alterazione
Con alterazione si designa il fenomeno, riconducibile alla ➔ formazione delle parole, per cui un affisso modifica una parola senza mutarne né la categoria grammaticale né le proprietà denotative essenziali. Ad es., libretto è un alterato di libro, in quanto preserva sia la categoria grammaticale di libro che le sue proprietà denotative, dato che l’oggetto denotato presenta le stesse caratteristiche di quello indicato da libro, seppur in forma ridotta. Allo stesso modo, fischiettare preserva sia la categoria grammaticale di fischiare che le sue proprietà denotative, benché l’azione denotata sia rappresentata come attenuata. Si noti che queste proprietà sono entrambe essenziali per definire l’alterazione, distinguendola da altri procedimenti di formazione delle parole: gelataio preserva la categoria grammaticale del lessema di base gelato, ma evidentemente presenta proprietà denotative diverse da gelato. Inoltre, l’alterazione morfologica è peculiare dell’italiano (e in parte dello spagnolo) tra le lingue romanze (➔ lingue romanze e italiano).
Il significato dell’alterazione è tipicamente valutativo: come si vede negli esempi citati, il significato che i due suffissi aggiungono alla parola base si può intendere come una valutazione che il parlante fornisce della taglia dell’oggetto o dell’intensità dell’azione. In realtà, il significato dell’alterazione è molto ampio: esso include almeno il valore diminutivo come nei due esempi citati, anche nella variante tradizionalmente detta vezzeggiativa (ragazzetto, mammina; ➔ vezzeggiativi), quello accrescitivo (pancione, tavolone; ➔ accrescitivo), peggiorativo (postaccio, tavolaccio), anche nella variante dispregiativa (ragazzaccio, pretino).
Come si vede, il procedimento valutativo varia da un significato strettamente quantitativo-dimensionale (diminutivo, accrescitivo) a uno qualitativo (peggiorativo), sfociando nella valutazione di tipo affettivo (vezzeggiativo, dispregiativo). Peraltro, la varietà dei significati non sembra associata a uno specifico morfema affissale, ma è propria di tutti i procedimenti alterativi in quanto tali, benché ovviamente alcuni procedimenti derivazionali siano più produttivi di altri. Per es., il suffisso -uccio in genere veicola un significato di tipo diminutivo o vezzeggiativo (caruccio, peccatuccio), ma un alberguccio è un piccolo albergo poco attraente. Allo stesso modo, -astro in genere ha significato peggiorativo o dispregiativo (giovinastro, poetastro), ma ha un uso vezzeggiativo o scherzoso in appellativi come cuginastro o topastro (cfr. Merlini Barbaresi 2004: 265).
Inoltre, l’alterazione può «conferire alla base e all’intero enunciato una ricca gamma di significati connotativi e pragmatici che variano a seconda della situazione comunicativa e che si offrono a svariati usi discorsivi» (Merlini Barbaresi 2004: 265). Ad es., una frase come hai preparato l’acquetta per il bagnetto? è immaginabile solo in una situazione in cui siano coinvolti dei bambini, nel cosiddetto linguaggio bambinesco (➔ baby talk). La funzione dei suffissi consiste qui proprio nel marcare l’enunciato in senso affettivo, e non ha niente a che vedere con il significato diminutivo tipico del suffisso -etto, ad es. in libretto.
Un’altra caratteristica dei procedimenti alterativi è quella di non essere riservati ad alcune categorie di parole base, benché sia il nome a occupare il primo posto. Sebbene l’indefinito qualcosina sia molto frequente (una ricerca tramite Google estrae circa quattrocentomila esempi), è di gran lunga il nome la categoria grammaticale che «occup[a] la prima posizione per ampiezza di applicazioni e varietà di scelte suffissali» (Merlini Barbaresi 2004: 267). Rispetto ai nomi, per i quali è difficile individuare restrizioni particolari nel caso di lessemi sia semplici che complessi (si vedano passeggiatina, rivoluzioncella o addirittura il composto asciugamanino), si segnalano ad es. restrizioni di applicazione dell’alterazione ad aggettivi formati coi suffissi produttivi -bile o -istico (*discutibilino, *snobisticuccio). Un discorso a parte merita il suffisso elativo (detto tradizionalmente di superlativo assoluto) -issimo.
