Alpinismo
di Alessandro Filippini, Alessandro Gogna
Come pratica sportiva l'alpinismo nacque ‒ lo indica il nome ‒ sulla catena alpina nel 18° secolo, anche se come attività spontanea l'arrampicata esisteva da secoli, se non da millenni. Fin dalle epoche più remote l'atteggiamento dell'uomo nei confronti delle montagne è stato di paura e di adorazione nello stesso tempo; il terrore veniva sublimato attraverso il mito che compensava l'impossibilità di dare ai fenomeni naturali una spiegazione razionale. Le montagne sono state dunque spesso considerate come inaccessibili dimore degli dei e rese protagoniste di leggende paurose, per quanto non tutte le civiltà hanno avuto lo stesso comportamento: gli incas, per es., salirono alcune vette andine, di certo il Llullaillaco di 6732 m, un'altezza che gli alpinisti avrebbero superato solamente nel 1855. Dalle montagne qualcuno non tornava, qualcun altro forse colorava abilmente di grande spavento la sua avventura per allontanare possibili imitatori da piccoli tesori scoperti lassù: animali soprattutto, visto che la prima attività umana è stata la caccia, o anche minerali, da cercare pazientemente fin dove si poteva arrivare. Mancava soltanto lo scopo dell'alpinismo, che è quello di raggiungere la vetta, ma certamente, senza che ne sia rimasta traccia nella storia, molte cime sono state toccate o quanto meno sfiorate, quando ormai il più della salita era fatto, perché di maggior interesse pratico era raggiungere i colli che, unendo due versanti, aprivano nuove prospettive sia di traffici o di transumanze per la pastorizia, sia di conquiste di nuove terre. Di scalate a fini bellici vi è traccia in varie fonti. Già nel 181 a.C. Filippo il Macedone salì il Monte Hemus (2900 m) per usarlo come osservatorio strategico. Tecniche e materiali utilizzati negli assalti a fortificazioni assediate saranno ripresi nelle prime vere avventure alpinistiche.
Ma nel corso del tempo le motivazioni per affrontare una montagna sono state quanto mai varie. Per quel che riguarda il puro piacere, il primo e più famoso caso fu l'ascesa al Mont Ventoux (27 aprile 1336) di Francesco Petrarca, rappresentante di un totale rinnovamento della cultura, del pensiero e dell'arte in ottemperanza a un nuovo desiderio di sapere. La salita del Rocciamelone (3557 m) da parte di Bonifacio Rotario d'Asti, il 1° settembre 1358, aveva invece uno scopo religioso: egli intendeva espiare i suoi peccati portando in vetta un trittico della Vergine. Una scalata con finalità che potremmo definire politiche si ebbe nel 1492: per soddisfare il capriccio di un re, Carlo VIII, che nel massiccio del Vercors, nella sua Francia, aveva ammirato le pareti tutte verticali del Mont Aiguille e aveva espresso il desiderio che fosse 'espugnato', Antoine de Ville affrontò l'impresa, in numerosa compagnia, di certo utilizzando tutti gli aiuti possibili (scale di legno, corde, forse arpioni simili a quelli impiegati negli assedi), considerato che la via più facile a disposizione oggi è di III-IV grado.
In ogni modo le motivazioni più forti per le attività dell'uomo sono sempre state quelle legate alla sopravvivenza e dunque al lavoro. In questo ambito nella preistoria dell'alpinismo si pongono i cercatori di cristalli. Una montagna che ne è ricca è il Monte Bianco ed è lì che nella seconda metà del 1700 cominciò la storia vera e propria dell'alpinismo, quando ormai era maturato lo slancio illuministico, in un'atmosfera di rinnovamento sociale e culturale. L'uomo andava alla conquista di tutti i territori ancora sconosciuti e quindi anche delle montagne. Inizialmente furono affrontate quelle più imponenti e le vette più alte, ignorando o sottovalutandone i pericoli specifici, di cui soltanto con il tempo si acquistò piena coscienza. Ma, conclusa la fase della conquista, proprio la ricerca del pericolo e addirittura di una sua estetica divenne lo scopo di questa pratica sportiva.
di Alessandro Filippini, Alessandro Gogna
L'interesse scientifico per le Alpi fu subito rivolto verso la vetta più alta d'Europa. L'alpinismo nascente aveva come traguardo il conoscere, più che la cima in sé o il primato personale. Lo dimostra lo svizzero Horace-Bénédict de Saussure, professore universitario di filosofia e scienze naturali, che nel 1760 mise in palio "una considerevole cifra per chi riesca a trovare una via d'accesso al Monte Bianco". Non si sognava di andare a cercarla egli stesso: attese che venisse scoperta (1786) per seguirla e raggiungere il punto più alto delle Alpi, dove intendeva svolgere gli esperimenti e le misurazioni programmati, come fece nel 1787. In vetta al Bianco arrivarono un medico, Michel Gabriel Paccard, e un cercatore di cristalli, Jacques Balmat: un borghese che si muoveva per passione e un montanaro locale, che funse da guida perché questo mestiere improvvisato gli offriva un guadagno inatteso. Nacque così fin dall'inizio il rapporto alpinista-guida locale che caratterizzò i primi cento e più anni di scalate sulle Alpi ed è proseguito fino ai giorni nostri nell'Himalaya. Nel 1953, sull'Everest, con il neozelandese Edmund Hillary salì lo sherpa indiano Tenzing Norgay. L'accostamento tra le due realtà è tutt'altro che ardito: come il turismo degli scalatori inglesi cambiò il modo di vivere nelle vallate ai piedi del Monte Bianco, così le grandi spedizioni britanniche, tedesche, francesi, italiane hanno sconvolto le abitudini e l'economia delle popolazioni che vivono dal Pakistan all'India.
Possiamo immaginare in qualche modo le difficoltà che Balmat e Paccard dovettero superare? Di certo il valligiano, cacciatore avvezzo alle fatiche e alla pratica dei luoghi montani, abituato a spingersi fino alla base dei ghiacciai, aveva terrore di quel mondo lucente ma anche sconosciuto; lo scienziato cittadino, invece, forte del suo sapere illuministico, non aveva inibizioni ed era frenato soltanto dalle difficoltà tecniche. Così assistiamo a un'alleanza storicamente positiva e nuova tra fermento innovatore e tradizione. La guida assume fin da quel momento un ruolo di secondo piano, al servizio del cliente; a lei spetta il merito fisico di conquistare la meta, ma è il cliente che ha il riconoscimento di avere ideato l'impresa.
Si è parlato di turismo inglese: i primi esploratori-scalatori delle Alpi furono infatti britannici: Douglas Freshfield, il reverendo William Augustus Brevoort Coolidge, Edward Whymper, Francis Fox Tuckett, John Tyndall, Horace Walker. In quegli anni la Gran Bretagna era il paese economicamente più evoluto e politicamente più potente. La ricchezza era un elemento indispensabile per il primo alpinismo: occorrevano soldi e soprattutto tanto tempo libero per poter scalare nelle Alpi. Alla fine del Settecento i viaggi erano ancora molto lenti, ma le cose erano destinate rapidamente a cambiare: le ferrovie schiusero nuove possibilità, come pure le nuove e ardite strade di montagna. Proprio grazie alla strada delle Dolomiti l'alpinismo occidentale si avvicinò anche alle Alpi orientali, frequentate, fin dalla metà dell'Ottocento, quasi esclusivamente dagli appassionati di Italia, Austria e Germania, paesi in cui la pratica dell'alpinismo si diffuse più liberamente che in Gran Bretagna. Qui nel 1857 era nato il primo Club alpino, estremamente esclusivo e selettivo. Fu seguito nel 1862 da quello austriaco e, l'anno seguente, dallo svizzero e dall'italiano (su spinta di Quintino Sella, ministro delle Finanze del Regno e scalatore del Monviso).
L'alpinismo è divenuto attività accessibile a tutti solamente dopo la Seconda guerra mondiale; all'inizio era un divertimento solo per pochi e ricchi turisti, mentre rappresentava un lavoro, faticoso e rischioso, per valligiani in cerca di una vita meno disagiata. In questo periodo si misero tuttavia in luce alcune grandi guide: prima Jacques Balmat, Michel Croz e Jean-Antoine Carrel, successivamente Michel Innerkofler e Alexander Burgener. Senza la loro opera né il Monte Bianco, né il Cervino, né la Cima Grande di Lavaredo sarebbero stati conquistati. Fu necessaria però una spinta creativa da parte di uomini culturalmente preparati e di condizione agiata come Felice Giordano, John Ball, Paul Grohmann, Quintino Sella, i già citati Whymper, Walker, Coolidge, che funsero da propulsori alla conquista delle maggiori vette delle Alpi.
Il primo sintomo di cambiamento di questo stato di cose fu la ribellione di Carrel al dominio creativo di Whymper durante la conquista del Cervino. Il 14 luglio 1865 Whymper raggiunse comunque la cima, dal versante svizzero; Carrel vi riuscì solo tre giorni dopo, dal versante italiano, sul quale si era a lungo cimentato con il signore inglese prima di decidere di dividersi da lui, costringendolo a improvvisare una nuova soluzione, vittoriosa ma destinata a concludersi nella prima grande e famosa tragedia della storia dell'alpinismo.
di Alessandro Filippini, Alessandro Gogna
Fra la salita del Monte Bianco (1786) e quella del Cervino (1865) e, poco dopo, delle Grandes Jorasses (1868), si pone la conquista di tutte le vette più alte delle Alpi, ma bisogna distinguere due fasi. Per un lungo periodo la meta prediletta restò la montagna più alta, anche se era già partito il tentativo di arrivare in cima al Monte Rosa (impresa conclusa soltanto nel 1855). Paradossalmente, il Bianco era anche la vetta più facile da raggiungere, perché le guide, che si erano consorziate per trarre giovamento da quella costosa passione alla moda, ormai lo conoscevano bene. Esse portavano i clienti in vetta proprio come oggi fanno le spedizioni commerciali e gli sherpa sull'Everest (basta avere i soldi necessari). È vero che qualcuno si spingeva già anche su altre catene (Ramond de Carbonnières nel 1787 salì il Mont Perdu, ritenendolo il più alto dei Pirenei), ma l'era della conquista, racchiusa in poco più di un decennio intorno alla metà dell'Ottocento, riguardò essenzialmente i 'quattromila' delle Alpi occidentali. Ai primi appassionati le Dolomiti, montagne spesso isolate, apparivano 'piccole' rispetto al massiccio del Bianco. Inoltre, per tutto il periodo estivo sono spoglie di neve, mentre in quegli inizi la salita era effettuata soprattutto su neve e ghiaccio (il gran lavoro era 'gradinare', cioè ricavare i gradini per avanzare, usando asce o le prime piccozze). Le Dolomiti richiedono un impegno e uno stile di salita completamente diversi, il che porterà allo sviluppo parallelo di una scuola differente.
Prima si compì la salita delle montagne più alte, poi di tutte quelle ancora vergini, anche le minori (come le Aiguilles de Chamonix); in seguito, esaurite queste (sulle Alpi occidentali con la Meije, nel 1877, fra le vette principali, con l'Aiguille Blanche de Peuterey, nel 1885, fra le cime secondarie; sulle Alpi orientali con il Campanile Basso, nel Brenta, soltanto nel 1899), si puntò su nuove montagne vergini in altre catene e in altri continenti, oppure si cercarono nuove vie di salita lungo speroni e creste. Significativamente, lo stesso giorno della prima scalata del Cervino, quattro inglesi, Adolphus W. Moore, Francis e Horace Walker e George S. Mathews, con guide i fratelli Jakob e Melchior Anderegg, raggiunsero la vetta del Monte Bianco per una nuova via, sul versante della Brenva: lo Sperone Moore.
La ricerca di nuove vie si svolgeva ancora nell'ambito di quelle più facili sui vari versanti. Solo successivamente si passò a una ricerca più raffinata, con maggiore attenzione all'eleganza della via, e si arrivò fino alle pareti più difficili. Questa era si chiuse, per quanto riguarda le Alpi, nell'intervallo fra le due guerre mondiali con le tre grandi vie Nord: Cervino (1931), Grandes Jorasses ed Eiger (1938). Intanto erano cominciate le ascensioni solitarie, quelle invernali (o entrambe le cose insieme) e quelle sempre più dirette; in seguito si cercarono maggiore velocità e i concatenamenti. Lo stesso percorso sarebbe stato poi ripetuto sulle catene più lontane e sulle montagne più alte. Ogni volta tutti i problemi del momento avrebbero trovato soluzione. Già nel 1875 Leslie Stephen si lamentava che restavano poche imprese da compiere, ma l'alpinismo è sopravvissuto a questa constatazione, perché c'è sempre stato qualcuno capace di individuare nuovi sviluppi. La ricerca esasperata della direttissima a un certo punto ha spinto al parossismo la progressione in artificiale, che rendeva tutto possibile. Poi si è fatta marcia indietro con un ritorno alle origini, alla salita pulita; infine è venuta l'iperspecializzazione.
Alla fine del 19° secolo, l'impostazione romantica prevalente esaltò nella scalata delle montagne l'aspetto dell'individualismo, dell'eroismo e del mito, intendendola come possibilità dell'uomo di elevarsi sopra la sua normale condizione. Conclusa la fase della conquista, lo scopo non appariva più solo raggiungere la vetta, ma realizzare l'impresa per una via nuova e più difficile. Paul Grohmann, grande scalatore e valorizzatore delle Dolomiti, fu la figura più illustre di questo passaggio alla nuova concezione dell'alpinismo, nella quale si evidenziava un maggiore desiderio di lotta e di vittoria su sé stessi, piuttosto che sulle naturali difese della montagna. Si svilupparono così tre correnti: alpinismo senza guide, alpinismo eroico e alpinismo sportivo, distinzione peraltro soltanto esemplificativa, in quanto se le tre correnti furono talvolta indipendenti, molto spesso si fusero armonicamente.
L'affermazione e la diffusione dell'alpinismo romantico furono graduali. Il distacco dalla guida (la prima salita del Bianco senza guide è del 1855, a opera dei britannici C. e Y. Granville-Smith, Edward S. Kennedy, Charles Hudson e Charles Ainsle) e quindi dalla tradizione fu la manifestazione più evidente del passaggio all'individualità. Questa corrente non sorgeva da un contrasto con le guide, con le quali, al contrario, sussisteva una buona convivenza, tant'è che in quel periodo furono realizzate notevoli imprese con cordate composte da 'senza guida' e guide, in cui anche queste ultime assunsero un ruolo ideativo. È l'epoca dei fratelli Gugliermina, di Luigi Vaccarone, di Cesare Tomè in Italia, di Emil Zsigmondy (1700 ascensioni, 40 vette oltre i 4000 m, scalò anche in Caucaso e in Africa prima di morire sulla parete Sud della Meije) e di Ludwig Purtscheller tra gli stranieri.
La figura del bavarese Georg Winkler, una meteora sconvolgente (morì a 17 anni durante una salita al Weisshorn), incarna fedelmente l'ideale eroico, molto più sentito nella cultura tedesca che non, per es., nel romanticismo inglese o italiano. Esasperazione dell'individualismo, sfida cosciente alla morte, desiderio di autosuperamento: tutto questo, nel 1887, spinse Winkler, da solo, sulla Torre del Vajolet che oggi porta il suo nome. Fu il precursore dell'alpinismo in solitario (che avrà grandissimi interpreti in Preuss, Comici, Maestri, Bonatti, Messner, Casarotto, Česen, Destivelle) e su difficoltà fino al IV grado. Sulla Torre Winkler procedette lungo una fessura, incastrato dentro con una mano, un braccio, le spalle, in completa arrampicata libera: nettamente in anticipo sui tempi.
L'atteggiamento più positivo della fase romantica è quello di A. Frederick Mummery, innovatore dell'alpinismo inglese ed europeo. Anche se spinto da desiderio di avventura e di lotta e capace di imprese di altissimo livello, Mummery, dotato di notevole humour, sdrammatizzò gli aspetti dell'eroismo spesso 'forzati' da altri personaggi; fra l'altro pubblicò un libro dissacrante, in cui previde l'inevitabile declassamento delle sue più dure scalate a "passeggiate per signore". Con quasi un secolo di anticipo testimoniò così l'assurdità di una scala dei gradi di difficoltà 'statica', ovvero chiusa in alto. La scala ideata negli anni Venti del 20° secolo da Willy Welzenbach andava infatti dal I al VI e soltanto dal 1978 fu ufficialmente riconosciuto il VII. Mummery aveva capito che quello che è oggi impossibile diverrà domani, se non facile, almeno realizzabile e dopodomani di impegno relativo. Anche il solo aspetto psicologico ha grande importanza: chi arriva dopo, usufruisce del bagaglio di esperienze già acquisite dai suoi predecessori. In più bisogna considerare l'importantissima evoluzione dei mezzi: sul Bianco, Balmat e Paccard andarono con un lungo bastone e una coperta per il bivacco; chi oserebbe oggi una sfida simile? Dalle loro primitive scarpe chiodate si è passati agli scarponi o alle pedule con suola in feltro (utilizzate sulla roccia nelle Dolomiti) fino alle suole in gomma, ottime sia sulla neve sia sulla roccia (le famose Vibram, dalle iniziali di Vitale Bramani, che le brevettò negli anni Trenta, in uso tuttora) e alle 'ballerine' da arrampicata libera. Per il ghiaccio nacquero i ramponi, prima per salita laterale (Eckenstein, verso il 1910), poi con le punte anteriori per salita frontale (Laurent Grivel negli anni Trenta), usati insieme alle piccozze moderne, leggere e versatili, ben più pratiche dei primi Alpenstock. Molto importante è stata anche l'evoluzione del vestiario, delle tende, del necessario per l'alimentazione (agli inizi, sul Bianco, per cucinare, si portava la legna da ardere, con largo uso di portatori), dei chiodi per la sicurezza, poi impiegati anche per la progressione, e delle corde in nylon che hanno sostituito quelle pesantissime in canapa, praticamente inutilizzabili con la pioggia e il ghiaccio.
Dopo vent'anni di sodalizio con la guida Burgener, Mummery passò a scalare senza guida, aprendo però una strada più percorribile di quella esasperata di Winkler. All'inizio del 20° secolo si costituirono i principali club alpini accademici, cioè i club degli alpinisti senza guida. Ma mentre l'alpinismo 'cittadino' cominciava a nascere, alcune guide realizzarono le grandi conquiste del IV e del V grado: tra gli italiani Antonio Dimai, Angelo Dibona, Tita Piaz, Enrico e Adolfo Rey.
Intanto si andava affermando anche l'alpinismo invernale che, dopo i precursori (Friedrich Simony sul Dachstein nel 1847, Franz Francisci sul Klein Glockner nel 1853), vide una donna realizzare la prima scalata invernale del Monte Bianco: Mary Isabel Straton nel 1876. L'accompagnarono il grande Jean Charlet (che diventò poi suo marito), Sylvain Couttet e il portatore Michel Balmat.
