Altruismo
L'altruismo, come fenomeno e come concetto, ha costituito per le scienze sociali, sin dalla loro formazione, un problema intricato e spesso confuso, che in un certo senso non possiamo ancora oggi considerare risolto. Esso (con i termini collegati di 'simpatia', 'benevolenza', ecc.) si collocava in posizione cruciale rispetto a uno degli interrogativi fondanti delle scienze sociali: come è possibile la società? in che modo l'uomo è 'animale sociale'? E più esattamente: come l'ordine sociale si impone alla natura umana o ne discende (per riprendere i termini del titolo del libro di Charles H. Cooley, Human nature and the social order, 1902)?
I comportamenti altruistici e prosociali furono usati, non sempre a proposito, come 'controesempi' e messa in questione delle dominanti concezioni edonistiche e utilitaristiche prima (Hobbes, Mandeville, Bentham), del darwinismo sociale poi, del behaviorismo in tempi più recenti.
Il termine 'altruismo' fu creato da Auguste Comte, uno dei padri della sociologia e del positivismo, e costituisce uno dei non molti casi in cui un termine creato in ambito filosofico e scientifico è passato nel vocabolario quotidiano senza alterare sostanzialmente il suo significato. Per 'altruismo' si intende comunemente la disposizione a interessarsi degli altri e al loro bene e anche a sacrificarsi per essi; altruista è colui che disinteressatamente pone il bene altrui come fine delle proprie azioni. Comte introdusse il termine (dalla parola italiana 'altrui') come elemento importante della sua visione. La scienza della natura ha mostrato che solo conoscendone le leggi è possibile governare la natura per i fini della civiltà; lo stesso deve valere per la direzione e lo sviluppo sociale. Occorrono una scienza della società e la conoscenza delle leggi della condotta umana per fondare una vera ingegneria sociale. Per Comte è necessario e possibile orientare la società verso una tappa più elevata, verso la "religione dell'umanità", mediante l'educazione, facendo leva su sentimenti altruistici che hanno il nucleo naturale negli affetti familiari. L'ideale morale è il vivre pour autrui, la subordinazione dell'individuo all'umanità. Il termine fu immediatamente adottato da altri studiosi, venendo come a riempire un vuoto lessicale nel dibattito già esistente, per sostituire, come disse Spencer, termini come 'benevolenza' o 'simpatia'. Già Adam Smith (The theory of moral sentiments, 1759) postulava infatti un "interesse per la sorte degli altri" che fondava sulla umana capacità di 'simpatia': "non abbiamo esperienza diretta di quello che gli altri uomini provano, [...ma] possiamo formarci un'idea di quello che essi sentono [...] immaginando quello che noi stessi sentiremmo, se ci trovassimo nella loro situazione". Anche Rousseau vedeva nella 'pietà' un sentimento naturale, che contribuisce alla conservazione di tutta la specie (Discours sur l'origine et les fondements de l'inégalité parmi les hommes, 1754). La civiltà ci corrompe e ci allontana da questo sentimento naturale, e la ragione "genera l'amor proprio e [...] fa ripiegare l'uomo su se stesso". Negli sviluppi del positivismo l'altruismo rimane termine e fenomeno cruciale, concepito anch'esso come un istinto naturale: l'egoismo tende alla conservazione dell'individuo (l'istinto di conservazione), ma l'altruismo è necessario alla conservazione della specie. In Italia Roberto Ardigò nella sua Morale dei positivisti (1885) porrà l'altruismo a fondamento della sua dottrina morale.
L'utilitarismo rappresenta il prototipo delle filosofie individualiste, basate su un agente razionale che calcola vantaggi e svantaggi delle proprie azioni e che agisce per massimizzare il proprio piacere o utile. L'esistenza dell'altruismo viene vista ancora oggi (v. Urmson, 1968) come l'obiezione prima alle teorie utilitariste, in particolare a quelle basate sull'edonismo psicologico.La contrapposizione in realtà non coglie il bersaglio. Non solo l'utilitarismo si è posto il problema dei comportamenti prosociali, del vantaggio o utile collettivo, ma gran parte del travaglio teorico dell'utilitarismo è proprio dedicato a dar conto della possibilità e necessità di comportamenti altruistici e di virtù come la 'benevolenza'.
Già per Bentham (1748-1832), se tutte le azioni umane sono sotto il governo di due sovrani assoluti - il piacere e il dolore - e guidate quindi dal movente egoistico di massimizzare il primo e minimizzare il secondo, tuttavia l'uomo è anche oggettivamente dipendente, ha bisogno per i suoi scopi dell'aiuto degli altri uomini. Proprio l'altruismo si rivela dunque il comportamento più efficace per i propri bisogni egoistici, per evitare rinunce, o aggressioni e ritorsioni da parte degli altri.
Come si risolve l'apparente contraddizione? Mediante l'uso della ragione (che calcola a lungo termine) e delle sanzioni sociali (che rendono non convenienti per il singolo le condotte antisociali). Certo questo non dà luogo a vero altruismo in senso psicologico, cioè non solo a comportamenti volti a beneficare gli altri, senza una prevista ricompensa da parte loro, ma a comportamenti il cui fine ultimo o il movente è beneficare altri. Vi è però nello schema utilitaristico anche la possibilità dell'educazione, che può plasmare proprio sentimenti e caratteri. Tuttavia l'altruismo deriva dall'egoismo, non è un autonomo principio di fondazione della morale o di governo sociale.
James Mill (1773-1836) dà a questa tesi una fondazione psicologica (Analysis of the phenomena of the human mind, 1829) richiamandosi ai principî associazionisti di Hume, e John Stuart Mill (1806-1873) arriva fino a derivare dall'utilità individuale non solo i sentimenti disinteressati e il sentimento morale, ma anche le norme e i valori (compresi quelli altruistici) che regolano il comportamento. Possiamo agire anche con motivazioni genuinamente altruistiche, ma in base a norme o a valori formatisi per abitudine (ed educazione), che in ultima analisi ci garantiscono il nostro utile individuale, pur garantendo quello collettivo.