Molto meno numerosi sono gli alterati da verbi: Bertinetto (2004) ne conta meno di duecento, tra i quali quelli formati con i suffissi -acchi(are), -icchi(are) e -ol(are) sono i più numerosi. Allo stesso modo, gli avverbi sono ampiamente attestati tra gli alterati (maluccio, pianino), ma quelli derivati con il suffisso estremamente produttivo -mente non ammettono ulteriori derivazioni, il che riduce fortemente il numero potenziale di alterati avverbiali. Si noti inoltre che gli alterati in generale si prestano raramente a operare come basi di derivazione (sono impossibili *freddinità, *gelatineria, o anche *durettamente; cfr. Ricca 2004: 483). Con gli indefiniti, in genere l’alterazione diminutiva è possibile solo nell’uso predicativo, come nel seguente es. (modificato da Google): ma mi paiono un po’ troppini (/ tantini) quasi 25 milioni per un’operazione del genere.
Anche le esclamazioni possono formare alterati, soprattutto diminutivi e peggiorativi: accidentaccio, perbaccolina, così come le formule di saluto: auguroni, salutoni, ecc. Infine anche i numerali possono essere coinvolti nell’alterazione, in genere solo per alcuni valori unitari resi da forme nominali come milioncino, miliarduccio.
In genere l’alterazione si realizza in italiano tramite suffissazione (cfr. Merlini Barbaresi 2004: 265-266 per una lista completa). Tuttavia, anche la prefissazione ha questa funzione: si pensi a casi come maxiprocesso o semipieno (cfr. Iacobini 2004: 147-153 per un’indagine dettagliata). La prefissazione alterativa è in larga espansione grazie a prefissi produttivi come maxi-, mini-, mega-, super-, ecc. Rientrano tra gli alterati anche le formazioni cosiddette ipocoristiche a partire da nomi propri come Pino, Tonino, ecc. Infine, ha funzione valutativa anche la ripetizione (➔ raddoppiamento espressivo), in genere con valore di intensificazione, in espressioni del tipo piccolo piccolo, vicino vicino, ecc. (cfr. Dressler & Merlini Barbaresi 1994: 510-524).
La suffissazione degli alterati solleva una serie di problemi di carattere morfologico. Un primo problema, che concerne gli alterati nominali, è dato dal genere. È noto che di solito i suffissi sono dotati di genere grammaticale inerente (➔ genere) che, nel caso di conflitto, prevale su quello della base. Ad es., in gelateria il genere femminile di -eria si impone sul maschile di gelato. La suffissazione alterativa spesso diverge dal comportamento normale degli altri tipi di suffissi perché preserva il genere grammaticale della base: in cas-ett-a, libr-ett-o, ecc., il genere dell’alterato dipende dalla base benché il suffisso sia lo stesso. Spostandoci sui verbi, si può ripetere un discorso analogo a proposito della classe flessiva che trova espressione nella cosiddetta vocale tematica. Così, ad es., in fischi-ett-are il suffisso -ett- lascia filtrare l’informazione concernente la vocale tematica dalla base all’alterato. Tuttavia, questo principio non è generale, e osserviamo varie deviazioni, che, con qualche eccezione del tipo carro → carretta, sapone → saponetta, vanno nella direzione di favorire il cambio di genere dal femminile al maschile: calza → calzino, finestra → finestrino, porta → portone, ecc. (cfr. Merlini Barbaresi 2004: 274). Tutti i suffissi alterativi presentano casi di cambio di genere, con l’unica eccezione di -uccio.