Le due più importanti figure dell'alpinismo invernale fino alla Prima guerra mondiale furono Hans Dülfer e Paul Preuss. Il primo continuò l'alpinismo teso all'estremo iniziato da Mummery e praticò una notevole attività nelle Dolomiti, introducendo tecniche sempre più evolute: infatti soltanto dopo di lui si adoperarono correttamente corda, chiodi e moschettoni, la cui adozione fu decisiva per il progresso nella scala delle difficoltà e consentì anche la discesa in corda doppia, che, garantendo una via di fuga veloce, permette di rischiare di più.
Preuss proseguì invece sulla linea di Winkler e portò l'alpinismo al confine estremo dell'eroismo ascetico: fu il 'cavaliere della montagna' che, disprezzando ogni forma di sicurezza con la corda, inseguiva un ideale di perfezione utopica e di autosuperamento. Agli inizi del Novecento, quando si diffuse a partire da Davos l'uso delle pelli di foca per la salita, Preuss, con William Paulcke e Marcel Kurz, fu anche fra i primi a praticare lo sci-alpinismo. Nel 1913 non fece ritorno da una scalata solitaria nelle Alpi austriache; ma ormai aveva già codificato l'alpinismo più moderno, quello che chiede il massimo rispetto per la montagna, sulla scia di Mummery, che nel 1880, sul Dente del Gigante, aveva giudicato la grande lastra di granito che oggi è chiamata la Plaque Burgener impossible by fair means ("impossibile con mezzi leali"), rinunciando a proseguire. Due anni dopo, i Sella, invece, passarono oltre grazie a una pertica, molti chiodi e addirittura facendo scavare appoggi nella roccia.
di Alessandro Filippini, Alessandro Gogna
La Prima guerra mondiale chiuse simbolicamente un'epoca, ma le radici idealiste erano ben profonde e sopravvissero influenzando l'alpinismo del VI grado. I mutamenti politici ed economici avvenuti in Italia e in Germania dopo la guerra e il diffuso pannazionalismo favorirono un allargamento della pratica sportiva, e di conseguenza anche dell'alpinismo, a tutti gli strati sociali. In questo periodo si annullò la distinzione tra guide e dilettanti perché iniziò il fenomeno dei 'cittadini' che intraprendevano l'attività di guida: ne è un esempio tipico Emilio Comici, noto anche per avere messo a punto la tecnica della progressione in artificiale, in cui il chiodo non serve più soltanto come sicurezza. Tutto ciò portò a un grandissimo balzo in avanti dell'alpinismo estremo e sportivo, con le prime salite che, per indubbia maggiore difficoltà, furono definite di VI grado. Non a caso i tedeschi, e subito dopo gli italiani, primeggiarono in questa battaglia, che si servì dell'individuo per affermare una presunta superiorità nazionale o razziale. Si registrò invece, in questi anni, un ritrarsi dalle Alpi da parte degli inglesi, le cui aspirazioni si rivolgevano ora soprattutto all'Himalaya e in particolare all'Everest. Fece eccezione Thomas Graham Brown, che in tre anni condusse un'accanita e minuziosa esplorazione del più temibile e grandioso versante del Monte Bianco, la Brenva. Di lingua tedesca erano invece Roland Rossi, Otto Herzog, Hans Steger, Emil Solleder, Fritz Wiessner, Leo Rittler, i fratelli Toni e Franz Schmid, Willy Welzenbach, Walter Stösser e tanti altri; in Italia ci furono Renzo Videsott, Emilio Comici, Luigi Micheluzzi, Celso Gilberti. L'alpinismo francese seguì una strada autonoma e, dopo un inizio incerto, assunse una propria personalità: Armand Charlet e Michel Fourastier, guide l'uno nel Bianco e l'altro nel Delfinato, contribuirono a dare grande rilievo allo sviluppo di una scuola di alpinismo priva di complessi e di deformazioni ideologiche.
Si delineavano ormai gli ultimi problemi: in Dolomiti la Cima Ovest di Lavaredo, nelle Alpi Occidentali la parete Nord delle Grandes Jorasses e, su tutte, la parete Nord dell'Eiger. Si facevano avanti nuovi nomi. Ricordiamo, tra gli italiani, Attilio Tissi, Alvise Andrich, Raffaele Carlesso, Giovan Battista Vinatzer, Gino Soldà, Riccardo Cassin, Giusto Gervasutti, Gabriele Boccalatte, Vittorio Ratti, Mario Dell'Oro, Nino Oppio, Ercole Esposito, Bruno Detassis, Ettore Castiglioni; di lingua tedesca Mathias Rebitsch, Peter Aschenbrenner, Anderl Heckmair, Fritz Kasparek, Rudolf Peters, Ludwig Steinauer; di lingua francese Raymond Lambert, Pierre Allain, Lucien Devies. L'italiano Domenico Rudatis fu il massimo teorico dell'alpinismo inteso esclusivamente come VI grado, identificazione che porta al prevalere del fattore atletico e ultraindividualistico, con conseguenze positive per i risultati immediati ma negative in prospettiva.
L'epopea si chiuse con la conquista, nel 1938, delle pareti Nord delle Grandes Jorasses e dell'Eiger. La Nord delle Grandes Jorasses era già stata teatro di una corsa per la prima salita dello Sperone Croz da parte di cordate austriache, italiane, francesi e svizzere; il successo, nel 1935, era stato degli austriaci Rudolf Peters e Martin Meier. Tre anni dopo, sullo Sperone Walker, furono invece cordate italiane e francesi a contendersi la vittoria, che arrise a Cassin (che già nel 1935 con Ratti aveva completato la Nord della Cima Ovest di Lavaredo) e compagni. Cassin proveniva dalla scuola dolomitica. In possesso di una tecnica eccezionale e di un coraggio leggendario, riuscì ad aver ragione dello Sperone Walker senza mai averlo visto, senza mai aver neppure dato un'occhiata al gruppo del Monte Bianco. Salì insieme con Gino Esposito e Ugo Tizzoni a piedi da Courmayeur al rifugio Torino, discese il ghiacciaio fino al rifugio del Requin e lì dovettere chiedere al custode dove fossero le Grandes Jorasses.
Era quello il tempo delle polemiche tra 'occidentalisti' e 'orientalisti': i primi praticavano l'alpinismo su montagne assai più alte, coperte di neve e di ghiaccio, dalle pareti raramente verticali e strapiombanti; i secondi invece arrampicavano sulle Dolomiti, con pareti impressionanti, assai più esposte, spesso a strapiombo. Gli occidentalisti definivano con disprezzo le pareti dolomitiche 'paracarri', in quanto più facili da raggiungere all'attacco e soprattutto più semplici da abbandonare in caso di condizioni atmosferiche negative, tali da obbligare alla ritirata, e chiamavano 'acrobatica' (naturalmente in senso spregiativo) l'arrampicata richiesta dalle difficoltà di queste pareti. Invece tale arrampicata era estremamente moderna. Preuss, Dibona, Piaz portarono la libera a raffinatezze sempre maggiori nella scala delle difficoltà, anche prima che l'uso dei chiodi e dei moschettoni fosse pienamente sviluppato dai tedeschi, già negli anni Venti, mentre sul granito occidentale si affermò solamente nel decennio successivo.
Sull'Eiger, dopo una serie impressionante di disgrazie mortali, i tentativi si succedettero convulsi, quasi all'insegna del fanatismo e dell'autodistruzione, prima del successo di Anderl Heckmair, Fritz Kasparek, Ludwig Vörg e Heinrich Harrer. Una vera epopea, cui non fu estranea l'ideologia nazista.
di Alessandro Filippini, Alessandro Gogna
Dopo la Seconda guerra mondiale, subentrò nell'alpinismo tedesco e italiano un periodo di stasi, forse dovuto anche a una sensazione di vuoto, dopo le tragiche morti di Gervasutti, Boccalatte, Comici, Esposito, avvenute in montagna, e di Ratti, Castiglioni e Andrich, caduti in guerra.
La ricerca di nuove forme di espressione in molti casi trovò sfogo nel tecnicismo e, negli anni Sessanta, nell'utilizzo esasperato della tecnica di progressione in artificiale. Grazie all'introduzione dei nuovi chiodi a pressione, non era più necessario limitarsi a sfruttare le fessure della roccia. Dopo la ricerca delle vie più difficili sulle pareti più grandi e pericolose, si arrivò al superamento della diretta, con la ricerca della direttissima. Le salite effettuate con tecnica artificiale esasperata, pur suscitando grande impressione nel pubblico, in realtà riducevano il margine di impossibile che deve essere sempre presente in ogni vera avventura. Un esempio fu la salita compiuta nel gennaio 1963 dai sassoni Peter Siegert, Rainer Kauschke e Gerd Uhner sulla direttissima della Nord della Cima Grande di Lavaredo: 17 giorni di parete nel cuore dell'inverno.
Fondamentale nell'evoluzione dei materiali fu l'apporto dei prodotti specifici sviluppati negli anni Sessanta negli Stati Uniti sulle big walls californiane (El Capitán soprattutto) e sperimentati sul campo da Royal Robbins, Gary Hemming, Tom Frost. Chiodi più leggeri, resistenti, di ogni foggia, maniglie jumar per la risalita sulle corde fisse e, appunto, un modo diverso di affrontare le pareti, anche in più riprese, attrezzandole, come oggi si fa normalmente in Himalaya. La certezza di avere a disposizione chiodi assolutamente affidabili permise di salire nuovi gradini nella scala delle difficoltà, fino a far nascere una nuova disciplina: l'arrampicata sportiva. Ma questo poté avvenire soltanto dopo essere usciti dal vicolo cieco dell'artificiale, rinunciando a utilizzare i chiodi per la progressione.
Negli anni del dopoguerra fu l'alpinismo francese a vivere il suo periodo di splendore, protagonisti Gaston Rébuffat, Edouard Frendo, Lionel Terray e Louis Lachenal, che formeranno poi la squadra della prima spedizione vittoriosa su un 'ottomila', quella guidata da Maurice Herzog nel 1950 sull'Annapurna. Con umiltà e semplicità essi affrontarono le prime ripetizioni dei grandi itinerari d'anteguerra e con rigore sistematico risolsero, nel gruppo del Bianco, tutti i maggiori problemi che la tecnica del momento permetteva di affrontare. Su questa linea agirono anche l'austriaco Hermann Buhl e, nelle Dolomiti, Erich Abram e Otto Eisenstecken.
Tuttavia la componente romantica dell'alpinismo era ancora molto radicata e portava inevitabilmente a mitizzare i migliori alpinisti. In quel periodo un ruolo guida ebbero professionisti come Walter Bonatti, che può forse essere definito l'ultimo rappresentante dell'alpinismo classico, Cesare Maestri, Carlo Mauri e René Desmaison. Il professionista cerca di ottenere un utile dalla sua attività, imponendosi all'attenzione del grosso pubblico ma nello stesso tempo lo tiene lontano dalla comprensione di questo sport, inteso dai più come riservato a pochissimi uomini eccezionalmente dotati. Il mito di Bonatti invase tutto il mondo e rimase intatto anche dopo il suo abbandono, avvenuto nel 1965, dopo la realizzazione, invernale e solitaria, di una via nuova sulla Nord del Cervino. Degni successori di Bonatti sono stati Enzo Cozzolino, Yannick Seigneur, Alessandro Gogna, Reinhold Messner, campioni tornati all'arrampicata libera, pur adattata ai tempi moderni, grandi interpreti dell'alpinismo in solitario e delle grandi prime invernali insieme a Toni Hiebeler, Claude Jager, Renato Casarotto e Ivan Ghirardini, il quale, in un solo inverno, salì le tre grandi pareti Nord dell'anteguerra.
Intanto la conquista continuava sulle grandi montagne del mondo. Il Caucaso aveva visto violare le sue vette principali già nell'Ottocento, poi era stata la volta del Sudamerica e dell'Africa. Tutti i continenti saranno via via toccati: perfino l'Antartide quando nascerà, dopo quella agli 'ottomila', anche la cosiddetta corsa alle seven summits. Tra le cime più alte, nel dopoguerra restavano da scalare le 14 montagne dell'Himalaya e del Karakorum che superano gli 8000 metri e che negli anni Venti e Trenta avevano respinto ogni assalto. I problemi logistici di queste salite imponevano una grande organizzazione: dai portatori ai campi alti, alle bombole per l'ossigeno. In queste imprese era molto più difficile l'espressione del singolo individuo o della singola cordata. All'inizio prevalse lo sforzo collettivo. Ma l'uomo era già pronto al successo su quelle quote proibitive fin dal tempo di Andrew Irvine e George Mallory, morti sull'Everest, nel 1924, oltre gli 8500 m. Bastarono attrezzature e materiali sempre migliori, un'acclimatazione più razionale e una logistica più vantaggiosa, tendente a far arrivare portatori e sherpa il più in alto possibile. Dopo l'Annapurna, nel 1953 furono scalati l'Everest, raggiunto da una spedizione britannica, e il Nanga Parbat, conquistato da un'austriaca. Inglesi da una parte e austriaci dall'altra avevano lasciato molti morti negli sforzi per piegare questi due 'ottomila'. Il K2 è stata invece la montagna degli italiani: le prime esplorazioni approfondite di questa bellissima vetta del Karakorum, la seconda del mondo, risalgono al 1909, con una spedizione del Duca degli Abruzzi. Tutti gli altri 'ottomila' furono scalati entro il 1964 e anche in Himalaya si passò poi a vie nuove e più ardite, alle pareti più difficili. Si impose allora all'attenzione mondiale Reinhold Messner, un uomo con doti fisiche e psichiche veramente eccezionali, che è riuscito a conseguire grandi successi su ogni terreno. Queste caratteristiche, unite all'esigenza della società dei consumi di creare il grande mito, lo hanno portato a realizzare una serie di imprese grandiose che hanno fatto di lui il 're degli ottomila', il primo a collezionarli tutti. Eppure prima di lui la corsa agli 'ottomila' non era immaginabile. Ma, dopo che ebbe dimostrato che anche su quelle montagne si poteva procedere in 'stile alpino', si sono moltiplicate le spedizioni, anche molto piccole, e quindi il numero di alpinisti con almeno un'esperienza extraeuropea.
di Alessandro Filippini, Alessandro Gogna
Oggi si sono aggiunte le spettacolari imprese compiute da giovani scalatori nelle nuove specialità: i concatenamenti, la velocità, lo sci estremo.
Nei concatenamenti è da citare il belga Claude Barbier che già nel 1961, in un solo giorno, salì in solitario la via Cassin alla Cima Ovest di Lavaredo, la Comici alla Cima Grande, la Preuss sulla Cima Piccolissima, la Dülfer sulla Punta Frida e la Innerkofler sulla Cima Piccola. Nella velocità si è imposto Christophe Profit, che ha salito nel giro di 24 ore le pareti Nord del Cervino, dell'Eiger e delle Grandes Jorasses (ovviamente con l'uso dell'elicottero per le trasferte). Lo sci estremo fu inaugurato da Sylvain Saudan tra il 1967 e il 1968 con le discese del Couloir Spencer all'Aiguille de Blaitière, del Couloir Gervasutti al Mont Blanc du Tacul e del Couloir Whymper all'Aiguille Verte. In seguito si sono messi in luce l'italiano Toni Valeruz e il francese Jean-Marc Boivin, che nel 1988 scese con il parapendio dall'Everest. Lo sci estremo sulla vetta più alta ha visto la discesa integrale sugli sci dello sloveno Davo Karničar (2001) e con lo snowboard del francese Marc Siffredi (2002).
A questo contesto bisogna affiancare l'arrampicata sportiva, figlia dell'alpinismo che, quanto a numero di praticanti, contende ormai il primato alla disciplina di derivazione e propone nuove stelle: Patrick Bérhault, Patrick Edlinger, François Legrand e Catherine Destivelle (Francia), Lynn Hill e Ron Kauk (USA), Luca Zardini, Cristian Brenna e Luca Gipponi (Italia). Un gruppo ristretto di alpinisti porta poi anche sulle grandi pareti delle Alpi le massime difficoltà superate sulle falesie chiodate. Tra questi gli italiani Heinz Mariacher, Manolo, Maurizio Giordani e Roland Mittersteiner, impegnati in particolare sulla 'regina' delle Dolomiti, la Sud della Marmolada. Grazie all'allenamento in falesia, la preparazione tecnica di questi alpinisti cresce al punto di modificare la filosofia stessa della scalata sulle grandi pareti: le vie sono salite in libera, solo con l'aiuto di protezioni veloci. Ormai fa parte del gioco anche la caduta, che nell'alpinismo classico era un rischio da evitare. Così la scala delle difficoltà si alza oltre il IX grado, mentre il campo di gioco si allarga: le spedizioni leggere, composte di norma da due o tre alpinisti, portano lo stile di salita detto big wall (nato negli anni Sessanta su El Capitán, la big wall di granito nel cuore del parco nazionale di Yosemite, in California) anche su pareti difficili da raggiungere, in prossimità di ghiacciai o su ghiacciai, con le più rigide condizioni climatiche: dalla Patagonia all'Artico canadese e all'Alasca, dall'Isola di Baffin al Garhwal indiano. Tra i più attivi interpreti di questo tipo di alpinismo ricordiamo Jay Smith, Alex Lowe, John Middendorf e Conrad Anker (USA), Michel Piola e Xaver Bongard (Svizzera), Mick Fowler e Celia Bull (Gran Bretagna), Francek 'Franz' Knez, Silvo Karo e Janez Jeglič (Slovenia), Emmanuel Pellisier (Francia), Silvia Vidal e Jon Lazkano (Spagna), Athol Whymp (Nuova Zelanda), Andrew Lindblade (Australia), Valery Babanov (Russia), Kurt Albert, Wolfgang Güllich, Stefan Glowacz, i fratelli Alexander e Thomas Huber (Germania) e, tra gli italiani, Helmut Gargitter, Christoph Hainz, Fabio Leoni, Mario Manica e Paolo Vitali. Intanto con la piolet traction, che vede Gian Carlo Grassi e Patrick Gabarrou fra i suoi massimi interpreti, si possono anche sfidare goulottes ghiacciati di pendenze incredibili o perfino salire la verticale delle cascate ghiacciate.
di Linda Cottino
Si è soliti far risalire al 14 luglio 1808 il primo atto alpinistico compiuto da una donna. Ne fu protagonista Marie Paradis, giovane cameriera francese intenzionata a salire il Monte Bianco per ricavarne onori e gloria da sfruttare per l'apertura di una locanda a Chamonix. La previsione si rivelò giusta e Paradis divenne 'Marie del Monte Bianco'. Ma la prima vera alpinista fu in realtà Henriette d'Angeville, che con sei guide e sei portatori salì il Monte Bianco, nel settembre del 1838, interamente con i propri mezzi.
Intorno alla metà dell'Ottocento, nell'epoca d'oro della conquista delle cime, anche le donne, in compagnia di padri, fratelli e mariti, iniziarono a frequentare le montagne. Tra le pioniere si ricordano le inglesi Anne Lister, che sui Pirenei salì il Mont Perdu (1830) e il Vignemale (1838), Mrs Hamilton, prima britannica sul Monte Bianco (1854) e Mrs Cole, che dal giro del Monte Rosa trasse A Lady's tour around Monte Rosa (1859).