Questo 'altruismo egoistico' dominerà ancora il dibattito in campo morale nella famosa formulazione del "grande paradosso morale" o "paradosso dell'altruismo", di Lester F. Ward (Dynamic sociology, 1883): provare simpatia per un altro uomo che soffre o è in disgrazia significa esperire realmente pena; per por fine alla propria sofferenza colui che simpatizza deve aiutare l'altro a uscire dalla sua. Anche per Lester Ward dunque l'altruismo deriva dall'egoismo; ma si noti che ciò non va inteso, in questo caso, in senso evolutivo (apprendimento), bensì come motivazione attuale dell'atto. Inoltre tale derivazione avviene, paradossalmente, proprio tramite la capacità simpatetica umana.
Come abbiamo visto, se il termine altruismo nasce intorno al 1830, il problema etico, politico, psicologico dell'altruismo era nato ben prima e veniva discusso sotto altri nomi. Alcuni di questi termini collegati continueranno una storia parallela e intrecciata, altri verranno creati (ad es. 'empatia': v. Wispé, 1968; v. Gladstein, 1984), il tutto non senza ibridazioni e confusioni. Chiara rimane la 'valenza polemica' dell'altruismo (o di termini equivalenti) nei confronti ad esempio delle teorie malthusiane contrarie alla pubblica assistenza e alle politiche sociali, o nei confronti del darwinismo sociale. Pëtr Kropotkin, ad esempio, fa leva sul concetto di 'aiuto reciproco' per contrastare l'enfasi esclusiva posta dalla filosofia dominante sulla 'lotta per la sopravvivenza', ricostruendo una storia naturale dei rapporti di aiuto negli animali e nell'uomo (Mutual aid: a factor of evolution, 1890).
A differenza di quanto vedremo in psicologia, in sociologia l'orientamento utilitaristico viene molto per tempo messo in disparte. Le teorie di Durkheim, come poi di Max Weber, segnano in sociologia una rottura con l'utilitarismo, per l'importanza assegnata ai fattori culturali, ai valori condivisi e interiorizzati, al loro precedere e fondare gli scopi individuali e persino i comportamenti economici. Come dice Talcott Parsons (v., 1968, p. 233), "il fattore cruciale ignorato dallo schema utilitaristico è quello di un ordine normativo istituzionalizzato [...]. L'istituzione non può essere derivata dagli interessi dei contraenti, bensì presuppone una fonte indipendente in quella che Durkheim chiama coscienza collettiva".
Soffermarsi sul dibattito di questi due secoli non serve solo a collocare la nascita di un concetto in un contesto e nella prospettiva della discussione che lo ha preceduto e seguito, e che in un certo senso lo ha 'richiesto'; serve anche a mostrare le matrici e gli elementi del dibattito attuale. Non solo vengono oggi discussi esattamente gli stessi problemi teorici, specie per quanto riguarda l'altruismo in senso psicologico, ma si affacciano anche le medesime soluzioni. Non si ritiene ancora chiaramente definito se nell'uomo vi siano comportamenti altruistici in senso pieno (non motivati da una prevista remunerazione) e, se vi sono, se siano frutto di puro apprendimento sulle basi di rinforzi esterni e interni, o il risultato di predisposizioni innate; e, in quest'ultimo caso, su quali mediazioni mentali (emozioni, rappresentazioni) facciano affidamento.
Alcuni degli aspetti più innovativi del dibattito nel nostro secolo riguardano certamente il problema delle origini genetiche dell'altruismo. Esso ha costituito ad esempio "il problema teorico centrale della sociobiologia" (v. Wilson, 1975), indirizzo di ricerca oggetto di un grande dibattito interdisciplinare negli anni settanta.
Sono stati proposti tre diversi meccanismi attraverso i quali l'altruismo può essere divenuto parte del patrimonio genetico dell'uomo: la selezione di gruppo (John P. Haldane; Vincent C. Wynne-Edwards), la selezione di parentela, l'altruismo reciproco.
La teoria della selezione di gruppo è stata sottoposta da George Williams a critiche da molti ritenute conclusive. In particolare, non è plausibile la spiegazione dei comportamenti altruistici: infatti, le opportunità riproduttive per il gruppo avvantaggerebbero egualmente i suoi membri portatori di geni di abnegazione come quelli portatori di geni di codardia ed egoismo; ma dato che il vantaggio per gli altruisti è ridotto dai costi che pagano o dai rischi in cui incorrono, penalizzazione che gli egoisti non hanno, questi ultimi sono avvantaggiati e i loro geni diverranno più frequenti di generazione in generazione.
Secondo la selezione di parentela (v. Hamilton, 1964) un comportamento altruistico ha probabilità di instaurarsi nella misura in cui va ad avvantaggiare un individuo con alta comunanza di geni col benefattore (parente stretto), e se il costo pagato da colui che si sacrifica (minore probabilità di replica dei suoi geni) è superato dal vantaggio complessivo per la rappresentanza degli stessi geni nella successiva generazione (inclusive fitness). La selezione di parentela costituisce la spiegazione delle cure e dell'amore genitoriale, dei comportamenti di abnegazione tra consanguinei, dei fenomeni di nepotismo, ecc., ma non può prevedere l'esistenza di comportamenti altruistici tra individui non legati da parentela.
Secondo la teoria dell'altruismo reciproco (v. Trivers, 1971) è possibile che si selezioni il comportamento che benefica un altro anche non consanguineo, con apparente e immediato danno per l'organismo altruista e per i suoi geni, purché il danno per questo sia nettamente inferiore al vantaggio dell'aiutato, e purché esistano determinate condizioni che rendano probabile che colui che ha beneficato (o i suoi discendenti) siano oggetto a loro volta di atti altruistici (reciprocazioni) da parte del beneficato (o di suoi discendenti). Trivers delinea queste condizioni e le possibili circostanze che le determinano: un'esistenza localizzata e un forte bisogno di interdipendenza (per predatori comuni, scarsità di cibo, ecc.), una vita individuale lunga, gruppi piccoli e stabili, conflitti con altri gruppi, ecc. Sembra certo che condizioni di questo tipo abbiano caratterizzato anche la vita dei nostri antenati cacciatori-raccoglitori.
