ALPINISMO
. L'interesse per le escursioni in montagna è una manifestazione caratteristica del sec. XIX e del presente, presso i popoli civili, come provano il suo sviluppo largamente cresciuto e la sua importanza, dimostrata dalla sorprendente quantità di associazioni sorte per coltivarlo, da una copiosa letteratura in ogni lingua, dall'influenza che esercita sulle belle arti, sulla poesia, sulla terapia, sul gusto.
Ma la necessità in cui l'uomo si trovò di scalare e superare le montagne è antica quanto lui stesso, e diede origine a speciali caratteristiche della sua natura, tipiche e distinguibili pur nella loro progressiva determinazione storica. Gli esploratori di monti di altri continenti furono colpiti dalla spiccata somiglianza di quei montanari coi nostri; quasi uguale la vita pastorale, l'abilità dei più forti nello sfidare vertiginose rupi, i mezzi di trasporto, la sobrietà e semplicità dei costumi. Il che si spiega coll'essere simile nelle montagne la natura che circonda l'uomo e gli dà i mezzi per vivere. Abili arrampicatori si trovano fra i cacciatori di stambecchi e camosci del Caucaso, dell'Asia centrale, fin del Giappone; in genere la forma e l'aspetto delle maggiori catene si presentano uniformi dalle Alpi alla Nuova Zelanda: questo spiega come alpinisti e guide valdostane e svizzere siano riuscite a percorrerle e vincerle, favoriti da maggiore pratica del ghiaccio e della neve, indispensabile per toccare gli ultimi recessi, meta che il montanaro non ambisce perché senza utilità immediata. Quindi un uguale adattamento fisico; uno sviluppo speciale dei visceri e muscoli, dovuto alla necessità di salire e scendere tutta la vita; una resistenza a tali fatiche e a un clima aspro, che durano sino a tarda età.
Storia. - L'uomo antico, come il primitivo, subisce profondamente l'influenza della montagna, la popola di divinità e di templi, la canta in forme poetiche ricche di significati simbolici. Fin nei culti più remoti si ritrova il rispetto dell'uomo per la montagna: gl'Indiani sposarono l'Himālaya alla ninfa Mena e lo fecero dio, padre di Gangā, dea del Gange; l'Everest vien detto col suo corteo di cime e ghiacciai "Choma Lugma", Dea Madre; nella cosmogonia dell'Avesta, la sorgente dell'Ardovī- Sūra nasce dall'Alburz, la montagna primigenia che impiegò 800 anni a crescere; a Giava, il "Signore della Montagna" scende a incuorare gli eroi, nel poema della Guerra santa (Brata-Juda); sulla vetta estrema dell'Alto Atlante (m. 4225), scalata soltanto nel 1923, venne rinvenuto un edificio a vòlta, di grosse pietre, dedicato agli spiriti benigni. La Cina ha spiriti e genî della montagna, il Giappone un dio agile arrampicatore; nel Caucaso pur oggi si offrono cristalli alle sacre immagini. Nella Bibbia e nei Salmi il monte è rappresentato come il luogo ove più volentieri si manifesta la divinità; sul Sinai Mosè riceve le Tavole della Legge; il Tabor è confine politico e sito di riunioni e sacrifizî comuni.
L'Ellade fu creatrice dei miti di Atlante, di Prometeo, delle simboliche divinità minori dei boschi e dei monti; Ercole, che taglia Calpe e Abila e valica le Alpi, costruisce città e templi sulle alture. Nella mitologia greca hanno cospicua parte gli Olimpi dell'Asia Minore, della Galazia, della Tessaglia; i colossali dirupi di quest'ultimo sono teatro della lotta dei Giganti; il Parnaso è sede delle Muse; il Rodope e l'Emo son patria di Orfeo; sull'Ida Giove fanciullo è sottratto a Saturno. I Greci sentivano indubbiamente la necessità di vincere le difficoltà della natura nei monti; Senofonte nell'Ipparchico vuole addestrata la stessa cavalleria alla montagna, e nell'Anabasi dà prove del suo sapere tattico e strategico in regione montuosa.
Per i Romani le Alpi furono durante molti secoli luoghi di terrore; essi infatti popolarono i gioghi di templi e di statue propiziatorie. Più tardi, con l'allargarsi dell'Impero, la traversata delle Alpi divenne cosa così comune, che Cesare appena vi allude; tuttavia non si cancellò del tutto la presunzione che le Alpi, intonsi montes, aspera glacies, fossero abitate da genti mal domate; per quanto città importanti nel cuore delle Alpi, come Aosta, Susa, Domodossola, Trento, ecc., e lo sfruttamento di miniere e pascoli e di sorgenti termali di alta montagna, potessero far ritenere che la zona alpina fosse comodamente abitabile.
Di proposito il cittadino romano non amava una residenza tra pinete cupamente verdeggianti e fragore di cascate in vista di nevi perenni, abituato com'era alla dolcezza non di rado molle del Lazio: tuttavia Nerone ha una villa a Subiaco, in una stretta gola montana. Quintiliano e Luciano trovano belli i soli paesi pianeggianti; Cicerone, nato nei monti dei Volsci, annovera tra i portenti le spelonche, le asperità delle rupi, i declivî e le vette, ma Seneca condanna quali esseri incostanti coloro che "non sapendo trovar pace, scorrazzano spiagge marine, pianure della Campania, i monti dell'Abruzzo e della Lucania, godendo di cose incolte, di un gusto che dà fastidio". Qualche eccezione: Giovenale, deplorando gli abbellimenti di Porta Capena, protesta contro l'alterazione della natura; Marziale ama la villa di Faustino perché rure vero barbaroque laetatur; Plinio il Giovane (62-117 d. C.) ama le regioni montuose e trova stimolo all'anima nelle passeggiate alpestri. Ma S. Basilio (329-379) è senz'altro entusiasta di un eremo tra selve e burroni, una cascata, un vasto panorama, un'aura vivida. In questo violento distacco dal gusto pagano si scorgono i primi bagliori del sentimento moderno della natura.
Poche sono le relazioni di arrampicate e ascensioni negli autori antichi. Erodoto narra che la presa di Sardi avvenne grazie a un soldato dell'esercito di Ciro, il quale si arrampicò per le rupi a picco della cittadella rimaste indifese; un fatto simile è narrato da Tucidide (IV, 36) nel racconto della presa di Sfacteria (425 a. C.). Più particolareggiatamente Sallustio (De bello Iug., 92-93) ricorda l'ardua impresa che fu compiuta nell'assedio di una fortezza (106 a. C.) da un Ligure, certo un alpigiano, al quale more ingenii humani cupido difficilia faciundi animum vortit (lo stesso stimolo dell'alpinista moderno); dà la scalata a impervie rocce dal lato incustodito; vede la possibilità di toccare la sommità; scende, ne informa Mario che gli dà compagni scelti, animosi; compie la difficile salita aiutandoli con la mano, fissando chiodi, ecc. Da notare la rara fedelta della descrizione tecnica della scalata e della funzione di guida del Ligure. Sono imprese che si ripeteranno nelle guerre dei tempi posteriori, sino nella grande guerra (scalata della Tofana, per esempio). Tito Livio (XL, 21-22) racconta la salita di Filippo di Macedonia (181 a. C.) sul M. Hemus (Rilo Dagh, m. 2800 nella catena del Rodope) per goderne il panorama; primo saggio ricordato di ascensione con tale scopo. Strabone (21 d. C.) racconta come quelli che salgono l'Etna pernottino nella cittadina ai suoi piedi, e parla di Empedocle, precipitato nel baratro lasciando sull'orlo un sandalo di rame (probabilmente chiodato per resistere alle lave). Strabone cita pure l'Argaion (Gebel Ergiās, m. 4008) coperto di nevi eterne. Sparziano nella vita di Adriano accenna alla salita dell'imperatore sull'Etna per contemplare il sorgere del sole, e sul Casion (Gebel el -Aqra‛, m. 1770) allo stesso intento; su questo sale nel 362 anche Giuliano, secondo Ammiano Marcellino (Rer. gest., XXII, 4).
Nel Medioevo, Paolo Diacono (Hist. Langobard., II, 8) narra che Alboino, re dei Longobardi, salì il M. Maggiore nel Friuli (m. 1615) per contemplare parte dell'Italia. La Cronaca della Novalesa (Chron. Novaliciense, ed. C. Cipolla, Roma 1904) scritta tra il 1025 e il 1050, riferisce un primo tentativo di scalata del Mons Romuleus (Rocciamelone, m. 3537), interrotto da nebbie e cadute di sassi: visum erat illis ut desuper lapides mitterentur, impressione di naturale vivezza. Fra Salimbene (cfr. Boll. del Club Alp. Italiano, LVI) registra la salita di Pietro d'Aragona al Canigou (m. 2787) nei Pirenei, a cui il re fu spronato dalla gloria dell'impresa. Dante sentì la bellezza della montagna e la espresse con mirabile concisione ed esattezza (cfr. O. Brentari, Dante alpinista, Padova-Verona 1888). Percorse gli Appennini toscani, le Apuane, i monti Liguri, salì il Falterona, le Prealpi Veronesi e Vicentine, passò le Alpi; ha tecnicismo di arrampicata in salite e discese difficili, termini montani (bornio, cinghio, cornice, costa, ronco, ecc.).