Soprattutto nei cambi di genere si colloca il fenomeno della ➔ lessicalizzazione (o meglio idiomatizzazione) del significato dell’alterato. L’idiomatizzazione si registra in casi come locandina, «ormai opaco nel suo legame semantico con l’attuale senso di locanda» (cfr. Merlini Barbaresi 2004: 266), ma è presente anche in un lessema recente come telefonino rispetto alla base telefono, nonostante in genere un telefonino sia di taglia ridotta. Si noti che nel caso di suffissi come -ino che «presentano una frammentazione semantica ed hanno impieghi molteplici […] si hanno dubbi se siano casi di polisemia o di omofonia» (Merlini Barbaresi 2004: 266). Basti pensare alla serie di idiomatizzazione crescente fustino, motorino, bocchino, in cui si può pensare, piuttosto che al suffisso di diminutivo -ino, a un suffisso omofono che forma nomi di strumento, in genere di piccole dimensioni, che si trova anche in nomi deverbali come cancellino, misurino, ecc. (cfr. Lo Duca 2004: 231, 272). Come mostra l’ultimo esempio, tra i cambi di genere si registrano parecchi di questi casi, come i citati calzino e finestrino. Di solito è il derivato con cambio di genere a tendere verso l’idiomatizzazione mentre il derivato che preserva il genere mantiene il normale significato alterativo, come in finestrina rispetto a finestrino, calzina rispetto a calzino, ecc. Il cambio di genere non implica necessariamente un processo di idiomatizzazione in atto, come si vede da esempi tratti da Google come Giro d’Italia: Segui il tappone in diretta. Inoltre il cambio di genere si incontra anche con basi denotanti persone o animali di sesso femminile, come in donna → donnino / donnone (a fianco di donnina / donnona), a meno che non sia presente un corrispondente di sesso maschile, per cui infermierina / infermierona sono gli unici alterati possibili di infermiera: i corrispondenti maschili sarebbero alterati da infermiere. Allo stesso modo è in genere evitato il cambio di genere nel caso di radici lessicali omofone come in busta → bustina ~ busto → bustino.
Un’altra proprietà peculiare dei suffissi alterativi è che spesso più suffissi alterativi si cumulano sulla stessa base come in panci-ott-ino, cucin-ett-ina, birb-acci-one, ecc. (cfr. Merlini Barbaresi 2004: 275). Si noti che la cumulabilità non è necessariamente legata all’idiomatizzazione: mentre nel caso di panciottino la base panciotto è idiomatica rispetto a pancia, cucinetta è chiaramente l’alterato di cucina. Inoltre, la cumulabilità in genere prevede suffissi della stessa categoria semantica, poiché essi contribuiscono al significato dell’alterato appunto in maniera cumulativa. Tuttavia, il cumulo di suffissi di significato opposto è possibile, benché meno frequente, in casi come besti-acc-ina, pied-on-c-ini, in cui il diminutivo, in posizione esterna, assume funzione attenuativa dell’accrescitivo o peggiorativo. Rari, e limitati a -ino, sono i casi di applicazione consecutiva dello stesso suffisso, come in tant-in-ino, piccol-in-ino, ecc.
Infine, dalla cumulabilità si è sviluppato in diacronia quello che in sincronia è descrivibile per mezzo del concetto di interfisso, come in buch-er-ello, libri-ic-ino, occhi-ol-ino: -er-, -ic- e -ol- sono degli interfissi antesuffissali «che non contribuiscono alla modificazione alterativa ottenuta cumulativamente» (Merlini Barbaresi 2004: 276). In altre parole, mentre librettino è sentito come più piccolo di libretto, libricino non lo è rispetto a librino. Gli interfissi sono dunque privi di significato denotativo e svolgono una funzione puramente morfologica come morfemi di raccordo. Rispetto a un’analisi, anche plausibile, che tratti -olino come allomorfo di -ino (➔ allomorfi) in combinazione con il lessema occhio, il concetto di interfisso, quindi di elemento morfologico autonomo, sembra preferibile perché, tra l’altro, in questo modo si può isolare il contributo connotativo che gli interfissi sono in grado di dare. Ad es., top-ol-one ha una connotazione scherzosa rispetto a top-one.
Bertinetto, Pier Marco (2004), Verbi deverbali, in La formazione delle parole in italiano, a cura di M. Grossmann & F. Rainer, Tübingen, Niemeyer, pp. 465-472.
Dressler, Wolfgang U. & Merlini Barbaresi, Lavinia (1994), Morphopragmatics. Diminutives and intensifiers in Italian, German, and other languages, Berlin - New York, Mouton de Gruyter.
Grossmann, Maria & Rainer, Franz (a cura di) (2004), La formazione delle parole in italiano, Tübingen, Niemeyer.
Iacobini, Claudio (2004), Prefissazione, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 97-163.
Lo Duca, Maria Giuseppa (2004), Nomi di strumento, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 227-234, 364-374.
Merlini Barbaresi, Lavinia (2004), Alterazione, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 264-292.
Ricca, Davide (2004), Derivazione avverbiale, in Grossmann & Rainer 2004, pp. 472-489.