Ma Trivers non si ferma qui; egli si occupa, in modo molto suggestivo, anche dei "sistemi psicologici sottostanti all'altruismo reciproco nell'uomo": sottolinea come tanta parte dell'aggressività umana sia legata all'indignazione per le iniquità, alle ingiustizie e mancanze di reciprocità; suggerisce che l'emozione della colpa si sia selezionata per motivare il 'baro' (colui che è tentato di imbrogliare nel gioco delle reciprocazioni) a compensare i torti fatti e a essere reciprocatore in futuro; vede nella necessità di individuare i bari più ipocriti e ingannevoli una pressione selettiva per la sofisticata capacità umana di analizzare le intenzioni e la mente altrui. Infine cerca di andare al di là delle interazioni altruistiche a due, per spiegare il possibile selezionarsi di più complesse relazioni sociali. Nasce così un 'altruismo generalizzato', in cui gli atti altruistici sono dispensati liberamente tra più di due individui, e la reciprocazione altruistica può non venire direttamente dall'individuo beneficato in quel caso, ma da qualsiasi altro partecipe di un tale sistema di mutua assistenza. La formulazione di regole di condotta, aiutata dal linguaggio, facilita il funzionamento di un altruismo generalizzato; da questo momento il cheater, il non altruista e non recipro~catore, è colui che non rispetta tali norme sociali.
Paradossalmente, mentre l'analisi sociobiologica mostrava la possibilità e il vantaggio per il 'gene egoista' di selezionare comportamenti altruistici (anche in senso psicologico), questa analisi veniva usata da alcuni come definitiva riprova in senso opposto. Essi, cadendo in quello che William James aveva chiamato la "fallacia dello psicologo", cioè nella confusione - per il comune linguaggio teleologico - tra significato adattivo e motivazione, tra scopi in senso evoluzionistico e scopi interni alla mente, sostengono che la sociobiologia ha dimostrato che quella che appare o è vissuta a livello conscio come un'attività cooperativa, disinteressata, va in ultima analisi ricondotta a un 'interesse egoistico', quasi attribuendo al gene un 'egoismo' in senso psicologico.In verità le teorie sociobiologiche non sono una prova diretta dell'esistenza dell'altruismo in senso psicologico (e l'uso del termine da parte di Trivers e Hamilton è stato da molti criticato perché dà luogo a equivoci e confusioni). Come dice Nick G. Blurton Jones (v., 1976), la definizione sociobiologica di altruismo è in termini di effetti, e più precisamente in termini di effetti sul successo riproduttivo.
La definizione in ambito psicologico e di senso comune è invece in termini di moventi. La teoria di Trivers non ci dice nulla direttamente sulle cause o l'ontogenesi del comportamento, né ci parla di un comportamento 'innato'. Essa si riferisce solo al prodotto finito, ai comportamenti, siano essi frutto di un calcolo mentale sulle reciprocazioni, o slanci di aiuto in situazioni di pericolo, o atti disinteressati di altro tipo.
Ma proprio qui emergono alcuni dei limiti del concetto sociobiologico di altruismo (v. Castelfranchi e Parisi, 1985): a causa della debolezza della definizione il concetto rischia di non avere nessuna delimitazione e perdere ogni carattere euristico; esso tende ad abbracciare nell'uomo tutto lo 'scambio sociale'.
Non pare ragionevole pensare che qualsiasi atto sociale in cui un individuo favorisce lo scopo di un altro (anche per propri vantaggi calcolati) sia stato selezionato per altruismo reciproco. Per ragioni selettive del tutto diverse e indipendenti gli uomini hanno acquisito l'intelligenza e la capacità di raggiungere gli scopi in modo indiretto, anche attraverso l'uso di altre persone, hanno la capacità di calcolare i propri vantaggi a lungo termine, o di adottare gli scopi degli altri per il proprio tornaconto. Non c'è bisogno dell'altruismo reciproco per spiegare perché si ceda a una rapina, o si dia da mangiare ai propri schiavi, o si stipulino contratti commerciali. Per quanto riguarda le specie intelligenti e capaci di perseguire scopi sempre diversi, è corretto, anzi indispensabile, riferirsi al vantaggio evolutivo dell'altruismo reciproco prevalentemente per gli atti prosociali senza un vantaggio calcolato nella mente. Infatti il problema non è: quale pressione evolutiva ha creato in un organismo la capacità di perseguire il proprio vantaggio indiretto in modo calcolato? bensì: quale pressione evolutiva può aver messo in un organismo la disposizione a perseguire scopi non egoistici, cioè scopi il cui vantaggio non è razionalmente calcolato e garantito, anzi il cui vantaggio previsto non è per sé ma per altri? Non dovrebbe estinguersi un organismo siffatto?
In conclusione, questo significa che non è vero che i sociobiologi possano fare teoria sul rapporto geni/comportamento disinteressandosi del tutto delle mediazioni mentali, cioè dei meccanismi che controllano e riproducono il comportamento stesso.È opportuno menzionare qui anche la posizione dei teorici dell'evoluzione culturale, che - accettando le critiche alla selezione di gruppo - vedono l'altruismo piuttosto come un prodotto della cultura, selezionato e tramandato proprio come mezzo di controllo degli eccessi dell'egoismo biologico a vantaggio della vita del gruppo (v. Campbell, 1978; v. Cohen, 1978). Secondo Ronald Cohen "l'altruismo è fondamentalmente un meccanismo di sopravvivenza o di adattamento a livello dell'evoluzione socioculturale. Gli individui, i quali cercano compensi, apprendono tali norme e devono così integrare l'innato edonistico egoismo con l'appreso altruismo, la cui intensità varia da cultura a cultura [...]. Noi non siamo istintivamente al servizio della società" (ibid., p. 97). Per arrivare a tali conclusioni Cohen esamina le concezioni altruistiche nella cultura occidentale e in altre culture e i valori portati dalle grandi religioni. In effetti questo è un punto di particolare interesse, che non si può considerare del tutto spiegato: come aveva già sottolineato l'antropologo sociale Paul Bohannan, il principio fondamentale delle maggiori religioni è che l'abnegazione, il non egoismo, è la principale virtù, e che l'amor proprio è alla radice dei mali del mondo.
