadronirsi del valico del Sempione. Ma qui urtarono contro l'opposizione delle popolazioni tedesche dell'alto Vallese, appoggiate dai Cantoni svizzeri e dai Visconti di Milano. Occupando nel 1379 Biella e tutta la regione limitrofa, dominando le vallate italiane delle Pennine, insignorendosi nel 1412 della Val d'Ossola, sperarono i Savoia di arrivare al Sempione da questa via e di lì prendere alle spalle i gruppi tedeschi dell'alto Vallese: ma nuovamente ebbero contro gli Svizzeri e i Visconti. Più fortunati nel trasformare il predominio sul Genevese (contea di Ginevra), prima in stretta sovranità feudale, poi in completa e reale signoria, i Savoia incontrarono però difficoltà a dominare la comunità borghese di Ginevra; a danno dei Delfini s'impadronirono del Faucigny, sì da avere tutte le valli del massiccio del M. Bianco; nella valle dell'Isère, ebbero il confine rettificato sul Guiers. Sul versante italiano delle Alpi Graie, i Savoia soggiogarono con gravi sforzi i conti canavesani; strapparono ai marchesi di Monferrato le terre che avevano, ancora nel XIV e XV secolo, ai piedi delle Graie; nel secolo XIV frenarono i cugini Savoia-Piemonte di Pinerolo, e nel 1418, allo spegnersi di quel ramo, unificarono gli stati; contesero ai Delfini di Grenoble la sovranità sui marchesi di Saluzzo, vittoriosamente con le armi, ma senza fortuna nelle discussioni giudiziarie davanti al parlamento di Parigi. Frattanto, nella seconda metà del sec. XIV, allo sgretolarsi della potenza angioina, i Savoia occupavano Cuneo e la contea di Piemonte, arrivando di là ai colli dell'Argentera e di Tenda; e nel 1388 l'annessione di Nizza dava loro la valle del Varo e il predominio nelle Alpi Marittime, cosicché essi poterono quasi bloccare il Delfinato francese. Nel secondo periodo della guerra dei Cento anni, occuparono le contee del Valentinois e Diois, che però poterono tenere per due decennî soli. Audacemente e silenziosamente, i duchi di Savoia ricomponevano così la Lotaringia alpino-rodanica, mentre i duchi di Borgogna più a nord ricomponevano la Lotaringia renana.
Attività mirabile dimostrarono pure i Savoia nelle Alpi Liguri, ricostruendo l'antica marca arduinica. Nella seconda metà del sec. XIV s'impadronirono di Mondovì, facendone centro di espansione, in contrasto coi marchesi di Monferrato ch'erano riusciti nella valle della Bormida, a toccare le Alpi ed a mantenere soggette varie famiglie aleramiche. Al contrario, da Alessandria e da Asti i Visconti di Milano, nei sec. XIV e XV, imponevano la loro sovranità a diverse altre famiglie aleramiche; sulla costa, la repubblica di Genova, dopo avere occupato fin dal sec. XII Monaco, sottomise Savona, Albenga, Noli, rimanendo però ancora varie signorie feudali e monastiche; altre signorie feudali passarono nelle mani di famiglie genovesi; la Francia, nel 1394, occupò Savona e nel 1396 s'impadronì della stessa Genova, calcolando di entrare anche da questa parte nella regione alpina.
Contro tanti progressi della casa di Savoia, non tardò, nel secolo XV, una violenta reazione francese, per affermare i diritti della monarchia in tutta la regione alpina. Nel 1480, la Provenza, allo spegnersi della dinastia angioina, venne incorporata nel regno; subito dopo, incominciano le affermazioni di sovranità sullo stato ecclesiastico di Avignone; si riaffermano i vecchi diritti feudali sul marchesato di Saluzzo, che viene definitivamente annesso al regno nel 1548. Sul ducato di Savoia, umiliato col trattato di Cleppié del 1453, dopo la rovina del duca di Borgogna si riuscì a stabilire una superiorità da parte di Luigi XI, che pensò alla distruzione dello staterello: Carlo VIII e Luigi XII se ne servono indifferentemente per le loro spedizioni in Italia, e Francesco I nel 1536 procede all'occupazione del territorio sabaudo, mentre Ginevra e il Vallese entrano definitivamente nella sfera d'influenza svizzera; d'altra parte i Cantoni svizzeri, allontanandosi energicamente dalla tradizione imperiale germanica, stringono con la Francia patti di pace e di alleanza perpetua. La Francia si presentò alle trattative di Cateau-Cambrésis col possesso di tutta la regione alpina sino allo spartiacque. La Spagna e l'Impero, che con Carlo V avevano subito dopo il 1520 pensato a ristabilire l'antico regno di Borgogna, eliminando la Francia dai territorî collocati fra il Rodano e le Alpi, si rassegnarono ad ottenere come programma minimo il ristabilimento dello stato sabaudo, per avere un contatto continuo, attraverso le Alpi, fra la Lombardia spagnola e la Franca Contea ed i Paesi Bassi spagnoli.
I Savoia ripresero la vecchia politica di espansione nelle Alpi: Emanuele Filiberto rinsaldò il possesso delle Alpi Marittime, annettendo la contea di Tenda, che dal 1501 già era passata ad un ramo illegittimo della famiglia, mediante il matrimonio di Renato il bastardo con l'ultima dei Lascaris-Ventimiglia; ed acquistando la contea di Oneglia, Borgomaro e Prela iniziò la conquista del versante costiero delle Alpi Liguri, mentre sul versante pedemontano sfuggivano alla dominazione sabauda numerosi feudatarî monferrini o milanesi (feudi imperiali delle Langhe). Carlo Emanuele I cercò nell'ultimo decennio del sec. XVI, approfittando delle guerre di religione di Francia, di estendere lo stato verso il Rodano, e conquistò la Provenza, facendovisi riconoscere come governatore generale; ma, lasciato solo dalla politica spagnola, abbandonò definitivamente le aspirazione borgognoni e rivolse la sua attenzione alla pianura padana, cercando però di conservare le posizioni alpine e di rafforzarle. La nuova politica sabauda appare nel trattato di Lione del 1601: la Francia acconsentì ad abbandonare il marchesato di Saluzzo, che il duca di Savoia aveva già occupato militarmente nel 1588, e rinunciò parimenti ai possessi di origine provenzale in Val di Stura, Demonte, Centallo, Roccasparviera; in cambio Carlo Emanuele rinunciò alla Bresse ed al Gex, paesi, in stretto senso, extraalpini.
Col trattato di Cherasco del 1631, il cardinale di Richelieu riuscì ad occupare sul versante italiano delle Alpi Cozie, Pinerolo, Perosa e Fenestrelle: porta d'Italia, che solo nel 1696 Vittorio Amedeo II poté ritogliere alla Francia. Il trattato di Utrecht, nel 1713, stabilì il passaggio dalla Francia al Piemonte delle ultime terre che la monarchia conservava sul versante italiano, cioè i possessi di diritto delfinasco, l'alta valle di Susa con Cesana, Pragelato, Oulx, Bardonecchia, ed i possessi di diritto provenzale, cioè l'alta valle della Varaita. In cambio il Piemonte abbandonò alla Francia il territorio di Barcellonetta nella valle dell'Ubaye, appartenente alla contea di Nizza. Così fu applicato con la pace di Utrecht il programma di costituire una barriera alla Francia, per impedirle l'accesso alla regione italiana; ma il confine non fu tracciato allo spartiacque dappertutto: al Monginevra infatti fu tracciato a favore della Francia, sì da scendere sul versante italiano verso Clavières.
Nella regione delle Alpi Liguri, i tentativi dello stato sabaudo-piemontese di scendere al mare ed impadronirsi di Genova non portarono nei secoli XVII-XVIII a modificazioni territoriali. Lunghe e difficili trattative ottennero a Vittorio Amedeo II l'annessione dei feudi imperiali delle Langhe, accordata dall'Impero nel 1690, poi ancora nel 1703, ma ritirata nel 1710, ridiscussa nel 1720-24 e definitivamente sancita nel 1736, nei preliminari della pace di Vienna. Nel 1729 lo stesso re occupò l'antico feudo di Seborga, presso San Remo, proprietà dell'abbazia di Sant'Onorato di Lérins, già da varî anni comperata. Ma né Vittorio Amedeo II, né il figlio Carlo Emanuele III riuscirono ad ottenere dall'Impero il marchesato del Finale, che fu comperato dai Genovesi per impedire l'espansione piemontese sulla costa. Invece un arbitrato franco-inglese riconobbe la sovranità della casa sabauda sul principato di Monaco e Mentone, i cui signori, i Grimaldi, avevano fatto omaggio a Ludovico, duca di Savoia, nel 1448.
Scoppiata la rivoluzione nel 1789, la politica francese riprese con maggiore energia le aspirazioni secolari di occupare tutta la regione alpina, distruggendovi gli stati locali. Nel 1792 si ebbe l'annessione alla Francia di Avignone e del Contado Venassino, e, col pretesto di raggiungere i confini naturali della regione francese, nel dicembre del 1792 si conquistò la contea di Nizza e la Savoia, decretandone l'annessione. La dinastia sabauda cercò di riconquistare i paesi alpini toltile, con una guerra durata dal 1793 al 1796. La pace di Parigi del 1796 stabilì che tra la Francia e il Piemonte la linea di confine fosse rappresentata dallo spartiacque, ma in modo da comprendere nel territorio francese i punti più avanzati verso l'Italia, il San Bernardo, il Cenisio, l'Argentera, Tenda. L'annessione del Piemonte e della repubblica di Genova diede poi nel 1798 alla Francia il dominio completo della zona alpina occidentale. Nel 1815, al congresso di Vienna si ristabilì nelle Alpi occidentali il vecchio confine franco-sabaudo; i Savoia conservarono la sovranità del principato di Monaco, e, annettendo ai loro territorî la repubblica di Genova, acquistarono il possesso di tutte le Alpi Liguri.