Non stupisce che, negli anni in cui gli alpinisti inglesi si aggiudicavano la maggior parte di prime salite sulle cime più alte delle Alpi, fossero le donne britanniche a tenere la scena. La prima a praticare l'alpinismo con regolarità fu Lucy Walker, che con la guida Melchior Anderegg compì 98 ascensioni in ventun anni, tra cui il Monte Rosa (1862), il Finsteraarhorn, il Weisshorn e il Lyskamm, e fu soprattutto la prima donna a scalare il Cervino (1871). Anche le sorelle Anna ed Ellen Pigeon potevano vantare un bel carnet di ascensioni ‒ 73 cime e 72 colli attraversati in sette anni ‒ tra cui la prima femminile della traversata Breuil-Zermatt (1873); traversata che in senso inverso, salendo per la cresta dell'Hörnli e scendendo da quella italiana, compì in prima femminile (1871) Meta Brevoort, zia di William Augustus Brevoort Coolidge. La signora americana, che aveva salito l'anno prima il Pic Central della Meije, compì in successione nel gennaio 1874 le salite del Wetterhorn e della Jungfrau con il nipote e con Christian Almer.
In questo scorcio di fine Ottocento non si possono ignorare le imprese di Kate Richardson: 116 ascensioni in undici anni, di cui 16 prime assolute e 14 prime femminili. Realizzò, con Emile Rey e Jean-Baptiste Bich, la prima traversata dell'Aiguille de Bionnassay dal Col du Miage per la Cresta Nord e la Cresta Nordest fino al Dôme de Goûter (1880). Nel 1882 rimase in quota un'intera settimana scalando in successione lo Zinalrothorn, il Weisshorn, il Cervino e il Monte Rosa. Dall'incontro con Mary Paillon nacque la prima cordata di sole donne: insieme compirono la traversata della catena di Belledonne nell'inverno del 1890-1891, la prima femminile dell'Aiguille Sud d'Arves (1891), la prima femminile della Est della Meije (1893) e salirono il Pelvoux (1897).
Un altro grande personaggio fu Elizabeth ('Lizzie') Aubrey Le Blond (1861-1934), fondatrice nel 1907 del Ladies' alpine club. Appassionata di alpinismo invernale, fu la prima donna che in inverno salì i monti Disgrazia, Piz Palù, Piz Sella e Piz Zupò in Engadina.
Negli anni Settanta del 19° secolo in Friuli formarono una cordata femminile assai efficace le tre sorelle Angela, Annina e Minetta Grassi. Le ultime due furono protagoniste di una prima salita al Monte Sernio che suscitò le reazioni indispettite dei membri del club alpinistico locale (1879).
A cavallo tra il 19° e il 20° secolo si segnalano due figure di rilievo: Gertrude Bell e Fanny Bullock Workman. La prima compì la traversata della Meije (1899), salì in prima ascensione la parete Nordest del Finsteraarhorn (1902), Lyskamm, Monte Rosa e Dent Blanche (1904). L'americana Bullock Workman fu un'audace esploratrice, in coppia con il marito. Tra il 1898 e il 1912 si recò otto volte in Karakorum, dove scalò il Pyramid Peak (1903), e in Kashmir, dove con Matthias Zurbriggen salì il Pinnacle Peak (1906).
Agli inizi del 20° secolo furono istituiti i più importanti club alpinistici femminili. Nel 1920 fu la volta del Pinnacle Club, fondato da Pat Kelly ed Eleanor ('Len') Winthrop Young per consentire alle alpiniste (inglesi) di allenarsi da capocordata: fu anche il primo gruppo femminile a possedere un proprio rifugio. Dagli anni Venti del 20° secolo le alpiniste iniziarono a scalare in cordate di sole donne. Autrice di questa piccola rivoluzione fu l'americana Miriam O'Brien che, dopo aver salito tutte le vie classiche nelle Alpi occidentali e aver effettuato un'intensa attività in Dolomiti con i fratelli Dimai (la via Miriam alle Cinque Torri è dedicata al lei), il 14 agosto 1929 compì con Jo Marples la prima ascensione senza uomini dell'Aiguille du Peigne. Tre giorni dopo con Alice Damesme realizzò la prima traversata femminile del Grépon e, sempre con Damesme, salì il Cervino, il 13 agosto 1932.
Tre valide italiane calcarono le scene alpinistiche tra le due guerre: Mary Varale, abile dolomitista che arrampicò con Tita Piaz, Emilio Comici, Riccardo Cassin e fu con loro in alcune prime di rilievo, tra cui la salita dello Spigolo Giallo alla Cima Piccola di Lavaredo con Comici e Renato Zanutti (1933) e della Sudovest del Cimon de la Pala con Alvise Andrich e Furio Bianchet (1934); Paula Wiesinger, campionessa italiana di sci tra il 1931 e il 1936, che con il marito Hans Steger svolse un'attività ad altissimo livello aprendo numerose vie in Dolomiti (Torre Winkler, Est del Catinaccio, Spigolo Sud di Punta Emma); Ninì Pietrasanta, protagonista di salite di rilievo con il marito Gabriele Boccalatte e autrice di numerose prime salite tra cui la Nord del Corno Bianco (1931), la Ovest dell'Aiguille Noire (1935), la Sudovest dell'Aiguille Blanche.
Nel secondo dopoguerra, avendo iniziato già negli anni Trenta, indubbiamente la più forte della sua generazione fu la ginevrina Loulou Boulaz. Il suo carnet è fittissimo: seconda ripetizione (e prima femminile) delle Grandes Jorasses per lo Sperone Centrale (1935), seconda ripetizione e prima femminile della parete Nord al Petit Dru. In cordata con Lulu Durand compì alcune prime femminili (Dent du Requin nel 1932, Dente del Gigante nel 1933); nel 1936 fece un primo tentativo all'ancora invitta parete Nord dell'Eiger (ritenterà nel 1942, nel 1958 e nel 1962) e dal 1936 al 1941 fece parte della squadra elvetica di sci. Nel dopoguerra compì la prima scalata femminile dello Sperone Walker alle Grandes Jorasses (1952) e nel 1959 salì un 'ottomila', il Cho Oyu (con Jeanne Franco).
Tra gli anni Cinquanta e Settanta si distinsero inoltre l'americana Elizabeth Cowles (unica donna della spedizione Houston all'Everest nel 1950), l'inglese Gwen Moffat, prima guida alpina donna, le tedesche Daisy Voog, prima a salire la parete Nord dell'Eiger (1964), e Bärbel Schmidt, con un'intensa attività in Dolomiti e nel Kaisergebirge, la francese Claude Kogan, tra le prime a praticare un alpinismo extraeuropeo e organizzatrice, tra l'altro, della spedizione femminile internazionale al Cho Oyu nel 1959, dove perse la vita. E ancora le forti francesi Simone Badier (Sud del Fou e Pilone Centrale del Frêney nel 1971), Isabelle Agresti, Christine de Colombel (seconda donna a salire la parete Nord dell'Eiger nel 1967).
In Italia Silvia Metzeltin ha dedicato la vita alle montagne sviluppando ‒ di solito in coppia con Gino Buscaini ‒ un alpinismo a tutto campo, promuovendone la divulgazione e impegnandosi a fondo per il riconoscimento delle donne nelle strutture del CAI (insieme ad Adriana Valdo è stata la prima donna a far parte del Club alpino accademico). Ha compiuto più di 800 ascensioni, molte delle quali a comando alternato, da capocordata o in cordata femminile. Altra figura di rilievo è Tona Sironi Diemberger, che con la Metzeltin ha realizzato alcune salite (Spigolo del Velo) e ha poi privilegiato l'alpinismo extraeuropeo (Kenya, Hindukush, Terra di Baffin).
Altri due nomi sono noti in particolare per i successi ottenuti alle competizioni di arrampicata sportiva, quello di Nadia Dimai, guida alpina cortinese, e di Luisa Iovane, autrice anche di numerose vie nuove di alta difficoltà con il compagno Heinz Mariacher.
Dell'ultima generazione di italiane fanno parte le arrampicatrici sportive Giulia Giammarco, Stella Marchisio e Jenny Lavarda, la guida alpina e ghiacciatrice Anna Torretta, mentre un'alpinista che si è formata sulle aspre pareti delle Alpi Giulie e sta oggi svolgendo un himalayaismo di punta è Nives Meroi.
L'alpinismo degli 'ottomila' merita un discorso a sé. Sono numerose, infatti, le donne che dagli anni Settanta in poi si sono cimentate con l'alta quota. La più forte è stata senz'altro la polacca Wanda Rutkiewicz, ma brilla anche la giapponese Junko Tabei, prima donna sulla cima dell'Everest (1975) e attiva sulle montagne di tutto il mondo: nel 1999, a 59 anni, ha salito il Pik Pobeda, colosso di 7439 m nel Tien Shan. Da ricordare poi la tibetana Phantong, seconda donna sull'Everest; le francesi Liliane Barrard e Chantal Mauduit (prima di scomparire sotto una valanga al Daulhaghiri, aveva salito senza ossigeno e perlopiù in solitario sei 'ottomila' in cinque anni); le inglesi Julie Tullis e Alison Hargreaves (nota anche per le sue solitarie alle sei pareti Nord: Eiger, Cervino, Dru, Badile, Cima Grande di Lavaredo, Grandes Jorasses); e ancora le polacche Anna Okopinska, Danuta Wach, Ewa Pankiewicz, Halina Krüger. Tra le americane, Arlene Blum, già sul McKinley e poi capospedizione della American Womens' Himalayan Expedition all'Annapurna (1978) che portò in cima Vera Komarkova e Irene Miller. Oltreoceano è da menzionare anche l'attività di Molly Higgins sul granito di Yosemite.
Tra le 'fortissime' degli anni Ottanta e Novanta vi sono la francese Catherine Destivelle, arrampicatrice sportiva e alpinista solitaria delle grandi pareti e la statunitense Lynn Hill, unica scalatrice al mondo ad aver salito il Nose al Capitán in libera (1994), ripetendone poi tutte le 33 lunghezze in 23 ore. Lynn Hill è una delle protagoniste assolute delle competizioni di arrampicata sportiva fin dagli esordi a metà degli anni Ottanta e ha arrampicato sulla roccia di tutti i sette continenti.
Tra le alpiniste più forti degli ultimi anni ricordiamo infine la basca Josune Bereciartu (che in falesia supera difficoltà di 9a della scala francese), la belga Muriel Sarkany e la francese Liv Sansoz, entrambe ai vertici delle competizioni, la tedesca Ines Papert, fuoriclasse del ghiaccio e del misto. Mentre la spagnola Cecilia Buil, artificialista e amante di un alpinismo esplorativo, si è distinta nel 2003 per l'apertura di una via nel Thumbnail in Groenlandia con la messicana Roberta Nunes.
Le seven summits
di Antonella Cicogna
Le seven summits sono le cime più alte dei sette continenti: Everest (8850 m) in Asia; Aconcagua (6960 m) in America Meridionale; McKinley (6194 m) in America Settentrionale; Kilimangiaro (5895 m) in Africa; Elbrus (5642 m) in Europa; Piramide Carstensz (4884 m) o Monte Kosciusko (2228 m) in Oceania; Monte Vinson (4897 m) in Antartide.
L'obiettivo di scalarle tutte è tanto affascinante quanto economicamente impegnativo, soprattutto per quanto riguarda l'Everest e il Monte Vinson. Infatti il permesso di scalata per la montagna più alta del mondo è difficile da ottenere: bisogna attendere il proprio turno o trovare spazio, a pagamento, fra le tante spedizioni in attesa del via, oppure ancora 'comprare' un posto nelle spedizioni commerciali che, dopo aver acquistato il permesso, vendono a caro prezzo il passaggio in cima. In compenso, la scalata non riserva più difficoltà notevoli, poiché la via normale viene totalmente attrezzata dagli sherpa a ogni inizio di stagione. Scalare il Monte Vinson, invece, è molto costoso soprattutto per quanto riguarda il viaggio di avvicinamento, date le difficoltà di volare sull'Antartide; fino a pochi anni fa era addirittura impossibile accedervi, se non utilizzando aerei militari.
Il primo a chiudere la corsa alle seven summits è stato lo statunitense Richard Bass nel 1985, che nel continente australiano aveva scalato il Monte Kosciusko (2228 m). L'anno successivo il canadese Patrick Morrow portò a termine le seven summits scalando invece la Piramide Carstensz (Irian Jaya, Indonesia, 4884 m), la cima più alta dell'intera Oceania. Da allora si è aperta una disputa su quale delle due cime sia da accreditare come la vera seventh summit. Qualche alpinista le sale entrambe, tanto che la sfida si sta trasformando nella scalata delle eight summits. Si era già verificata una disputa simile anche per l'Europa, con il Monte Bianco contrapposto all'Elbrus, più alto ma situato nel Caucaso, che secondo molti dovrebbe far parte dell'Asia (per ragioni geografiche) più che dell'Europa (dove lo si considera per ragioni soprattutto politiche). Attualmente sono oltre un centinaio gli alpinisti che hanno raggiunto tutte le vette più alte dei vari continenti. Tra i loro nomi figura anche quello dell'italiano Messner (3 dicembre 1986).
Tabella
di Antonella Cicogna
Il 16 ottobre 1986 alle ore 13.45 l'italiano Reinhold Messner (con il connazionale Hans Kammerlander) giunse in vetta al Lhotse: era il suo quattordicesimo 'ottomila'. La data segnò una nuova tappa nella storia delle cime più alte della Terra. La prima corsa agli 'ottomila', quella della conquista, era durata quattordici anni: dal 1950, data della scalata dell'Annapurna a opera di una spedizione francese, al 1964, quando fu la volta dello Shisha Pangma, la vetta più facile, a opera dei cinesi, che fino a quel momento avevano impedito l'avvicinamento alla montagna, che sorge in Tibet. La seconda corsa, quel-la da parte di un singolo scalatore, richiese sedici anni. Messner, che aveva iniziato con il Nanga Parbat nel 1970, precedette di undici mesi il polacco Jerzy Kukuczka, scomparso poi nel 1989 sul Lhotse. Dal 1986 al 2003 sono stati 12 gli alpinisti che hanno completato la collezione degli 'ottomila': dopo Messner (1986) e Kukuczka (1987), lo svizzero Erhard Loretan (1995), il messicano Carlos Carsolio (1996), il polacco Krzysztof Wielicki (1996), gli italiani Fausto De Stefani e Sergio Martini (1998), lo spagnolo Juanito Oiarzábal (1999), i sudcoreani Young-Seok Park e Hong-Gil Um (2001), lo spagnolo Alberto Iñurrategi (2002) e il sudcoreano Wang-Yong Han (2003).
Ma la storia l'hanno scritta soprattutto i primi tre, saliti quasi sempre per vie nuove o con realizzazioni straordinarie. In particolare questo vale per Messner, che nel 1975, con Peter Habeler, realizzò la prima ascensione di un 'ottomila' in completo stile alpino, scalando il Gasherbrum I lungo il versante Nordovest. Con questo stile si aprirono nuove prospettive per le supervette, prima avvicinabili solamente nell'ambito di grandi spedizioni che richiedevano enormi mezzi e mesi di assedio. Nel 1978 si ebbero due primati: la stessa cordata realizzò la prima ascensione senza ossigeno dell'Everest e Messner salì in solitario in 5 giorni il Nanga Parbat per un nuovo itinerario sul versante Diamir. Dopo il K2 in stile alpino e l'Everest in solitario dal versante tibetano, la conquista delle tre vette di Kangchenjunga, Gasherbrum II e Broad Peak, conclusa in meno di quattro mesi nel 1982, fu la definitiva conferma della possibilità per un singolo alpinista di scalare tutte le più alte vette himalayane. Nel 1986 Messner, conquistando Makalu e Lhotse, giunse al traguardo.
A strada ormai aperta, Jerzy Kukuczka realizzò la propria collezione di 'ottomila' in poco meno di otto anni (record che resiste tuttora), principalmente lungo vie nuove (tra queste Gasherbrum II e I, Manaslu), in stile alpino e con diverse prime invernali (Dhaulagiri, Cho Oyu, Kangchenjunga, Annapurna), inclusa la solitaria al Makalu. Kukuczka terminò la sua raccolta il 18 settembre 1987 con la salita allo Shisha Pangma.
Il terzo della serie fu l'elvetico Loretan. Il 10 giugno 1982 compì la sua prima salita himalayana sul versante Diamir del Nanga Parbat e a giugno del 1983 salì Gasherbrum II e I (con una nuova variante lungo lo sperone Nord) e Broad Peak in soli 17 giorni, in stile leggero e in velocità, che era la sua caratteristica principale. Lo svizzero terminò la collezione con la salita al Kangchenjunga il 5 ottobre 1995.
Tra le donne, l'unica ad aver scalato nove 'ottomila' è Wanda Rutkiewicz (Polonia), scomparsa il 12 maggio 1992 sul Kangchenjunga. A quota sei 'ottomila' troviamo la francese Chantal Mauduit, scomparsa nel 1999 scendendo dal Dhaulagiri, la statunitense Christine Boskoff, la spagnola Edurne Pasaban e l'italiana Nives Meroi (Nanga Parbat, Shisha Pangma, Cho Oyu, Gasherbrum I e II, Broad Peak).
Mentre gli alpinisti inseguivano la collezione degli 'ottomila', molti sherpa, per forza di cose, si sono specializzati su singole montagne e in particolare sul più richiesto degli 'ottomila', l'Everest. Il primo a scalarlo dieci volte è stato Ang Rita (che in totale è stato 19 volte in cima a un'ottomila'), ma attualmente il record è di 13 ascensioni da parte di Apa Sherpa.
Tabella
Tabella (segue)
di Alessandro Gogna
Il termine alpinismo oggi ingloba tutte le attività relative allo scalare ‒ su roccia, su ghiaccio, su misto ‒ e, quindi, anche l'arrampicata nelle sue varie forme. Si definisce arrampicata la scalata su roccia. Per il tipo di protezioni di cui è dotata (o si può dotare) una parete, l'arrampicata può essere divisa in classica e moderna; per le modalità di esecuzione si può distinguere in libera e artificiale. L'arrampicata classica, chiamata anche arrampicata d'avventura, è la salita di una parete (in ambiente montano o non) con l'uso di ancoraggi tipo chiodi e nuts (blocchetti metallici la cui forma più in uso è quella a cuneo o tronco di piramide; muniti di cavetto metallico o di cordino, sono incastrati nelle strozzature delle fessure). L'arrampicata moderna è la salita di una parete (in ambiente montano o non) dotata di protezioni fisse e sicure, utilizzando i movimenti dell'arrampicata sportiva; talvolta, per un'assicurazione più ravvicinata, occorre aggiungere nuts o friends (attrezzi composti da quattro camme, usati per l'assicurazione in fessure larghe, alle quali si adattano, tramite delle molle). Per arrampicata libera (traduzione del termine anglosassone free climbing) si intende la modalità di salita di una parete che prevede l'utilizzo di chiodi, spits (chiodi autoperforanti che si infiggono con il perforatore) o altri ancoraggi soltanto per la protezione dalla caduta e ne esclude quindi l'uso per la progressione o per il riposo. Arrampicata artificiale indica qualsiasi tecnica che comporti l'uso di chiodi, spits o nuts per la progressione, da un solo passaggio a più lunghezze di corda consecutive: lo scalatore procede piantando o utilizzando chiodi normali, ganci o spits; vi aggancia staffe e mette i piedi sui gradini di queste. In genere l'adozione della libera o dell'artificiale dipende dal livello tecnico della cordata, ma l'arrampicata artificiale esiste come raffinata specializzazione a sé stante e con graduazioni sue proprie. L'arrampicata mista comporta, nello sviluppo delle lunghezze di corda, sia la libera sia l'artificiale. Si chiama arrampicata sportiva l'arrampicata libera condotta in genere su brevi pareti naturali attrezzate, ma anche su strutture artificiali, che contempla anche l'agonismo e usa movimenti tipici, come bloccaggi, lanci, tallonaggi ecc. Bouldering è l'arrampicata sui massi che, per le ridotte altezze degli stessi, non richiede l'uso di assicurazione. Ormai è una specialità a sé, con difficoltà e gare proprie. Tecnica e dignità proprie ha anche il cascatismo, ovvero l'arrampicata sul ghiaccio di una cascata. Un'evoluzione di questa specialità è il dry-tooling, termine anglosassone che indica la salita di risalti in cui il ghiaccio è misto alla roccia: vi si utilizzano tecniche di aggancio con due piccozze e con i ramponi.