Dagli anni sessanta il comportamento prosociale e il comportamento d'aiuto sono divenuti uno dei più floridi settori di ricerca nell'ambito della psicologia sociale e della psicologia evolutiva. Gli anni settanta hanno visto una vera esplosione di ricerche, spesso tra loro incoerenti e frammentarie, e l'accumularsi di una quantità di dati, di termini, di ipotesi, cui le numerose rassegne e panoramiche non riescono a dare una unità strutturata. Il dominio del comportamento prosociale manca ancora di una rigorosa messa a punto concettuale e di una unificazione teorica.
I temi più dibattuti in questo periodo sono stati: le situazioni di necessità e le reazioni degli astanti, le loro motivazioni nel dare o non dare aiuto, i rapporti di somiglianza per condizione, razza o sesso, tra soccorritore e vittima. Ha prevalso il cosiddetto approccio 'situazionalistico': lo studio di quelle variabili situazionali che favoriscono o inibiscono il comportamento individuale di aiuto tra estranei. Più trascurati i problemi, da un lato, della personalità prosociale o altruista, dall'altro, dei rapporti e delle reti sociali di aiuto. Vi è stata un'enfasi eccessiva sul metodo sperimentale e sulle situazioni di laboratorio, e pochi studi osservativi o sul campo.
Numerose ricerche hanno esaminato l'effetto di 'stati temporanei del benefattore'. Sia stati affettivi positivi, associati al successo o al senso di capacità, sia stati affettivi negativi, legati all'empatia o all'aver danneggiato un altro, dispongono all'altruismo. L'osservazione di modelli di aiuto disinteressato favorisce il comportamento altruistico, non solo come effetto temporaneo ma anche in termini di apprendimento. Anche l'aver ricevuto aiuto è un fattore favorente. Sui comportamenti c'è sufficiente accordo, mentre molta più divergenza vi è sulle spiegazioni: sul ruolo delle norme e degli ideali, del senso di colpa e del disagio, dell'approvazione da parte degli altri o di se stessi (v. sotto).
Molte ricerche hanno esaminato gli effetti degli 'stati del beneficato', e suggeriscono che il principale elemento che suscita l'altruismo sia la dipendenza, sia essa stato temporaneo, condizione perdurante o tratto psicologico. La dipendenza attribuita a fattori esterni suscita più altruismo di quella attribuita a fattori interni alla persona. Se la richiesta di aiuto è sentita come una pretesa o un obbligo, si può avere una reazione inversa, di resistenza. Anche l'attrazione interpersonale, l'amicizia, l'appartenenza a uno stesso gruppo, o segnali di reciprocità, sembrano giocare un ruolo, favorendo l'aiuto. Non vi sono differenze tra maschi e femmine nei bambini, mentre negli adulti le donne si comportano in modo più altruistico degli uomini nei casi di dipendenza grave. Nei bambini i comportamenti di aiuto aumentano con l'età, e ciò è, secondo alcuni, da mettere in relazione con l'apprendimento sociale, secondo altri piuttosto con le teorie dello sviluppo morale. Secondo Lawrence Kohlberg (v., 1984) vi sono tre grandi stadi nello sviluppo del giudizio e della sensibilità morale: nel primo stadio i giudizi sono dati sulla base delle conseguenze edonistiche dell'atto (se incontra premi o punizioni dall'esterno); nel secondo stadio la moralità è valutata in funzione dell'approvazione degli altri; solo nel terzo stadio è giudicata in rapporto a ideali e regole interne.
Che gli uomini siano capaci di comportamenti genuinamente altruistici è stata opinione dibattuta in campo filosofico, e tutto sommato fortemente rappresentata. In campo psicologico invece, dove all'inizio le tesi favorevoli a innati istinti altruistici o a pulsioni prosociali basate sulle capacità umane di simpatia erano state preponderanti (cfr., ad es., William McDougall, An introduction to social psychology, 1908), intorno al 1930 le teorie motivazionali di derivazione behaviorista o psicanalitica convergevano verso una visione utilitarista o edonista, comunque egoistica. Il loro apparato teorico era sufficientemente sofisticato da fornire una spiegazione egoistica a qualsiasi comportamento che potesse apparire altruisticamente motivato. Secondo la teoria psicanalitica ad esempio (v., Wodehouse, 1929; v. Freud, 1936; v. Bandura, 1977), noi ci comportiamo in modo altruistico per evitare l'ansia o i sensi di colpa o per conformarci a un ideale interiorizzato. Sicché "la questione dell'esistenza dell'altruismo fu accantonata dalle correnti psicologiche dominanti; si assunse che a essa si doveva rispondere in modo negativo o che non le si poteva dare risposta" (v. Batson, 1987, p. 4). E non si può dire che l'affermarsi dell'interesse per il comportamento prosociale e di aiuto abbia segnato anche una forte ripresa della tesi della motivazione altruistica. La visione nettamente dominante è che quando aiutiamo qualcuno noi lo facciamo solo come atto strumentale per ottenere qualche vantaggio personale. Tutta la sofisticatezza delle teorie e delle metodologie attuali è stata impiegata per mostrare che questo vantaggio, se non viene dall'esterno, consiste allora in qualche tipo di ricompensa interna (self-reward) o nell'evitare qualche tensione interna. Ciononostante, queste ricerche parlano proprio di 'altruismo' o vogliono proporne una teoria, ma la definizione che ne danno è tale da includerlo nel suddetto paradigma: "altruista è un comportamento eseguito per beneficare un altro senza l'anticipazione di ricompense da fonti esterne" (v. Macaulay e Berkowitz, 1970, p. 73).