Nel 1860, in conseguenza dell'unificazione nazionale dell'Italia, Napoleone III riprese la vecchia politica francese dei confini geografici, ed ottenne la cessione della Savoia e della contea di Nizza; l'Italia conservò però, nonostante le pretese francesi, la contea di Tenda. Nuovamente si tracciò il confine seguendo la linea dello spartiacque: alcune valli tributarie della Tinea e della Vesubia, appartenenti alla contea di Nizza, furono però dalla politica di Cavour e di Vittorio Emanuele salvate all'Italia; anzi per un certo tratto il confine fu tracciato secondo il corso della Tinea. La Francia impose però la cessione di un tratto di circa 20 km. della valle della Roia, il tratto cioè di Saorgio, Fontan, Bregli, delle quali posizioni era apparsa l'importanza strategica nella guerra del 1793-95. La Francia nel 1860 chiedeva anzi che tutto il confine fosse corretto secondo il tracciato del 1796; e ottenne che i Savoia le abbandonassero l'alta sovranità su Mentone e Monaco, mentre il Faucigny e lo Chablais passarono alla Francia sotto la condizione di neutralizzazione stabilita nel trattato di Vienna del 1815, condizione che fu abrogata solo nel 1919 dall'articolo 435 del Trattato di Versailles. Nel 1860, col trattato di Torino, la Francia ricuperò quindi il dominio di tutta la zona alpina occidentale, fino allo spartiacque, come l'avevano i Merovingi del sec. VI prima dell'invasione longobarda.
Dal sec. V al sec. XIX, la zona alpina occidentale fu teatro di numerose guerre. Nel 508 circa si combatte nella Provenza fra Ostrogoti e Burgundi; nel 571-4 i Longobardi invadono le vallate del Rodano, dell'Isère, della Durance e ne sono ricacciati dai Franchi con le armi; nel 754 e poi nel 773 i Longobardi cercano di resistere con le armi ai Franchi nelle valli della Dora Baltea e Riparia. Nel sec. X abbiamo le operazioni di devastazione dei Saraceni e la lotta per la loro espulsione. Dal sec. XI al XIV numerose sono le guerricciole feudali; tipiche per il carattere violento quelle dei Delfini contro i Savoia. Nel 1536 Francesco I poté facilmente occupare la Savoia, ma non riuscì ad entrare in val d'Aosta; nuovamente la Savoia fu invasa dai Francesi alla fine del sec. XVI, e cioè dal maresciallo Lesdiguières, governatore del Delfinato, prima, e poi da Enrico IV in persona, che attaccò le due grandi fortezze create da Emanuele Filiberto per difendere la Savoia dal lato del Delfinato, Charbonnière e Montmélian. Analogamente Emanuele Filiberto aveva costruito la cittadella di Torino per difendere lo sbocco di val Susa, e la fortezza dell'Annunziata in Savoia contro Ginevra. Nelle Alpi Marittime abbiamo nel sec. XVI le due spedizioni in Provenza di Carlo V, e poi di Carlo Emanuele I. Nel sec. XVII nuovamente la Savoia fu invasa dalla Francia: nel 1629-30 Luigi XIII e il Richelieu dal Delfinato entrarono in val di Susa, poi si rivolsero contro le fortezze savoiarde; nel 1690-93 il maresciallo Catinat da Pinerolo attaccò ripetutamente e felicemente val di Susa e la Savoia. Dopo il trattato di Utrecht, Vittorio Amedeo II, Carlo Emanuele III e Vittorio Amedeo III costruirono un abile sistema di fortezze per lo sbarramento delle Alpi: Demonte, Cuneo, Exilles, Fenestrelle, Bruneta, Mirabocco, Bard. Le operazioni militari nelle Alpi acquistarono perciò un carattere di maggiore importanza strategica. Di grande rilievo sono le due guerre alpine del 1743-48 e del 1793-96. Durante la guerra di successione d'Austria i Franco-Spagnuoli cercarono di rompere gli sbarramenti alpini, del colle della Maddalena e della val di Stura; ma sebbene vincessero a Madonna dell'Olmo furono fermati dalla resistenza di Cuneo; poi nel 1747 nuovamente tentarono di attraversare le Alpi Cozie, ma furono fermati dall'Assietta. Nella guerra della prima coalizione contro la Francia, il Piemonte combatté, mal sostenuto dall'Austria, su tutta la linea alpina fra il Gran San Bernardo ed il mare. Nel 1793 i francesi cercarono di aprirsi il passo attraverso i colli di Tenda e dell'Argentera; furono respinti e i Piemontesi poterono scendere dal Piccolo San Bernardo in Tarantasia, dal Cenisio in Moriana, di dove furono respinti dal Kellermann. Nel 1794 i Piemontesi progettarono l'offensiva nelle Alpi marittime, per scendere a Nizza, ma dovettero cedere alle forze preponderanti francesi, che successivamente riuscirono ad occupare i diversi valichi. Senonché la difficoltà di scendere a valle convinse Napoleone Bonaparte ad aggirare per la Liguria e il col di Cadibona le posizioni piemontesi, cui i Savoia avevano inutilmente nei secoli precedenti cercato di dare l'invulnerabilità, occupando Genova e la Liguria, secolarmente devota alla Francia.
Durante tutto il Medioevo e l'età moderna, le comunicazioni nelle Alpi occidentali si svolsero secondo le vie romane, tracciate nelle valli dei fiumi ed attraversanti lo spartiacque al Grande e Piccolo San Bernardo, al Moncenisio, al Monginevra, all'Argentera, al Col di Tenda. Il transito era facilitato dagli ospizî costruiti nei valichi principali: così sul Cenisio, fin dal secondo decennio del sec. IX, Ludovico il Bonario eresse un rifugio famoso, visitato da papi e da principi, che i conti di Savoia arricchirono di privilegi e beni. Altro rifugio sorse sul Gran San Bernardo, ospizio migliorato da San Bernardo di Mentone; un altro sul Piccolo San Bernardo, e così sugli altri valichi. I principi di Savoia, come i Delfini e gli altri principi alpini, sorvegliarono sempre con grandi cure la sicurezza delle vie e cercarono migliorarle: importantissime fra tutte furono nel Medioevo le vie del Gran San Bernardo e del Cenisio. Particolarmente battuta era la via del Cenisio: da Susa, abbandonando la valle della Dora Riparia, si saliva al passo; si continuava poi sino a Lanslebourg, e di qui per la val Moriana e poi per val d'Isère si perveniva a Chambéry. Da Chambéry, proseguendo verso occidente, si poteva giungere direttamente a Lione, mantenendosi a sud del Rodano, oppure, volgendo a nord-ovest e varcando il Rodano, nella valle della Saone, presso Mâcon. Frequentatissima pure era la via che passava pel Gran S. Bernardo (da Ivrea e Aosta): dal passo si scendeva a Martigny; di qui, volgendo a nord-ovest, a Losanna sul lago di Ginevra; infine, attraverso il Giura, Pontarlier, la valle della Saone, a Digione, presso cui la via del Gran S. Bernardo si riuniva con quella del Cenisio. Attraverso a queste due grandi arterie si svolgeva il commercio tra l'Italia settentrionale, la Francia centrale e settentrionale e anche i paesi della Germania occidentale, almeno sino a quando la via del Gottardo non fu aperta al traffico, e cioè sino al sec. XIII. Il Monginevra serviva invece soprattutto per il commercio dell'alta Italia con la Francia meridionale. Dal sec. XVI i Savoia attesero a trasformare le vecchie vie in strade carrozzabili; ma le più importanti fra esse sono quelle costruite a scopo militare da Napoleone I. Caratteristica è la piccola galleria, lunga 75 m. ed alta 2 m., costruita nel sec. XV da Ludovico marchese di Saluzzo per facilitare le comunicazioni fra Saluzzo ed il Delfinato: si trova sotto il colle delle Traversette, presso il Monviso. Nei valichi sabaudi, come il Cenisio, si era sviluppato fin dall'alto Medioevo il sistema di trasporto di mercanzie e persone su slitte e muli, per opera degli alpigiani detti marrons. Il commercio alpino portò nel basso Medioevo ad un certo grado di floridezza alcuni centri situati agli sbocchi: così Susa e Lanslebourg agli sbocchi del Cenisio, Cesana e Briançon agli sbocchi del Monginevra, Aosta e Martigny agli sbocchi del Gran San Bernardo.
I passaggi più famosi attraverso le Alpi occidentali sono quelli di Pipino il Breve nel 754 e di Carlo Magno nel 773 per il Moncenisio; pure il Cenisio attraversò Enrico IV nel 1076 andando a Canossa; e così, quasi un secolo dopo, Federico Barbarossa, a due riprese, nel 1168 abbandonando l'Italia, e nel 1174 ritornandovi, nel quale anno incendiò Susa per punirla delle difficoltà oppostegli al passaggio 6 anni prima. Nel 973, San Maiolo abate di Cluny fu catturato dai Saraceni al Gran San Bernardo; e nel 1466 alcuni nobili sabaudi catturarono in val di Susa Galeazzo Maria Sforza duca di Milano. Nel 1494, Carlo VIII entrò in Italia per il Monginevra, mentre Francesco I passò per l'Argentera, nel 1515, avviandosi verso la pianura lombarda. Napoleone attraversò nel 1796 le Alpi al Col di Cadibona; e nel 1800 scese per il Gran San Bernardo, secondo la descrizione famosa del Botta, avviandosi alla vittoria di Marengo.