Si parla di stile alpino quando la cordata (due o tre membri) porta con sé tutto il necessario per l'ascensione e non usa corde fisse per il rientro alla base; tale tecnica è oggi trasferita, ai più alti livelli di exploit, sulle grandi montagne dell'America e dell'Asia e implica la rinuncia alle bombole di ossigeno e all'aiuto dei portatori. Nello stile a capsula la cordata (due o tre membri) sale in stile alpino, ma usa le corde fisse limitatamente ai tratti di salita immediatamente superiori al luogo dove si prevede di bivaccare più notti; le corde fisse saranno asportate e ricollocate più in alto in parete quando si deciderà di spostare il campo. Lo stile himalayano comporta molto tempo, mezzi e uomini; la via è 'assediata' con corde fisse che rendono più facile il proseguimento e poi la discesa; sono sistemati anche campi intermedi, fino all'ultimo, quello da cui parte l'assalto alla vetta.
Per qualificare i vari tipi di salita si utilizzano termini specifici. Prima indica una prima ascensione (assoluta, invernale, solitaria, femminile, italiana ecc.). Invernale è un'ascensione compiuta d'inverno; i limiti della stagione invernale non sono mai stati definiti con esattezza e dipendono ovviamente dalle annate più o meno nevose. Solitaria è un'ascensione compiuta da soli: può essere con autoassicurazione o senza. Free solo è la salita di un itinerario da soli, slegati e in arrampicata libera. Con a vista (on sight) s'intende la salita del capocordata di un itinerario a lui sconosciuto, senza voli o riposi sugli ancoraggi; ci sono state alcune polemiche tra arrampicatori, data la difficoltà di dimostrare che l'itinerario non era mai stato tentato in precedenza dal protagonista. Flash è la salita in arrampicata libera di un itinerario compiuta da capocordata, conoscendo i movimenti necessari per aver visto effettuare la salita da altri o perché spiegata da qualcuno. Il termine tedesco Rotpunkt (all free in inglese) indica la salita in arrampicata libera di una lunghezza di corda o di un itinerario dopo averli però provati anche solo una volta; lavorata si dice di una via provata più volte dal capocordata prima della riuscita di un'ascensione all free. Il termine tedesco Rotkreis indica la salita di un monotiro dopo un volo, ripartendo dall'inizio, ma con la corda già passata nel punto di assicurazione più alto. La locuzione inglese clean climb indica un'ascensione condotta con il solo uso dei cordini, dei nuts e dei friends come mezzi di protezione, a prescindere dall'esecuzione libera o artificiale, con esclusione quindi di chiodi e spits, più invasivi e meno ecologici. Top rope è la tecnica di assicurazione su tratti brevi di arrampicata che non si vogliano attrezzare; l'arrampicatore non fa da capocordata ed è sempre assicurato dall'alto. Moulinette è termine francese per la tecnica di assicurazione che fa passare la corda alla sommità del monotiro nel moschettone della sosta e fa quindi assicurare il compagno stando comodamente alla base della parete.
Un'arrampicata è tanto più difficile quanto più ha appigli e appoggi piccoli e distanti tra loro. Il criterio per valutare le difficoltà è la verifica: chi ripete la via, conferma o meno le difficoltà indicate dal primo salitore. Nel tentativo di valutare con precisione la difficoltà, negli anni Venti del 20° secolo l'alpinista tedesco Willy Welzenbach elaborò una scala di valutazione in numeri romani, dal I (facile) al VI (estremamente difficile), ulteriormente suddivisi in superiore e inferiore (+ e ‒). Tale sistema fu in seguito adottato ufficialmente dall'UIAA (Unione internazionale delle associazioni alpinistiche). Il VI grado era considerato il limite insuperabile delle possibilità umane e la scala era perciò chiusa verso l'alto. Solo nel 1978 fu riconosciuto il VII grado e si decise di lasciare aperta la scala, accettando che il limite potesse essere ulteriormente spostato.
Attualmente le difficoltà dell'arrampicata sono valutate in maniere diverse nei vari paesi del mondo. In Italia si usano due scale assai differenti tra loro: la prima è la scala UIAA, che misura la difficoltà di un passaggio o di una lunghezza di corda sia in ambiente selvaggio (montagna o falesie prive di protezioni fisse, perciò alpinismo e arrampicata libera), sia con qualche adattamento in ambiente sportivo (falesie con protezioni fisse, perciò arrampicata sportiva); la seconda è la cosiddetta scala francese, adatta a valutare terreno con protezioni fisse (arrampicata sportiva). Entrambe sono aperte verso l'alto. La tabella UIAA oggi va dal I- all'XI+ e comprende quindi 33 gradini (I‒, I, I+, II‒, II, II+, III‒ ecc); la tabella francese parte dal 3a, giunge oggi al 9a consolidato e consta di 37 gradini (3a, 3a+, 3b, 3b+, 3c, 3c+, 4a, 4a+ ecc).
a cura di Antonella Cicogna (a.c.), Alessandro Gogna (a.g.), Daniele Redaelli (d.r.).
Situato nelle Ande centrali argentine, a pochi chilometri dal confine con il Cile, è la montagna più alta del Sudamerica, nonché dell'intero emisfero meridionale. È formato da due cime: Nord (6960 m) e Sud (6930 m). Il primo a conquistare la vetta principale fu, il 14 gennaio 1897, la guida svizzera Matthias Zurbriggen, che faceva parte della spedizione inglese di Edward Fitzgerald; gli altri alpinisti non riuscirono a sopportare l'altitudine e Zurbriggen arrivò in solitario. L'itinerario seguito allora costituisce la via normale alla cima, molto battuta e assolutamente non tecnica. La parete Sud è invece il versante più impegnativo e ospita alcune tra le arrampicate più ardue del continente. La cima Sud è stata raggiunta per la prima volta da Thomas Kopp e Lothar Herold il 7 gennaio 1947.(a.c.)
In nepalese il nome di questa montagna significa "dea madre delle messi". La cima principale (8091 m) è affiancata da altre due vette, l'Annapurna Centrale e l'Annapurna Est, rispettivamente di 8051 m e 8026 m (la prima fu conquistata da Ludwig Greissl, Udo Böning e Heinz Oberrauch il 3 ottobre 1980, la seconda da José Manuel Anglada, Emilio Civís e Jorge Pons il 29 aprile 1974). Vicine all'Annapurna I sono l'Annapurna II (7937 m), l'Annapurna III (7555 m) e l'Annapurna IV (7524 m).
L'Annapurna è stato il primo 'ottomila' a essere scalato, nel 1950. Riuscì nell'impresa, dopo un avventuroso assedio, una spedizione formata dai migliori alpinisti francesi del momento, come Jean Couzy, Lionel Terray e Gaston Rébuffat. Il 3 giugno giunsero in cima Maurice Herzog (il capospedizione) e Louis Lachenal. Il ritorno fu difficile e penoso: i congelamenti attanagliarono mani e piedi degli uomini. Seguirono giorni drammatici, con la smobilitazione del campo e vari incidenti determinati dalla stanchezza e dalle copiose nevicate dovute al monsone. Dopo un bivacco in un crepaccio, una valanga sfiorò gli alpinisti, resi quasi ciechi dal riverbero della neve. Tuttavia, malgrado le continue precipitazioni, trovarono la via del ritorno grazie all'abnegazione degli sherpa, ma il medico del gruppo, Jacques Oudot, fu costretto a effettuare una serie di dolorose amputazioni.
Nel 1970, la spedizione britannica di Chris Bonington affrontò la ripida parete Sud: la vetta fu raggiunta il 27 maggio da Dougal Haston e Don Whillans. Nel 1981 la spedizione polacca di Ryszard Szafirski salì la parete Sud per il pilastro destro, ancora più difficile della via britannica. Nel 1984 i catalani Nil Bohigas ed Enric Lucas aprirono in stile alpino una via nuova sulla Sud, diretta alla vetta dell'Annapurna I Centrale (proprio dove era caduto Alex McIntyre due anni prima). Nel mese di ottobre dello stesso anno gli svizzeri Norbert Joos ed Erhard Loretan completarono in 3 giorni una delle più grandi realizzazioni himalayane: la traversata delle tre vette. Il 24 aprile 1985 Reinhold Messner e Hans Kammerlander superarono la parete Nordovest. (a.g.)
Massiccia montagna di granito (3308 m), alpinisticamente una delle più importanti delle Alpi, è situato sulla cresta di displuvio tra la Valtellina e la Val Bregaglia. Della prima ascensione di William Augustus Brevoort Coolidge con le guide François e Henri Dévouassoud (26 luglio 1867) fu data soltanto una telegrafica notizia sull'Alpine Journal, così i secondi salitori (B. Minnigerode con A. Pinggera, 1879) annunciarono la loro salita come prima assoluta. I vasti precipizi settentrionali furono conquistati dalla grande guida Christian Klucker: il 9 luglio 1892 superò con A. von Rydzewsky il canalone del Colle del Cengalo, nel giugno 1893 ripeté la salita e dal Colle raggiunse la Cresta Est e quindi la vetta; in una ricognizione solitaria del 1892 giunse anche a due terzi dello Spigolo Nord, poi salito il 4 agosto 1923 dallo svizzero Alfred Zürcher con la guida Walther Risch.
Il 27-28 luglio 1937 Vitale Bramani ed Ettore Castiglioni scalarono con straordinaria semplicità di mezzi la parete Nordovest. La storia della parete Nordest, alta 900 m, una grande pala arrotondata, non eccessivamente verticale ma liscia e sfuggente, è ricca di episodi importanti: la tragedia di Mario Molteni e Giuseppe Valsecchi, morti di sfinimento dopo la vittoriosa salita fatta con Riccardo Cassin, Gino Esposito e Vittorio Ratti dal 14 al 16 luglio 1937; la solitaria di Hermann Buhl del 6 luglio 1952; la salita d'inverno della via Cassin da parte di Paolo Armando, Camille Bournissen, Gianni Calcagno, Michel Darbellay, Daniel Troillet e Alessandro Gogna in 13 giorni, tra la fine del 1967 e il 1968. La 'via degli inglesi' (M. Kosterlitz e R.J. Isherwood, 8-9 luglio 1968) è il primo grande percorso alpino in cui è stata usata la tecnica di risalita a incastro delle fessure. In seguito altri magnifici itinerari sono stati tracciati, grazie anche all'uso delle scarpette d'arrampicata, particolarmente efficaci su questo granito.(a.g.)
L'Isola di Baffin, il cui nome (Nunavut in lingua inuit) deriva dal navigatore inglese William Baffin (1584-1622), è situata tra il Canada e la Groenlandia ed è ricca di grandi pareti ancora da esplorare, in un ambiente completamente selvaggio. La maggiore elevazione è la Tête Blanche (2156 m) che si trova nella penisola di Cumberland ed è stata scalata nel 1953. Fino a oggi l'attività alpinistica si è concentrata nel parco nazionale di Auyuittuq e nei fiordi Sam Ford e Inugsuin. Dal 1970 in poi sono state aperte vie estreme su pareti con un dislivello pari anche a 1000 m. La montagna più spettacolare è il granitico Mount Asgard (2011 m), formato da due vette gemelle in apparenza del tutto inaccessibili. I primi a salirlo furono gli svizzeri Jürg Marmet, Hans Rothlisberger, Fritz Hans Schwarzenbach e Hans Weber nel 1953. Doug Scott, nel 1972, aprì il primo VI grado dell'isola: 45 lunghezze in 45 ore. La salita della parete Ovest, nel 1985, richiese 33 giorni di scalata a un gruppo statunitense; nel 1988 salì in solitario il giapponese Yasushi Yamanoi. (a.g.)
È la vetta più alta delle Alpi (4807 m secondo le misurazioni francesi, 4810 m secondo quelle italiane, 4808 m secondo il più recente responso satellitare). I romani lo battezzarono rupes quae vocatur alba, "montagna che è chiamata bianca", quando fondarono Campus Munitus (Chamonix) e Curia Maior (Courmayeur), ma il suo nome diventò poi Mont Maudit, "Monte Maledetto", quando lo si credette abitato dai diavoli cacciati lassù da san Bernardo; durante il Medioevo fu detto Les Glacières, per tornare successivamente a essere Monte Bianco, appellativo attestato per la prima volta in un documento scritto in una lettera del 1603 del vescovo di Ginevra, Francesco di Sales, che parla di Mont Blanc. Il massiccio segna la linea di confine tra Francia e Italia e, nella sua parte più orientale, con la Svizzera. Fra le tante vette oltre i 4000 m, nel massiccio principale le più note sono Punta Baretti (4006 m), Brouillard (4068 m), Aiguille de Bionnassay (4052 m), Dôme de Goûter (4304 m), Picco Luigi Amedeo (4470 m), Monte Bianco di Courmayeur (4769 m), Aiguille Blanche de Peuterey (4108 m), Mont Maudit (4468 m), Mont Blanc du Tacul (4248 m). Separati dal gruppo principale e considerati solo genericamente parte del massiccio del Bianco (avendo anche storie peculiari dal punto di vista alpinistico), sono Dente del Gigante (4014 m), Aiguille de Rochefort (4001 m), Dôme de Rochefort (4016 m), Grandes Jorasses (4206 m), Droites (4000 m), Aiguille Verte (4122 m).
Sul Monte Bianco è nato l'alpinismo, alla fine del Settecento, e si sono poi sviluppate, grazie anche all'estrema varietà delle problematiche proposte dalle sue pareti, le diverse tecniche e attrezzature. Quando Horace-Bénédict de Saussure nel 1760 fece affiggere sulle porte delle chiese un manifesto che prometteva una lauta ricompensa per gli scopritori di una via d'accesso al Monte Bianco, gli unici frequentatori della montagna erano cacciatori e cercatori di cristalli, attivi soprattutto a Chamonix, da dove le vie d'accesso sono meno verticali rispetto al versante italiano. I primi due tentativi furono del 1762, si riprese nel 1775, quindi dal 1783 gli assalti si infittirono (alla fine saranno 12). Tali tentativi, che non arrivarono mai a superare il Goûter, riuscirono solo a stabilire la necessità di un bivacco sul ghiacciaio. L'8 giugno 1786 sei abitanti di Chamonix, fra cui il cercatore di cristalli Jacques Balmat, arrivarono fino alle Rochers des Bosses, a quasi 4400 m, ma rinunciarono per il sopraggiungere del buio. A discesa iniziata il gruppo si accorse dell'assenza di Balmat, che distratto dalle sue ricerche si ritrovò solo a quella quota. Scavò una buca nella neve e ridiscese il mattino successivo, con principi di congelamento al volto e agli arti. Andò a farsi visitare dal dottor Michel Gabriel Paccard, che aveva alle spalle un tentativo di salita con l'inglese Thomas Blaikie nel 1775. Si compose così la 'cordata' che conquistò la vetta, munita solo di un bastone ferrato e una coperta. Il 7 agosto partirono, alle ore 18.23 dell'8 agosto arrivarono in vetta. Era nato l'alpinismo portando con sé le prime polemiche, poiché Balmat tentò di accaparrarsi tutti i meriti e solo un secolo dopo si provò che il vero leader della conquista era stato Paccard.
La via era ormai aperta e le spedizioni si susseguirono: de Saussure giunse in cima nel 1787, la prima solitaria fu nel 1808 quella di Jean Marie 'Montillet' Simond, la prima femminile fu della cameriera Marie Paradis (con Balmat, alla sua quinta salita del Bianco; la sesta e ultima la fece nel 1817 a 57 anni). Fu femminile la prima invernale del 31 gennaio 1876 per opera dell'inglese Mary Isabelle Straton, con le guide Jean Charlet e Sylvain Couttet e il portatore Michel Balmat. La prima salita italiana fu dovuta a Giuseppe Imperiale principe di Sant'Angelo nel 1840. La prima ascensione dal versante di Courmayeur fu compiuta nel 1863 dall'inglese R.W. Head con Julien Grange, Adolphe Orset e Joseph-Marie Perrod, guide di Courmayeur. Ma la cessione della Savoia fece sì che questa via ora sia quasi tutta in territorio francese. La prima via italiana può quindi essere ritenuta quella, ancor oggi impegnativa, lungo lo Sperone della Brenva battezzato Moore in onore del primo salitore, l'inglese Adolphus Warburton Moore, con i connazionali George Mathews, Francis e Horace Walker e le guide Melchior e Jakob Anderegg nel 1865.
In quegli anni sul Monte Bianco furono attivi tutti i più forti alpinisti britannici, dal reverendo Charles Hudson a James Ramsey, da Edward Whymper ad Albert Mummery. Tutti cominciarono a cercare anche nuove vie, più impegnative, e non solo la pura ascensione. A Courmayeur si mise in luce la guida émile Rey, che non si limitò ad accompagnare clienti ma compì ascensioni sulle Aiguilles e sulla Cresta di Peuterey e realizzò 52 'prime', considerate il più grande contributo alla conoscenza alpinistica della montagna fra il 1877 e il 1893.
La cosiddetta 'via normale italiana' fu aperta, in realtà in discesa, nel 1890, da Achille Ratti, Joseph Gadin, Alexis Proment e i fratelli Bonin, provenienti dalla vetta. Ratti, che aveva già all'attivo le scalate di Gran Paradiso, Cervino e Rosa, nel 1922 sarebbe diventato papa con il nome di Pio XI.
Nessuna montagna come il Monte Bianco ha visto cimentarsi sulle sue pareti tutti i più grandi alpinisti. Oltre a quelli già citati, si possono ricordare le 'prime' di Paul Güssfeldt, dei Gugliermina, di Thomas Graham Brown, Frank Smythe, Renato Chabod, Gabriele Boccalatte, Giusto Gervasutti, Riccardo Cassin, Armand Charlet, Loulou Boulaz, Gaston Rébuffat, Arturo Ottoz, Walter Bonatti, Chris Bonington, René Desmaison, Jean Couzy, sino ad arrivare ai più recenti Renato Casarotto, Patrick Gabarrou e Catherine Destivelle.(d.r.)