Petrarca sale il 26 aprile 1336 il M. Ventoux (m. 1912). La sua lettera al padre Dionigi di San Sepolcro (De rebus familiaribus, IV) è il primo documento storico di vero alpinismo per la esattezza delle impressioni, delle accidentalità della via, della fatica, del panorama (cfr. P. Lioy, in Nuova Antologia, novembre 1886; B. Zumbini, Studi sul Petrarca, Firenze 1895, p. 283). E un altro italiano vanta la prima cospicua ascensione al monte creduto il più alto in alcune valli, al Rocciamelone, m. 3537 è Rotario d'Asti, nel 1358, che lascia sulla cima un trittico, conservato nella Cattedrale di Susa, superando difficoltà che oggi a sentiero battuto sono assai attenuate. Il Rocciamelone venne pure salito da Carlo Emanuele duca di Savoia il 5 agosto 1658, prima ascensione di un sovrano nelle Alpi. Antonio de Ville vinse il 26 giugno 1492 quel singolare pinnacolo che è il M. Aiguille, una delle sette meraviglie del Delfinato: corde scale, chiodi, vennero usati; sulla vetta due sacerdoti celebrarono la messa. Il parlamento del Delfinato fece un'inchiesta sulla verità dell'impresa, tanto rumore essa aveva sollevato. Leonardo da Vinci verso il 1511 sale una vetta prealpina, forse il M. Bò (m. 2556) nel Biellese; al sagace osservatore nulla sfugge dei fenomeni atmosferici (Boll., cit., LVI). Altre salite - nel 1518 al Pilato (m. 1920), allo Stockhorn (m. 2192) - sono registrate nel De Alpibus commentarius dello svizzero Giosia Simler, opera interessantissima e imponente, ripubblicata da W.A.B. Coolidge sull'edizione del 1574 (Grenoble 1904). Essa contiene una larga messe di notizie sull'alpinismo dai più antichi tempi sino al 1600, ed è una vera pietra miliare nella sua storia (cfr. Riv. C. A. I, XXIII, 11, 1904; XLVI, 1, 1927). All'opera è unita una lettera di Gesner, del 1841, che contiene idee e impressioni, notissime, sulla bellezza alpina e sul godimento che essa dà: Gesner disprezza coloro che donti torpent e chiama i giovani al cimento. Vero è che tale forma di alpinismo è modesta quanto alle altezze, che di poco superano i 2000 m. nelle vette raggiunte. Ancora, amatore di monti ed apostolo di educazione fisica è Enea Silvio Piccolomini, papa Pio II, nel 1458 (Riv. C. A. I., 1899, p. 328).
Malgrado la divinazione del Petrarca, l'alpinismo non ha molti seguaci sino al sec. XVI: e questi soltanto negli umanisti svizzeri. Nocquero, altrove, sconvolgimenti politici e guerre, e la difficoltà di accedere alle Alpi, e il fatto che i ristretti agglomeramenti urbani erano circondati non da plaghe rese uniformi da colture agricole intensive e da industrie, ma da campagne pittoresche. Non è quindi esatto asserire che a G.G. Rousseau debbasi il sorgere del gusto estetico per le Alpi; le opere citate provano il contrario e dicono che le stesse sensazioni d'allora attirano oggi i veri alpinisti. Piuttosto Rousseau, cresciuto in Savoia, anelante al ritorno dell'uomo allo stato primitivo, concorse a rivolgere la moda alle bellezze naturali (cfr. la lettera 23 della Nouvelle Heloïse, la più caratteristicamente alpina). E neppur il De Saussure, a rigor di termini, crea l'alpinismo, per quanto gli si debbano i tentativi per vincere il M. Bianco, attorno al quale dal 1740 si aggirano i primi viaggiatori. Il De Saussure (v.), detto l'omero dell'alpinismo, in quattro volumi di Voyages dans les Alpes (Neuchâtel 1780-1796) racconta le sue ascensioni, i suoi studî, le sue esplorazioni; Marc Bourrit, suo compaesano, mente più semplice, espone con ingenua passione le bellezze alpine (Ginevra 1785). Un altro alpinista si fa noto in quel tempo come scrittore poetico e delicato, tale da reggere al confronto dei migliori moderni: l'alsaziano Raimond de Carbonnières, che vede la Svizzera, poi si rivolge ai Pirenei. Henri Beraldi, in una serie di volumi (Cents ans aux Pyrénées, Lilla 1898-1910, 9 voll; Le Passé du pyrénéisme. Notes d'un bibliophile, Parigi 1911) descrive la società del tempo, l'impressione che allora suscitavano le scalate alpine, e studia a chi sia dovuta la creazione di una vera letteratura alpinistica.
In Italia, Orazio Delfico sale il Gran Sasso e ne dà conto nelle Osservazioni su di una piccola parte degli Appennini, 1796, riunite all'opera Dell'Interamnia Praetuzia (Napoli 1812) di G. Bernardino Delfico (v. P. di Saint Robert, Gita al Gran Sasso, Torino 1871). Le imprese alpinistiche hanno eco anche nella più alta letteratura; Schiller, nel 1804, detta il Guglielmo Tell in un ambiente prettamente alpestre (Boll. C. A. I., LXVI) e Alessandro Volta descrive la Svizzera e la Savoia e si lega d'amicizia con De Saussure (M. Cermenati, A. V. alpinista, Torino 1899); mentre il Pindemonte, canta in un poemetto la prima salita al M. Bianco.
Colla salita del M. Bianco effettuata da De Saussure termina quello che vien detto il periodo del prealpinismo e ha principio quello dell'alpinismo classico che abbraccia, si può dire, tutto il sec. XIX e dura finché vi siano vette importanti da scalare (v. alpi, storia dell'esplorazione). Sul finire del sec. XVIII e sull'inizio del XIX molte cime sono conquistate; l'afflusso dai primi maggiori centri, pochi di numero, si estende man mano ad altri; scompare la tendenza artificiosa alla Rousseau; la montagna è cercata per sé stessa. Vero è che per molti anni ancora chi fa ascensioni, porta seco, anche se non è scienziato, barometri per arricchire di quote altimetriche le carte; ma col 1840 circa si ritorna decisamente alle idee del Petrarca, del Gessner, e si proclama il fine etico, il contenuto estetico dell'alpinismo: vette difficili anche oggi si vincono, a dimostrare che l'uomo fortemente volendo vi può giungere; Inglesi e Svizzeri fanno molte prime ascensioni; gl'Italiani, dopo isolate prove, si rifanno del ritardo, dovuto al fatto che la parte migliore della gioventù era presa nelle lotte dell'indipendenza. Fiorisce una letteratura entusiasta, un inno al monte in ogni lingua; arditi arrampicatori si rivelano anche buoni scrittori.
L'alpinismo del secolo XX, sulle Alpi, è caratterizzato anzitutto da un grande numero di salite, da molta comodità di accesso e di soggiorno anche in siti elevati, da una gran copia di libri e carte e illustrazioni che rendono facile lo studio degli itinerarî, da scuole di arrampicamento. Inoltre, vi è un affluire di giovani in comitive e accampamenti (prima l'alpinismo era quasi riservato a uomini fatti) e di correnti cosiddette popolari. Il grande alpinismo vien praticato ampiamente senza guide; si abbonda in mezzi meccanici, ma di queste maggiori precauzioni non è da muovere rimprovero. Come già si è detto più sopra, gli eccessi, purtroppo inevitabili, sono biasimevoli, poiché le disgrazie non sempre son dovute al monte, ma piuttosto all'impreparazione (v. sotto). Ad ogni modo, da questo profondo rivolgimento nel gusto e nelle tendenze non vi è che auspicare bene: ed è certo che la ricerca, anche affannosa, di nuove e più difficili vie accresce la somma delle cognizioni sulle Alpi e fa sì che ben poche vette rimarranno inaccessibili all'uomo.
L'alpinismo extraeuropeo. - Quale naturale conseguenza della ricerca del nuovo, migliorata la tecnica, assuefatti gli uomini ai cimenti, l'alpinismo si è rivolto ai monti degli altri continenti, dove si conserva quella verginità che rendeva tanto care le Alpi ai primi alpinisti. Va rammentata, nell'epoca prealpinistica, la salita di Diego de Ortaz, ufficiale di Fernando Cortez, al Popocatepetl (m. 5391) nell'anno 1521; e quella dell'inglese Scory, del 1582, al Picco di Teneriffa (Canarie, m. 3716). Tra il 1854 e il 1858 i fratelli Schlagintweit esplorano l'Himālaya e toccano i m. 6788; nelle Ande sudamericane Humboldt comincia i primi viaggi; Whymper, vinto il Cervino, colle guide Carrel di Valtournanche sale il Chimborazo (m. 6310), il Cayambe (m. 5480), l'Antisana (m. 5756), il Sara-Urcu (m. 5020), il Carihuairazo (m. 4700). Güssfeldt giunge sull'Aconcagua a m. 6560 e Fitz Gerald alla vetta (m. 6970); Meyer al Cotopaxi (m. 5940); Wilkox e Hartmann nelle Rocciose; poi gli Americani nelle stesse e in tutte le catene del nord America compiono un'esplorazione che va diventando sistematica, e culmina nella recente salita del M. Logan (1925-26). Nel Caucaso si recano Freshfield, Déchy, Merzbacher, Scheck e Ficker, Cockin, Purtscheller, Hacker, Rickmers, Schulze, Helbling, Reichert, Schuster, Weber, dei quali i quattro ultimi raggiungono la vetta meridionale dell'Ushba, il Cervino caucasico; Pfann, Leuchs e Distel traversano le due cime.
Nell'Africa il Kilimangiaro (m. 6010), il Kenia (m. 5600) sono pure domati. Le magnifiche catene della Nuova Zelanda, della Tasmania, così simili alle Alpi, sono esplorate da Green nel 1882, da Fitz Gerald nel 1895; recentemente da Porte, M. Kurzu e altri.
Nell'Himālaya e nelle colossali catene confinanti, l'esplorazione continua con impegno crescente, (Boeck, Collie, Douglas, Conway, M.C. Cornick, Rodenbuch, Eckenstein, i coniugi Workmann, Longstaff, Mummery, Merzbacher, Sven Hedin, ecc.). Si lotta intanto per la conquista dell'Everest; Bruce, Finch, Mallory, han dimostrato la possibilità di raggiungerne la vetta; recentissima è la spedizione nella valle Shark di Minchinton e Mason.