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Le Alpi Centrali. - I primi segni di quanto i passi alpini fossero pericolosi per l'Italia, se mal custoditi, si hanno con alcune sporadiche scorrerie di Alamanni, che, traversata la Rezia Coirese, si presentarono sotto Bellinzona nel 355, dove, per altro, subirono una memorabile sconfitta da parte di Costantino II, sui Campi Canini. La via delle grandi invasioni tuttavia non poteva essere rappresentata da questi valichi, troppo occidentali per le popolazioni provenienti dall'oriente; tanto più che l'unione fra la Rezia Coirese e l'Italia, mantenutasi stretta fino al sec. VI, non metteva in diretta vicinanza i nostri valichi con le torme barbariche. La lunga guerra gotica, invece, doveva appunto sconvolgere il saggio ordinamento romano, e far coincidere i confini politici del regno ostrogoto con il confine spartiacque: infatti, circa il 537, Vitige cedeva ai Franchi la Rezia Coirese per guadagnarne la neutralità, cosicché il dominio merovingio venne a confinare con tutta la linea montana delle Alpi centrali. Questo stato di cose non poteva non preoccupare il riorganizzatore del dominio bizantino in Italia, specialmente avendosi a che fare con vicini così inquieti. Pensò quindi Narsete di stabilire una linea di fortezze che guardassero gli sbocchi delle valli e che sorvegliassero da vicino i valichi. Partendo da Murus, in Bregaglia, la linea fortificata seguiva questo andamento: scendeva a Chiavenna e di qui al lago di Como (che comprendeva allora anche il laghetto di Mezzola) e che formava già di per sé una difesa. A schermo di Como, pure fortificata, stava l'isola Comacina, che per la valle d'Intelvi comunicava con Lugano, che a sua volta, per il M. Ceneri o per il Gambarogno, era collegato al lago Maggiore, difeso da Locarno e da Bellinzona, fortezza quest'ultima resa presso che inespugnabile, fronteggiando lo sbocco di Mesolcina e Blenio-Leventina. Da Locarno, il lago fungeva ancora da difesa naturale fino a Merg0zzo, dove si congiungeva con le fortificazioni che qui spingeva il sistema piemontese dell'isola di S. Giulio d'Orta. Effettivamente questa linea fu messa in efficienza, ma non contro i Franchi, che pur premevano; sibbene contro un nuovo nemico, che penetrava in Italia dalla classica via delle Alpi Giulie, e prendeva tutto il sistema alle spalle. La lunga resistenza opposta dall'isola Comacina alle forze longobarde, per circa venti anni, non è che una eco di tutta una lunga guerra, spezzettatasi intorno a queste piazze forti, congiunte fra di loro da una serie di vedette, ma inesorabilmente isolate: specialmente Chiavenna, la quale veniva a costituire un punto morto nella linea, poiché se il lago la riuniva, in un certo senso la tagliava fuori dal campo di azione. Caduta l'isola Comacina, tutto il sistema, se già non lo era prima, cade in potere dei Longobardi, i quali vi si afforzano subito e di qui ributtano un tentativo di invasione franca. Nel 590, infatti, la difesa di Bellinzona longobarda costa la vita al generale franco Olone, ed impedisce di cogliere il frutto della battaglia della Tresa; e per Chiavenna, ove si era diretto Cedino, pare avvenga lo stesso. È tuttavia controverso se a Chiavenna sieno mai giunti i Longobardi, perché si è osservata l'assenza di professioni di questa legge nelle carte chiavennasche, così da poter conchiudere che questa città sia rimasta sempre stabilmente in potere dei Franchi (Buzzetti). Ad ogni modo, lo stabilirsi della dominazione franca in Italia, per opera di Carlo Magno, portava di conseguenza un'omogeneità per tutti questi territorî, mentre cominciavano a delinearsi quelle rivalità fra Milano e Como per lo sviluppo dei commerci e per la conquisti degli sbocchi alpini, che dovevano poi condurre alla guerra decennale, terminata con la distruzione di Como del 1117.
Poche e dubbie sono le notizie circa gli avvenimenti del sec. IX, ma, in compenso, importanti quelle del secolo successivo. Mentre la Valtellina dipendeva civilmente da Milano, forse perché nel regno longobardo questa città, sede di ducato, predominava fra l'Adda e il Ticino, Chiavenna e gli altri territorî alpini erano stati aggregati alla pertica di Como, già dall'epoca romana, e da Como dipendevano per la giurisdizione religiosa. L'aggregazione non determinava tuttavia una soggezione completa e reale, perché era possibile ritrovar territorî sottratti alla città che avrebbe dovuto esser la dominante, ed infeudati a questo o a quel feudatario, laico o ecclesiastico. Ma nel sec. X, come avvertimmo, crescono i segni di vita nella regione. Un diploma imperiale di Lotario II concedeva al vescovo e ai canonici di Como tutte le entrate di Chiavenna, e il possesso del ponte e delle chiese, ciò che voleva dire cedere la sorveglianza dei passi del Maloia e dello Spluga a Como. E, contemporaneamente, ecco che il testamento di Attone fa dono ai canonici di Milano, di Blenio, Leventina e Riviera, attribuendo loro cioè l'effettivo controllo sul passo del Lucomagno, e in parte su quello del S. Bernardino (M. Avio, Vogelberg). Si forma così un distretto, separato completamente da Milano, chiuso da ogni parte da territorî comaschi, ma costituente una minaccia per Como, che si vedeva circondata a sua volta da territorî milanesi, come la Valsolda, Campione, Cannobio ecc. Tuttavia, più gravi si presentano gli anni della preponderanza ottoniana, per le minacce che la politica restauratrice del primo Ottone arrecava all'integrità territoriale di Como. Ottone, che come uno dei primi atti della sua politica aveva aggregato dlrettamente all'Impero la marca veronese perseguì poi l'idea di staccare sistematicamente i territorî ch'eran posti a guardia dei valichi alpini dalla giurisdizione delle città e dei feudatarî italiani, per attribuirli a città e feudatarî germanici. Con un rovesciamento di posizione, era ancora la politica di Roma che il sire germanico, forse inconsapevolmente, adottava. Chi se ne avvantaggiò di più fu il vescovo di Coira, che ebbe in dono la Val Bregaglia, come feudo, le entrate di Chiavenna con alcuni beni mobili, e vide aggregata la Mesolcina alla propria diocesi: parallelamente in questi territorî (Chiavenna, Mesocco) vengon posti dei conti germanici (Liebenau), e non più italiani, come persone di maggior fiducia. Questo fatto si verifica pure per i rimanenti valichi, sebbene non si abbian notizie positive: così, il convento di Disentis estende di parecchio anche il proprio dominio fondiario in Val di Blenio, intorno al Lucomagno (Meyer), ed i visconti di Mazzo fanno sentire la loro giurisdizione nella Valtellina e a Bormio (Besta). Alla fine del secolo, sotto il terzo Ottone, si poteva dire che tutti i valichi delle Alpi centrali fossero in potere dell'Impero o di suoi feudatarî: e cioè, il Lucomagno era sotto la sorveglianza del monastero di Disentis, il M. Avio era tenuto direttamente dall'Impero e indirettamente dal vescovo di Coira, che signoreggiava pure lo Spluga, il Settimo, il Maloia, e, per mezzo degli Avvocati di Mazzo (Matsch), gli altri valichi della Valtellina, fino allo Stelvio e all'Ortler. Con Arduino, tuttavia, questo edificio crollò e quasi tutti i territorî furono riportati alle dipendenze dei centri italiani, salvo la Bregaglia e la Mesolcina, che continuarono a gravitare verso Coira.
Si sviluppano, nel frattempo, i germi dell'autonomia comunale: le grandi città della pianura approfittano della lotta per le investiture, usurpando lentamente, ma con costanza, i privilegi e gli ufficî dei conti e dei vescovi; e questo lavorio di nuova sistemazione sale dalla pianura alla montagna. Fra le più antiche menzioni di consoli, che attestano la vitalità, ormai piena, del comune, preziosissima è quella che li ricorda nel 1097 a Chiavenna, mentre le valli vicine (Mesolcina, Blenio, Leventina) si vanno organizzando in università, suddivise in minori circoscrizioni come in altrettanti cerchi concentrici. A fianco, però, delle libere istituzioni comunali si mantengono tuttavia e si sviluppano le piccole feudalità di valle: i De Turre in Blenio e Leventina, i Sacco in Mesolcina, gli Orello e Muralto a Locarno, pedine di cui si serviranno Federico Barbarossa e Federico II per cercare di combattere i comuni lombardi; mentre Bormio si va sempre più sottraendo all'ingerenza dei signori di Matsch, avvocati della chiesa coirese.