È l'aspra dorsale calcareo-dolomitica che si erge a nordest dei ghiacciai dell'Adamello-Presanella. La parte meridionale è incentrata sulla massiccia Cima Tosa (3173 m), a cui fanno corona Crozzon di Brenta, Campanile Basso e Brenta Alta. La storia alpinistica del gruppo iniziò nel 1864, quando l'inglese John Ball valicò la Bocca di Brenta. La prima ascensione della Cima Tosa fu compiuta da Giuseppe Loss, di Primiero, con sei compagni il 20 luglio 1865, sei giorni dopo la conquista del Cervino. La Cima Brenta (3150 m), la seconda del gruppo, fu conquistata nel 1871 da Francis F. Tuckett e William D. Freshfield con F. Dévouassoud. Nel 1882 il Crozzon di Brenta fu raggiunto in traversata dalla Cima Tosa da Matteo Nicolussi e O. Baumann che, tuttavia, non toccarono la più elevata delle tre vette, scalata poi nel 1884 da Karl Schulz, con Nicolussi, Dallagiacoma e Ferrari. Negli ultimi decenni del 19° secolo furono scalate tutte le cime principali. Il 16 agosto 1899 due giovani austriaci, Otto Ampferer e Karl Berger, senza essere a conoscenza di un analogo tentativo italiano già compiuto da parte di Carlo Garbari con Nino Pooli e la guida Antonio Tavernaro, si avviarono all'attacco del Campanile Basso. La parete terminale, oltre un pulpito poi chiamato Garbari, risultò anche a loro insuperabile, nonostante Ampferer vi infiggesse due chiodi a martellate. Durante l'impresa, i due austriaci si accorsero di poter traversare sulla parete Nord e due giorni dopo raggiunsero la vetta. Il 31 luglio 1904 già 18 cordate si erano susseguite sul Campanile Basso, ma Pooli volle salire proprio là dove era stato respinto. Con Riccardo Trenti, dal Pulpito Garbari salì diritto e superò, di pura forza e coraggio, quegli ultimi 35 m. Nel 1911 Paul Preuss compì la prima solitaria, in libera, della parete Est. Ai fratelli Detassis di Trento, soprattutto a Bruno, va il merito di numerose tra le principali conquiste degli anni Trenta: sulla parete Nordest del Crozzon, Bruno Detassis aprì (1935) con Enrico Giordani la 'via delle Guide'. Il grande diedro fu invece scalato nel 1959 da Armando Aste e Milo Navasa, mentre già nel 1905 Adolf Schulze e Fritz Schneider avevano salito lo Spigolo Nord. Il Pilastro Nordest fu conquistato nel 1965 dai francesi Jean Fréhel e Dominique Leprince-Ringuet. La parete Nordest della Brenta Alta fu scalata nel 1934 da Detassis, Giordani e Ulisse Battistata; il grande diedro che la fiancheggia fu invece superato dai monzesi Andrea Oggioni e Josve Aiazzi nel 1953 e lo Spigolo Nordest da Alessandro Gogna, Aldo Anghileri e Piero Ravà nel 1972. Sulla grandiosa parete della Cima d'Ambiez sono stati tracciati diversi itinerari: da Pino Fox e Marino Stenico nel 1939, da Stenico e Mario Girardi nel 1941, da Oggioni, Aiazzi, Aste e Angelo Miorandi ('via della Concordia') nel 1955, da Claude Barbier e Toni Masè nel 1961. La liscia parete Est della cima di Pratofiorito fu superata da Aste e Fausto Susatti nel 1953.
Ai margini del gruppo, con una parete alta quasi 1000 m, il Croz dell'Altissimo è stato oggetto di numerose grandi scalate: la via Dibona-Rizzi-Meyer (1910), il Diedro Armani-Fedrizzi (1936), la via Detassis-Giordani (1936), la via Oppio-Colnaghi-Guidi (1939) e lo Spigolo Stenico-Furlani (1942). (a.g.)
Situata nella provincia indonesiana di Irian Jaya (ex Nuova Guinea occidentale), nelle Maoke Mountains, è la montagna più elevata dell'Oceania (4884 m). Prende il nome da Jan Carstensz, navigatore olandese del 17° secolo, che per primo scorse la sua cima innevata dal fitto della giungla tropicale, ma non fu creduto. La montagna fu conquistata dalla spedizione guidata dall'austriaco Heinrich Harrer e dal neozelandese Phil Temple il 13 febbraio 1962, lungo il versante Nord. Reinhold Messner realizzò la seconda ascensione alla cima nel 1971, lungo la Cresta Est. La parete Nord offre le più interessanti scalate su roccia dell'Irian Jaya. La salita per la normale è su roccia e, dopo un primo tratto sulla parete Nord, prosegue lungo la cresta.(a.c.)
È una grande catena montuosa che si estende per oltre 1000 km dalla Baia di Novorossijsk, sulla riva nordorientale del Mar Nero, fino a Baku, nella penisola di Apšeron, sul Mar Caspio, toccando altitudini spesso superiori ai 5000 m. Il Grande Caucaso, cioè il settore montano della regione caucasica, è costituito da un nucleo di rocce cristalline antiche che va dal Kazbek (5033 m), vulcano ancora attivo in epoche recenti, al Čuguš (3238 m), seguendo il crinale principale che sostiene tutti i 'cinquemila' locali: Šhara (5058 m), Koštantau (5145 m), Dyhtau (5203 m) ed Elbrus (5642 m), la vetta più elevata. Tra il Čuguš e Baku, oltre a quelle citate, vi sono numerose sommità superiori ai 4000 m d'altitudine: prima di tutte l'Ušba (4695 m), dalla vetta bifida, poi il Dombaj-Ulgen, il Sugan, il Laboda, l'Uilpata, il Mamison, il Šan, il Diklosmta e il Bazardjuzju.
La storia alpinistica del Caucaso iniziò con la conquista del Kazbek (1° luglio 1868) da parte di Douglas W. Freshfield, C.C. Tucker e A.W. Moore. L'Elbrus fu scalato dalla spedizione britannica composta da Florence Crawford-Grove, Frederick Gardiner e Horace Walker con la guida svizzera Peter Knubel nel 1874. Nel 1888 fu la volta del Dyhtau (Albert Frederick Mummery, H. Zurflüh) e dello Šhara (C. Roth, U. Almer, L.G. Cockin). Lo stesso Cockin, con Christian Almer jr., salì anche l'Ušba (1988). Infine fu scalato il Koštantau (7 agosto 1889, H. Woolley e Christian Jossi). Alla vigilia del Primo conflitto mondiale si può considerare chiusa la fase 'esplorativa' e dal primo dopoguerra si aprì la seconda fase, come è avvenuto sulle Alpi: quella rappresentata dalla soluzione di problemi costituiti da vette ancora inviolate, perché meno appariscenti, oppure dalla salita su cime già vinte, ma superando creste, pareti e canaloni evitati dai primi scalatori. La figura più rappresentativa di questo periodo è stata Michael Khergiani.(a.g.)
Arditissima e slanciata torre di roccia sormontata da un 'fungo' di ghiaccio, il Cerro Torre (3128 m) fa parte delle Ande della Patagonia ed è celebre per le straordinarie lotte alpinistiche che si sono svolte sui suoi fianchi. Nell'estate australe 1958-1959, Cesare Maestri e Toni Egger, nell'ambito di una spedizione trentina, ne percorsero il Pilastro Nord-Nordest e il 31 gennaio raggiunsero la cima, con un vento fortissimo; la temperatura aumentò e il 2 febbraio si verificò il temuto distacco delle placche di ghiaccio, che travolsero e uccisero Egger; Maestri fu ritrovato alcuni giorni più tardi, vivo ma in stato di semi-incoscienza; vi furono polemiche, mai sopite, sulla veridicità del suo racconto. Nel 1970 Maestri ritornò al Cerro Torre con Carlo Claus, Claudio Baldessari ed Ezio Alimonta per salire la Cresta Sudest (1200 m). Con l'impiego di chiodi a espansione e di un compressore di 70 kg per forare più rapidamente la roccia, il 30 novembre si trovarono a 100 m dalla cima; il 1° dicembre erano a 40-50 m dalla sommità rocciosa e per non perdere tempo bivaccarono sulle staffe; il 2 dicembre abbandonarono l'ormai inutile compressore e alle ore 16, senza avere raggiunto il fungo sommitale, iniziarono la discesa di 45 corde doppie. L'itinerario fu ripreso nel febbraio 1979 da Jim Bridwell e Steve Brewer, che riuscirono a scalare anche il fungo.
Il 13 gennaio 1974 i 'ragni di Lecco' Casimiro Ferrari, Mario Conti, Pino Negri e Daniele Chiappa salirono il Cerro Torre per la parete Ovest, già tentata in precedenza. Phil Burke e Tom Proctor, nel gennaio 1981, arrivarono al fungo per la parete Nordest. Paolo Caruso, Maurizio Giarolli, Ermanno Salvaterra e Andrea Sarchi compirono la prima invernale alla cima (8 luglio 1985) seguendo la via Maestri '70, mentre Marco Pedrini salì in prima solitaria il 26 novembre dello stesso anno. Nella medesima estate gli sloveni guidati da Francek Knez e Matjaž Fištravec salirono la parete Est (con corde fisse, VII- e A4). Janez Jeglič e Silvo Karo, dal 5 novembre al 20 gennaio 1988, scalarono la parete Sud fino alla via Maestri '70, senza però raggiungere la vetta (45 lunghezze, VII grado, A3 e A4); ancora Jeglič, con Marko Lukic e Miha Praprotnik, aprì sulla Sud la via 'What's love got to do with it' (22 lunghezze, VIII-, A4, 900 m), che termina sulla Maestri '70. Giarolli, Odoardo Ravizza e Sarchi salirono la parete Nordovest ('Cristalli nel vento', 25 lunghezze) fino alla via Egger-Maestri, tra il 27 ottobre e il 3 novembre 1994. Salvaterra, Piergiorgio Vidi e Roberto Manni, dal 3 novembre al 2 dicembre 1995, con 23 giorni consecutivi in parete, percorsero la direttissima 'Infinito Sud' (36 lunghezze), uscendo però ancora sulla via Maestri '70 senza raggiungere la vetta.(a.g.)
Il Cervino (Matterhorn in tedesco; 4478 m) si erge tra l'Italia e la Svizzera, precisamente tra Cervinia e Zermatt. È un'enorme piramide a quattro facce: la Cresta Nordest o dell'Hörnli, la Nordovest o di Z'mutt, la Sudovest o del Leone, la Sudest o del Furggen delimitano quattro pareti altissime. È notevole l'anomalia della parete Nord-Nordovest, incuneata tra lo zoccolo della cresta di Z'mutt e la parete Nord. Vi sono due vie di salita, dette 'normali': la svizzera Cresta dell'Hörnli e l'italiana Cresta del Leone, entrambe su terreno roccioso, moderatamente inclinato, talvolta interrotto da risalti quasi verticali. In questi punti sono state poste corde e attrezzature fisse per facilitare la salita e la discesa ai meno esperti. La Cresta di Z'mutt è indubbiamente la via di salita più bella, mentre la Cresta del Furggen è la più difficile. Tra le quattro pareti, la più famosa, e anche la più percorsa, è la parete Nord, considerata a suo tempo uno degli ultimi tre 'problemi' delle Alpi. Con la salita al Naso di Z'mutt anche il Cervino ha fatto il suo ingresso nell'olimpo delle grandi pareti rocciose, come testimoniano i quattro itinerari di livello estremo aperti in ventiquattro anni.
Quando il Cervino fu finalmente scalato dalla cordata di Edward Whymper, si chiuse il periodo esplorativo dell'alpinismo: da quel momento la difficoltà non venne più evitata, ma appositamente cercata per compiere imprese sempre più difficili. Alle 13.40 del 14 luglio 1865 Francis Douglas, Robert Hadow, il reverendo Charles Hudson e Whymper, con le guide Michel-Auguste Croz e Peter Taugwalder padre e figlio, giunsero finalmente in vetta, dopo anni di tentativi. Nella discesa Hadow scivolò e trascinò con sé nella caduta Croz, Hudson e lord Douglas: la corda si ruppe, lasciando impietriti i sopravvissuti. La tragedia destò profonda impressione, ma non scoraggiò coloro che avevano scelto le scalate sulle Alpi come sport di elezione. Pochi giorni dopo (16 e 17 luglio) le guide di Valtournenche Jean-Antoine Carrel e Jean-Baptiste Bich salirono la Cresta del Leone. Il 27 luglio 1868 John Tyndall, con i fratelli Maquignaz come guide, compì la prima traversata Leone-Hörnli. Il 3 settembre 1879 fu la volta della Cresta di Z'mutt, scalata da Albert Frederick Mummery con le guide Alexander Burgener, Johann Petrus e Augustin Gentinetta. Il 17 e 18 marzo 1882 Vittorio Sella, con le guide Jean-Antoine, Jean-Baptiste e Louis Carrel, compì la prima invernale per la Cresta del Leone. Nel 1898 Wilhelm Paulcke salì da solo per la Cresta dell'Hörnli, mentre il 4 settembre 1911 Mario Piacenza, con Jean-Joseph Carrel e Giuseppe Gaspard, scalò la Cresta del Furggen.
Bisognò attendere il 31 luglio e il 1° agosto 1931 per la vittoria sulla parete Nord da parte di Toni e Franz Schmid. E poi, di seguito: il 15 ottobre 1931 fu scalata la parete Sud da Enzo Benedetti con Luigi Carrel e Maurizio Bich; il 18 e 19 settembre 1932 la parete Est da Benedetti e Giuseppe Mazzotti con Luigi Carrel, Maurizio Bich, Luciano Carrel e Antonio Gaspard; al 23-25 dicembre 1936 risale la prima solitaria invernale, per la Cresta del Leone, di Giusto Gervasutti; al 22 luglio 1959 la prima solitaria della parete Nord, di Dieter Marchart; al 3 e 4 febbraio 1962 la prima invernale della parete Nord, di Paul Etter e Hilti von Allmen; al 19-23 febbraio 1965 la via diretta sulla parete Nord, di Walter Bonatti; il 14-17 luglio 1969 salirono il Naso di Z'mutt Alessandro Gogna e Leo Cerruti; il 21-28 febbraio 1974 fu compiuta la prima invernale del Naso di Z'mutt, via Gogna-Cerruti, da Edgar Oberson e Thomas Gros; nel maggio 1975 Toni Valeruz eseguì la prima discesa con gli sci della parete Est, dalla Spalla; il 29 luglio-1° agosto 1981 la via diretta del Naso di Z'mutt fu opera di Michel Piola e Pierre-Alain Steiner; il 12 e 13 luglio 1982 la prima solitaria della via Gogna-Cerruti, di André Georges; il 9 agosto 1992 la via diretta 'Les amis disparus' del Naso di Z'mutt, di Patrick Gabarrou e Lionel Daudet; al 10-13 marzo 1994 si data la seconda solitaria invernale e prima femminile della via Bonatti sulla parete Nord, per opera di Catherine Destivelle; il 31 luglio-2 agosto 2001 Gabarrou e Cesare Ravaschietto eseguirono la prima ascensione di 'Free Tibet' del Naso di Z'mutt; il 22-26 agosto 2001 Robert Jasper e Rainer Treppte la prima ascensione di 'Freedom' del Naso di Z'mutt. (a.g.)
Gruppo delle Dolomiti sudorientali (3220 m), in provincia di Belluno, situato tra la valle di Agordo a ovest e la valle di Zoldo a est, costituisce un complesso vasto e grandioso, considerando anche le relativamente modeste propaggini settentrionali e soprattutto quelle meridionali, ben più rilevanti, che formano il sottogruppo delle Moiazze. Simeone De Silvestro, detto Piovanèl, scalò nel 1855, con due compagni, quella che ancora oggi è la via normale. L'immagine più nota e ammirata del Civetta è però quella della parete Nord, che si estende dalla Torre Coldai alla Torre Venezia, per un fronte di oltre 7 km e con un dislivello sino a 1200 m, sopra le ghiaie della Val Civetta, dominate da autentiche lavagne di roccia grigia, nera, gialla e rossa. La muraglia verticale tra la Torre Coldai e la Cima di Terranova può essere definita la 'parete delle pareti', il regno del VI grado. La prima via di questa difficoltà a essere aperta è stata la Solleder, il 7 agosto 1925, per opera di Emil Solleder e Gustav Lettenbauer, e nessuno all'epoca aveva dubbi sul valore superiore di quell'itinerario; in seguito sono stati tracciati altri percorsi e l'esplorazione non è ancora finita.
La prima solitaria della via Solleder fu compiuta da Cesare Maestri il 4 settembre 1952, la prima invernale da Ignazio Piussi, Giorgio Redaelli e Toni Hiebeler il 28 febbraio-7 marzo 1963; la prima ascensione della via Andrich da Alvise Andrich ed Ernani Faè, il 23-24 agosto 1934, la prima solitaria da Claude Barbier il 28 agosto 1961, la prima invernale solitaria da Renato Casarotto il 22-27 febbraio 1975; la prima ascensione del Diedro Philipp-Flamm da Walter Philipp e Dieter Flamm il 5-7 settembre 1957, la prima solitaria da Reinhold Messner il 2 agosto 1969, la prima invernale da Gianni Rusconi, Gian Battista Crimella, Giuliano Fabbrica e Giorgio Tessari il 7-12 febbraio 1973; la prima ascensione dello Spigolo della Cima Su Alto da Piussi, Aldo Anghileri, Alziro Molin, Ernesto Panzeri e Guerrino Cariboni il 15-18 agosto 1967, la prima invernale da Zbigniew Laskowski, Janusz Skorek, Aleksander Warm e Andrzej Czok il 3-9 marzo 1977. (a.g.)