Gl'Italiani anche in questo campo han fatto le migliori prove. Luigi di Savoia con le sue spedizioni al M. S. Elia, al Ruwenzori, nell'Himālaya, mostrò quanto valgano la severa preparazione e la forte volontà; Vittorio Sella, oltre al S. Elia e al Ruwenzori, in ripetute spedizioni nel Caucaso e nell'Himālaya riportò copia di meravigliose vedute fotografiche; Lerco, Ronchetti, Piacenza, Erminio Sella, Gallo nel Caucaso; Piacenza, Borelli, Calciati nell'Himālaya, Finzi nel Ceylan, Lessona al Demavend, De Albertis nella Nuova Guinea, Mondini nelle Ande del sud, Strumia in quelle del nord, Lovisato e De Agostini nella Terra del Fuoco e nella Patagonia; per finire, tacendo di altri ancora, con uno dei maggiori, De Filippi nelle sue molte spedizioni nelle più elevate catene del mondo: tutti hanno concorso a tenere alto il nome italiano nella forma più grandiosa dell'alpinismo, quella dell'esplorazione dei colossi del globo. Né va dimenticato che in moltissime di tali spedizioni le guide italiane, specialmente le valdostane, prestarono il loro aiuto, facendosi ammirare persino dagli indigeni.
L'organizzazione alpinistica. I club alpini. - I club alpini esercitarono ed esercitano tuttora la massima influenza sullo sviluppo dell'alpinismo, la vita di questo esplicandosi in essi. Primo di data è l'inglese, Alpine club, sorto nel 1857. Sua caratteristica immutata: ogni candidato presenta una lista della sua attività alpinistica, delle sue ascensioni e spedizioni; su di esse il comitato giudica severamente e propone l'ammissione mediante voto dei soci, che deve riuscire unanime. Così l'Alpine club è rimasta un'accolta di alpinisti valentissimi, legati dal comune ideale e da vicendevole stima. John Ball sino al 1850 è il primo vero alpinista; scrive guide e inizia nel 1859 col Peaks, Passes and Glaciers una raccolta di relazioni, prima ossatura dell'Alpine Journal, superba serie di volumi, che illustra, si può dire, tutti i monti del globo.
L'Alpine club non ha un territorio nazionale di montagne cospicue, non accudisce a rifugi, ecc., ma esso stimolò il sorgere dell'alpinismo e il raggrupparsi degli alpinisti negli altri paesi e li eccitò alle maggiori imprese. Nomi celebri, oltre a quello già ricordato del Ball, sono quelli di Leslie Stephen, Tuckett, Tyndall, Forbes, Whymper, Moore, Kennedy, Mummery, Collie, Wiks, Wilson, Broome, Freshfield, Tucker, Gardiner, Coolidge, Farrar, Yeld, ecc. Mummery e suoi compagni, dopo un lungo allenamento con valorose guide, propugnarono l'alpinismo senza guide. Notevole il passaggio dal periodo primitivo al successivo, interrotto dalla catastrofe del Cervino del 1865; violenti attacchi vennero allora sferrati contro l'alpinismo, ma l'energia e l'entusiasmo dei migliori non ne furono scossi. Nel The Pioneers of the Alps, Londra 1888, venne reso tributo di gratitudine ai montanari, per il valido concorso da essi recato alla conquista delle più ardue cime nel tempo dell'alpinismo classico.
Il 12 agosto 1863 Quintino Sella, Giovanni Barracco, Paolo e Giacinto di Saint Robert, nella loro prima salita italiana al Monviso, "videro e vollero" il Club alpino italiano. Alla mente del Sella, scienziato, politico, uomo di azione e di carattere, era apparsa la necessità di una istituzione che sull'esempio dell'inglese facesse "conoscere ed amare" la montagna, specie l'italiana, agli Italiani, agevolasse le salite e gli studî, crescesse una gioventù virilmente forte e sana. Prima assemblea fu quella del 23 ottobre 1863 nel castello del Valentino in Torino, di duecento aderenti, uomini che in gran parte giunsero ai fastigi della scienza, della politica, della letteratura (Sella, Chiaves, Giordano, Perrazzi, Ricotti, Schiaparelli, Gastaldi, Nigra, Ricasoli, ecc.). Alla sede unica originale di Torino si aggregarono altre succursali, che nel 1873 si chiamarono sezioni; nel 1876 anche Torino ebbe una sezione, rimanendovi però la sede centrale per gli interessi comuni e le pubblicazioni. Veri fasti epici furono la gara per vincere il Cervino e il M. Bianco per vie italiane, l'esplorazione delle nostre valli cominciata nelle Alpi Occidentali ed estesa man mano alle rimanenti ed agli Appennini.
Come l'inglese, il C. A. I. trascorse periodi tristi verso il 1888, dopo un incalzarsi di disgrazie alpine; fu merito di pochi l'aver tenuto fermo, tra lo scetticismo dei più, mirando ai supremi fini educativi. Ebbe uomini che si dedicarono con passione pura al suo incremento. Di grande aiuto fu negli inizi la schiera dei sacerdoti valdostani, arrampicatori arditi e scrittori di vaglia (Chamonin, Gorret, Carrel, Vescoz). Il C. A. I. ha ora una biblioteca di migliaia di volumi e periodici; il catalogo è ricca miniera, non solo dell'alpinismo, ma di ogni studio e ricerca montana. Quanto fece il C. A. I. compare nella sua Cronaca, curata da Scipione Cainer nel 1889 e soprattutto nella pubblicazione L'opera del C. A. I. nel primo suo cinquantenario (1863-1913), Torino 1913.
Il C. A. I. fondò il comitato glaciologico che per primo, dal 1895, studia metodicamente le risorse glaciali italiane e il loro comportarsi, valendosi dell'opera dei più chiari scienziati di glaciologia, geologia, topografia; pubblicò varî volumi, elenchi, ecc. Provvide al regime delle guide e dei portatori (primo il Consorzio Alpi Occidentali), le riunì in gruppi, ne regolò l'ammissione affinché dessero garanzia di abilità e d'esperienza, le assicurò contro gl'infortunî e sovvenne con aiuti e pensioni. Tra esse sono illustri per l'esplorazione alpina: Castagneri, Jeante, Thérisod, Rey, Petigaz, Brocherel, Carrel, Maquignaz, Gorret, Pession, Bich, Gaspard, Inseng, Zurbriecken, Compagnoni, Fiorelli, Béttega, Dellasanta, Orsolini, Iori, Dibona, Piaz, ecc. Non pochi diedero ottima prova di valore sui più alti monti della terra e persino sui ghiacci del Polo.
Inoltre il C. A. I. promosse esposizioni di propaganda, di pittura, di fotografie, conferenze pubbliche. Le sue pubblicazioni, il Bollettino (dal 1865) e la Rivista (dal 1882), organi della sede centrale e le Riviste sezionali, attestano il nascere e il formarsi di una vera letteratura, e contengono la storia dell'alpinismo italiano e dell'esplorazione delle Alpi. Pubblicò guide; ne diede esempio la sezione di Torino per le Alpi Occidentali, seguita da quella di Milano per le Centrali, di Genova, Padova, Venezia, ecc. Con tali guide è in corso l'illustrazione completa dei monti d'Italia.
Numerosissime e importanti le imprese alpinistiche, così collettive come individuali, compiute dai soci del C. A. I., e basti ricordare le già citate esplorazioni di monti d'America, d'Africa, d'Asia, di S. A. R. Duca degli Abruzzi, Luigi di Savoia, di cui fu narratore Filippo De Filippi. Vittorio Sella creò la fotografia artistica della montagna; Luigi Vaccarone, alpinista, storico, scrittore, lasciò numerose opere; Guido Rey è stato anch'egli, oltre che audace scalatore, brioso ed efficace illustratore dell'alpinismo. Fondatori e presidenti illustri del C. A. I. furono Sella, Gastaldi, Giordano, Stoppani e Lioy, ai quali tanto deve il volgarizzamento dell'alpinismo. Il C. A. I. ebbe studiosi di etnografia, toponomastica, botanici, meteorologi, fisiologi.
Per favorire l'addestramento all'alpinismo senza guide sorse nel 1904, in seno al C. A. I., il Club alpino accademico italiano, seguito da altri gruppi di buoni alpinisti. Esso ha pubblicazioni e qualche rifugio; gli è dovuta l'iniziativa pei bivacchi di alta montagna, piccole e basse costruzioni di legno capaci di una sola comitiva, situati fuori delle vie comuni e atti soltanto per grandi ascensioni.
Non appena l'alpinismo manifestò la sua tendenza a venire coltivato dai molti, una particolare cura venne rivolta ai giovani, dapprima con carovane scolastiche, conferenze, lezioni; poi con veri organi ad essi destinati, quali la S. A. R. I. (Sint Alpes Robur Iuvenum), la S. U. C. A. I., i soci studenti aggregati. Oggi la S. U. C. A. I., (che comprende la S. A. R. I.), e cioè la Sezione universitaria del C. A. I., sorta nel 1905, raccoglie gli studenti delle università, li addestra e istruisce con scuole di arrampicamento, escursioni collettive, con accampamenti nelle alte valli, procurando di facilitare la conoscenza di tutti i monti d'Italia. Notevolissimo contributo vi dà la serie dei Manuali della S. U. C. A. I., di tecnica alpina e di itinerarî e descrizioni. Queste istituzioni che abituano i giovani a reggersi da loro, per quanto nuovi allo sport della montagna, han dato un gran frutto; nella grande guerra il C. A. I. è stato in grado di fornire numerosi, ottimi combattenti di montagna, ufficiali capaci e conoscitori dell'Alpe, eroi valorosi.