Ma gl'imperatori, che si accingevano alle rudi lotte con le città italiane, non intendevano lasciarsi sfuggire di mano le porte d' Italia. Corrado III ritorna con rapida mossa alla politica ottoniana: infeuda Blenio e Leventina al conte Guarniero di Lenzburg, conferma la Mesolcina ai fedeli signori de Sax (Sacco), mentre le signorie locali dei De Turre e degli Orello si sviluppano e si rafforzano in Val di Blenio; per la Valtellina, un documento del suo successore ricorda come Chiavenna venisse unita al ducato di Svevia. Il Barbarossa continua nello stesso movimento, riunendo ancora Blenio e Leventina ai dominî di casa Lenzburg, infeudando Chiavenna ai consoli della città, ma in dipendenza del duca di Svevia; infine, si presenta egli stesso in valle di Blenio, ove inutilmente perde il suo tempo assediando il castello di Serravalle. Mossa fatale, ché poco tempo dopo subiva la disfatta di Legnano. Il crollo della politica fridericiana non poteva essere più completo: i canonici rientrano in possesso delle Tre Valli, e Como si riprende Bormio, Poschiavo e Chiavenna. Ma se le popolazioni della Valtellina poterono godere di una relativa tranquillità, quelle del Ticino si sollevarono di frequente contro gli avvocati dei canonici milanesi, i De Turre prima (giuramento di Torre, 1182), gli Orello poi (Olivone e Aquila, 1213). Tali movimenti, di puro carattere locale, sebbene importanti, scompaiono però di fronte al nuovo pericolo che si addensa grave sulle città lombarde, strette nella seconda Lega lombarda: la politica di Federico II. Bertoldo di Homberg (o Hohemburg) è investito non soltanto della Leventina, ma di tutti i paesi gottardisti (i tre cantoni Waldstätter, Schwyz e Zug) ed Enrico di Sacco acquista, oltre l'avita Mesolcina, anche Blenio (1220). Ciò peraltro non gli impedì di contribuire alla presa di Bellinzona (1242) con Simone De Orello, il grande condottiero ticinese, combattendo in favore di Milano; la quale, strappando Bellinzona alla ghibellina Como, aveva chiuse le porte in faccia agl'imperatori tedeschi, dominando tutti i valichi che confluivano su di essa. Le lotte partigiane che si combattono poi a Milano fra Torriani e Visconti ebbero pure nelle valli ripercussioni gravi: nel 1276 vi si rifugiava l'arcivescovo Ottone, e nel 1290 scoppiava la sanguinosa rivolta della Leventina, guidata da Cerro di Airolo, contro la recente signoria viscontea, con l'aiuto pure di gente d'oltre Gottardo, forse d'Orsiera e di Uri. La rivolta fu presto soffocata, a malgrado di alcune scorrerie dei Bleniesi; ma nel 1294 la Leventina era pure riuscita ad acquistarsi una certa indipendenza, con la locazione in proprio della signoria per parte dei canonici milanesi. Contemporaneamente Biasca si sollevava contro Enrico de Orello, figlio del grande Simone, proclamandosi libera (1292), e Blenio decretava la fine della signoria di questi nobili locarnesi (1309); Bormio, nel frattempo, si era data al Vescovo di Coira (1300).
Ma si era frattanto compiuto un avvenimento, che doveva avere profondissime ripercussioni in avvenire. Al contrario di quanto succedeva nelle Alpi occidentali ed orientali, dove erano già aperte e sfruttate, sin dall'epoca romana, le grandi vie di comunicazione che dovevano rimanere tali anche nell'età moderna, nelle Alpi centrali, sino al secolo XIII, i più diretti e oggi più sfruttati valichi o non erano nemmeno aperti al traffico (S. Gottardo) o lo erano solo in misura insignificante (Sempione). Il passo del Sempione, infatti, per le difficoltà che offriva dai due versanti, specialmente all'imbocco (gole di Gondo), e che sono state vinte solo dalla grande strada napoleonica (1801-1805), era poco o nulla battuto, tanto che parte del commercio della valle padana con i paesi della Germania occidentale si rivolgeva addirittura al passo del Gran S. Bernardo: e solo verso la metà del sec. XIII, dopo che il sentiero sarà stato notevolmente migliorato, acquisterà maggiore importanza (dal 1235, infatti, s'incontra un ospizio di Giovanniti sul valico). Restavano i passi che immettevano nell'alta valle del Reno: Lucomagno, S. Bernardino, Spluga e, più ad oriente, Septimo e Giulio, attraverso i quali passavano le vie di transito fra la Lombardia e la Svizzera. Punti di partenza erano Bellinzona e Chiavenna. La prima città, posta allo sbocco delle valli Leventina, Blenio e Mesolcina, riuniva le vie che provenivano da Como, per Lugano e il M. Ceneri, e dal lago Maggiore, per le due sponde e la via d'acqua; e ne spingeva poi una, attraverso il valico del Lucomagno (val di Blenio), fino a Disentis, nell'alta valle del Reno e una seconda, attraverso il S. Bernardino, direttamente fino a Coira. Da Chiavenna partiva pure una strada di congiunzione con Coira, attraverso lo Spluga. Ma soprattutto importante era la strada che, volgendo prima verso oriente, per la val Bregaglia, si dirigeva poi decisamente verso settentrione, sorpassando il Settimo, e, lungo la valle dell'Oberhalbstein, scendeva in val di Reno a Coira. Questa ultima via era di gran lunga la più importante di tutto il sistema alpino centrale: fino alla metà del sec. XIII, il commercio italo-tedesco si svolgeva in grandissima parte attraverso il Settimo, il Sete Munt ricordato da Alberto di Stade (Mon. Germ. hist., Script., XVI, 339), su cui era un ospizio in onore di S. Pietro, perfezionato e riccamente dotato sul principio del sec. XII. Gli altri passi, specie per le difficoltà naturali di taluni di essi (così il Lucomagno e lo Spluga) avevano, tutto sommato, un'importanza secondaria. Ma nel sistema così costituito mancava ancora il passo centrale che ponesse in diretta e rapida comunicazione la pianura lombarda con la valle della Reuss, Lucerna, Basilea, la Germania occidentale. Solo tra il secondo e il terzo decennio del sec. XIII, la nuova via, su cui doveva svolgersi poi la massima parte del commercio italo-tedesco, veniva aperta. Uno sconosciuto valligiano, probabilmente della valle di Orsea, gettò un ponte lungo la gola dello Scalone (Schöllenen), fra Andermatt e Göschenen, conficcando nella roccia lunghi arpioni di ferro, su cui furono stese tavole legate con catene: e per tal modo si rendevano possibili le comunicazioni tra il Gottardo e il lago dei Quattro Cantoni, cioè tra la pianura padana e l'altipiano elvetico. La nuova via doveva condurre la valle Leventina a un notevole benessere economico, dovuto al traffico di merci; rendere assai più rapido e, quindi, intenso il commercio tra Milano e Lucerna, Basilea, Strasburgo, i paesi renani; condurre a più alto grado di civiltà e di prosperità i paesi forestali attorno al lago dei Quattro Cantoni, ancora a civiltà arretrata, grazie ai maggiori contatti con i comuni lombardi. Né le conseguenze dell'apertura della nuova via di comunicazione furono soltanto economiche: giacché i paesi della Svizzera centrale, che acquistavano, di colpo, un'importanza non mai avuta, dovevano, presto o tardi, esser tratti a costituire una nuova unità politica che permettesse loro di sfruttare compiutamente i vantaggi della loro felicissima posizione geografica, di padroneggiare cioè i rapporti tra l'Italia settentrionale e la Germania meridionale. Le origini della Eidgenossenschaft sono strettamente connesse con l'apertura della nuova arteria commerciale: e non è pertanto esagerato considerare questa apertura come il momento più importante nella storia delle regioni alpine centrali. Per i paesi a sud delle Alpi, uno dei primi effetti dell'avvenimento fu l'accrescersi dell'importanza di Bellinzona. Sino a tutto il sec. XII, dei due centri a cui facevano capo le vie delle Alpi centrali, Bellinzona e Chiavenna, quest'ultima era stata senza dubbio la più importante, come prova chiaramente la politica degl'imperatori. A partire dalla fine del sec. XIV, Bellinzona passa in primo piano, acquistando poi sempre maggior valore e divenendo punto centrale di mira della politica di espansione verso sud, svolta dai cantoni confederati.
Per il momento Como signoreggiava sempre le valli alpine, e Milano si trovava a disagio, per gli ostacoli allo sviluppo dei suoi commerci: dazî ed i pedaggi gravosi quanto mai, specialmente lungo la via del Gottardo, venivano pagati solo in virtù della brevità della via, e gli stessi bellinzonesi reclamavano a Como una diminuzione di queste imposte. Parve per un momento che si giungesse a ciò, quando fra il 1335 e il 1342 la signoria viscontea estese il suo dominio su tutti i paesi fra lo Stelvio e il Gottardo: effimera speranza, ché i dazî rimasero nell'egual misura, anzi in alcuni casi aumentarono. Gian Galeazzo Visconti, il primo duca di Milano, si preoccupò anch'egli di mitigarli, nella misura in cui ciò poteva accordarsi coi bisogni del suo fisco; ma la sua opera di organizzazione rimase troncata dalla sua morte. Il susseguente periodo di anarchia, in cui tutto lo stato milanese fu travolto, presentò propizio il momento ai Cantoni forestali, a cui si appoggiava la Leventina, per tentare la conquista di tutte le vallate alpine meridionali. Faticosamente essi si erano portati ad un livello di civiltà prossimo a quello di cui già godevano gli Italiani; e sotto la spinta delle idee che traversavano il Gottardo, si erano stretti in federazione, scrivendo una pagina aurea con la battaglia di Morgarten. L'intensità assunta dai commerci, e i gravami che ne inceppavano la libertà, come avevano pur condotta la Leventina a svincolarsi dalla signoria di Como, così avevano indotto i Comuni forestali, nel 1331, ad organizzare una spedizione contro Bellinzona, allo scopo di conquistare la città e, nello stesso tempo, assicurarsi uno sbocco sicuro sulla pianura. Quasi un secolo dopo la prova è ritentata. Dopo la morte di Gian Galeazzo Visconti, i Comuni forestali approfittarono dello stato di cose creatosi nell'Italia e delle difficoltà in cui si trovò Filippo Maria, che da poco aveva riunito la corona ducale di Milano al suo stato pavese, e iniziava la ricostruzione faticosa del suo dominio. Il 20 ottobre 1416 la Dieta di Lucerna invitava i Leventinesi a concorrere con gli Svizzeri alla conquista delle valli italiane; e quelli, annuendo, acquistavano in breve per proprio conto le valli Verzasca e Mergoscia, tentando anche d'impadronirsi della val Maggia. Ma l'annessione di queste terre alla Leventina non fu permessa dalla Dieta federale, che nel 1418 obbligava le valli conquistate a prestar giuramento di fedeltà alla Dieta. Per breve tempo tuttavia; ché la battaglia di Arbedo del 1422 costringeva gli Svizzeri ad abbandonare il versante meridionale delle Alpi.