Dato che l'altruismo, anziché costituire una motivazione alternativa a quella egoistica, viene da questa derivato e in essa incluso, sarebbe più giusto chiamare queste visioni 'pseudoaltruistiche' (v. Batson, 1987). Esaminiamo le principali teorie di questo tipo.
Comportamento prosociale in vista di compensi interni. - Vari autori sottolineano il ruolo dell'approvazione interna. Gli atti di aiuto 'disinteressato' sarebbero rinforzati da, e fatti per, la gratificazione della nostra autoimmagine o dell'autostima (Daniel Bar-Tal; Robert Cialdini), per corrispondere al nostro 'ideale dell'Io', per uniformarci alla norma sociale interiorizzata ed evitare così le sanzioni interne (Shalom Schwartz; Joan Grusec). Altri ricorrono al rinforzo del piacere provato empaticamente nel dar sollievo all'altro (Erwin Staub).
Comportamento prosociale per ridurre tensioni interne. - Secondo questa visione il comportamento di aiuto è motivato dal desiderio di ridurre qualche stato interno di tensione sgradevole. L'osservazione di situazioni di emergenza, sofferenza o difficoltà grave determina un'attivazione (arousal) crescente e spiacevole, e noi siamo motivati a ridurla; risponderemo in queste circostanze con il comportamento (aiuto, fuga, distrazione, ecc.) che più rapidamente e con meno costi può ridurre tale attivazione (Jane e Irving Piliavin).
Simili, ma più interessanti, le teorie del 'mondo giusto' e dell"equità', che tra l'altro hanno un vasto campo di applicazione in psicologia sociale. Secondo l"ipotesi del mondo giusto' (Melvin Lerner, 1970) le persone tendono a credere in un mondo in cui ciascuno ha quello che merita e merita quello che ha, sicché in esse l'ammissione dell'esistenza di qualcuno che soffre senza colpa determina una situazione di discrepanza con la suddetta credenza e aspettativa. In tal caso, per ridurre la tensione prodotta da questa contraddizione, le persone reagiscono o aiutando la vittima (restaurando una situazione giusta) o svalutandola così da rendere meno ingiusta la sua sorte. Secondo la 'teoria dell'equità' (v. Walster e altri, 1978) se ci si viene a trovare in una situazione di scambio sociale non equo, in cui qualcuno non riceve in proporzione a quanto ha dato (o merita), si soffre e si tende o a modificare la situazione o a uscirne. Questo non vale solo per chi ne è la vittima, ma anche per chi ne è avvantaggiato. Le situazioni di aiuto possono essere così ricategorizzate: l'altruismo occorre solo quando vi è la percezione di una disparità di risorse tra sé e l'altro e quando questa disparità è a nostro favore, quindi in funzione del nostro interno bisogno di equità.
c. L'ipotesi empatia-altruismo
Alcuni psicologi contemporanei perseguono invece il tentativo di mostrare l'esistenza di motivazioni schiettamente altruistiche, con lo scopo ultimo di beneficare l'altro (Martin Hoffman, Dennis Krebs, David Rosenhan, Jerzy Karylowski, Daniel Batson), ma da un lato, a causa della poca accuratezza concettuale o della vaghezza dei modelli, ricadono facilmente e senza volere nello 'pseudoaltruismo'; dall'altro, le evidenze empiriche cumulate sono insufficienti e non conclusive.
La maggior parte di questi tentativi si richiamano alla cosiddetta 'ipotesi empatia-altruismo', secondo la quale la capacità di empatia tra soccorritore e vittima media e attiva la risposta altruistica del primo nei confronti del secondo, e si deve restringere il termine altruismo solo ai comportamenti prosociali motivati empaticamente.
Sfortunatamente lo slancio altruistico dovuto a sentimenti di empatia o simpatia è anch'esso riformulabile - si rammenti il "paradosso morale" di Lester Ward - in termini egoistici: "L'empatia ha la proprietà di trasformare la disgrazia di un altro in un nostro proprio sentimento di dispiacere. L'empatia ha così elementi sia di egoismo che di altruismo" (v. Hoffman, 1981, p. 134). Essa è egoistica perché noi possiamo essere spinti ad aiutare l'altro al fine di ridurre il nostro personale stato di disagio. Hoffman conclude pasticciando: "È più appropriato designare il disagio empatico come un movente altruistico (forse con una componente quasi egoistica)" (ibid.).
Più interessante l'approdo di Krebs, secondo il quale dobbiamo accontentarci di questo livello di altruismo perché qualcosa di più sarebbe indimostrabile: "La ragione principale per cui sono fioriti i dibattiti sulla capacità umana di altruismo è che gli studiosi hanno definito l'altruismo come un comportamento di aiuto che non è motivato dall'aspettativa di compensi [...ma] l'esistenza di comportamenti altruistici non potrà mai essere provata se sono così definiti, in quanto si richiederebbe di provare l'ipotesi nulla [dimostrare l'assenza di aspettative di compenso]" (v. Krebs, 1975, p. 1134). Batson contesta questa conclusione, sottolineando la confusione che viene fatta tra scopo dell'azione e conseguenze dell'azione: non c'è bisogno di dimostrare che non vi sono compensi o aspettative di compensi, quello che conta è che l'ottenere compensi non è lo scopo dell'agente. Batson conduce anche una serie di esperimenti, più articolati, al fine di separare gli effetti o componenti egoistici dell'empatia da quelli schiettamente altruistici (v. Batson e altri, 1981; v. Batson, 1987).
I sostenitori dell'ipotesi empatia-altruismo si rifanno alle teorie di Paul D. MacLean, nelle quali trovano anche un fondamento neurofisiologico. Secondo MacLean (v., 1958 e 1973) possiamo distinguere nel sistema limbico due parti: una coinvolta nei sentimenti, emozioni e comportamenti che assicurano l'autoconservazione; l'altra implicata negli stati espressivi ed emotivi, compresa l'empatia, che favoriscono la socialità e la conservazione della specie. La neocorteccia prefrontale, sviluppata nell'uomo, sarebbe invece una sorta di computer che ragiona con freddezza e che calcola vantaggi e svantaggi delle azioni in modo del tutto egocentrico, senza preoccuparsi dei bisogni degli altri o dei danni arrecati. La neocorteccia prefrontale però è connessa da fasci di proiezioni afferenti ed efferenti appunto con il sistema limbico, e da questo trarrebbe "la capacità di vedere con sentimento". Trarrebbe la capacità di intuizione dei sentimenti dell'altro e quindi di empatia, di identificazione, di comprensione di stati d'animo e bisogni. La connessione tra neocorteccia (cognizione) e sistema limbico (emozione) rappresenterebbe il principale fondamento fisiologico dell'altruismo.