Altre società alpine italiane che hanno una storia, quali la Società alpinisti tridentini (1872), benemerita per l'aspra lotta sostenuta per l'italianità del Trentino, la Friulana (1881), la Fiumana, quella delle Alpi Giulie, si sono accostate e unite al C. A. I. Un Club alpino sardo e uno siciliano datano dal 1892. Numerosissimi sono poi i gruppi di escursionisti e di alpinisti in ogni ceto, retti oggi da un'unica direzione superiore affidata al C. O. N. I. (Comitato olimpionico nazionale italiano), i quali vengono man mano ponendosi sotto l'egida del C. A. I.
Il numero dei soci del C. A. I., lentamente cresciuto verso i 4000 nel 1880, e mantenutosi sotto i 10.000 nel periodo successivo, dopo la guerra sale a circa 40.000; la caratteristica originale di accolta selezionata si è pertanto affievolita; ma sulla ristretta misura dell'Alpine club non si sarebbe potuto rimanere, dato il diffondersi dell'alpinismo e i fini principali da esso propostisi, consistenti nell'educare i giovani e il popolo e nel far conoscere ai più le nostre Alpi, oasi di sollievo e palestra fisica e morale.
Non la sola parte letteraria, relazioni, descrizioni, pubblicazioni di vario genere, periodiche e guide, né l'incremento dato all'alpinismo attivo, formano il vanto del C. A. I., ma anche la costruzione di rifugi e capanne sulle Alpi. Prima che esso sorgesse, nelle scalate lunghe e difficili, per cui occorre attaccare in alto il monte di buon'ora, altri ripari non v'erano per la notte e le intemperie che qualche antro o sporgenza di rupe, e in basso qualche casolare di muri a secco. Una prima capanna venne costruita all'Alpetto sul Monviso nel 1866, una seconda sulla Cengia della Cravatta del Cervino nel 1867; nel 1874 una sul M. Bianco, nel 1875 un'altra sul Colle del Gigante, nel 1877 sulla Marmolada. Successivamente la costruzione si fa rapida ovunque; al modello in muri a secco si alterna quello in solido legname sulle massime altezze, alla capanna capace di pochi ospiti si aggiunge quella spaziosa, a diversi piani, e al rifugio aperto e incustodito la frequenza dei visitatori rende necessario sostituire in molti siti il rifugio-albergo, con un guardiano fisso durante l'estate.
I rifugi attualmente in efficienza sulle Alpi italiane vanno avvicinandosi al numero di 400; quasi la metà costruiti dal C. A. I.; notevoli per dimensioni il Sella al Monviso, il Gastaldi alla Ciamarella, il Torino sul Colle del Gigante, il Principe di Piemonte sul Colle di S. Teodulo, il Gnifetti sul M. Rosa, il Marinelli al Bernina, il Porta alla Grigna, ecc. Notevolissimo il Regina Margherita sulla punta Gnifetti (m. 4559), dotato di locali per osservatorio scientifico, congiunto coll'Istituto Angelo Mosso sul Col d'Olen.
Altri rifugi sono dovuti a società minori; da ricordarsi quelli destinati agli sciatori, specialmente nella Val di Susa. Nelle terre redente la Società alpinisti tridentini edificò ampî rifugi; le società germaniche e privati nell'Alto Adige eressero tutta una serie di spaziose capanne e quasi alberghi collegati da sentieri, ora dati in consegna al C. A. I., che vi spese grandi somme per riattarle. (V. il manuale S. U. C. A. I., E. Ferreri, I rifugi alpini d'Italia, Monza 1926; I rifugi alpini nelle nuove provincie, Bolzano 1924; I rifugi, gli osservatorî, ecc., pubblicati nel cinquantenario del C. A. I.; vi si trova la descrizione di ciascun rifugio, della sua ubicazione, delle ascensioni e traversate alle quali serve).
Il C. A. I. appoggiò anche iniziative di privati albergatori di alta montagna, le costruzioni di ponti su cascate, di sentieri, ecc. Le ascensioni vennero così assai agevolate, potendosene dimezzare il lungo percorso senza incomodi addiacci, e potendo l'alpinista, anche in luoghi inospitali, trovare sicuro ricetto e difesa contro l'infuriare degli elementi. Il soggiorno poi nei rifugi a grandi altezze è dei più sani e gradevoli per il fatto ch'essi si trovano nell'alta regione alpina, ed è ora generalmente diffusa la tendenza a stabilirne ovunque, anche nell'Appennino e negli Abruzzi.
Furono spese, in tali opere, somme ragguardevoli (più milioni) e ad onore del C. A. I. va detto che esse vennero erogate dai soci.
Con l'odierno ordinamento sportivo, il presidente generale del C. A. I. è emanazione del governo, che lo nomina pel tramite del Comitato olimpionico nazionale italiano (C. O. N. I.); il presidente a sua volta designa i dirigenti della sede centrale e delle sezioni.
Il C. A. Svizzero, fondato nel 1863, conserva tradizioni gloriose; ebbe ed ha alpinisti celebri (Dübi, Dufour, Kurz, Heim, Infeldt, Inseng, König, Siegfried), scrittori alpinisti appassionati (Javelle, Rambert, Toepfer, Tschudi); ha rifugi sparsi ovunque, compagnie di guide; il paese più montuoso d'Europa ha in esso un vigile custode delle sue bellezze; diede grande aiuto allo studio dei ghiacciai. Nel 1927 contava 25.474 soci.
Il C. A. Francese, fondato nel 1874, è retto, come lo svizzero e l'italiano, da una sede centrale e avvivato da sezioni locali; pur esso conta belle pubblicazioni periodiche, tra le altre la Revue alpine della sezione di Lione e quella della nizzarda; rifugi, organizzazione di guide; riceve annualmente un forte aiuto finanziario dal governo, il che gli permette oggi una vigorosa espansione. Le sezioni di Parigi e di Lione sono le più fiorenti. Ebbe ed ha scalatori e descrittori valentissimi: Boileau de Castelnau, Cordier, Capdepon, Duhamel, Dunod, Durier, Guillermin, De Cessole, Ferrand, Fontaine, Godefroid, Gaillard, Heilbronner, Lory, Regaud, Thovant, Vallot. In questi ultimi tempi un gruppo di forti sta compiendo grandi imprese e scrive guide pratiche e complete. Alcuni dei suoi soci pubblicarono opere splendide d'illustrazione del Delfinato (Ferrand), del M. Bianco, ecc. Contribuirono allo studio di singole regioni la società "Touristes du Dauphiné" (fondata nel 1875) e la società "Ramond" dei Pirenei (1865), che hanno parecchie pubblicazioni ragguardevoli.
Il movimento alpinistico nei paesi germanici ebbe uno sviluppo grandioso; nel 1862 si fondò a Vienna il C. A. Austriaco, nel 1869 il C. A. Tedesco; sulla fine del 1873 essi si fusero nel C. A. Tedesco-Austriaco (Deutsch-Österreickischer Alpen-Verein, 197.497 soci nel 1927). Esplorò metodicamente le Alpi orientali, pubblicò guide e carte, eresse quasi trecento rifugi. L'attività dei suoi membri si estese a tutte le Alpi; favorì non solo ogni ardimento ma anche il gusto dei viaggi di diporto alpini, con capanne-alberghi scaglionati a diversa altezza e collegati da sentieri; i suoi annuarî sono dei più interessanti. Particolarmente da ricordare i nomi di Payer, von Barth, Grohmann, Hofmann, Senn, Simony, Petersen, Gsaller, De Déchy, Gstirner, Güssfeldt, Darmstaedter, Hect, Hess, Merzbacher, Richter, Schulz, Wundt, Kugy; eccitarono l'alpinismo senza guide i fratelli Zsigmondy e Purtscheller dal 1880, seguiti da Steinitzer, Lammer, Pfann, Preuss, ecc.
In Spagna è il C. A. Español; in Catalogna, il Centro excursionista, il Penalara; coltivano tutto quanto si riferisce alla conoscenza delle Sierre. Il Centro excursionista ha inoltre alcune sezioni scientifiche.
In Inghilterra il C. A. Scozzese (1889) promuove l'alpinismo estivo e invernale nella Scozia, regione dai monti bassi ma che rimangono lungo tempo nevosi e non sono tutti di facile salita; il Climbers club (1897) riunisce gli arrampicatori scelti.
Sempre in Europa, sono da ricordare il Club turisti di Norvegia (1868); il Club dei Vosgi (1872); dei Carpazî (1873); il C. A. Belga (1883); l'Olandese; la Società Alpina Slovena, l'Ungherese e dei Carpazî; il C. A. di Crimea; il Russo; quello del Caucaso; per tacere di altre innumerevoli società minori.
Nel Giappone vi è il C. A. Giapponese, dal 1906. Ed altri sodalizî sono nelle Isole Hawai, del Pacifico; nella Nuova Zelanda vi è un fiorente Club alpino.
Nell'America del nord lo sviluppo dell'alpinismo ha preso proporzioni grandi; l'Appalachian mountain club (1876) va ricordato pei lavori di Charles Fay e tra l'altro per avere promossa l'istituzione dei Parchi nazionali di montagna; il British Columbia nel distretto Garibaldi; il C. A. Americano; il C. A. Canadese suscitatore di ben sette Parchi nazionali montani nelle Rocciose e nei Selkirks, con strade, alberghi, terme, corpi costituiti di guardiani; il California, il Colorado, l'Adirondack, il Mazama, il Sierra, il Green mountain club, il Field and forest club, il The mountaineers, che costruiscono rifugi, tracciano vie, pubblicano carte, esplorano le vastissime regioni montuose del loro continente, dove l'alpinismo, largamente esercitato, consente ai suoi cultori di provare quelle impressioni primitive di solitudine che già furono godimento esclusivo degli esploratori delle Alpi. Il che ha permesso al Fay di proclamare infondato l'appunto, mosso leggermente agli Americani, di difettare del sentimento della natura.