Ricostruito il dominio visconteo, mentre i Rusca, come feudatarî dipendenti dal duca di Milano, signoreggiavano in Locarno e si alternavano coi Sanseverino a Lugano, i Pepoli di Bologna si fecero infeudare la valle di Blenio, attraverso alla quale passò nel 1432 l'imperatore Sigismondo, recandosi a Como e a Milano. Ma la signoria non fu ben vista dai Bleniesi, i quali nel 1445 assalirono e distrussero il castello di Serravalle, uccidendo lo stesso feudatario Taddeo Pepoli. La proclamazione dell'Aurea Repubblica Ambrosiana (1447-50), diede modo agli uomini di Uri di scendere nuovamente a Bellinzona, che, fedele a Milano, riescì a stornar la minaccia, e ad indurli a marciare nella Lombardia in difesa della repubblica, con l'intento di liberare Vercelli, assediata da Francesco Sforza: ma l'esercito svizzero fu clamorosamente sconfitto a Castiglione Olona.
Col costituirsi del ducato sforzesco, tutte le terre, compresa Bellinzona, seguono la sorte di Milano: questo secondo periodo ducale è caratterizzato da una continua nervosità, perché il ducato di Milano è impotente a fronteggiare la formidabile organizzazione dei Cantoni svizzeri, che, pur in potere della Leventina, si trovavano chiusi ancora gli sbocchi dall'insormontabile ostacolo di Bellinzona. La cosiddetta guerra di Giornico (1477-82), che appunto a Giornico segnava una grande vittoria svizzera, non dà quei frutti che certo i confederati avevano sperato; perché la pace di Lucerna (1482) ridà anche la riluttante valle di Blenio al duca di Milano. Ma questa spedizione in grande stile preannuncia la completa vittoria degli Svizzeri, che la politica tentennante di Lodovico il Moro affretterà. Il predominio lombardo va sempre più attenuandosi: la Mesolcina, venduta da Enrico di Sacco a Gian Giacomo Trivulzio nel 1480, aderì nel 1492 alle Leghe Grigie, per tal modo affermanti già vittoriosamente la loro politica espansionista, che tendeva anche verso Tirano e Bormio; e la diuturna lotta di intrighi faceva sì che nel 1496 i Cantoni forestali si assicurassero il pieno possesso della valle di Blenio, nonostante le proteste di Bellinzona, la quale si vedeva così completamente alla mercé dei confederati. L'opera disgregatrice si avvia rapidamente alla conclusione col passaggio del ducato sotto la casa di Francia. Dopo la battaglia di Novara, Bellinzona si ribella a Luigi XII, con l'aiuto di Urani e Ticinesi, sudditi della Confederazione, e spontaneamente capitola nelle mani dei Cantoni forestali il 14 aprile 1500: Lugano, Locarno, Luino, Mendrisio cadranno poi successivamente sotto la signoria svizzera, fra il 1510 e il 1515, mentre le Leghe Grigie si aggregano come confederati i Mesolcinesi (1526, distruzione del Castello di Mesocco, 1542, vendita della signoria ai Mesolcinesi), ed occupano da padroni la Valtellina, da Chiavenna a Bormio.
L'estendersi delle confederazioni, Elvetica e Grigione, su tanta parte dell'Italia settentrionale, in guisa da divenir arbitre dei principali valichi alpini, non poteva non destare serie preoccupazioni e gelosie negli stati più interessati alla vita dell'Italia settentrionale, cioè Venezia, la Spagna, la Francia e l'Impero. Le terre dell'odierno Canton Ticino si adagiavano ormai nella sudditanza ai Cantoni dominanti; ma su la Valtellina, che si incuneava come un formidabile setto divisorio fra i dominî italiani della Spagna e quelli oltramontani di casa d'Austria, si appuntavano le mire della Spagna, la quale non intendeva rinunziarvi (già nel periodo 1550-53 in Milano spagnola si pensa alla Valtellina). Ed essa cercò di svolgere, fra la fine del sec. XVI e il principio del XVII, una continua e lenta opera di penetrazione, specialmente per fermare il cammino della religione riformata. A tale scopo, la Spagna appoggiava, visibilmente o di sotto mano, quel partito, tacciato di spagnolismo, che voleva mantenere saldo il cattolicesimo nella valle. L'attrito fra protestanti e cattolici si fece sempre più acuto, fino a sboccare nel movimento di rivolta, noto come Sacro Macello di Valtellina (1620): Francia, Spagna, Austria, Venezia e Pontefice scesero immediatamente in lizza, per assicurarsi il possesso (Austria, Spagna), o per mantenere lo statu quo ed impedire la congiunzione delle forze austro-ispane (Francia, Venezia), mentre la diplomazia si affaticava a scongiurare il pericolo di una conflagrazione europea, che doveva invece da una così piccola scintilla propagarsi per tutt'Italia, innestandosi sugli avvenimenti della guerra dei trent'anni e di quella di Mantova e Monferrato. La pace di Westfalia (1648) e quella che chiudeva la guerra di successione di Spagna (Utrecht, 1713), stabiliscono lo statu quo, lasciando in possesso delle Leghe Grigie tutta la Valtellina.
Una situazione nuova si ha solo con la conquista dell'Italia per parte degli eserciti di Bonaparte. Allora, mentre le terre ticinesi si sollevano scacciando i landvogt, proclamandosi in libertà, ma rimanendo unite alla Confederazione elvetica come membro integrante di essa, nonostante i maneggi del governo cisalpino (e poi dell'italico, 1798-1813), la Valtellina, con Bormio e Chiavenna, da cui però si staccano Poschiavo e Bregaglia, che formavano parte integrale del Canton Grigione, si unisce direttamente alla Lombardia: unione che il Bonaparte non ostacolò, come fece per i baliaggi ticinesi, conoscendo di quale importanza potesse riuscire il dominio della Valtellina per i suoi disegni. L'atto di mediazione (1803) assicurava questo assetto: Poschiavo, Bregaglia e Mesolcina rimanevano uniti al Canton Grigione, con diritti uguali alle altre regioni; i baliaggi ticinesi (Mendrisio, Lugano, Locarno e Bellinzona) venivano eretti in Cantone sovrano, confederato. Siffatto stato di cose fu approvato nella conferenza di Vienna (1815), nonostante l'opposizione del Canton Grigione, che voleva riannettere i territorî valtellinesi. Le ragioni che avrebbero militato in pro dell'Austria verso la fine del sec. XVIII non erano più così impellenti per unire direttamente i dominî asburgici, in quanto che con l'annessione della Venezia la comunicazione era ampiamente stabilita; ma l'occupazione della Valtellina da parte dell'Austria permetteva a quest'ultima di controllare direttamente alcune importanti vie, quali quelle dello Spluga e dello Stelvio.
Nel Canton Ticino, frattanto, i partiti si preparavano a prendere posizione. La breve rivoluzione di Giubiasco (1815), confermò e rafforzò la posizione del governo; non così quella parlamentare del 1830 che rovesciò il potere dei landamani, per instaurare un governo liberale-democratico. La configurazione geografica del Cantone, poi, così caratteristica, come di cuneo infisso nel territorio lombardo, permise che qui si svolgesse un'assidua opera di propaganda, durante tutto il nostro Risorgimento. Già la prima chiara dimostrazione si ha nel 1821; ma col passar del tempo così potentemente vi si svolse l'organizzazione rivoluzionaria italiana, che lo stesso governo austriaco se ne preoccupò. La sorveglianza austriaca fu sempre attivissima alle frontiere e nello stesso territorio ticinese; il che non impedì che, allo scoppio della rivoluzione milanese e lombarda del 1848, una colonna di volontarî ticinesi accorresse in aiuto dei vicini fratelli, al comando dell'Arcioni, e che su territorio ticinese si ritraessero, indisturbate e senza neppure deporre le armi, le colonne Medici e Garibaldi. La palese protezione che il governo ticinese accordava ai liberali italiani mosse l'Austria a proclamare il blocco (1853-55) del Canton Ticino, nella speranza di imporsi così con la forza; ma nemmeno questa misura valse a far mutare rotta al governo ticinese, che continuò anzi a mostrarsi largo di ospitalità verso i rifugiati. Compiuta l'unità italiana, il Canton Ticino fu scelto come un sicuro territorio per cui far passare quella linea ferroviaria che per il Gottardo doveva allacciare direttamente l'Italia con i paesi dell'Europa centrale.
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Le Alpi orientali. - Prima con lo spezzarsi dell'unità imperiale dopo il gran Teodosio e poi con la rapida dissoluzione dell'impero d'Occidente, la regione alpina orientale ebbe il non lieto privilegio di diventare il punto di transito, attraverso il quale le genti del nord e dell'est fecero pressione sui popoli del sud. I barbari, arrestati in Oriente, nella loro marcia verso il Mediterraneo, si riversarono verso Occidente. I primi occuparono le terre dell'Europa centrale, estendendosi rapidamente nelle estreme regioni occidentali; gli altri, sopraggiunti successivamente, si diressero verso la penisola italiana e trovarono agevole via di penetrazione al confine italico orientale, attraverso le Alpi, ricche come esse erano di passaggi agevoli e sprovviste ormai di adeguati mezzi difensivi. Unni, Goti, Longobardi battono quella strada, lasciando alle spalle altre ondate, Baiovari, Franchi, Avari, Slavi, e infine gli Ungari, che si stanziano successivamente nella Rezia, nel Norico, nella Pannonia, compiendo una silenziosa opera di corrosione sul limes italicus.