Anche se il contenuto fattuale delle asserzioni di MacLean, sulle funzioni della neocorteccia e del suo collegamento con una parte del sistema limbico, può essere valido, alcune presupposizioni e implicazioni della tesi non sono né necessarie né plausibili: si dà per scontato il modello 'egoistico' della razionalità e della decisione. Non è logicamente necessario che un calcolo mezzi/fini, vantaggi/svantaggi sia al servizio di fini 'egoistici'. Non è esatto che l'unica fonte di comprensione dell'altro, dei suoi scopi, bisogni e stati mentali sia l'empatia: tutta l'interazione sociale si fonda sulla comprensione/rappresentazione, che non ha luogo solo su base emotiva ma anche cognitiva (percezione e pensiero). Il contatto emotivo, e anche l'empatia, non sono solo fonte di sentimenti prosociali e altruistici, ma anche di invidia, rabbia, colpa, ecc. Sappiamo che l'empatia potrebbe condurre ad atti soccorrevoli per motivazioni egoistiche (paradosso dell'altruismo). Infine non ci sono evidenze sufficienti che gli atti o scopi altruistici umani siano tutti e solo dovuti a empatia, o anche tutti basati su affetti e sentimenti.
Il tema dell'altruismo e più in generale del comportamento d'aiuto ha una sua specifica attualità in relazione ad alcuni rilevanti problemi sociali e politici della nostra epoca. Non tanto riguardo alle grandi opzioni ideali, o ai modelli di ordine sociale, o alle possibilità di coesistenza e di cooperazione internazionale, quanto in riferimento ad alcuni aspetti della crisi degli ultimi decenni (e dei prossimi?): i limiti della partecipazione democratica, la crisi e il ridimensionamento del Welfare State, i fenomeni di violenza e razzismo, la vita nelle metropoli, l'indebolimento dei rapporti comunitari e dei ruoli familiari. Ci soffermiamo rapidamente su alcuni punti.
Calamità e disastri. - Ha un notevole interesse, per la protezione civile, lo studio delle reazioni degli individui in caso di gravi disastri e calamità naturali. Queste ricerche sono state collegate sin dall'inizio allo studio del comportamento d'aiuto e dell'altruismo. Per esempio, contrariamente alla diffusa impressione che le catastrofi improvvise producano solo disorganizzazione e l'aggirarsi delle persone in uno stato di sbalordimento, un'accurata registrazione delle reazioni a un disastro, in una cittadina del Massachusetts, mostrò che ben 10 delle 15 persone che non avevano riportato danni si erano messe ad assistere le altre persone, anche al di fuori della propria famiglia, e che inoltre molti dei feriti si preoccupavano che altri fossero curati prima di loro (v. Midlarsky, 1968).
La convivenza nelle grandi metropoli anonime. - Sono note le differenze tra situazioni rurali e situazioni urbane (specie delle grandi città) in fatto di supporto reciproco, e sin dall'inizio gli studi sull'aiuto cercarono di spiegare il fenomeno. Non a caso molti dei primi esperimenti furono condotti nelle strade o nella metropolitana di New York: se qualcuno cade per terra per un malore sarà aiutato dai passanti? Lo si aiuta molto più per strada che in un aeroporto internazionale (Bibb Latanè e John M. Darley); più se ha un malore che se è ubriaco (Piliavin, Rodin e Piliavin); più da parte di un passante che sia sullo stesso marciapiede che da uno sull'altro lato della strada che può dargli un paio di sguardi, accelerare il passo o svoltare, minimizzando così l'esposizione al disagio. Stanley Milgram (v., 1973) avanza l'ipotesi che nelle metropoli siamo così spesso esposti agli altrui stati di bisogno che dobbiamo proteggerci se vogliamo mantenere una vita privata; ma ci sono certamente in gioco altri fattori, come l'anonimato, la deresponsabilizzazione, la non identificazione, ecc. (v. Helmer ed Eddington, 1973).
Le reti di supporto sociale. - Un altro tema connesso è quello delle reti di 'supporto sociale', cioè delle strutture informali e non istituzionali di aiuto, specie per quanto riguarda gli handicappati, gli anziani, gli emarginati, ecc. È chiara la rilevanza di questi problemi, specie in anni di attacco e ridimensionamento delle politiche e dei servizi del welfare, e contemporaneamente di famiglie che si atomizzano e di comunità che si disgregano. Altruismo e cooperazione sono direttamente in causa in fenomeni come il volontariato sociale, le comunità di auto-aiuto, l'abbandono e il barbonismo.
Il burn out nelle professioni d'aiuto. - I sentimenti empatici e le motivazioni altruistiche sono parte non secondaria dei conflitti, delle angosce e insoddisfazioni (v. Lenrow, 1978) che creano una situazione di disagio in tante professioni di aiuto, le quali si cimentano quotidianamente con la sofferenza e l'emarginazione. I coinvolgimenti emotivi e la difesa da essi, o i sensi di impotenza, sono parte integrante di quel fenomeno di demotivazione, di fuga o di nevrosi, che va sotto il nome di burn out (il 'bruciarsi' degli operatori) e che così ampiamente interessa questi lavoratori (v. Edelwich e Brodsky, 1980).