Tecnica dell'alpinismo. - Le Alpi non sono palestra da esercitarvisi di primo acchito; non è coraggio, ma presunzione stolta lo sfidare pericoli che persino s'ignorano. Occorre obbedire alle sagge prescrizioni dell'esperienza: i primi alpinisti, sebbene percorressero nuovi campi, pieni d'incognite e con gravi svantaggi, furono cauti, ma subirono in compenso poche catastrofi. Questo infatti è il triste rovescio dell'alpinismo: i suoi pericoli, le sue disgrazie, mortali quasi sempre.
I pionieri furono grandi alpinisti nel senso della tecnica, pur valendosi di esperti montanari, e a quelli, non a questi, spetta la iniziativa nella conquista delle vette. Oggi le cose sono ben mutate, ed una netta distinzione s'impone. O limitarsi all'alpinismo con guide, e in tal caso un minore addestramento può bastare nelle ascensioni minori, non nelle maggiori, dove ogni membro prudente della comitiva deve essere in grado almeno di aiutarsi da sé stesso. O intraprendere l'alpinismo senza guide con le sole proprie forze, e allora una severa, graduale preparazione di anni è indispensabile, proporzionata all'impresa che si tenta.
L'alpinismo senza guide è oggi praticato da molti; la questione se si possa fare a meno dell'aiuto dei montanari, che appassionò vivamente, ora si può dire superata e si riassume nella formula: non trattarsi di fare a meno, ma di saper fare a meno della guida. Il montanaro ha indubbiamente un naturale allenamento e una resistenza ed esperienza superiore a quella di chi, altrimenti occupato, consacra all'alpinismo le ore libere. Un tempo, poi, maggiore era l'affiatamento tra la guida e l'alpinista e il concorso fornito dal secondo alla riuscita dell'impresa. Ma la moda eccitò molti a compiere salite, e costoro, non preparati, dovettero ciecamente rimettersi al soccorso della guida, la quale a sua volta assumeva carattere accentuato di mestierante che batte e ribatte le stesse vie; le tariffe cresciute vietavano poi ai giovani volenterosi di servirsi di questi compagni e maestri. L'alpinismo senza guide è fattibile, ma alla condizione ovvia che chi lo pratica conosca quanto occorre per condurlo a buon fine.
Il pericolo sulla montagna è sempre presente, non solo nel terreno difficile, ma anche nel facile, dove si è più sventati; anche gli abili vi inciampano. Primo fattore necessario per l'alpinista è un'adeguata conformazione fisica; corpo snodato, pronto ad ogni movimento degli arti, specie se inconsueto (la ginnastica da camera giova assai a tenere sciolti muscoli e tendini: rotazioni e flessioni del busto, degli arti, inspirazione ed espirazione profonda, piegamenti sulle gambe), abile nel sapere trasportare il centro di gravità senza scosse orizzontalmente e verticalmente. Non si richiede troppa forza muscolare, ma agilità; tuttavia un uomo forte sarà sempre in grado di reggere i compagni. Tra gli esercizî ginnastici da palestra può bastare l'appoggio, il sollevare cioè il corpo sulle braccia, e la salita alla fune. Occorrono visceri sani, resistenza alla lunga fatica e alle intemperie, sobrietà completa. Ove manchino doti naturali, un'educazione razionale può suscitarle e conservarle, a tal segno che i suoi frutti ricompaiono rapidamente negli anni successivi. L'età ha un'importanza relativa; insigni alpinisti innanzi negli anni compiono salite difficili e lunghe. Occorre inoltre, e anzi soprattutto, un'adatta preparazione morale: volontà tenace, pazienza e persistenza lunga di propositi; tranquillità nei frangenti, indispensabile per decidere rapidamente e bene. Sulla montagna, tra i disagi e le fatiche, appare senza veli l'indole di ciascuno, ed è inutile dire che i buoni e i generosi sono anche i migliori alpinisti.
Bisogna poi dedicarsi allo studio delle monografie, delle guide, delle carte, delle illustrazioni per la regione che si vuol conoscere; andarvi impreparati espone a sorprese non piacevoli, mentre, per il vero alpinista, tale indagine su quanto si è fatto prima è del massimo interesse. Giunti sul luogo, bisogna saper riconoscere la via scelta e giudicarne le condizioni: se sfavorevoli, meglio rinunciare per tempo all'ascensione.
Igiene. - L'alta montagna ha un'azione fisiologica e terapeutica che è tuttora in via di studio; avvengono modificazioni rigenerative nel sangue, emoglobina e corpuscoli rossi aumentano di numero col soggiorno prolungato; i corpuscoli fragili, vecchi scompaiono; diminuisce la viscosità del sangue; è favorita l'attività del cuore e la circolazione cutanea; la respirazione è attivata e si approfondisce; le vie bronchiali si amplificano; il ricambio migliora; l'organismo si libera di tossine; gli stimoli del freddo e delle irradiazioni solari sono di grande vantaggio.
L'alpinista deve allenarsi possibilmente come il corridore, con piccole corse, evitando in principio stanchezze totali, specie quando il periodo di riposo si consumi nell'afa della pianura. D'inverno l'allenamento sembra più rapido perché il corpo non ha subìto l'azione estenuante della caldura estiva; tuttavia occorre stare attenti ai repentini trapassi dalla vita cittadina in locali riscaldati, ai freddi rigidi dell'alta montagna invernale, spesso di effetto mortale. Tema di grandi ricerche, iniziate da Angelo Mosso, nell'Uomo sulle Alpi, è il mal di montagna, sotto il cui nome a volte si comprendono indisposizioni di diversa natura. Di regola, chi ne sia assalito, ove non conosca a fondo il proprio organismo, si fermi e rinunzî a proseguire; del resto la migliore cura è quella preventiva, con l'allenamento graduale alle fatiche e alle altitudini. Sul M. Bianco, sulla cui cima si perviene dopo lunghissima, uniforme salita di nevi per la via comune, i troppi che vi si cimentano impreparati soffrono del male; sul Cervino, aspra lotta di rupi e di ghiaccio, riservata di regola a buoni arrampicatori, il male affligge di rado (v. altitudini, male delle).
Lo stomaco vuoto è naturalmente un nemico, debilitando: bisogna quindi potersi, ma anche sapersi nutrire. Meglio nutrirsi spesso e leggermente; i cibi siano di facile e pronta digestione (sostanze dolci, marmellate, burro, frutta secca, zucchero, minestre Maggi tipo svizzero, orzo, legumi); agli allenati può convenire ogni cosa, le uova, la carne. Da preferirsi i cibi conservati in scatole. Tenersi poi leggieri alla vigilia d'un grande sforzo.
Bevande ristoratrici sono il caffè, il tè, i vini presi moderatamente. Da evitare le bevande a forte base alcoolica; tuttavia è prudenza averne seco un po' per ogni evenienza o indisposizione. Gli estratti concentrati di noce di coca o di kola giovano negli sforzi supremi, per quanto ogni eccitamento fittizio possa essere nocivo; il migliore cordiale sta nell'allenamento e in una saggia condotta di marcia.
Il passo dev'essere allungato, lento, sicuro, fatto poggiando l'intero piede; nei pendii ripidi va posato di fianco, facendo presa coi chiodi laterali; nei minuti brecciami, nei pendii erbosi, il piede scavi la nicchia nella quale dovrà mettersi, e non gli si affidi il peso del corpo di prima giunta, ché potrebbe scivolare. Nelle nevi, del pari, si batta di fianco l'orlo della scarpa per ottenete l'incisione che le darà presa; in quelle non troppo dure in salita e discesa ripide in senso verticale si batta invece la punta della scarpa per fare un buco e introdurla: son fatiche, ma dànno sicurezza. Sulle rocce si badi ai sassi che vi possono essere sparsi, e far da ruota sotto la scarpa; nelle rocce malferme si stia attenti a non far cadere sassi sui compagni; chi sa andare bene sale per pendii franosi senza smuoverli. Nei brecciami si scelgano i massi grossi per posarvi il piede, per la loro maggiore stabilità. Nella discesa si abbia la forza di calare adagio il piede nei gradini di ghiaccio o neve, flettendo la gamba (altrimenti si scivola o si guasta il gradino) e tenere il corpo a piombo. Nelle discese ripidissime di neve e ghiaccio in senso verticale si volga la faccia al monte.
La comitiva sia di regola di tre; due procedono spediti sulle rocce; tre almeno, e meglio quattro, sono necessarî sui ghiacciai molto crepacciati. Il più abile va per primo, possibilmente poco carico, per conservare le forze e impiegarle nella scalata; il più debole sia l'ultimo nelle salite verticali, stia invece in mezzo nelle traversate orizzontali di pareti difficili. Ma soprattutto ognuno vigili di continuo su sé stesso e sui compagni, badando alla corda, assicurandola alle rupi o alla piccozza nei siti ardui, e cerchi pure nel farlo di assicurare sé stesso per primo e poi il compagno, alfine di poterlo sorreggere se scivoli o cada senza preoccupazioni per sé stesso. Andare soli procaccia forti emozioni, ma esige esperienza somma; sui ghiacciai è cosa arrischiatissima: anche i più valenti soccombono spesso nei cimenti isolati. La corda sia scelta con cura, e nuova o quasi nelle corse difficili; la sua minore resistenza agli strappi pel cadere di uno degli alpinisti ha conseguenze letali. Ci si leghi sotto le ascelle con nodo irrestringibile e si curi, con altro nodo passato sulla spalla, che la corda non scenda alla vita. Il primo abbia maggiore spazio; le distanze variano secondo le scalate. Sempre si tenga la corda con la mano, in guisa che ne rimanga libero un metro dal proprio corpo, per non subire immediatamente le scosse. Non si prenda la pessima abitudine di avvilupparsi della corda superflua. Della corda di soccorso, per discese di salti a picco, oggi si fa grande uso; la si fa passare doppia su un ronchione, o in un anello di corda. Essa sia leggiera ma solida; è sempre consigliabile averne seco in ogni grande ascensione.