La discontinuità amministrativa, che già era nell'ordinamento della zona alpina, ora si accentua. I successivi insediamenti barbarici accrescono, nell'ambito della sfera da essi occupata, la disgregazione e lo spezzettamento della regione. La costituzione ducale, da essi introdotta, infrange l'unità interna delle singole circoscrizioni, dando vita ad unità autonome minori, esposte perciò ad esser più facilmente assorbite da questo o da quell'altro aggruppamento politico territoriale. Al principio poi dell'età carolingia, nella zona alpina orientale si formano tre marche contigue: la marca veronese, con tutta la val d'Adige; quella del Friuli con l'Istria; quella orientale, di là dalle alpi Carniche e Giulie; tutte e tre limitrofe al ducato bavarese. In esse sopravvive ancora qualche cosa, della vecchia ossatura romana; ma l'ordinamento comitale, che, sullo schema delle precedenti strutture ducali dell'età longobarda, prende in quelle sempre maggior vigore, sgretola ben presto l'unità primitiva e distrugge gli ultimi residui romani persistenti. Mentre i Bavari corrodono ad occidente l'estrema marca orientale, Ungari e Slavi penetrano in essa da sud e da est, oltre il limite pannonico e carantano, avanzando anche nel dominio della marca friulano-istriana: sì che, a due secoli di distanza, alla fine del sec. X, la fisionomia politico-territoriale è completamente mutata, anche per la violenta reazione dei re italici, dal primo al secondo Berengario. Ai tempi di Ottone il grande (952), il primo rimaneggiamento che altera la tradizionale struttura, forzando taluni valori naturali, è già operato: la marca del Friuli, e quella veronese, sono riunite al ducato di Baviera, che effettivamente riesce ad aggregare le regioni tridentina ed istriana, in guisa da restringere il confine del regno italico alla zona pedemontana, ed estendere l'influenza politica tedesca, già penetrata profondamente nella zona alpina. fino al versante meridionale. Attraverso le ulteriori vicende, si fissano, variamente estese, le nuove configurazioni territoriali: la marca dell'est, mutilata dalla pressione bavara, risospinta verso il Danubio e la Leita, contro l'elemento ungaro e moravo, assume lineamenti proprî (Austria); dalla marca bavarese, dopo la massima espansione, si stacca con propria autonomia, percepibile dopo il 976, la recente conquista, il territorio carinziano e carantano, che abbraccia il centro naturale della Carinzia, la Carniola, la Stiria e la Pusteria, e si estende sulla marca veronese e sull'Istria, rinserrando nella zona pedemontana l'ultimo residuo della marca friulana, patrimonio del mutilo patriarcato aquileiese, trasformato in signoria territoriale. A nord, i Tauri, limite insuperabile, rinserrano la nuova unità politica; a sud, le Alpi carniche. Ma, per la soglia di Dobbiaco, essa sbocca nella pianura padana, superando il gruppo dolomitico.
Nel cuore della zona alpina e sui margini delle maggiori unità territoriali, che progressivamente si sgretolano, un altro fattore interviene ad esercitare una forte azione politica modificatrice, quello ecclesiastico. Come a sud il patriarcato di Aquileia, limitato nello sviluppo territoriale-metropolitano, ma rafforzato nell'esercizio di funzioni giurisdizionali, acquista propria autonomia, sotto il governo diretto dell'alto prelato aquileiese (1027), generalmente scelto fra gente tedesca, così nella vallata atesina, a ridosso delle Dolomiti, e di là dei Tauri, spuntano principati ecclesiastici, Trento, Bressanone (Söben), Salisburgo: tutti organismi emergenti dalla dissoluzione dell'unità imperiale e marchionale. Quando poi nel triangolo tirolese tra Isarco, Adige e Inn, seguendo il medesimo processo, attorno ad un centro locale si riannodano, tra il sec. XI e XII, le piccole signorie, uscite dalla dissoluzione bavarese, dando vita alla contea del Tirolo, come ente autonomo, il quadro della vita politica alpina è disegnato nei suoi elementi più stabili e duraturi. Su essa incombe l'alto potere unificatore dell'impero: ma ormai questo è incapace di dominare e dirigere le forze locali, che non obbediscono ad alcun freno superiore, quando pure l'intervento imperiale non sia pretesto o motivo di lotte aspre e sanguinose, capace di metter gli elementi locali l'un contro l'altro, piuttosto che associarli in uno stabile equilibrio. La frammentarietà politica locale è tuttavia controbilanciata dal prepotere dell'elemento tedesco dominatore, di guisa che le diversità etniche, tenacemente susperstiti fra gioghi e vallate della zona e tranquillamente viventi in pacifico isolamento, non contribuiscono ad inasprire i dissensi dinastici dei rispettivi signori. Per quanto le signorie, laiche o ecclesiastiche, siano fra loro discordi, gelose dei proprî privilegi, avide se mai di usurpare l'altrui possesso, nell'aspetto generale hanno un carattere comune, che ben differenzia la vita della regione alpina dalla vita circostante.
In essa lentamente emergono tre elementi politici, che, in pieno reciproco contrasto, finiranno poi per fondersi o almeno accostarsi per costituire la unità politica della zona tedesca alpina: la contea del Tirolo ad occidente; il ducato d'Austria, accresciuto dalla Stiria tolta al contermine carinziano, a nord-est; il ducato di Carinzia, a sud-est, con due punte meridionali, tese ad oriente verso il territorio slavo, ad occidente verso quello italiano. Su essi premono, dall'esterno, Bavaresi ad occidente, più volte avanzati e più volte respinti dalla linea dell'Inn; Boemo-Moravi sulla linea danubiana; infine, da sud-est e sud, Ungari e Croati, che egualmente investono il ducato carinziano e quello austriaco. Le pressioni esterne, non meno dei contrasti interni, ritardarono il processo di unificazione intorno ad uno dei centri, il maggiore ed il più forte; il quale processo si svolge attraverso i vincoli famigliari istituiti tra i rami principeschi ed attraverso i diritti ereditarî da questi emergenti, più forse che non per forza d'armi. Così, dalla dissoluzione della casa di Bamberga, nel sec. XII, trae maggior valore il ducato austriaco; per analoga via, la Stiria trapassa dal ducato carinziano a quello austriaco, al tempo di Leopoldo VI; e la contea goriziana, auspici il primo e il secondo Mainardo, si ricongiunge alla contea tirolese. Non minore potenza e sviluppo ebbe il ducato sotto il dominio boemo di re Ottocar, coll'assorbimento anche del ducato carinziano.
Infine la fortuna della tirolese casa d'Asburgo, rafforzata dalla dignità imperiale con Rodolfo d'Austria, iniziò quel movimento d' unione personale, destinato a formare nella zona alpina un blocco tedesco distinto dalla restante vita teutonica. Ad una più intima coesione si oppone la presenza dei principati ecclesiatici, che si interpongono. L'abbinamento dell'autorità imperiale e ducale in una medesima persona avvicina questi ai dominî laici; ma in sostanza essi permangono come elementi dissociativi, perché non suscettibili di facile assorbimento, né capaci di stabili legami con gli altri. E per quanto essi passino in mani tedesche, non sono nemmeno suscettibili di una trasformazione interna, perché manca l'azione di fermi e duraturi interessi famigliari. La discontinuità di governo nelle persone dei prelati succedentisi impedisce che si formi una tradizione intorno ad un indirizzo stabile di vita. Per questo, la tradizione locale sopravvive tenacemente: i territorî tedeschi di lunga data rimangono tali, come il Salisburghese; quelli più nettamente italici non sentono che assai poco l'influsso della penetrazione tedesca. Il principato di Trento, esteso oltre Bolzano fino alle Chiuse ed ai confini della contea meranese; il patriarcato aquileiese, allargato alla zona pedemontana della regione istriana, nonostante le infiltrazioni oltramontane e nonostante il governo di prelati tedeschi, non perdono la fisionomia locale di stirpe e di lingua, per l'incapacità del governo ecclesiastico di esercitare un'azione livellatrice. E la tradizione locale sopravvive, sfuggendo all'azione di assorbimento che scende dal nord. Anzi, questi stati ecclesiastici costituiscono le barriere, davanti alle quali si arrestano i progressi del germanesimo verso il sud. Attraverso essi, la civiltà italica ripercorre, più tardi, in modo diverso dall'antico, le strade romane.