Situato nelle Alpi Bernesi, l'Eiger (3970 m) si impone sulle montagne circostanti per l'immensa parete Nordovest, o Nordwand, la più alta e più temuta delle Alpi (1800 m), teatro di alcune tra le più importanti ascensioni della storia dell'alpinismo. La prima salita dell'Eiger fu compiuta l'11 agosto 1858 dall'irlandese Charles Barrington, dal versante Ovest. Nel 1921 il giapponese Yuko Maki, con le guide svizzere F. Amatter, S. Brawand e F. Steuri, salì la Cresta Mittelegi, la più lunga dell'Eiger e l'ultima inviolata. Da quel momento fu la volta delle pareti: nel 1932 Hans Lauper e Alfred Zürcher, con le guide Alexander Graven e Josef Knubel, aprirono la diretta alla cima in giornata lungo la parete Nordest; nel 1937 anche la parete Sudest fu scalata dai tedeschi Otto Eidenschink ed Ernst Möller. L'impresa fu però subito oscurata dalla vittoria sulla gigantesca Nordwand, che nei cinque anni precedenti aveva subito diversi attacchi, tutti falliti, mietuto otto vittime e assistito al miracoloso ritorno dei tedeschi Mathias Rebitsch e Ludwig Vörg da metà della parete, dopo 100 ore d'assedio nella tempesta (1937). Fin lì la ritirata era sempre stata impossibile, una volta superato il punto chiave della salita: ora i due sapevano come vincere la parete, ma Rebitsch l'anno successivo andò al Nanga Parbat. Vörg ritentò la salita facendo cordata con il connazionale Anderl Heckmair, che aveva già all'attivo alcune tra le più difficili ascensioni dell'epoca, come la diretta alla parete Nord dell'Aiguille des Grands Charmoz e la Nordovest del Civetta. I due si affiancarono in parete agli austriaci Fritz Kasparek e Heinrich Harrer, già in azione da un giorno. I quattro arrivarono in cima il 24 luglio alle ore 15. Quasi ogni 'tiro' della via è entrato nella storia dell'alpinismo con un nome specifico: 'Bivacco della morte', 'Traverso Hinterstoisser', 'Nido della rondine', 'Il ragno' (nome del quarto dei cinque grandi nevai della parete, che appare come un gigantesco ragno bianco), descrivendo così punto per punto le particolarità e le difficoltà della salita. Oggi la via è considerata la classica della Nordwand, bella e certamente molto impegnativa. Nel 1961 i tedeschi Anton Kinshofer, Anderl Mannhardt e Toni Hiebeler con l'austriaco Walter Almberger realizzarono la prima invernale. La prima ripetizione italiana dall'11 al 18 agosto 1962 fu opera di Armando Aste, Pierlorenzo Acquistapace, Gildo Airoldi, Andrea Mellano, Romano Perego e Franco Solina. Nel 1964 la tedesca Daisy Voog realizzò la prima femminile.
Nel 1966 l'americano John Harlin in cordata con il connazionale Layton Kor e lo scozzese Doug Haston si propose l'obiettivo di aprire in stile alpino la prima via direttissima sulla Nordwand; l'ascensione fu organizzata dall'inglese Chris Bonington. In parete il gruppo di Harlin si unì a otto alpinisti tedeschi, Jörg Lehne, Günther Strobel, Siegfried Hupfauer, Roland Votteler, Karl Golikow, Peter Haag, Rolf Rosenzopf e Günther Schnaldt, impegnati nell'apertura di una direttissima con corde fisse; Harlin perse la vita appena sotto il Ragno per la rottura della corda statica. La direttissima fu comunque terminata dai componenti delle due spedizioni e dedicata allo stesso Harlin. A raggiungere la vetta furono Lehne, Strobel, Hupfauer, Votteler e Haston. Attualmente sulla Nordwand ci sono 28 vie, aperte da alpinisti di ogni nazionalità. Tutti gli itinerari sono imponenti e impegnativi e la difficoltà della ritirata rende le ascensioni sempre estreme. Nuovi tracciati moderni, pure di notevole difficoltà, sono stati realizzati dallo svizzero Michel Piola dal 1979 al 1988 (tra questi il 'Pilastro Ginevra', 'La punizione', 'Ghilini'). Nel 1981 fu scalato lo Spigolo Nord (C. Howald, H. Howald e M. Rüdi). La via classica registrò nel 1992 la prima solitaria femminile da parte della francese Catherine Destivelle in 17 ore; a marzo del 2003 l'altoatesino Christoph Hainz realizzò invece, sulla via del 1938, la solitaria invernale più veloce (4 ore e 30 minuti), facendo meglio dell'austriaco Thomas Bubendorfer, che nel 1983 aveva realizzato la salita in solitario e in libera in 4 ore e 50 minuti. L'ultima via sulla Nord dell'Eiger è stata aperta nel settembre 2002 dagli svizzeri Peter Keller e Urs Odermatt: è la 'Griff ins Licht', 7c M5, 41 tiri per oltre 2000 m di sviluppo. Sale sul lato sinistro della parete, a destra della via aperta dagli scozzesi McEacheran, McKeith e Spence nel 1970; nella prima metà è indipendente, mentre nella parte alta si congiunge alla via Lauper del 1932.(a.c.)
Sagarmatha per i nepalesi, Chomolungma per i tibetani, la montagna più alta della Terra (8850 m), posta al confine fra Nepal e Tibet, è conosciuta a tutti con il nome di Monte Everest. Le prime misurazioni del monte, inizialmente chiamato Peak b, risalgono al 1848. Nel 1852 il Peak b venne rinominato Peak XV dai cartografi britannici. Le nuove misurazioni, sempre da una distanza di quasi 200 km, confermarono che si trattava della montagna più alta della Terra: 29.028 piedi (8840 m) secondo i calcoli di allora; una ottima prova, visto che le misurazioni moderne contano soltanto 10 m in più. Nel 1856 la Royal geographical society di Londra ribattezzò il Peak XV con il nome di Monte Everest, dedicandolo a George Everest, direttore del Survey of India britannico.
Nel gennaio 1921, la Royal geographical society e l'Alpine club britannico organizzarono una spedizione in Tibet per identificare la via più logica di accesso e di salita; ne fece parte anche George Mallory. Nel 1922 George Finch e Geoffrey Bruce raggiunsero per la prima volta la quota di 8326 m. Nel 1924 la terza spedizione britannica, guidata da Edward Norton, segnò un'altra tappa fondamentale: Howard Somervell raggiunse gli 8400 m e Norton proseguì fino a 8570 m, un record superato solo nel 1952. Alla spedizione parteciparono anche l'affermato Mallory e il giovane Andrew Irvine, il più abile nel far funzionare in ogni condizione le bombole con l'ossigeno, utilizzate per combattere la rarefazione dell'aria che aumenta di pari passo con la quota. I due, quattro giorni dopo il fallimento di Norton e Somervell, lasciarono il campo VI, a 8170 m, diretti alla cima. Noel Odell li avvistò per l'ultima volta alle 12.50 dell'8 giugno in un punto imprecisato su un nevaio: da quel momento non si ebbero più loro notizie. Il corpo di Mallory fu ritrovato il 1° maggio 1999 sul versante tibetano a quota 8250 m. Ancora oggi resta un mistero se i due siano arrivati in vetta, anche se la maggior parte degli esperti lo ritiene assai improbabile.
Nel 1951, quando l'accesso all'Everest dalla parte del Tibet, occupato dalla Cina, era ormai vietato, la spedizione britannica guidata da Eric Shipton (che aveva già partecipato alle quattro sfortunate spedizioni organizzate negli anni Trenta dal versante tibetano), in ricognizione del versante nepalese, individuò una via di accesso attraverso il ghiacciaio Khumbu; del gruppo faceva parte anche il neozelandese Edmund Hillary. Nel 1952 la cordata svizzera composta da René Aubert, Léon Flory e Raymond Lambert, accompagnati anche dallo sherpa Tenzing Norgay, riuscì a installare il campo nel West Cwm, una vallata racchiusa fra Everest, Lhotse e Nuptse, resa quasi inaccessibile dalla 'Cascata di ghiaccio', che resta il passaggio più pericoloso dell'intera via; di lì la cordata raggiunse il Lho La, o Colle Sud (8000 m); Lambert e Tenzing proseguirono verso l'Anticima Sud, ma a 8595 m dovettero rinunciare.
Il 1953 fu finalmente l'anno decisivo. John Hunt guidò una spedizione britannica; il 26 maggio Tom Bourdillon e Charles Evans arrivarono a 8763 m, superando di poco il punto più alto raggiunto dagli svizzeri l'anno precedente, a meno di 90 m dalla vetta. Il campo IX fu portato fino a 8504 m; Lowe, Gregory e lo sherpa Ang Nyima, dopo averlo rifornito, lo lasciarono libero per Hillary e Tenzing Norgay che conquistarono la cima il 29 maggio, primi uomini al mondo sulla vetta dell'Everest. L'itinerario percorso, lungo la Cresta Sudest, oggi costituisce la battutissima via normale dal versante nepalese.
Il 25 maggio 1960 i cinesi Fu-chou Wang e Yin-hua Chu realizzarono la prima salita dal versante tibetano (Colle Nord-Cresta Nord e Cresta Nordest), che oggi è la via normale da Nord. Il 22 maggio 1963 gli americani Tom Hornbein e Willi Unsoeld salirono la Cresta Ovest e il canalone ora chiamato Hornbein e, discendendo per la normale del Colle Sud, compirono anche la prima traversata della montagna. Il 5 maggio 1973 fu la volta della prima ripetizione italiana: Rinaldo Carrel e Mirko Minuzzo, che facevano parte della spedizione Monzino, raggiunsero la vetta lungo la via normale, seguiti due giorni dopo da Claudio Benedetti, Virginio Epis e Fabrizio Innamorati. Il 16 maggio 1975 la giapponese Junko Tabei fu la prima donna a raggiungere la vetta, dal versante nepalese; il 24 settembre dello stesso anno gli inglesi Doug Scott e Doug Haston, seguiti da Peter Boardman e Mick Burke, salirono l'inviolata parete Sudovest. L'8 maggio 1978 l'Everest fu scalato per la prima volta senza l'uso di bombole d'ossigeno: a compiere l'impresa, ritenuta impossibile anche da illustri scienziati, furono l'austriaco Peter Habeler e l'italiano Reinhold Messner. Il 17 febbraio 1980 i polacchi Krzysztof Wielicki e Leszek Cichy compirono la prima ascensione invernale; il 20 maggio dello stesso anno Messner, senza bombole d'ossigeno, eseguì la prima salita in solitario (terza ripetizione dal versante tibetano, con una inedita variante nel Canalone Norton). A partire dagli anni Ottanta l'Everest è stato teatro di numerosi nuovi record di velocità, di ripetizioni e di nuove e ardite vie o discese con sci, parapendio e snowboard. Oggi la montagna è sempre più spesso meta di spedizioni 'commerciali', che intasano con i loro clienti, spesso al primo 'ottomila', la via aperta da Hillary e Tenzing nel 1953. (a.c.)
Splendida montagna nelle Ande della Patagonia, il Fitz Roy (3375 m) prende nome dal comandante inglese del brigantino Beagle che lo avvistò per primo nel 1832, durante il suo viaggio con Charles Darwin. Aldo Bonacossa nel 1937 e Juan Zechner nel 1948 fecero ricognizioni della montagna e anche padre Alberto M. De Agostini la avvicinò in più occasioni, ma fu solo il 2 febbraio 1952 che Guido Magnone e Lionel Terray, parte di una forte spedizione francese, toccarono la cima dalla Cresta Sudovest dopo una lunga e dura lotta. La seconda ascensione (14-16 gennaio 1965) fu di José Luis Fonrouge e Carlos Comesaña, che seguirono senza corde fisse un grande canalone sul versante occidentale, la 'Supercanaleta', già saggiata nel 1962. Per questo stesso itinerario, il 27 luglio 1986 Gabriel Ruiz, Eduardo Brenner e Sebastián de la Cruz compirono la prima invernale, senza però raggiungere la vetta. Il 20 dicembre 1968 la montagna fu scalata dal Pilastro Sudovest, da parte di Yvon Chouinard, Lito Tejada-Flores, Dick Dortworth, Chris Jones e Doug Thompkins. Questa è oggi la via più ripetuta del Fitz Roy, attraverso la quale Thomas Bubendorfer realizzò la prima solitaria, il 16 gennaio 1986.
Successivamente la parete Sud, 'via anglo-americana', fu scalata da Dave Nicol, Eddie Birch, Julian Mo Anthoine, Guy Lee e Ian Wade, 11 dicembre 1972; il Pilastro Est, 1300 m, da Casimiro Ferrari e Vittorio Meles, 15-23 febbraio 1976; il Pilastro Nord, 1200 m, da Renato Casarotto in prima solitaria, con corde fisse, 11-19 gennaio 1979; la parete Nordovest, 'via francese', da Guy Abert, Jean e Michel Afanassief e Jean Fabre, 27 dicembre 1979; la parete Ovest, 'via cecoslovacca', da Michal Orolin, Robert Galfy e Vladimir Petrik, 15 gennaio 1983; il Diedro Nordest, 'Devil's Diedre', da Silvo Karo, Francek Knez e Janez Jeglič, 8 dicembre 1983; la parete Sudest, 'via spagnola', da Miguel-Angel e José-Luis García Gallego, 20 marzo 1984, con molte corde fisse; la parete Nord, 'The ear', da Wieslaw Burzynski, Miroslaw Falco-Sasal, Michal Kochanczak, Jacek Kozaczkiewicz e Piotr Lutynski, 24 dicembre 1984, in 10 giorni; la parete Sud, 'via iugoslava', da Bogdan Biščak, Rado Fabjan e Matevź Lenarčič, 22 dicembre 1985; la parete Nord, 'via Tehuelche', da Carlo Barbolini, Massimo Boni, Mauro Petronio, Angelo Pozzi, Mauro Rontini e Marco Sterni, 17 gennaio 1986, con 1200 m di corde fisse e senza raggiungere la cima (ripresa l'8 e 9 dicembre 1996 da Rolando Garibotti e Doug Byerly, che in stile alpino continuarono fino alla vetta); il Pilastro Est, 'El corazón', da Kaspar Ochner e Michal Pitelka nel 1992; il Pilastro Nordovest, 'Ensueño' (7a, A1) da Lorenzo Nadali, Andrea Sarchi e Mauro Girardi, 26 gennaio 1995 (4 giorni, stile alpino); il Pilastro Est, 'Royal flush' (IX grado e A2) da Bernd Arnold e Kurt Albert (senza la vetta), nel 1995. (a.g.)
Dal colle delle Grandes Jorasses (a ovest) al colle delle Hirondelles (a est) si estende la montagna più bella dell'intero massiccio del Monte Bianco, composta da sei vette: Punta Young (3996 m), Punta Margherita (4065 m), Punta Elena (4042 m), Punta Croz (4108 m), Punta Whymper (4180 m) e infine la più alta, Punta Walker (4206 m). Queste sei cime hanno un'unica grande parete Nord che precipita sul ghiacciaio di Leschaux per 1200 m ed è la più formidabile struttura granitica dell'intera catena delle Alpi. I versanti Sud e Sudovest, entrambi di 1500 m, sono divisi dalla Cresta di Pra Sec; sul versante Sudovest si trova il ghiacciaio delle Grandes Jorasses, lungo il quale si sviluppa la via normale di salita. In ultimo, la parete Est della Punta Walker precipita per 800 m sul ghiacciaio del Freboudze.
Nel 1865, venti giorni prima di raggiungere la vetta del Cervino, Edward Whymper, con Michel Croz, Christian Almer e Franz Biner, aggiunse alle sue brillanti prime ascensioni della stagione quella delle Grandes Jorasses. Il 30 giugno 1868 Horace Walker compì la prima ascensione della vetta massima per l'attuale via normale, con Melchior Anderegg, Johann Jaun e Julien Grange. Il 14 gennaio 1891 Paul Güssfeldt, con le guide Emile Rey, Laurent e Fabien Croux e David Proment, diede inizio all'alpinismo invernale sulle Grandes Jorasses. Nel 1923 Francesco Ravelli e Guido Alberto Rivetti, con Evariste Croux, riuscirono a salire la poderosa Cresta di Pra Sec con un solo bivacco. Il 10 agosto 1927 ancora Ravelli e Rivetti, questa volta con Gustavo Gaja e Sergio Matteoda e con le guide Adolphe Rey e Alphonse Chenoz, affrontarono vittoriosamente la Cresta Nordest, quell'Arête des Hirondelles che aveva respinto ben 32 tentativi. Negli anni Trenta fu la parete Nord ad attirare l'attenzione dei migliori alpinisti europei. Dopo una serie di tentativi, il 30 luglio 1934 l'attacco fu condotto da Rudolf Peters e Peter Haringer, Armand Charlet e Ferdinand Belin, Renato Chabod e Giusto Gervasutti, oltre che da una cordata di tre austriaci. Soltanto i primi due, nonostante le cattive condizioni della parete, superarono il passaggio chiave fra nevaio medio e nevaio superiore e risalirono il secondo, bivaccando sulle rocce sovrastanti; tuttavia il 31 una tormenta li costrinse alla ritirata: Haringer cadde e morì durante la discesa, Peters riuscì invece a ritornare incolume alla base della parete. Il 28 e 29 giugno dell'anno successivo Peters conseguì la sua meritata vittoria, arrivando in vetta con Martin Meier. Nel 1938 (4-6 agosto) Riccardo Cassin, Gino Esposito e Ugo Tizzoni salirono lo Sperone Walker della parete Nord, che porta direttamente sulla vetta più alta; oggi su questa parete esiste almeno una ventina di itinerari, alcuni davvero estremi. Dopo due tentativi, Gervasutti e Giuseppe Gagliardone, il 16 e 17 agosto 1942, riuscirono a scalare l'immane parete Est. Dal 25 al 30 gennaio 1963 fu compiuta la prima invernale della via Cassin da parte di Walter Bonatti e Cosimo Zappelli. L'8 luglio 1968 Alessandro Gogna salì in prima solitaria la stessa via e dal 9 all'11 agosto 1972, con Guido Machetto, salì la parete Sud. (a.g.)
Tutte le montagne della Groenlandia sono situate sulle coste, intorno all'immensa calotta glaciale che occupa il cuore dell'isola. Nella parte orientale si trovano le cime più alte, le Watkins Mountains, che devono il nome al loro scopritore (1930): la vetta principale è l'Ejnar Mikkelsen Fjeld (3261 m), scalata nel 1970 da A. Ross, G. Williams, N. Robinson e P. Lewis. A oriente, nella Scoresby Land, vi sono le Staunings Alps: la cima più alta è il Dansketinde (2930 m), scalato da J. Haller e W. Diehl nel 1954. Qui si trovano centinaia di montagne bellissime, la cui esplorazione è in atto ancora oggi. Sempre sulla costa orientale, più a Sud, vi sono l'Alpefjord e il Mount Forel (3360 m, scalato nel 1938); l'estremità è Cape Farewell. Anche la costa occidentale è ricca di gruppi montuosi (Sukkertoppen, Umanak Fjord, Melville Bay) e di grandi pareti di granito che oggi sono meta dei più forti arrampicatori del mondo. (a.g.)
Situato nella parte centrale della vasta catena montuosa del Karakorum, sul confine tra Pakistan e Cina, il K2 (8611 m) fu descritto per la prima volta nel 1856 dal topografo inglese T.G. Montgomery, del Survey of India, che lo nominò appunto K2: K in riferimento al Karakorum, 2 in quanto era la seconda montagna individuata nelle sue rilevazioni dal monte Haramuhk in Kashmir (la prima, il K1, era il Masherbrum, 7821 m). Nella lingua locale il K2 è chiamato Chogori, "re delle montagne". Pur essendo la seconda vetta per altezza, è considerata al primo posto tra gli 'ottomila' quanto a difficoltà alpinistiche: anche per l'itinerario classico (Sperone Abruzzi), impegno e pericoli imprevisti sono maggiori che sull'Everest.