La roccia è di svariatissima natura, consistenza, superficie, pendenza, con appigli volti in su, volti in basso, solidi o malfidi, e chiede un diverso adattamento. Qui si dovrebbero poter tracciare regole sicure; ma se nell'insegnamento del remo o della spada è possibile indicare la posizione migliore, costante del corpo, nell'arte di arrampicarsi non si possono dare che norme generali. Anzitutto procedere lentamente uno alla volta; prender tempo, ma esser preparati agli eventi; muovere un arto per volta; saper prevedere dove si poserà la mano e il piede; studiare l'ostacolo e calcolare le diverse posizioni che il corpo dovrà assumere per superarlo; tenere possibilmente il corpo a piombo; non fare affidamento sui ginocchi né sulla posizione seduta; confidare nella presa del piede, che deve posare per quanto si possa, fermo, e della mano, che deve saggiare la solidità e bontà dell'appiglio. I movimenti siano dunque lenti, misurati, sicuri. L'occhio, la percezione spontanea che l'esercizio acuisce, sono i migliori fattori; reca meraviglia come i montanari cresciuti nell'elemento sappiano istintivamente trovare la migliore soluzione in ogni caso, tanto che chi ha attentamente osservato il loro lavoro, leggendo i trattati vede che ad essi nulla tornerebbe nuovo. Ed è perciò che l'uomo della pianura, che tende piuttosto allo sforzo ginnastico, alle violenti bracciate e al salticchiare, anziché a quello strisciare preciso che è dote montanina, abbisogna di una lunga pratica.
Le grandi salite nelle Alpi Occidentali, Centrali, e Orientali, offrono difficoltà di ghiaccio, di nevi, di pareti e creste e canaloni e pericoli di valanghe e di cadute di ghiacci e di sassi e rovine di cornici nevose. Nelle Dolomiti il primo ostacolo è dato dalla verticalità pressoché costante della scalata, da vietarsi a chi soffra di vertigini (impressione che l'allenamento può distruggere); il senso del vuoto vi è continuo, e spesso assai lungo; intere decine di metri, sono il tragittu che il primo deve compiere prima di trovare un sito nel quale possa assicurarsi e attendere gli altri: onde un impiego di corda copioso. Inoltre, camini e fessure, che si superano a mo' di spazzacamini o introducendovi solo una mano e un piede; cengie e cornici strette che costringono a manovrare in fuori; strapiombi che giungono inavvertiti (in genere tenere il corpo lontano dalla roccia quanto si possa per mantenersi ben ritti e poter esplorare la parte superiore, poiché l'occhio val più della forza e guai a chi si cacci inconsiderato là dove non è uscita). Difficili oltre modo si presentano le discese; occorrono quindi chiodi da roccia e molta corda di soccorso. Si adoperano scarpe di corda, che sul calcare dolomitico fanno presa se posate bene assai meglio dei chiodi e dànno leggerezza di movimento: equipaggiamento leggiero, perché, se lo sforzo è intensissimo, è però relativamente di breve durata, salvo per alcune maggiori scalate. Le Dolomiti hanno condizioni quasi costanti, laddove sulle alte Alpi esse cambiano a seconda dello stato delle nevi e del ghiaccio che, coprendo le rupi, ne accrescono a dismisura la difficoltà, sicché il criterio al riguardo muta pur esso col variare della stagione e del tempo. L'alpinismo dolomitico ha condotto a spettacolose audacie, a traversate aeree a fune tesa da uno spuntone all'altro; prove certo di grande arditezza, ma che snaturano i caratteri più schietti dell'alpinismo.
Ghiaccio e nevi. - Preferirono i primi alpinisti le vie di ghiaccio; si preferirono poi quelle di roccia, più ginnastiche; ma ora si ritorna anche alle prime. L'alta montagna esige conoscenza di entrambe; se però un giovane svelto e robusto può farsi abbastanza rapidamente arrampicatore di roccia, il ghiaccio e le nevi vogliono un tirocinio ben più lungo; d'inverno, di primavera, d'autunno, sempre è difficile valutare con sicurezza la consistenza della neve, se regga al peso del corpo sui pendii, secondo sia fresca o vecchia, di valanga o di coltre, fredda e polverosa o fradicia in giornata calda o di pioggia. Le migliori son quelle di vecchia valanga, le peggiori quelle sui lastroni; sulle rocce è incomoda, mascherando gli appigli, congelando le mani, impastando le scarpe di uno strato che non consente ai chiodi di far presa; ne deriva una grande lentezza di movimenti, se si vuol essere un po' sicuri; sui pendii di neve malfida si sale e si scende in linea retta verticale, ché le trasversali, tagliandoli, facilitano il formarsi di slittamenti della massa superiore. Sul ghiaccio delle pareti e dei canaloni, sempre più duro, la posizione di equilibrio è delicatissima, il corpo posa tutto sopra i ramponi o il gradino scavato; e sono luoghi nei quali bisogna assolutamente non scivolare, sotto pena di trascinare i compagni pur essi in bilico, a meno che non si prepari di tanto in tanto un gradino più capace infiggendo la piccozza e affidandovi la corda. La traversata di ghiaccio soprattutto è quindi pericolosa; nelle salite in senso verticale forse lo è meno; ma sempre è necessaria in tutti calma, precisione e sicurezza di movimenti.
Nelle traversate di ghiacciai, la corda giova assai a sostenere chi inavvertitamente fori la vòlta di un crepaccio. I veri montanari d'un tempo avevano quasi un fiuto speciale di tali insidie; esse si rivelano agli esperti da una diversa colorazione della neve, da lievi avvallamenti, da sottili fenditure; con abbondante neve fresca l'insidia è inevitabile. Necessario sondare spesso con la piccozza; anche ritenuti dalla corda, il cadervi può recar danno. Inoltre, studiare l'andamento della corrente del ghiacciaio e la direzione secondo la quale la si vuol risalire; di regola i crepacci sono in direzione normale a quella della corrente; ma questa può subire spinte laterali, deviazioni, rapide discese, chiamate al disopra di salti più ruvidi, e in conseguenza i crepacci si annodano in diverso senso. Poi si hanno i seracchi (da sérac, formaggio che si screpola ortogonalmente), là dove il ghiacciaio è costretto a scendere bruscamente; la massa è tutta crepacciata in ogni senso, foggiata a torrioni, muri, spalti. Alla difficoltà di scalare tali ostacoli di vivo ghiaccio e di trovare una via di uscita, si aggiunge il pericolo della rovina di tali massi e torri sotto la spinta della corrente di discesa del ghiacciaio e l'effetto del freddo o del caldo. In alto, il ghiacciaio sale al piede delle rupi, ma n'è separato dal crepaccio terminale (rima, rimaye, Bergschrund), a volte amplissimo, superabile solo se un residuo di valanga vi faccia ponte; altrimenti vi si deve scendere e uscirne con penoso lavoro di piccozza. In tutte le manovre di ghiaccio e neve la corda sia leggermente tesa tra i membri della cordata; nulla di peggio che vederla trascinata inerte al suolo; se tesa, a chi vigila e l'allunga con discrezione man mano che il compagno fa il passo pericoloso, facile è sostenerlo ove cada.
I pericoli così detti oggettivi dell'instabilità della roccia, delle pietre rovinanti, la strada delle quali non sfugge a occhio esperto, poiché dove picchiano la rupe è spoglia e reca la traccia delle ferite recenti; dei canaloni, via consueta delle valanghe di neve e di sassi, sono aumentati dagli elementi atmosferici: il vento che impedisce sulle creste l'equilibrio del corpo e le posizioni erette, il turbinio del nevischio accecante, gli uragani e i temporali elettrici, la repentina caduta di piogge e nevi e grandine, che inzuppano e assiderano e coprono le rupi di una crosta di ghiaccio. L'elenco delle disgrazie che ne derivano prova come non si debbano onestamente intraprendere ascensioni di polso e di lunga lena se non dopo aver consultato il barometro e i sintomi locali del tempo; i montanari e gli alpinisti d'un tempo curarono e curano ogni indizio, né più né meno dei lupi di mare. Né vi è necessità alcuna di affrontare, senza uno scopo superiore, le tempeste sull'Alpe; il panorama è distrutto e la via si perde nelle nebbie.
Dal fulmine non vi sono ripari; è consigliato l'allontanare da sé per quanto si possa la piccozza, o tenerla sotto gli abiti; a grandi scariche o a serie di piccole succedono brevi periodi di calma; ma non appena si avvertano fenomeni elettrici, quali crepitii, scintille dalla piccozza, dai capelli, fenomeno che può succedere anche a ciel sereno. la prudenza insegna a discendere tosto dalle creste, gli spuntoni delle quali fan da scaricatori, e cercare o un riparo o la via più rapida verso il basso. Si ebbero anche casi di scariche mortali di ritorno dalla terra.
Strumenti alpinistici. - Già nell'antichità classica si usarono ottimi calcei, simili alle odierne scarpe all'alpina, salenti sopra la noce del piede e allacciati con stringhe, clavati, muniti di fitte capocchie di chiodi, specialmente pei soldati, o di punte aguzze (arco di Costantino). Strabone (XI, 6) dice che i montanari del Laucaso usano suole di cuoio armate di punte (come nelle Marittime). Freshfield riportò di là un modello di rampone da tacco tolto da un'antica tomba. Si usavano pure cothurni, stivali allacciati da caccia, già in uso presso i Greci (Teofrasto, nei Caratteri, rimprovera il rustico, perché viene in città con le scarpe chiodate); e tibiales, gambali o uose, venute di moda al tempo di Cesare.