Crudeltà, ubbidienza, violenza. - Gli studi sull'aiuto, l'altruismo e l'empatia sono anche collegati a un'ampia area di ricerche relative ai fattori che possono inibire comportamenti crudeli o violenti, siano essi dovuti a fenomeni di razzismo e teppismo (in cui il vedere l'altro come inferiore e diverso da sé, inibendo emozioni empatiche, costituisce una precondizione) oppure a ruoli di 'carceriere' e all'esecuzione di ordini, come nel celebre esperimento di Milgram (v., 1963) e in tutta la letteratura che ne è seguita. La situazione sperimentale della già citata ricerca di Batson e altri (v., 1981) sull'empatia come fonte di atti altruistici, ad esempio, era la seguente: il soggetto, dopo aver visto un altro studente ricevere delle scosse elettriche, doveva scegliere se aiutarlo o meno, ricevendo in sua vece la dose successiva di scosse; egli sapeva inoltre che, se non sottraeva la vittima alle scosse, avrebbe dovuto continuare a guardarla mentre le riceveva.
Comportamento politico, movimenti collettivi, modelli della scelta sociale. - Uno spazio maggiore va dedicato, per la sua rilevanza teorica più generale, al problema dell'altruismo nel modello dell'attore sociale razionale. Negli ultimi anni si è fatta più forte la critica al modello economico dell'attore e al suo utilizzo in campo sociale e politico: un modello empiricamente forte delle scelte pubbliche richiede un modello delle scelte individuali, che sia però capace di dar conto del fatto che gli individui hanno un'idea del bene pubblico e intendono contribuire al pubblico interesse. Utilità della società e utilità privata vanno distinte, e gli individui le considerano entrambe.
Nel modello di Howard Margolis (v., 1982), ad esempio, si suppone che dentro al signor Smith vi siano due individui, o agenti razionali: un S-Smith che valuta solo il proprio interesse personale (Self-interest), e un G-Smith che valuta in base alla sua percezione degli interessi del gruppo (Group-interest). Secondo Margolis è possibile specificare una regola di allocazione delle risorse in questa "società di due persone", tale che il signor Smith si comporti in modo molto simile a come empiricamente constatiamo che si comporta la gente reale. Richiamandosi all'approccio sociobiologico Margolis mostra la vulnerabilità allo sfruttamento degli individui completamente altruisti e quindi la loro non plausibilità evoluzionistica, ma mostra anche la possibilità e vantaggiosità di quello che chiama "altruismo partecipativo": membri del gruppo relativamente non egoisti possono essere protetti dallo sfruttamento dei membri più egoisti se si suppone che i primi abbiano la propensione a limitare la loro volontà di agire nell'interesse del gruppo nella misura in cui lo hanno già fatto. "Meno l'individuo ha già allocato al gruppo, più l'individuo vuole partecipare, e viceversa" (ibid., p. 29).
Sulla base di questo modello, e della sua formalizzazione matematica, Margolis muove critiche alle teorie del comportamento politico, in specie a quelle di Anthony Downs che, partendo da assunti strettamente egoistici, possono dar conto di motivazioni altruistiche o di responsabilità sociale non in modo autonomo, ma solo come un sottocaso: quello che Margolis chiama "altruismo egoistico" (si ricordi il paradosso dell'altruismo e lo pseudoaltruismo). Vengono messe anche in questione le teorie di Mancur Olson sul rapporto tra scelte e interessi individuali e bene pubblico o movimenti collettivi, secondo cui la partecipazione dell'individuo al bene pubblico (per es. tasse) o ai movimenti collettivi (per es. sindacati) non può prescindere da specifici rinforzi negativi (sanzioni) o positivi (vantaggi personali).
Come abbiamo visto, il tema dell'altruismo si inserisce, in modo non sempre ben delineato, in un'area di ricerca più vasta relativa ai comportamenti e alle relazioni di aiuto e, più in generale, al comportamento prosociale. Si tratta di un'area in cui sono ancora forti l'insufficiente preoccupazione per il proprio armamentario concettuale - tipica di tanti settori della ricerca psicologica e sociale -, la vaghezza e non formalizzazione dei cosiddetti modelli (spesso un elenco di fattori o una sequenza di fasi) e la non specificazione delle rappresentazioni mentali.
La discussione e le ricerche sull'altruismo, concetto assai delicato, non possono non risentire particolarmente di tale inaccuratezza concettuale e approssimazione dei modelli. Al di là di una molto maggiore articolazione del problema, di descrizioni molto più ricche e ben fatte di circostanze e comportamenti, della raccolta di una massa di dati empirici, della formulazione di una quantità di ipotesi parziali (alcune alternative, molte plausibili e sommabili ma non integrate), non possiamo dire che si siano fatti progressi risolutivi rispetto ai termini cui era giunto il dibattito filosofico. Eccetto, forse, per il contributo sociobiologico, che non ha postulato la vaga esistenza di tendenze altruistiche per il gruppo o per la specie, ma ha dimostrato, in un quadro rigorosamente darwinista, la possibilità che si selezionino condotte altruistiche.
Un'analoga dimostrazione di possibilità non è ancora avvenuta invece a livello psicologico, dove l'altruismo continua a essere riformulato come altruismo egoistico e pseudoaltruismo ('ricompense interne', 'evitamento delle tensioni'). Forse modelli computazionali e metodi di simulazione potrebbero essere determinanti per la dimostrazione della possibilità logica di un sistema intelligente, capace di scopi autonomi e di interazione sociale, che persegua anche scopi prosociali in modo fine a se stesso, che faccia propri gli scopi di un altro sistema senza un calcolato vantaggio di ritorno o un rinforzo interno. Tale modello di agente razionale permetterebbe di distinguere con chiarezza tra previsioni e aspettative da un lato e scopi dall'altro, tra scopi e regole e meccanismi di decisione razionale, ecc. La dimostrazione di una tale possibilità - che certamente poi non è conclusiva per quanto riguarda la questione empirica se l'uomo abbia o non abbia degli scopi realmente altruistici, come li abbia, e quali - non è stata condotta nemmeno a livello macrosociale (a parte lo schematico modello matematico di Margolis), come si è tentato invece di fare per la cooperazione e la reciprocazione (v. Axelrod, 1984).