Nel 1861 l'inglese Henry Haversham Godwin Austin fu il primo a osservarlo dal ghiacciaio del Baltoro (Pakistan), mentre l'inglese Francis Younghusband fu il primo europeo ad avvicinarlo dal versante cinese (Nord), nel 1887. La storia alpinistica del K2 ebbe inizio nel 1902, quando la spedizione internazionale guidata da Oskar Eckenstein tentò di salirlo dal versante cinese lungo la Cresta Nordest, per fermarsi a 6525 m. Sette anni più tardi, nel 1909, fu la volta della spedizione italiana del Duca degli Abruzzi che, pur fermandosi a 6250 m, ebbe tuttavia il merito di individuare la via più logica di salita lungo la Cresta Sudest (Sperone Abruzzi), oggi la via normale dal versante pakistano. Della spedizione faceva parte anche il fotografo Vittorio Sella, che scattò memorabili immagini della montagna. Dal 1938 al 1953 seguirono importanti tentativi da parte di spedizioni americane. La prima nel 1938, guidata da Charles Houston, arrivò fino a 7925 m lungo lo Sperone Abruzzi. Nel 1939 con il tedesco-americano Fritz Wiessner la cima fu quasi raggiunta, sempre lungo lo Sperone Abruzzi, ma la spedizione mancò di coordinamento: a 8382 m la cordata, della quale faceva parte anche lo sherpa Pasang Kikuli, fu costretta a ripiegare, ma scoprì che tutti i campi erano già stati abbandonati. Così la discesa al campo base fu drammatica e segnata dalla morte di Dudley Wolfe, rimasto solo al campo VII, e di tre sherpa, tra i quali Pasang, impegnati nel tentativo di salvarlo. Nel 1953 fu ancora la volta di Charles Houston. Ma solo il 31 agosto del 1954 la vetta fu raggiunta dalla spedizione italiana guidata da Ardito Desio, lungo lo Sperone Abruzzi. In cima giunsero Achille Compagnoni e Lino Lacedelli, con il cruciale e generoso supporto di Walter Bonatti e del portatore hunza Mahdi, che trasportarono le bombole d'ossigeno per l'ultimo attacco fino oltre quota 8000 m, dove dovettero affrontare un durissimo bivacco senza tenda, poiché non trovarono nel luogo convenuto quella dei due uomini di punta. Il mattino dopo, mentre Bonatti e Mahdi scendevano, Lacedelli e Compagnoni recuperarono l'ossigeno e salirono in vetta. Da allora il K2 è chiamata 'la montagna degli italiani'.
Trascorsero altri trentatré anni prima che il K2 fosse nuovamente scalato. Dal 1960 al 1975, infatti, la zona del Baltoro rimase chiusa agli stranieri per via dei conflitti che coinvolsero Cina, India e Pakistan. Nel 1977 un'imponente spedizione giapponese, con 1500 portatori e guidata da Ichiro Yoshizawa, realizzò la seconda ascensione lungo la stessa via dei primi salitori. L'anno successivo gli americani John Roskelley, Richard Ridgeway e Louis Reichardt compirono la terza ascensione, in parte salendo lungo la Cresta Nordest (aperta da una cordata polacca, costretta a fermarsi a 8400 m) e tagliando a 7700 m sullo Sperone Abruzzi. Nel 1981 fu salita anche la Cresta Ovest, versante Sudovest, da parte della spedizione giapponese guidata da Teruoh Matsuura; si trattò di una salita di particolare importanza anche a livello locale: in cima, oltre al giapponese Eiho Ohtani, giunse il primo pakistano, Nazir Sabir. Nel 1982 sempre una cordata giapponese fu la prima a raggiungere la vetta dal versante cinese (Cresta Nord) senza ossigeno; Naoe Sakashita, Yukihiro Yanagisawa e Hiroshi Yoshino bivaccarono in piena tormenta senza riparo a oltre 8300 m sulla via del ritorno: sopravvissero, ma il giorno seguente Yanagisawa precipitò nella discesa. La seconda salita dal versante cinese fu ancora italiana: la spedizione guidata da Francesco Santon vide Sergio Martini e Fausto De Stefani in cima il 4 agosto 1983.
Il 1986 entrò nella storia del K2 per innumerevoli exploit, ma anche per 13 tragiche morti, compresa quella dell'italiano Renato Casarotto. La polacca Wanda Rutkiewicz fu la prima donna ad arrivare in vetta, seguita dalla francese Liliane Barrard e dall'inglese Julie Tullis, che morirono nella discesa. La cordata polacca di Jerzy Kukuczka e Tadeusz Piotrowski conquistò la parete Sud in stile alpino (Piotrowski morì sulla via del ritorno), mentre la cordata polacco-ceca Wojchiech Wroz, Przemyslaw Piasecki, Petr Bozik realizzò la prima ascensione completa della Cresta Sud-Sudovest e la prima traversata della montagna; Wroz morì in discesa. Lo Sperone Abruzzi fu salito in velocità in 24 ore dallo specialista francese Benoit Chamoux, che già aveva realizzato la solitaria al Broad Peak in 16 ore nella stessa stagione.
Nel 1990 la cordata giapponese composta da Hideki Nazuka e Hirotaka Imamura aprì una via nuova sulla parete Nordovest. Nel 1991 i francesi Christophe Profit e Pierre Beghin (che già nel 1988 aveva tentato in solitario la via giapponese, fino a 8000 m) realizzarono un nuovo exploit, arrivando in cima al K2 in completo stile alpino e senza campi fissi, partendo dal versante pakistano e continuando lungo la Cresta Nordovest e la parete Nord. (a.c.)
Vulcano spento situato tra Tanzania e Kenya (la cima è in Tanzania), è la montagna più alta del continente africano, formata da tre vette principali: Kibo (5895 m), Mawenzi (5148 m) e Shira (4045 m). Kibo in masai significa 'il bianco': infatti la cima è coperta da neve perenne e circondata da ghiacciai. La salita alla vetta più alta fu compiuta il 6 ottobre 1889 dal tedesco Hans Meyer con la guida austriaca Ludwig Purtscheller. L'ascensione lungo la via normale, sul versante Sud del Kibo, parte da Marangu ed è una lunga camminata, faticosa esclusivamente per la quota; battutissima, è percorsa ogni anno da migliaia di camminatori. La parete più difficile è la Breach Wall, dove Reinhold Messner e K. Renzler realizzarono nel 1978 una delle vie più tecniche e impegnative della montagna, la diretta.(a.c.)
È la cima più alta delle Snowy Mountains e di tutta l'Australia. Situato al confine tra Nuovo Galles del Sud e Victoria, fu così chiamato dall'esploratore polacco Paul Strzelecki nel 1840, in onore di Tadeusz Kosciuszko, patriota polacco che aiutò i suoi connazionali nella lotta per l'indipendenza dalla Russia. Fu proprio Strzelecki a scalare il monte per la prima volta, a marzo di quello stesso anno. (a.c.)
Le Prealpi Bavaresi, tra Innsbruck e la Germania, assumono il carattere più severo, con grandi e tetre pareti grigiastre, con il Karwendel. Sul versante settentrionale la Lalidererspitze (2583 m) presenta un appicco di 800 m, la famosa Lalidererwand, teatro di una vivace storia alpinistica. Nel 1911 la scalò Angelo Dibona assieme a Max e Guido Mayer e a Luigi Rizzi; fu la prima delle sole due volte che la grande guida cortinese affermò di essersi in certo qual modo superato. A parte Dibona, la figura più rappresentativa di quel tempo fu Otto Herzog, che su queste pareti, tra il 1913 e il 1930, tracciò una quantità di vie nuove di altissimo livello tecnico. Qui, e non sulle Dolomiti, si verificò il vero avanzamento verso il VI grado. Guardando la parete da sinistra a destra, la prima via è la Nord della Dreizinkenspitze di Gustav Haber e Otto Herzog, sulla quale corre il Diedro Ha-He, così chiamato dalle iniziali dei primi salitori, che lo superarono in 3 giorni nel 1922, impresa ripetuta soltanto trent'anni dopo: quello fu il primo vero VI+, 400 m più difficili della Furchetta, del Sass Maor, dei tratti impegnativi del Civetta. Poi si incontrano la 'Klaus Werner-Gedächtnisführe' di J. Ritter e G. Schweisshelm (1976), la via di A. Erdenkäufer e O. Sigl (1966), la diretta di Toni Schmid ed Ernst Krebs (1929). Quindi, oltre la Dibona, le due vie di Mathias 'Hias' Rebitsch: il 'Nordverschneidung', tracciato nel 1947 con F. Lorenz, 700 m che si potrebbero già definire di VII grado; e, più a destra, la 'Gerade Nordwand', altri 700 m su aperta parete (Rebitsch la scalò nel 1946, in due riprese, la prima con S. Spiegel, la seconda con Kuno Rainer; nel 1947 la prima integrale fu di Hermann Buhl con L. Vigl). In mezzo a questi due itinerari, così diversi di concezione e metodo, si svolgono la 'Nordwand', aperta nel 1932 da Mathias Auckenthaler e H. Schmidhuber (risposta tedesca ai primi VI gradi italiani su Civetta e Marmolada), e la 'Charlie Chaplin' tracciata nel 1977 da Heinz Mariacher e Peter Brandstätter, un capolavoro del free climbing moderno. (a.g.)
Il gruppo della Marmolada si erge al centro delle Dolomiti. A Nord, le valli del torrente Cordevole e del torrente Avisio lo isolano dal Gruppo di Sella. Sul versante settentrionale si estende il ghiacciaio della Marmolada (3,3 km2), il maggiore delle Dolomiti, mentre su quello meridionale precipita una parete larga 4 km e alta fino a 900 m. Dal 1915 al 1917 il gruppo della Marmolada fu teatro di guerra e ancora oggi restano impressionanti tracce dei lavori in roccia eseguiti dai due eserciti, soprattutto sulle Creste di Costabella, sul Col Ombert e a Forcella Serauta.
Il 2 agosto 1802 (quindi, soltanto sedici anni dopo la conquista del Monte Bianco), una comitiva di valligiani ladini, condotta dal trentasettenne cappellano di Pieve di Livinallongo, don Giuseppe Terza, di Valle di Badia, tentò la conquista della vetta; presto i più si persero d'animo, ma don Terza volle proseguire da solo; non fece più ritorno, certamente inghiottito da un crepaccio. In molte pubblicazioni la conquista del culmine di Punta Rocca, 3309 m, seconda cima della Marmolada, viene attribuita a John Ball, ma, in realtà, la prima ascensione certa fu quella di Pellegrino Pellegrini, assieme al grande pioniere Paul Grohmann, nel 1862. Già sei anni prima lo stesso Pellegrini con alcuni compagni era giunto, se non sulla vetta di Punta Rocca, a pochi passi dalla stessa, aprendo così la storia delle grandi conquiste nelle Dolomiti. Grohmann, assieme alle guide Angelo e Fulgenzio Dimai di Cortina d'Ampezzo, dopo alcuni vani tentativi, riuscì finalmente, il 28 settembre 1864, ad ascendere dal lato del ghiacciaio la massima cima, Punta Penia (3342 m). Ben più ardua fu, il 22 agosto 1897, la conquista della parete rocciosa nella quale l'unico punto debole è il profondo canalone della S'cesora (fessura), che precipita da un intaglio della cresta tra Marmolada di Rocca e Piz Serauta, a grande distanza dalla vetta, circa 2 km. Artefici di questa epica salita furono l'agordino Cesare Tomè con la guida Santo De Toni e il portatore Luigi Farenzena; furono utilizzati alcuni cavicchi di ferro, quasi primitivi chiodi a espansione, che De Toni piantava e Farenzena rimuoveva; si trattò della prima adozione di una tecnica destinata a evolversi fino al chiodo a pressione e allo spit moderno.
Il 1° luglio 1901 le due guide Michele Bettega e Bortolo Zagonel, di Primiero, insieme all'inglese Beatrice Thomasson, salirono una via diretta alla vetta di Punta Penia, superando la muraglia di 600 m con difficoltà fino e oltre il IV grado. In seguito la Marmolada si affiancò al Civetta e alle Tre Cime di Lavaredo quale teatro delle massime conquiste del VI grado, come quella della grande guida della Val di Fassa Luigi Micheluzzi, con Robert Perathoner e Demetrio Christomannos, sul Pilastro Sud di Punta Penia (1929), o quella di Gino Soldà con Umberto Conforto, sulla parete Sudovest di Punta Penia (1936), o ancora quella di Giovambattista Vinatzer ed Ettore Castiglioni, sulla parete Sud di Punta Rocca (1936). Le vie aperte in seguito, come la 'via attraverso il pesce' nel 1981, dei cecoslovacchi Igor Koller e Jndrich Šustr, poi 'liberata' da Heinz Mariacher, hanno portato la Marmolada ai vertici dell'attenzione e della tecnica.(a.g.)
Situata in Alasca, è la montagna più a Nord del mondo e la più alta del continente nordamericano. È anche una delle più fredde, per la sua vicinanza al Circolo polare artico. Gli indiani athabasca la chiamavano Denali, "l'alto". Fu scoperta nel 1794 dal navigatore George Vancouver, mentre fu il cercatore d'oro William Dickey nel 1896 a darle il nome dell'uomo politico William McKinley, che divenne poi presidente degli Stati Uniti.
È composta da due vette: Cima Nord (5934 m) e Cima Sud (6194 m). Dopo un tentativo di Frederick Cook del 1906, la prima salita alla Cima Nord (5934 m) fu compiuta nel 1910 da Peter Anderson e William R. Taylor, mentre la Cima Sud fu scalata nel 1913 da Hudson Stuck, Harry Karstens, Robert Tatun e Walter Harper. La seconda ascensione fu del 1932 da parte di Erling Strom, Alfred Lindley, Harry Liek, Grant Pearson. La terza scalata ebbe luogo nel 1942, diretta da Bradford Washburn. Nel 1947 Washburn ripeté l'impresa con la moglie Barbara (prima donna in vetta), Robert W. Craig e altri scalatori. Il contrafforte Nordovest fu vinto nel 1945 da William Hackett, Charles Wilson, Henry Meybohm, Fred Beckey. Nel 1954, un gruppo guidato da Elton Thayer compì la prima traversata da Sud a Nord. Nel 1961 Riccardo Cassin, Pier Luigi Airoldi, Luigi Alippi, Romano Perego, Annibale Zucchi e Giancarlo Canali furono autori della spettacolare impresa della scalata allo Sperone Sud, fino alla Cima Sud. Il 31 luglio 1963 il McKinley fu traversato da Est a Ovest da Vincent Hoeman, Tom Choate e Dave Johnston. Nel 1967 vi fu la prima ascensione invernale, per merito di Gregg Blomberg e Jacques Batkin. Nel 1970 i giapponesi Kazuo Hoshikawa e Tsuyoshi Ueki compirono la prima discesa con sci dalla vetta. Nel giugno del 1971, Sylvain Saudan scese con gli sci dal versante Sudest. Nel 1967 una spedizione giapponese diretta da Takao Sasaki scalò il McKinley per la cresta centrale dello Sperone Sud. La prima traversata in sci del McKinley, del 20 giugno 1974, fu dei tedeschi Günther Sturm, Erich Reismüller, Eckert Gundelach e Lutz Freier. Altri itinerari grandiosi furono aperti nel 1976: sulla parete Sud, la via di Doug Scott e Dougal Haston (29 aprile-12 maggio) e, sul versante Ovest, quella di Reinhold Messner e Oswald Ölz (13 giugno). Sempre nel 1976 Charlie Porter salì da solo la via Cassin. (a.g.)
Nona montagna della terra, il 'Monte nudo' (in sanscrito) è situato all'estremità occidentale dell'Himalaya, in Pakistan. Viene spesso chiamato 'la montagna dei tedeschi' perché la storia della sua conquista, durata cinquantotto anni, ha visto una costante presenza di spedizioni tedesche. Il primo tentativo però fu inglese: nel 1895 Albert Frederick Mummery, dopo aver esplorato il versante Rupal, scomparve con due gurka mentre cercava di passare dal versante Diamir, che lo aveva respinto, alla valle Rakhiot (che sarà poi utilizzata per la prima salita). Soltanto più di trent'anni dopo si ritentò l'impresa. Nel 1932 la spedizione tedesco-americana, guidata da Willi Merkl, arrivò fino al Rakhiot Peak (7070 m), ma fallì l'obiettivo della cima. Due anni più tardi, una spedizione guidata ancora da Merkl raggiunse i 7850 m sul versante Rakhiot, ma fu sorpresa dall'arrivo del monsone, che provocò la scomparsa di tre alpinisti, Merkl incluso, e due sherpa. Quattro anni più tardi il numero delle vittime sul Nanga Parbat crebbe: 16 membri della spedizione tedesca guidata da Karl Wien furono sepolti da una valanga al campo IV. Nel 1938 e 1939 seguirono altre due spedizioni tedesche, con esplorazione della parete Diamir. La seconda fu interrotta dalla guerra e gli alpinisti tedeschi furono internati. Fra di loro era Heinrich Harrer, salitore della Nord dell'Eiger, che fuggì e si rifugiò alcuni anni in Tibet. Dopo la Seconda guerra mondiale, il 3 luglio 1953, l'austriaco Hermann Buhl, componente della spedizione tedesca guidata da Karl Herrligkoffer, fratellastro di Merkl, salì in solitario dal campo V e con 17 ore di scalata raggiunse la vetta del Nanga Parbat, dal versante Rakhiot.
Negli anni Sessanta e Settanta Herrligkoffer organizzò nuove spedizioni. Il 22 giugno 1962 la prima via sul versante Diamir fu aperta da Siegfried Löw, Anton Kinshofer e Anderl Mannhardt, ma nel ritorno Löw perse la vita; oggi questa via è considerata la normale alla cima, anche se per nulla facile. Nel 1970 i fratelli italiani Reinhold e Günther Messner realizzarono la prima ascensione della parete Rupal, 4500 m di dislivello, la più alta del mondo, ma furono costretti a effettuare la prima traversata della montagna, scendendo dal versante Diamir e Günther Messner perse la vita sotto una valanga. Nel 1976 gli austriaci Robert Schauer, Hans Schell, Hilmar Sturm e Siegfried Gimpel aprirono una via sulla sinistra del versante Rupal. Due anni più tardi Reinhold Messner realizzò in 5 giorni la prima ascensione completamente in solitario di un 'ottomila', con una nuova via sul versante Diamir e discesa per un altro nuovo itinerario. La francese Liliane Barrard, il 27 giugno 1984, fu la prima donna in vetta, per la via Kinshofer. Nel 1985 la cima fu raggiunta da una cordata polacca tutta femminile (Wanda Rutkiewicz, Anna Czerwinska, Krysztyna Palmowska). L'ultima via al Nanga Parbat è una bella variante diretta della via Kinshofer aperta in stile alpino da Simone Moro e Jean Christophe Lafaille, nel 2003.(a.c.)