Nel Medioevo si trovano baculi mucrone ferreo praepilati, baculi alpini; nella traversata del Gran S. Bernardo (1128, gesta Abbatum Trudonensium) i coturni sono ferrati di aculei per non scivolare sul ghiaccio, le mani difese da guantoni di lana, berrettoni in capo, e si usano bastoni assai lunghi per sorreggersi sull'alta neve.
Senofonte parla di racchette e di fasciature alle zampe dei cavalli. Il Simler cita vitrea conspicilia, occhiali di colore; la carta sul petto a difesa dal freddo; la corda impiegata nelle traversate di ghiacciaio legandosi alla cintola per impedire lo sprofondamento in crepacci; e parrà strano che i montanari di Chamonix ne ignorassero l'uso, anteriore di secoli, tanto che nelle prime salite sui ghiacciai del M. Bianco si limitavano a sorreggere il viaggiatore con un lungo bastone tenuto ai due capi dalle guide; modo rudimentale, incomodo e malsicuro, al quale si rinunziò presto. Una opera interessante è quella del medico Guglielmo Grataroli da Bergamo (stampata da Pietro Host, Colonia 1571; un esemplare nella Biblioteca Vaticana, Racc. gen. di medicina, V, 821), che dà precetti igienici ancora ottimi e consigli pratici per le traversate alpine; dei ramponi pel ghiaccio dice addirittura che si trovavano in vendita ovunque. Il Vaccarone, in I Principi di Savoia attraverso le Alpi (in Bollettino C. A. I, 1902) spiega le precauzioni adottate sui monti e ricorda l'obbligo imposto sin dal 1259 agli alpigiani di segnare la via del Piccolo San Bernardo con pertiche emergenti dalla neve.
Oggi bastoni lunghi con puntale di ferro son poco in uso; si preferiscono meno alti, a manico ricurvo. Usata assai è la piccozza, né può biasimarsene l'uso; con essa un abile alpinista si cava d'impaccio nella più parie dei casi. Svariati i modelli, a cominciare dai primi rudimentali e pesanti e diversi nelle singole valli. Tuttavia il tipo tende ora all'uniformità: manico di frassino, stagionato, elastico, corto per grandi scalate (Cervino), più lungo per traversate di ghiacciaio per poter sondare i crepacci; da un lato il ferro è foggiato a paletta e serve per far gradini nella neve dura, dall'altro, per farli nel ghiaccio, a punta acuminata, o bisellata, che alcuni vogliono diritta, altri leggermente ricurva. Il ferro dev'essere omogeneo, crudo, dolce. Si usa un anello di cuoio assicurato con sottili chiodini vicino al puntale per facilitare la presa della mano; si usa pure un altro anello di ottone scorrevole lungo il manico, al quale l'anello di cuoio impedisce di uscire; ad esso si attacca la stringa che si lega al polso; così si può adoperare la piccozza nei due sensi. Nelle difficoltà, specie con cattivo tempo, giova legarla con una funicella lunga più d'un metro alla cintura, per non perderla, nel caso che sfugga, com'è facile, di mano. Nel traversare pendii si tenga il bastone sempre orizzontale per facilitare la posizione eretta del corpo e lo si appoggi al monte, non in basso. Piantato il becco nella neve, nel ghiaccio, nei ripidi pendii erbosi, la piccozza sarà un appoggio preziosissimo.
Il taglio dei gradini richiede forza, abitudine, destrezza; insuperabili i montanari usi alla zappa, al piccone, all'ascia. Il gradino sia costituito da incisione lunga e orizzontale, possibilmente inclinata in dentro, perché il piede vi s'insinui bene tutto. Nella neve compatta il taglio non è difficile e si compie colla paletta; difficile e faticoso nel ghiaccio, specie in quello dei canali che è durissimo, e delle placche, che è sottile. Si badi bene a dare solo un primo colpo non forte in senso orizzontale; i successivi siano verticali, ché questi non fanno saltare malamente tutta la scaglia lasciando una cavità informe, non aggiustabile. Si stia attenti a non fare gradini troppo distanti, se devono servire per la discesa diagonale; in tal caso si può aggiungere un piccolo gradino intermedio. Nel voltarsi si scavi un gradino più ampio: questa precauzione è assolutamente indispensabile.
I ramponi sono di varî tipi; per siti non delicati bastano grappelle d'un pezzo a due o quattro punte. Per le grandi corse sono necessarî quelli a otto o dieci secondo la lunghezza della scarpa alla quale devono aggiustarsi esattamente. L'inglese O. Eckenstein studiò a fondo il loro impiego e la loro fattura (v. Riv. C. A. I., 1925, p. 167): essi devono essere di ferro non flessibile, forte, duro, resistente al freddo, senza saldature; non troppo leggieri a scapito della solidità; angoli arrotondati; denti distanti quanto si possa (altrimenti non attanagliano il ghiaccio e nella neve fanno pastone) e affilatissimi, quadrangolari. La snodatura sia unica; le punte vengano a trovarsi sotto l'orlo della scarpa, le anteriori arrivino sino alla punta della scarpa, le posteriori sporgano quasi al tacco. Gli anelli per le cinghie siano d'un pezzo e pure d'un pezzo le cinghie di canapa: ci si abitui a toglierli rapidamente sulle rocce per non sciupare i denti. Ci si eserciti su pendii a 30 gradi. Norma costante: tutti i denti devono mordere simultaneamente il ghiaccio. Si salga diritto nelle pendenze minori coi piedi non rivolti in fuori; poi angolando; poi di fianco, il che esige uno sforzo anormale di torsione della caviglia da vincersi con l'abitudine, poiché l'uso dei ramponi vuole anch'esso un buon addestramento. Nei pendii ripidi trasportare i piedi uno accanto all'altro senza scavalcarli.
Chi sappia vincere, oltre alla fatica inconsueta, anche l'impressione nervosa di sentirsi affidato solo ai ramponi, risparmia molto taglio di gradini; ma nei siti peggiori questo taglio sarà sempre raccomandabile com'è poi da raccomandare la precauzione di un buon gradino di tanto in tanto dove il primo della cordata possa attendere e dare aiuto agli altri, nonché nei punti dove ci si deve voltare.
La corda più usata è di manilla; solide ma pesanti sono quelle di canapa, leggerissime ma sottili e costose quelle di seta. Migliori le girate o ritorte che le tessute o intrecciate a elemento interno e superficiale. Occorre che siano forti, che non abbiano subìto lacerazioni per essere state trascinate sui sassi; che non si siano logorate e indebolite sulle superfici di ghiaccio e neve. Né l'intera corda, ma solo un campione va assoggettata a prove di frattura. Va portata avvolta attorno al sacco e fatta asciugare finita l'escursione.
Nei chiodi da roccia, il ferro sia resistente ed elastico; abbiano il foro, nel quale passa l'anello destinato alla corda di soccorso, laterale alla testa e non nel mezzo. La sezione sia rettangolare, tonda o quadrata secondo le occorrenze. E si badi bene nel conficccarli, affinché possano subire la trazione nel senso desiderato. (Sulla migliore maniera di fabbricare piccozze, ramponi, chiodi e corda, v. Riv. C. A. I., 1926, pp. 86 e 103).
Le scarpe costituivano un tempo un problema difficile; oggi sono in commercio buoni modelli. Di regola l'arrampicatore rifiuta le suole troppo larghe, che spostano la presa del piede e impediscono l'uso dei ramponi, e i tacchi alti e brevi, che favoriscono storte e lussazioni. La suola dev'essere giusta sotto il piede ai lati, un po' lunga sulla punta che batte nei sassi e scava gradini; il tacco lungo, basso, largo, fa da timone. La punta sia quadrata, alta, per lasciare libera l'articolazione delle dita contro il freddo e il disagio della discesa. Le scarpe si aggiustino bene sul collo del piede; sorpassino di non molto la noce; siano allacciate da stringhe di cuoio. Migliori quelle a fenditura che quelle ad alette, le quali finiscono per strapparsi. Il cuoio sia solido e le suole doppie resistenti all'umido. I calzolai montanari le fanno meno belle ma più durevoli. Vanno tenute accuratamente unte di grasso; l'alpinista deve avere pei suoi strumenti la stessa cura minuziosa che il cacciatore ha pel fucile. Una soletta di sughero amovibile attutisce le asperità interne delle cuciture e chiodature. Variatissima può essere la chiodatura. In genere chiodi distanti fan migliore presa di quelli troppo fitti, soggetti a slittare; onde, ai margini, essi siano radi, e più serrati in punta. Buoni son quelli a paletta col gambo rivoltato; nel tacco, grosse palette o chiodi piramidali, tra cui va lasciato lo spazio che riceverà le branche del rampone che così starà fisso meglio, senza dover stringere troppo le cinghie. Vi sono anche chiodi d'acciaio con un gambo che facilmente si avvita al tacco, detti Mummery, ma già adoperati da De Saussure e anche prima.
Gli occhiali da neve sono di colore scuro, o giallo; migliori sono quelli più grandi. Indispensabili due paia nelle lunghe escursioni sui ghiacciai e sulla neve. Del resto anche col vetro rotto attutiscono lo sfolgorio: e alla peggio ci si strofini le occhiaie col nero fumo d'un tappo bruciato.
Il sacco sia di tela forte, resistente all'acqua e agli strappi. Per grandi scalate più lungo che largo, le cinghie attaccate a un anello, attaccato a sua volta a una pezza di cuoio; le tasche siano lunghe e laterali, non nel dorso, dove non c'è posto che per una tasca per le carte. Il tipo norvegese ha un'intelaiatura che porta il peso sulle reni. Nel sacco trovan posto borracce grandi e piccole, scatole e recipienti di alluminio pei cibi; e, per i minuti oggetti, sacchetti di tela impermeabile, che li tengono separati dal resto del bagaglio.