Quanto più la vita tedesca della zona alpina si unifica, tanto più si restringe, con moto regressivo, perdendo territorî che parevano destinati a farne parte integrante. La punta carinziana, attraverso le Dolomiti, nella marca veronese e trevigiana, trasmessa per eredità all'arciducato austriaco, stava a significare nel modo più chiaro l'avanzata tedesca, attraverso lo stretto corridoio alpino. Ma, nel fervore della rinascenza italiana, le prime signorie indigene (sec. XIV), Scaligeri, Carraresi e Visconti, le contrastarono il passo. Poi, più vigorosamente, la repubblica di Venezia la ricacciò; così come, strappando l'Istria pedemontana al governo patriarcale, allontanò dal mare, assai per tempo, l'influenza tedesca e lottò aspramente per precludere ad essa anche lo sbocco triestino delle linee carsiche e delle Alpi Giulie. Venezia, unificando sotto il suo dominio, tra il sec. XIV ed il XV, la retrostante terraferma, diventava custode gelosa e robusta del vecchio confine italico augusteo, respingendo con tenace fermezza la pressione tedesca, che muoveva dai castelli principeschi e comitali disseminati per le vallate alpine e su giogaie strategiche. Dall'Adige al Quarnaro, cercando di giungere il più possibile alle punte e ai passi della catena esterna, essa costituì una solida cortina di difesa della zona pedemontana e di pianura della regione veneto-istriana, avvicinandosi il più possibile al vecchio confine romano; e, risalendo per i corridoi italici sopravviventi nelle vallate alpine, cercò di stabilire una linea difensiva sempre più sicura contro il risorgere delle rivendicazioni universalistiche del cosiddetto Re dei Romani (era di fatto un sovrano tedesco), in concreto applicate alla riconquista della pianura padana, lombarda e veneta, secondo il piano più tardi elaborato dall'imperatore Massimiliano. Per la Val Lagarina, e per la Valsugana, Venezia cercò di corrodere il principato tridentino pel saldo possesso del versante meridionale delle montagne vicentine, tra Brenta ed Adige. Sulla zona dolomitica e carnica, con logorante duello contese palmo a palmo il terreno al principato bressanonese e agli altri principotti limitrofi, allo scopo di mantenere il possesso di montagne, passi e valichi importanti, sia strategicamente (per sbarrare il passo ad eserciti oltramontani, desiderosi di uno sbocco nella valle padana), sia economicamente (per la ricchezza del patrimonio forestale allora superiore a quella odierna). Volgendo poi più ad oriente, dove l'accidentalità carsica, più aspra in un senso, è in altro meno dura, poiché si aprono valichi più dolci e frequenti, Venezia, erede del patriarcato in Friuli ed in Istria, ad una posizione di difesa unì, all'occasione propizia, un'azione offensiva, per eliminare dall'Adriatico gli arciducali, scesi, attraverso il Carso, al litorale triestino, che si interponeva fra i possessi veneti dell'una e dell'altra sponda. In un primo tempo, nel sec. XIV, i Veneziani avevano tentato l'occupazione di Trieste con azione militare dal mare, non potendo altrimenti operare: ma non poterono mantenerla, perché la pressione che partiva dalla zona montana, troppo aderente al breve tratto costiero, rese sempre precario ed insostenibile il possesso. Poi, dopo l'occupazione della terraferma veneta, essi s'industriarono di indebolire dal Friuli la cortina montana della zona carsica, che assicurava agli arciducali il dominio del porto triestino, tenendo ben saldo il punto d'appoggio di Monfalcone, scolta avanzata opposta alla minaccia di Duino. Le scorrerie turche sul confine friulano orientale e la violenta reazione del duca Sigismondo contro i possessi veneti del territorio tridentino sulla fine del sec. XV mostrarono alle menti politiche veneziane la fragilità politica e militare di un limite innaturale e la necessità di valutare quegli sbocchi con criterî strategici piuttosto che economici. Le tremende e fatali giornate seguite alla lega di Cambrai (1509-14) diedero una luminosa riprova: quelle vie offrirono infatti facile passo agli eserciti invasori per traboccare nella pianura e sconvolgere l'opera paziente di qualche secolo. Ma l'esperienza fu troppo dura, perché, superata la prima crisi, Venezia potesse riprendere l'iniziativa di una decisa reazione militare, che correggesse le manchevolezze politiche.
Per ben tre secoli, dal XVI al XVIII, Venezia dovette sostenere sul terreno diplomatico una fastidiosa ed estenuante lotta quotidiana per respingere la spicciola minaccia austriaca, che si attuava attraverso piccole usurpazioni, pericolose perché tendenti a metter in mano dello straniero i posti più gelosi di offesa e di difesa. Il tentativo eroico di superare a mano armata l'ostacolo carsico, al principio del sec. XVII, è una brillante parentesi, infelicemente chiusa sotto le mura di Gradisca e di Gorizia, tra un assillante e spesso vano lavoro della diplomazia per aggiustare un confine assurdo. Dalla sentenza tridentina (1535) in poi, è una lunga teoria di contrasti, di revisioni, di convegni, di visite (Venezia all'uopo istituì un magistrato permanente, il Provveditore sopra i confini), di protocolli, di trattati, particolari e generali, per regolare le questioni di confine. Eppure questo immane lavoro non riusciva mai allo scopo: all'indomani della demarcazione della linea di confine e dell'impianto dei termini convenuti, atti di violenza riaprivano il penoso dibattito. Il tracciato, frutto di laboriosi compromessi, volgendo per via innaturale ed artificiosa, tra balze e sentieri e piccoli rigagnoli, facilmente mutevoli, non trovava nel terreno segnato elementi precisi e fermi: e, naturalmente, la sinuosità della linea offriva argomenti propizî, a chi ne avea interesse, di infrangere la grande fatica di mesi ed anni di accertamenti e di discussioni. Tuttavia una suprema esigenza di equilibrio imponeva un confine così fatto, nonostante fosse artificioso, ed esso fu subito, per quanto causa di aspre contese paesane e di velenosi malintesi fra gli stati, per scongiurare guai peggiori.
D'altronde, e Venezia e l'Austria erano interessate al mantenimento dello status quo, per lo sfruttamento delle linee obbligate di passaggio dal cuore dell'Europa al mare. L'importanza e la funzione dell'emporio Adriatico erano sempre tali, ch'esso era e restava lo scalo principale dell'Europa centrale pel Mediterraneo e per l'Oriente: e la via naturale per arrivarvi era costituita dalla rete stradale stesa sulla zona alpina secondo il tracciato fondamentale romano: la via Iulia Augusta, la via Claudia, la via Altinate-germanica, la via Gemina e Postumia e la via del Carso.
La prima, la grande via del valico pontebbano, era la principale tra Vienna e Venezia. Oltrepassato Villach, guadata la Drava, superata la catena carnica, che, secondo l'efficace descrizione di Enea Silvio Piccolomini (1452), separa la terra tedesca dall'italica, si aveva, a Canale, il punto di convergenza di tre diverse stirpi e tre diversi linguaggi, corrotti dai reciproci contatti, il tedesco, l'italiano e lo slavo: così al tempo del Piccolomini, che non una sola volta batté la dura via. È la via del valico pontebbano che, secondo la nomenclatura di Gasparo Contarini (1628), separa le Alpi Carniche dalle Giulie. Attraverso questo valico, passa la piana e maestosa "via imperiale" da Villach a Venzone, descritta con tanta larghezza dal Merian nella sua opera sopra la topografia delle provincie austriache (1649), e, prima di lui, da Giorgio Ernotinger, nel resoconto (Reisbuch) del viaggio da Linz a Venezia compiuto in 9 giorni nel 1595. Partendo da Vienna, mercanti e diplomatici, a sole due miglia dalla capitale austriaca, incontravano la prima muta in Neudorf, una delle maggiori fonti di reddito dell'Austria inferiore, riunita a quella di Salchenore (Solenau) sulla strada del Semmering; pernottavano per gli opportuni controlli a Wiener Neustadt; poi incontravano le mute di Bruck sulla Mur, di Leoben, di Knittelfeld, di Judenburg, di S. Veit, di Villach, e, oltre il passo pontebbano sul Fella, di Chiusaforte, di Venzone e di Gemona, donde il viaggio si tripartiva per Aquileia, Latisana e Portogruaro. Verso queste ultime i Veneziani ebbero cura di attrarre merci e viaggiatori d'oltralpe, non solo dall'Austria, ma anche dal territorio dell'impero, dal Salisburghese, dal regno boemo, da Passau e dalla Baviera inferiore. Nei bei tempi del suo governo, il patriarca aquileiese (sec. XIV) avea cercato di diminuire il valore della strada pontebbana (la strada delle Chiuse), coll'attivare il valico del Predil per Cividale e Plezzo; ma poi esso fu meno utilizzato, sì che il valico pontebbano restò sempre preferito pel più facile accesso agli scali lagunari.
Alla Via Iulia si collegava la strada sopra Zeiring (Zeiring in Stiria), per Spital am Pyhrn, pel fiume Enns, per la città di Rottenmann, e l'omonimo valico sui Tauri, Oberzeiring e Scheifling. Per questa ultima strada, innestata su l'altra, era avviato il traffico delle cinque maggiori città dell'Austria superiore, Enns, Linz, Freistadt, Wels e Gmunden, e di esse soltanto, allo scopo di impedire la concorrenza del traffico diretto tra Venezia e la Boemia, specialmente con Praga, Brno, Jihlava. Alla strada di Zeiring, poi, si riunivano a Linz la strada boema proveniente da Č. Budĕiovice e, più sotto, quella Claudia da Salisburgo per Radstadt, i Tauri, Mauterndorf, S. Michael, Gmunden fino a Spital: anch'essa osteggiata dal traffico viennese, sempre per diminuire gl'immediati rapporti fra Salisburgo e Venezia.
Non meno importante era la via Altinate-germanica, ad occidente di Villach, che, passando per la valle della Drava, il Tirolo e la Pusteria, giungeva a Dobbiaco e di là, per Ampezzo e per il Cadore, giungeva a Serravalle e Treviso. Come la strada del Predil, anche questa ebbe fortuna soprattutto nei momenti in cui inquietudini politiche o turbamenti militari interrompevano la pontebbana. Tuttavia non fu tanto osteggiata quanto la via del Carso, ricollegata alla Gemina ed alla Postumia. Battendo la via del Carso e seguendo la Drava, gli abitanti della Carniola e della Stiria, come affermavano nel 1367 i cittadini di Pettau, rivendicavano il diritto di svolgere traffico diretto con l'Italia. Questo, abbracciando le materie più redditizie, quali i metalli (rame, stagno, argento), offendeva il monopolio del mercato viennese, evitando la via di Semmering e di Villach, che doveva esser l'unica arteria del commercio dell'Austria con Venezia, ad eccezione del favore accordato alle cinque città dell'Austria superiore per la via di Zeiring. E quando, alla fine del sec. XIV, fu attenuata la restrizione dei traffici sulla via del Carso, il favore fu accordato a condizione che si seguisse la linea Vienna-Marburgo-Lubiana-Trieste, a vantaggio dello scalo triestino. La via del Semmering restò perciò la maggior arteria di comunicazione coll'Austria attraverso le Alpi, quantunque la decadenza del traffico dei metalli, e soprattutto del rame, dalla fine del sec. XV, e la maggior attività della via del Brennero, sulla quale, dopo l'acquisto della terraferma da parte di Venezia, furono istradati i traffici della Germania meridionale, per far capo a Verona ed alla linea dell'Adige, ne diminuissero l'efficienza. La possibilità di pervenire a Venezia per vie diverse, dopo che Venezia ebbe il dominio di tutta la terraferma, anziché per i soli due scali di Latisana e Portogruaro, dislocava il movimento su arterie molteplici, più prossime ai luoghi d'origine, alleggerendo il peso di percorsi più lunghi e disagiosi, obbligatorî per sfuggire all'onere ed ai pericoli di attraversare troppi stati disseminati lungo la strada più breve.