Regione montuosa dell'Asia centrale (100.000 km2 circa), è un importante nodo orografico da cui si dipartono imponenti catene montuose, quali l'Himalaya, il Karakorum, il Kunlun, il Tien Shan, l'Altaj e l'Hindukush. Chiamato dagli indigeni Bam-i-Dunya, "Tetto del Mondo", è caratterizzato da un altopiano alto in media 3800 m; a Nord la valle del Kyzylsu lo separa dalla catena dell'Altaj, a Ovest e a Sud l'alto corso del Pjandž-Wakhandaria dall'Hindukush, a Est le valli superiori dello Yarkand e del Kashgar dal Kunlun. Le catene principali hanno direzione Ovest-Est, come la Zaalaj o Transalaj (Pik Lenina, 7134 m e Kurumdy, 6610 m), la PetraPervogo (Pik Moskva, 6785 m), la Darvag (Pik Arnavad, 6083 m), la Jazgulem (Pik Vudor, 6132 m), la Rušan (Pik Pathor, 6080 m), la Šahdarin (Pik Marksa, 6726 m), l'Aličur Settentrionale (Monte Kulin, 5929 m), l'Aličur Meridionale (Monte Kyzyldangi, 5706 m), la Wakhan o Vahan (6281 m); oppure direzione Nord-Sud, come l'Akademii-Nauk (Pik Kommunizma, 7495 m, e Pik Korženevskaja, 7105 m) e il Sarykol (6351 m). Politicamente il Pamir è diviso tra il Tagikistan, la Cina (Regione autonoma del Sinkiang Uighur) e l'Afghanistan. Nelle valli marginali vivono alcune popolazioni nomadi quali i pamiri, i tagiki e i kirgizi. Anziché essere un punto di separazione o una barriera fra i popoli, il Pamir ha offerto fin dall'antichità passaggi disagevoli ma possibili per grandi migrazioni ed eserciti invasori e carovanieri commerciali, attraverso vari passi, quali il Kyzylart, 4280 m, l, 4655 m, il Najzataš, 4137 m e il Kojtezek, 4271 m.
Il Pik Lenina fu scalato dalla spedizione di Willi Rickmer nel 1928, mentre sul Pik Kommunizma salì in solitario Eugeny Abalakov nel 1933. Il Pik Korženevskaja, che si trova a circa 15 km in direzione Nord rispetto al Pik Kommunizma, fu raggiunto nel 1953 da A.S. Ugarov con sette compagni, facenti parte della spedizione condotta da J. A. Belecki e D.M. Zatulovski; la seconda ascensione avvenne per la Cresta Sud, nel 1961, da parte di un gruppo diretto da B. Romanov; nel 1966 il gruppo guidato da L. Dobrolovski salì per la Cresta Est, Pilastro Sud, parete Ovest-Sudovest. La prima ascensione del Pik Revoljucii (6974 m), situato nella catena Jazgulem e il cui nome più antico (1928) era Dreispitze, fu guidata nel 1954 da Ugarov; nel 1960 A. Gromov salì per la Cresta Sudest; nel 1962 fu compiuta la prima ascensione del Pilastro Nord per merito di un gruppo guidato da A. Černobrovkin. Data l'enorme estensione della catena, il Pamir rappresenta uno dei più grandi serbatoi di novità per l'alpinismo futuro. (a.g.)
Il Monte Rosa, il cui nome deriva da 'roisa', che nel dialetto locale significa 'ghiaccio', è un gruppo posto al confine fra Val d'Aosta, Piemonte (province di Vercelli e Novara) e Svizzera. La sua cima più elevata, la Punta Dufour, tocca i 4633 m ed è così la seconda vetta delle Alpi dopo il Monte Bianco. Sull'area del gruppo, 290 km2, sono ben 19 le cime che superano i 4000 m: da Ovest a Est Breithorn Occidentale (4165 m), Centrale (4160 m) e Orientale (4139 m), Roccia Nera (4082 m), Polluce (4094 m), Castore (4221 m), Punta Felik (4176 m), Lyskamm Occidentale (4477 m) e Orientale (4532 m); oltre il Colle della Scoperta, da Nord a Sud si evidenziano: Punta Nordend (4610 m), Punta Dufour (4633 m), Punta Zumstein (4563 m), Punta Gnifetti (4554 m), Punta Parrot (4435 m), Ludwigshoehe (4342 m), Corno Nero (4321 m), Balmenhorn (4194 m), Piramide Vincent (4215 m), Punta Giordani (4046 m).
Le prime esplorazioni note cominciarono nel 1778, quando sette cacciatori walser di Gressoney (secondo la leggenda oltre le vette si estendeva la 'valle perduta', una sorta di paradiso terrestre un tempo abitato dai loro antenati) risalirono la valle del Lys Orientale sino al valico che la chiude a quota 4153 m, da allora chiamato 'Roccia della Scoperta'. Il medico di Alagna Valsesia Felice Giordani nel 1801 salì la Punta che prende oggi il suo nome, mentre nel 1819 l'ingegner Nicolas Vincent (che da giovanissimo era fra i sette coraggiosi del Colle della Scoperta del 1778) raggiunse e battezzò un'altra vetta. Un anno dopo fu la volta di un altro reduce della spedizione del 1778, l'ispettore forestale Joseph Zumstein, a salire sulla 'sua' vetta. La cima più alta a quei tempi era considerata la vicina Signalkuppe, che oggi prende nome dal primo salitore, don Giovanni Gnifetti, parroco di Alagna, che la raggiunse nel 1842, dopo tre tentativi.
La fama alpinistica del Monte Rosa si era ormai diffusa e iniziarono ad arrivare gli stranieri. Il 1° agosto 1855 una folta spedizione, guidata dall'inglese Charles Hudson e composta dai suoi connazionali John Birbeck, James e Christopher Smyth, Edward Stevenson e dalle guide di Zermatt Ulrich Lauener, Johannes e Matthäus Zumtaugwald, raggiunse infine la vera cima, la Punta Dufour. La parete Est, completamente ghiacciata, fu violata nel 1872 da Richard e William Pendlebury insieme con Charles Taylor e le guide Ferdinand Imseng, Giovanni Oberto e Gabriel Spechtenhauser. Alla fama del Monte Rosa, in seguito offuscata da altri obiettivi nelle Alpi e nel mondo, contribuirono negli anni Ottanta del 19° secolo le vie di ghiaccio aperte da Gian Carlo Grassi.
Il Monte Rosa deve anche la sua fama alla Capanna Regina Margherita (il rifugio più alto d'Europa, realizzato nel 1893 sulla vetta della Punta Gnifetti) e all'annesso osservatorio-laboratorio; e al suo nome è legato il Trofeo Mezzalama, gara di sci alpinismo nata nel 1933, che si svolge da Cervinia a Gressoney, con lunghi tratti a quota 4000 m. (d.r.)
Gigantesco obelisco di granito (6237 m) situato accanto alla più massiccia Great Tower (6297 m), si erge dal ghiacciaio del Baltoro (Karakorum). La prima ascensione si ebbe l'8 luglio 1976, per la parete Sud-Sudovest (35 lunghezze, 6b/A2), per opera degli inglesi Martin Boysen e Mo Anthoine, seguiti il giorno successivo da Joe Brown e Malcom Howells. La prima ripetizione fu compiuta da Satoshi Kimoto e Masanori Hoshina, nel settembre 1990. Francek Knez, Slavko Cankar e Bojan Šrot, il 15 giugno 1987, in stile semi-alpino aprirono la 'via slovena' (1200 m, 32 lunghezze, 6c/A0): un banco di prova per Wolfgang Güllich, Kurt Albert e Hartmut Münchenbach, che nel 1988 la ripeterono in prima libera. Sul Pilastro Ovest (25 lunghezze, 6c/A4) la prima ascensione fu di Patrick Delale, Michel Fauquet, Michel Piola e Stéphane Schaffter, il 24 giugno 1987, in stile semi-alpino. Altro bellissimo itinerario sulla parete Est (29 lunghezze, VI/A3) è quello aperto da Vojchiech Kurtyka e Erhard Loretan il 13 luglio 1988; la prima libera fu compiuta da Todd Skinner, con Mike Lilygren, Bob Model e Jeff Bechtel, nel 1995 (60 giorni in parete). Sono poi da menzionare: 'via spagnola' (36 lunghezze, VI/A3), tracciata da José Luis Clavel, Miguel A. Gallego, Chiri Ros e José Seiquer, il 9 agosto 1989; 'Eternal flame' (35 lunghezze fino al 5.12c), aperta da Kurt Albert, Wolfgang Güllich e Christian Stiegler, il 20 settembre 1989; 'via giapponese' (5.10, A4), coperta da Takeyasu Minamiura da solo, il 9 settembre 1990, dopo quaranta giorni (scendendo col parapendio, sbatté su una cengia dove attese altri otto giorni prima di essere recuperato da Hoshina e Kimoto, reduci dalla prima ripetizione della 'via dei norvegesi' alla Great Tower e da una veloce salita della Torre di Trango per la 'via inglese').
Altri itinerari sono 'Run for cover' (5.11/A3+), di Greg Child e Mark Wilford (1992); 'via basca', di Antonio Aquerreta, Fermin Izco e Mikel Zabalza (1995, dopo due settimane di salita); 'Book of shadows', degli americani Eric Brand, Willy Benegas, Jarrod Ogden e Kevin Starr (1995; 20 bivacchi). Sulla vicina Great Tower (prima ascensione: Galen Rowell, Kim Schmitz, Dennis Hennek e John Roskelley, in stile alpino, nel 1977), è stata realizzata una delle più grandiose imprese extraeuropee: i norvegesi Hans Christian Doseth e Finn Doehli, il 5 agosto 1984, dopo 20 bivacchi, salirono il Pilastro Est, 1500 m (A4, 6b e 6c), subendo poi in discesa un fatale incidente. (a.g.)
Le Tre Cime di Lavaredo (2999 m) costituiscono un monumento inimitabile: le pareti Nord variano tra i 500 m e i 550 m, la Cima Ovest ha strapiombi stratificati e gialli, la più verticale Cima Grande è solcata da grandi striature nerastre e infine l'insieme di Cima Piccola, Punta Frida e Cima Piccolissima ha dimensioni minori, compensate da un'eleganza di linee senza pari.
Con la conquista della Cima Grande, il 21 agosto 1869, il grande alpinista viennese Paul Grohmann concluse il ciclo delle imprese con le quali scoprì le Dolomiti orientali e inaugurò l'alpinismo di croda; Grohmann quel giorno si fece accompagnare da due cacciatori di camosci che diventarono poi celebri guide: Peter Salcher di Luggau, in Austria, e Franz Innerkofler di Sesto, in Sud Tirolo. Nel 1879 Michel Innerkofler, la più grande guida dolomitica del suo tempo, con Georg Ploner 'Carbonin' compì la prima ascensione della Cima Ovest, che si credeva già salita pochi giorni prima da Gustav Gröger e Luigi Orsolina, vittime invece di un errore. Nel 1881 della triade rimaneva non scalata soltanto la Cima Piccola: fu conquistata il 25 luglio di quell'anno ‒ dopo molti tentativi di altri, specialmente di Santo Siorpaes e Pietro Dimai ‒ da Michel Innerkofler con il fratello Hans, al termine di un'ascensione condotta con velocità e grande intuito, con la quale fu spostato il limite del possibile su roccia; più tardi le difficoltà di quel percorso saranno stimate superiori al III grado. Una settimana dopo tale impresa, i due fratelli realizzarono l'ardita proposta del cliente austriaco Demeter Diamantidi di salire tutte e tre le Cime di Lavaredo in una sola giornata.
Dal 12 al 14 agosto 1933, dopo molti tentativi e attrezzatura delle prime lunghezze di corda, la Nord di Cima Grande fu raggiunta da Emilio Comici, con Angelo e Giuseppe Dimai, che firmarono così il primo percorso 'a goccia d'acqua' (la prima solitaria della stessa via fu compiuta da Comici il 2 settembre 1937; la prima invernale da Fritz Kasparek e Joseph Brunhuber, il 20 e 21 marzo 1938). Riccardo Cassin con Vittorio Ratti, due anni dopo, dal 28 al 30 agosto 1935, diede prova della sua valentia con il 'traverso' che caratterizza la sua via sulla Nord della Cima Ovest (prima invernale di Walter Bonatti e Carlo Mauri, dal 22 al 24 febbraio 1953; prima solitaria, di H. Frisch, il 21 agosto 1955). Dietrich Hasse, Lothar Brandler, Sigi Löw e Jörg Lehne, dal 6 al 10 agosto 1958 (con precedente attrezzatura della parete) conclusero l'epoca del VI grado superiore con la loro diretta, mentre René Desmaison tracciò l'ultimo grande itinerario di raffinata artificiale delle Dolomiti, ancora sulla Cima Ovest nel 1959. Nel gennaio del 1963, i tre tedeschi Peter Siegert, Rainer Kauschke e Gerd Uhner aprirono una spettacolare via direttissima invernale, restando sulla Nord della Cima Grande diciassette giorni e sedici notti ininterrottamente. (a.g.)
Il Triglav, 'Tricorno' è la vetta più elevata delle Alpi Giulie (2863 m) e della Slovenia. La sua cupola sommitale, che si erge elegante sopra l'ampia parete Nord, domina imponente la Val Vrata. A lungo tentata invano, fu scalata il 26 agosto 1778 da Lorenz Willonitzer, Stefan Rožič, Matthäus Kos e Lukas Korošek. La parete Nord, larga 3 km e alta oltre 2000 m, è una delle più grandiose delle Alpi Orientali.
Le vie più significative, prima delle grandi imprese di Tomo Česen e Francek Knez, sono state: 'Bohinj' (400 m, IV e V, Jože e Tine Mihelič, 1967), 'Sandi Wisiak' (700 m, III e V, France Ogrin e Uroš Župančič, 1933), 'Triestina' (700 m, IV e V, Sandi Blažina e Aleš Kunaver, 1954), 'Ljubljanska' (700 m, V e VI, L. Juvan e T. Sazonov, 1961), 'Pilastro di Jug' (900 m, III, IV e V-, Milan Gostiša e Pavla Jesih, 1930), 'Sfinge' (VI, A2 e A3, di Ante Mahkota e Peter Ščetinin); Kunaver-Drašler (VI, A3, di Kazimir Drašler e Kunaver, 1961), Prusik-Szalay (1200 m, III e V, Karl Prusik e Roman Szalay, 1929), 'Pilastro di Čop' (1250 m, V, VI-, A1, Joža Čop e Jesih, 1945), 'Skala e Gorenjska' (1100 m, III e IV con passaggio di V), 'Peternel' (400 m, V e VI, A2 e A3, Marko Butinar e Nico Tancar, 1961), 'via dei bavaresi' (1500 m, III e IV, Georg Kuglstatter e Hans Unger, 1926), 'via tedesca' (1500 m, III e IV, Karl Domenigg, F. König e Hans Reinl, 1906, con variante d'uscita Jahn-Zimmer), slovena' (800 m, II e III). Nell'anno 1890 Ivan Berginc della Val Trenta si avventurò per primo più o meno dove oggi è la 'via slovena'; a differenza di altri precursori, non salì la parete come guida di un cliente, o come pastore o cacciatore, bensì per curiosità o per gusto personale; inoltre la salita doveva rimanere segreta, perché qualche gendarme poteva accusarlo di bracconaggio e quindi metterlo in prigione. La prima grande invernale fu quella di Kunaver e Mahkota che nel 1955, in 4 drammatici giorni, salirono la 'via tedesca'. I soccorritori erano allertati, ma era impossibile aiutare i due alpinisti: ci fu un'eco enorme a questa impresa, molti la ritennero un'azione sconsiderata.(a.g.)
Situata nelle montagne della Sierra Nevada occidentale, in California, Yosemite è tra le valli più rinomate al mondo per la bellezza e la varietà dei paesaggi naturali e, dal punto di vista alpinistico, per le imponenti pareti granitiche che ne fanno la patria degli arrampicatori specializzati nelle ascensioni in stile big wall. El Capitán, Half Dome, Cathedral Rock, Leaning Tower, Washington Column sono solo alcuni degli spettacolari e immensi blocchi rocciosi che, levigati dall'azione millenaria dei ghiacciai, da mezzo secolo si offrono alle ardite imprese verticali dei climbers di tutto il mondo, attirati anche dalla facilità di accesso di queste pareti. Immerso nel Parco Nazionale dello Yosemite (che fu fondato da John Muir nel 1890), El Capitán (2305 m) è la più ambita e la più nota tra le formazioni rocciose più grandi della Terra. La sua compatta, difficile e verticale parete, alta 1000 m e larga 1600 m, ha assistito all'intera evoluzione della storia alpinistica su big wall. I suoi primi salitori hanno contribuito in modo decisivo allo sviluppo della tecnica di scalata grazie anche a quella dei mezzi di progressione, sempre più leggeri e affidabili: dalle grandi salite in artificiale, con l'uso eccessivo di chiodi a espansione, si è successivamente passati a una loro progressiva riduzione fino all'impiego di soli nuts e friends che vengono incastrati nelle fessure della roccia. Tecnica di salita, quest'ultima, che, trasferita alle grandi big walls del mondo, ha permesso di aprire storiche vie.
El Capitán rimase inviolato fino al 1958, quando lo statunitense Warren Harding aprì la prima via, 'The nose', in artificiale (con Wayne Merry e George Whitmore). Nell'occasione furono utilizzati, in un anno e mezzo di sforzi e 47 giorni di arrampicata, 675 chiodi a pressione, 125 chiodi a espansione e 900 m di corde fisse. Attualmente, con tecniche completamente diverse, la via viene ripetuta dai velocisti in meno di 3 ore (2h48′55″, Yuji Hirayama e Hans Florine, settembre 2002). Un'altra via che ha segnato una svolta nella storia e nello stile di salita su El Capitán è 'Salathé', dedicata a John Salathé, tra i protagonisti delle scalate di Yosemite nel secondo dopoguerra. Ad aprire la via in 9 giorni, nel 1961, con Chuck Pratt e Tom Frost, fu Royal Robbins (un purista che faceva limitato uso di mezzi di progressione), simbolo della storia alpinistica di questa valle, totalmente contrapposto alla personalità di Harding. Con la medesima cordata, alla quale si aggiunse Yvon Chouinard, Robbins aprì anche, nel 1964, la prima via alla parete Sudest di El Capitán, chiamata 'North American wall' (10 giorni). Oggi queste due vie sono state percorse in velocità rispettivamente in 6h32′ (Chandlee Harrel e Jim Herson, luglio 1999) e 9h36′ (Miles Smart e Tim O'Neil, settembre 1999). Simbolo del Parco Nazionale di Yosemite è però lo Half Dome (2695 m), chiamato così per il suo caratteristico profilo a mezza cupola, in quanto la cima è tagliata a metà dalla parete Nordovest. La prima ascensione su questo spettacolare monolito di granito fu realizzata nel 1957 da Robbins. Soltanto nel 1970 la sua parete Sud fu scalata da Harding, con Galen Rowell.(a.c.)
Il Monte Vinson (4897 m) è la più alta tra le montagne che sovrastano l'Antartide; situato nella Sentinel Range delle Ellsworth Mountains, fu scoperto nel 1959 da una spedizione della marina statunitense e fu scalato per la prima volta il 17 dicembre 1966 da una cordata americana guidata da Nicholas Clinch e sponsorizzata dall'American alpine club e dalla National geographic society. La zona è raggiungibile esclusivamente con mezzi aerei. La prima spedizione a giungere sulla cima del Monte Vinson per portare a termine il progetto delle seven summits fu quella guidata da Dick Bass nel 1983, lungo la via normale. L'unica stagione in cui è possibile scalare il Monte Vinson è l'estate australe, da novembre a fine gennaio. Gli alti costi d'accesso e l'asprezza del clima costituiscono comunque un forte freno all'attività alpinistica in questo continente. (a.c.)