Per gli abiti, camicia e mutande di lana, calze leggiere e calzerotti pesanti sopra, gambali di grossa lana. In disuso sono le uose, che avevano però il vantaggio di non comprimere i muscoli, specie quelle senza bottoni, da infilarsi. Le migliori fasce sono quelle lineari da avvolgersi a spire rivoltate, senza stringere. Giacca e calzoni corti, di stoffa fitta di lana; oggi si usa anche la giacca di tela forte. Tanto le braccia quanto le gambe devono assolutamente godere la massima libertà di movimento; quindi le maniche siano tagliate e attaccate quasi come quelle delle camicie, e il dorso e il petto siano ampî. I calzoni nell'inforcatura non devono scendere paralleli ma divaricati fortemente; così permettono di salire e consentono le spaccate senza legamento incomodo e faticoso delle gambe. In genere occorre coprire e curare le estremità e avere la gamba calda perché non irrigidisca; camminando non si ha freddo, e soprattutto in discesa ci si accalda sempre di più che in salita.
Conviene avere qualche indumento di ricambio, calze e sciarpe, panciotti e maglioni. Guantoni di lana, senza dita; quelli rivestiti di tela, almeno nell'apertura del pollice, hanno maggior durata sulle rocce.
Di cucine portatili se ne trovano di vario formato e peso, che resistono alle ventate e soccorrono nei bivacchi.
Finalmente, è necessario aver seco qualche medicinale: laudano, aspirina, caffeina, sublimato o iodio, pezzuole e bende sterilizzate. In commercio si trovano buste preparate. Per impedire le molestie, talvolta gravi, della scottatura sulle nevi, esistono preparati da applicarsi al mattino come preventivo efficace. Si ungano inoltre i piedi di sego o grasso per rinforzare la pelle e rendere possibili lunghe camminate senza bruciori.
Le guide. - La prima descrizione del lavoro di guida nella scalata di roccia è in Sallustio (Guerra giugurtina, v. sopra); non infondatamente si pensa che Annibale e ogni altro condottiero nelle guerre di montagna si sia valso di montanari esperti della via e delle sue difficoltà. Nel periodo prealpinistico, accompagnavano i viaggiatori, pastori e cacciatori; nel 1518 Vaudianus, salendo al M. Pilato e al Gnepfstein si vale di un pastore, e Gessner, nel 1556, fa lo stesso. Il Vaccarone, nei Principi di Savoia nelle Alpi (v. sopra), ricorda che nella traversata invernale del Moncenisio, G. Rigaud superò le difficoltà per l'abilità, l'energia, la devozione dei Marroni. Queste guide per i grandi valichi esistettero fin dall'antichità; per il Gran San Bernardo i "soldati della neve" vennero assoggettati a un regolamento da Carlo Emanuele I nel 1627, ma il Vaccarone raccolse tracce dell'opera loro anche nei secoli anteriori.
Con l'esplorazione del M. Bianco gli uomini di Chamonix vengono facendosi vere guide, e sul loro esempio, nel periodo dell'alpinismo classico, lo diventano a volta a volta nelle valli cacciatori, pastori, contrabbandieri (Forbes ne ebbe uno compagno al Col Collon): uomini di ottimo fisico, arditi, i quali sono spinti a tentare audaci imprese non solo dal lucro ma dalla passione della montagna e da una generosa emulazione; tra noi Antonio Castagneri, Carrel il bersagliere, G. G. Maquignaz, e altri.
Ma col diffondersi dell'alpinismo, con la ripetizione delle stesse ascensioni per la stessa via, una selezione si venne facendo, tra i migliori, eredi dell'antico spirito, che seppero conservare consuetudine di anni e stretta amicizia con grandi alpinisti, e gli altri, più o meno abili, presi alla giornata da sconosciuti per una ascensione ben nota, che vanno con la maggiore fretta possibile, a orario fisso, e badano naturalmente soprattutto al lucro.
Il primo corpo organizzato è quello di Chamonix, con un regolamento approvato dal re di Sardegna nel 1821. I Club alpini italiano, svizzero, francese, tedesco hanno compilato per le guide appositi regolamenti che si possono leggere nei libretti di cui ogni guida è fornita.
Le guide acquistano il titolo dopo un tirocinio da portatore; questi serve da seconda guida, per lo più, e marcia un po' più carico. Nelle valli dove sono montagne di maggior difficoltà la promozione è rigorosa. In genere si tratta di gente esperta, ma non bisogna pretendere che tutte sappiano compiere i prodigi di cui taluni dànno prova. La scelta avviene in alcune sedi a turno di ruolo, salvo per le ascensioni importanti e pei soci di Club alpini, nei quali casi la scelta è libera (per la storia delle guide italiane, v. il vol. cit. L'opera del C. A. I. nel primo suo cinquantenario; per le grandi guide dell'alpinismo classico, v. The Pioneers, ecc.).
L'alpinismo invernale, infine, ebbe forti cultori in Italia; il 24 dicembre del 1874 L. Vaccarone e A. Martelli con A. Castagneri scalarono la superba Uja di Mondrone; nel gennaio del 1878 venne vinto il Monviso; nel 1880 anche il Gran Sasso d'Italia. I Sella compirono una serie di ascensioni invernali che assicurarono loro il primato fra il 1884 e il 1888, con le salite del Cervino del M. Bianco, della Dufour, del Lyskamm, della Gnifetti, ecc. E il loro esempio fu largamente seguito. Ma poi, con l'adozione dello sci, data la velocità e le soddisfazioni sportive di tal mezzo di locomozione, il vero alpinismo invernale decadde ed è solo di questi ultimi anni la sua ripresa verso le maggiori cime.
L'alpinismo invernale richiede un severo allenamento; a differenza dello sciatore che sceglie la via più atta nei valloni o su comodi dorsi, e bada a scansare il letto delle valanghe, l'alpinista che tenta di superare una vetta deve necessariamente seguire vie prestabilite, anche se molto difficili e pericolose per le condizioni invernali; esse vanno quîndi riservate ai più forti e provetti. A grandi altitudini le rupi, di pieno inverno, sono spesso spazzate dal vento che asporta la neve farinosa, ma possono essere velate da perfidi sottili strati di ghiaccio; le pareti di ghiaccio sono nude, i ghiacciai coperti di grossi strati polverulenti che nascondono i crepacci prodotti dalla fondita estiva e non reggono a far ponte come in primavera e prima che il vento e il caldo li rassodino. Ma per contro, le vedute e i panorami sono d'una chiarezza indescrivibile e d'un fascino meraviglioso. Oggi l'alpinista invernale si vale dello sci pei tragitti sino al piede della piramide, la quale poi si scala adoperando come d'estate ramponi e piccozza. Norma elementare inderogabile: non muoversi dopo le nevicate, se prima non passi un giorno o due di sereno, e stare attenti alla temperatura, alla direzione del vento, allo scirocco, che creano valanghe.
Bibl.: Oltre alle indicazioni già date sopra, v., per ciò che concerne la storia dei Club Alpini, i Comptes-rendus du Congrés de l'Alpinisme de Monaco. Expansion scientifique, Parigi 1921, II; una rassegna dei Club Alpini si trova in G. Casella, L'Alpinisme, Parigi 1913, con citazioni di fonti. Per l'alpinismo in genere (storia, tecnica, ecc.) v. principalmente: H. B. De Saussure, Voyages dans le Alpes, Neuchâtel 1780-1796, voll. 4; J. Forbes, Travels through the Alps, Edimburgo 1843; C. Fiorio e C. Ratti, I pericoli dell'alpinismo, Torino 1889; E. Zsigmondy, Im Hochgebirge, Lipsia 1889; C. T. Dent, Mountaineering, Londra 1892; J. Meurer e J. Rabl, Der Bergsteiger im Hochgebirge, Vienna 1893; A. F. Mummery, My climbs in the Alps and Caucasus, New York 1895; E. Javelle, Souvenirs d'un alpiniste, Losanna s. a.; G. Brocherel, Alpinismo, Milano 1898; F. Gribble, The early Mountaineers, Londra 1899; J. Grand-Carteret, La montagne à travers les âges, Moutier e Grenoble 1903, voll. 3; G. D. Abraham, The complete Mountaineer, Londra 1907; S. Besso, Tra roccie e nevi, Roma 1908; A. Mosso, L'uomo sulle Alpi, Milano 1909; E. Whymper, Escalades dans les Alpes, Ginevra 1912; A. Hess, Saggi sulla psicologia dell'alpinismo, Torino 1914; G. Rey, Alpinismo acrobatico, Torino 1914; H. König, Le conseiller de l'alpiniste, Ginevra 1918; G. Bobba, Galateo dell'alpinista, in Sorgente (riv. del T. C. I.), 1978, n. 7; A. Fischer, Hochgebirgswanderungen in d. Alpen u. in Kaukasus, Frauenfeld 1913-19; W. M. Conway, Mountain memories, Londra 1920; G. Saragat e G. Rey, Alpinismo a quattro mani, Torino-Genova [1921]; M. Kurtz, Alpinismo invernale, Pinerolo s. a.; J. Ittlinger, Alpinismus. Ein Ratgeber für Bergsteiger, 2ª ed., Lipsia 1921; id., Führerloses Bergsteigen, Lipsia [1922]; K. Blodig, Die Viertausender der Alpen, Monaco 1923; G. I. Finch, The making of a mountaineer, Bristol 1924; U. De Amicis, Piccoli uomini e grandi montagne, Milano 1924; E. v. Fellenberg, Der Ruf der Berge, Erlembach-Zurigo 1925; F. Nieberl, Das Klettern im Fels, 6ª ed., Monaco 1926; E. Fasana, Uomini di sacco e di corda, Milano 1926; E. Zsigmondy e W. Paulcke, Die Gefahren der Alpen, 8ª ed., Monaco 1927; A. Hess, Trent'anni di Alpinismo, Torino 1928; v. inoltre i Manuali SUCAI: Accampamento, Arrampicamento, Vademecum ecc., e le speciali pubblicazioni del C. A. I.