D'altronde, lo sviluppo del mercato di Bolzano, specialmente per i prodotti metalliferi germanici (ferro e rame, dopo la progressiva decadenza del valore della produzione argentifera), posto com'era al bivio ove facevano capo le strade dei due maggiori valichi del Brennero e del passo di Resia per Augusta e per Monaco, dava maggior incremento agli scambi continentali, sì che la linea atesina diventava una delle arterie principali fra la Germania meridionale e l'Italia settentrionale. Anzi, l'importanza crebbe a tal punto da suggerire l'idea (poi inattuata) della costruzione di una linea navigabile, progettata nel '600 dal Bertazzolo, fra Verona e Trento, sia per facilitare le comunicazioni con la valle padana, sia per diminuire la concorrenza della strada della Valsugana, quando lo scalo veneto non era più la meta quasi esclusiva del traffico oltramontano. Dall'altra parte, le vie di comunicazioni delle Alpi Giulie, soprattutto per i passi di Idria e di Nauporto (Ober-Laibach) attraverso il Carso, mettevano in diretto rapporto gli scali istriani coi mercati orientali, limitando così il monopolio viennese del traffico verso l'Adriatico, esercitato tenacemente attraverso la linea del Semmering, durante il Medioevo, quando, p. es., il rame ungherese arrivava a Venezia o da Vienna pel Semmering oppure, per via di mare, dai porti del basso Adriatico, non percorrendo, o solo in piccola parte, le vie carsiche.
Comunque, questi spostamenti sono determinati dal mutare delle tendenze politiche ed economiche, non dal variare di condizioni naturali per opera dell'uomo. Perché una tale opera si svolga, dobbiamo giungere all'età di Maria Teresa e di Carlo VI, quando maturano i fattori ideali e materiali della nuova fortuna adriatica del porto triestino come scalo dell'Europa centrale. Su Trieste s'appuntano allora gli sforzi per farvi convergere il movimento commerciale, che dianzi metteva capo a Venezia, e infrangere il monopolio del golfo, tenacemente difeso dalla Serenissima. A monte di Trieste si studia, e in parte si attua, una più facile comunicazione, destinata a diventare la via adriatica dei territorî tedeschi, di fronte all'esaurimento dell'attività veneziana. È il preludio del grosso rivolgimento che la Rivoluzione francese porterà nelle cose e nelle idee, nella vita economica e nella vita politica, alterando il ritmo della vita alpina. Perché di lì comincia il processo di meditata germanizzazione di territorî che, pur essendo nell'orbita della vita tedesca, avevano per secoli mantenuta intatta la loro fisionomia etnica originaria. Le infiltrazioni tedesche aveano avuto dianzi un valore più strettamente politico od economico, di carattere famigliare, per cui l'elemento feudale oltramontano, elevando castelli, allargando possessi, usurpando terre, si proponeva assai più immediati vantaggi personali, che non di diventare centro di irradiazione tedesca. Anche le oasi tedesche e slave, allogate in forma più o meno compatta tra valli alpine immuni, erano effetto di un moto spontaneo, provocato dalla scarsa densità di popolazione delle stesse valli alpine e nel tempo stesso dalla convenienza di sviluppare lo sfruttamento delle loro risorse naturali. Gli stessi Veneziani, dopo l'inutile tentativo di richiamare elementi della terraferma italica, demograficamente insufficiente al vasto bisogno, tra il secolo XVI ed il XVII ospitarono nella regione Giulia, specie nella zona montana, popolazioni morlacche, per sopperire alle deficienze demografiche del territorio. Tale è il motivo degli insediamenti esogeni nelle valli alpine dal sec. XV in poi: necessità tecniche, quale quella di attivare lo sfruttamento delle miniere, s'aggiunsero a favorire l'insediamento di mano d'opera straniera, insediamento la cui azione non va oltre la sfera locale, a causa della ristrettezza dell'ambiente fisico e della mancanza di volontà nazionale.
Il manifestarsi aperto di tale volontà è conseguenza del profondo mutamento dei valori politici, generali e peculiari delle regioni, apportato dal cataclisma francese. L'estensione del regno italico fin quasi al Brennero ed alle provincie illiriche, nel periodo aureo della gloria napoleonica, impresse ai valori etnici una funzione politica per l'innanzi non rilevata. La secolare antitesi di equilibrio continentale, giunta all'estremo limite di contatto sul confine orientale italico, fece intervenire, oltre gli altri fattori politici e militari d'ordine generale, anche quello etnico specifico delle regioni alpine, mettendo automaticamente in discussione l'italianità di regioni, dominate da elementi tedeschi. Di qui si inizia il periodo eroico, che occupa tutto il sec. XIX fino ai tempi recenti, durante il quale l'equilibrio politico alpino è turbato dalla dura lotta per l'assorbimento e la difesa dall'una e dall'altra parte, italica e tedesca, dei valori etnici, divenuti strumenti potentissimi di dominio e di influenza politica. I vecchi castelli sono ricordi di una età superata, privi ormai d'ogni importanza politica e militare; con la scomparsa delle signorie feudali e l'unificazione organica della funzione politica dello stato, anche l'isolamento valligiano è superato. Le fisionomie caratteristiche dei costumi delle singole valli si disperdono, per i contatti che divengono tra esse più intimi; la vita particolare si adegua ad un orizzonte più vasto; le affinità di razza si assommano, e si definisce in lineamenti precisi il problema di due razze, che s'incontrano compatte sul limitare delle alte creste o ai piedi delle aspre valli, nel cuore della tormentata regione.
Bibl.: Oltre i lavori di storia generale, che indirettamente illustrano la storia politico-geografica della zona alpina (cfr. Huber, Geschichte Österreichs, Gotha 1885, I, p. i segg.) si veda: Wolfgers von Ellanbrechtkirchen, Reiserechnung, ediz. di I. v. Zingerle, Heilbronn 1877; U. von Lichtenstein, con note di Th. v. Karajan, ediz. di K. Lachmann, Berlino 1841; H. G. Ernstingers, Reisbuch, ediz. di A. F. Walther, in Bibl. d. Litt. Vereins in Stuttgart, CXXXV (1877), p. 66 segg.; G. Contarini, De Republica Venetorum, Leida 1628; I. Simleri, Vallesiae et Alpium descriptio, Leida 1633; Merian, Topographia provinciarum austriacarum Austriae, Styriae, Carinthiae, Carniolae, ecc., Francoforte 1649; Bertolini, Le vie consolari e le strade ferrate delle provincie di Venezia, Venezia 1879; Marinelli, Nomi propri orografici: Alpi Carniche e Giulie, in Annali Ist. tecnico, Udine 1873; Negretti, Alpi vicentine, notizie storiche, Vicenza 1864; Mazzucato, Viaggio botanico alle Alpi Giulie, Lett. al prof. Arduino, Udine 1811; Caprin, Alpi Giulie, Trieste 1895; Benussi, Manuale di geografia, storia e statistica della regione Giulia, Parenzo 1908 [cfr. Puschi, in Arch. Triest., s. 2ª, I (1905)]; Reutter, Geschichte der Strassen in den Wiener Bergen, in Jahrb. f. Landesk. von Niederösterr., n. s., VIII (1909), p. 173 segg.; Planer, Das Canal-und Fella-Thal in Kärtner unter die Herrschaft des Bistums Bamberg (1007-1759), in Ösetrr. Jahrbuch, XXIII (1899), p. 34 segg.; O. Wanka ed E. v. Rodlow, Der Verkehr über den Pass von Pontebba-Pontafel und den Predil in Altertum und Mittelalter, in Prager studien aus dem Geb. d. Geschichtsw., III (1899); E. v. Rodlow, Der Verkehr über d. Passen von Pontebba-Pontafel u. d. Predil in Altertum und Mittelalter, Praga 1900; O. Wanka ed E. v. Rodlow, Die Brennerstrasse in Altertum und Mittelalter, Praga 1900; E. v. Luschin, Handelspolitik d. Österr. Herrscher in Mittelalter, Vienna 1893; Mayer, Der ausmärtige Handel des Österr. Herzogt. in Mittelalter,Innsbruck 1909; A. Schulte, Gesch. d. Mittelalt. Handels u. Verkehrs zwischen Westdeutsch. und Italien, Lipsia 1900; Zahn, Ortsnamenbuch der Steiermark in Mittelalt., Graz 1893; Richter, Unters. zur hist. Geographie d. Hochstifts Salzburg, Innsbruck 1895; Die Völker Öst.-Ung., Ethnograph. u. kultur-hist. Schilderung, Teschen 1881-93, XII; Schulte, Staatenbild. in der Alpenwelt, Lipsia 1899; Adami, La magistratura veneta ai confini, Roma 1915; A. Schaube, Handelsgeschichte der romanischen Völker, Monaco-Berlino 1906 (trad. ital., Torino 1915); P. A. Scheffel, Verkehrsgeschichte der Alpen, II, Berlino 1914.