Fondamentale è la prosecuzione delle ricerche empiriche - sperimentali e non - ma a condizione che si lavori anche a una serie di distinzioni cruciali, come quella tra gli scopi che governano le azioni e gli effetti, tra cui anche eventualmente il piacere. Infatti se l'edonismo in senso forte (il raggiungimento del piacere è lo scopo di ogni azione umana) è incompatibile con l'altruismo, una forma debole di edonismo (il raggiungimento di scopi comporta piacere) - vera o falsa che sia - non è incompatibile con esso.
Altri punti fermi sembrano i seguenti. È necessario non confondere gli scopi che gli individui perseguono, rappresentati nella loro mente, e le funzioni esterne dei comportamenti (effetti che li hanno selezionati); non attribuire come scopi interni all'individuo le funzioni biologiche - o sociali - né considerare funzioni adattive gli scopi che gli individui si propongono. Ciò consente ad esempio di ammettere motivazioni squisitamente altruistiche, nella mente dell'individuo, al servizio di funzioni biologiche strettamente 'egoistiche' (per l'individuo o meglio per i suoi geni): l'altruismo psicologico può essersi selezionato per il vantaggio della reciprocazione.
È necessario distinguere tra processi di apprendimento e processi motivazionali attuali: se è possibile che nell'apprendimento alcuni scopi, che originariamente sono strumentali o devono venire rinforzati per stabilirsi, divengano poi terminali, cioè si attivino e vengano perseguiti autonomamente, allora quella che nel corso della socializzazione è stata una scelta interessata e indotta può divenire poi fine a se stessa. Bisogna evitare insomma quella che Alasdair MacIntyre chiama la "fallacia genetica": "la confusione tra quelli che erano i moventi originari (nella prima infanzia, per Freud; nello stato di natura, per Hobbes) e i moventi attuali, nella vita adulta" (v. MacIntyre, 1967, p. 466).Non sembra meno importante operare delle distinzioni all'interno di quella che i behavioristi chiamano "motivazione intrinseca": una persona è intrinsecamente motivata se esegue un'attività per nessun compenso apparente se non l'attività in se stessa (v. Deci, 1972). Donald Hebb dava una definizione interessante dell'altruismo in base alla motivazione intrinseca: "preoccupazione per gli altri, intrinsecamente motivata" (cit. in Krebs, 1970). Ma il problema è distinguere tra comportamenti che necessitano di un rinforzo - sia pure interno (autoapprovazione, evitare il senso di colpa, ecc.) - e comportamenti 'intrinsecamente motivati' - nel senso di essere fini a se stessi - che trovano rinforzo nel solo fatto di essere eseguiti.
Altrettanto cruciale, in un sistema che persegue scopi, pianifica e prende decisioni, è la distinzione tra gli scopi che governano il comportamento e il meccanismo o i principî costruttivi che governano la decisione. Ammettere che un sistema operi sulla base di un meccanismo di decisione più o meno razionale, cercando, sulla scorta delle conoscenze di cui dispone, di massimizzare gli scopi raggiunti e minimizzare quelli compromessi, di scegliere quindi gli scopi più importanti e promettenti, non equivale a dire che il sistema persegue 'lo scopo' (unico e dominante) di massimizzare il proprio utile. Ancora, dire che un sistema siffatto non può che perseguire i 'propri' scopi, cioè scopi rappresentati nel proprio apparato di regolazione, non equivale a dire che il sistema è necessariamente 'egoistico' o 'centrato su di sé'. Se un sistema persegue uno scopo perché assume che sia ciò che all'altro serve o ciò che l'altro vuole, e se (o nella misura in cui) questo scopo non è pianificato in vista di altri scopi che sono solo del sistema (provare piacere, ricevere un favore, avere approvazione, ecc.), allora detto sistema persegue uno scopo di tipo altruistico.Infine, non è detto che esista un solo scopo o motivazione altruistica; vi possono essere più scopi indipendenti di tipo altruistico, attivati in circostanze differenti e nei confronti di persone differenti. Essi possono avere anche origini e funzioni diverse. Nell'uomo ad esempio si considerano altruistici molti comportamenti implicanti sacrificio e abnegazione da parte dei genitori verso i loro piccoli. Si considerano poi altruistici comportamenti di aiuto provocati dall'empatia verso chi soffre, o slanci immediati e rischiosi di soccorso verso qualcuno che è in grave pericolo. Sembrerebbe trattarsi di meccanismi motivazionali profondamente diversi, e anche l'eventuale giustificazione evoluzionistica della possibilità di tali comportamenti sarebbe diversa: nel primo caso si dovrebbe invocare la 'selezione di parentela', negli altri casi invece l"altruismo reciproco'.
Per quanto riguarda gli studi più sociologici, andrebbe anche precisato che non sembra corretto cercare un'unica motivazione prosociale e confondere tra loro o usare come equivalenti bisogni e sentimenti di appartenenza e identificazione, bisogni di dipendenza, scopi a favore del gruppo, simpatie ed empatie, sentimenti umanitari, responsabilità sociale, spinte altruistiche, ecc. Non esiste una generica motivazione egoistica contrapposta a una altrettanto generica e globale motivazione altruistica. Esiste una molteplicità di scopi, varianti da cultura a cultura e da individuo a individuo, alcuni dei quali forse volti, nella mente dell'individuo, ad avvantaggiare qualcun altro. Ognuno di questi scopi si può supporre che abbia un proprio senso, una propria storia e un proprio ruolo nell'economia dell'individuo e della società; ciò non esclude ovviamente che si possano trovare gerarchie di importanza o di derivazione tra i vari scopi, o che si debba cercare di ricondurre la molteplicità a modelli più semplici.
In conclusione, ben poco di definitivo sembra essere stato chiarito o provato per quanto riguarda l'altruismo e la mente umana. È anche possibile che l'altruismo non esista nell'uomo e che ci si possa accontentare di comportamenti prosociali controllati da norme, valori, o punizioni e premi interiorizzati, ma prima di sopprimere questo capitolo del linguaggio e del senso comune, bisogna almeno che i modelli scientifici raggiungano altrettanta sottigliezza nell'analizzare la mente e il comportamento sociale.
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