BON, Alvise
Figlio di Michele di Alvise, del ramo detto "dalle Fornase", si addottorò in artibus all'università di Padova, mantenendo poi per gli studi un interesse sempre vivo, che lo indusse anche, nel giugno del 1505, a concorrere assieme ad altri giovani dottori del patriziato veneto - tra i quali Sebastiano Foscarini che risultò vincitore - alla lettura di logica, filosofia e teologia nella Scuola di Rialto in Venezia, lasciata libera allora da Antonio Giustinian. Ancora diversi anni dopo, nel 1519 e 1520, il Sanuto ricorda i suoi interventi nelle discussioni accademiche che si svolgevano alle "conclusioni"; dei giovani allievi della stessa Scuola.
Ma le cure principali, come era tradizione dell'aristocrazia veneta, il B. le rivolse all'attività politica. Dopo aver ricoperto la carica di auditore nuovo (una magistratura giudiziaria), e aver concorso inutilmente a diversi scrutini per la designazione di ambasciatori, fu eletto il 4 ott. 1508 podestà di Casalmaggiore, importante reggimento nel Cremonese, incarico che doveva però rivelarsi presto assai scomodo. Il nuovo podestà giunse infatti a Casalmaggiore proprio alla vigilia della guerra promossa dalla lega di Cambrai contro Venezia. La piazzaforte era una delle posizioni più esposte, e cadde infatti il 15 apr. 1509, ancor prima della catastrofe di Agnadello, dopo che la guarnigione si era arresa senza combattere al duca di Mantova, contro il volere del Bon. Per la liberazione del podestà fu richiesta una taglia di 4.000 ducati, ma alla fine, dopo otto mesi e mezzo, il B. fu liberato in uno scambio di prigionieri, e poté ritornare a Venezia il 1º febbr. 1510.
Eletto per la prima volta al Senato nell'aprile del 1511, e poi ancora nel 1513-14, venne designato il 7 ott. 1514 a succedere all'ambasciatore in Ungheria, Antonio Surian. Benché questi, malato sollecitasse con insistenza il rimpatrio, la partenza del B. fu ritardata di altri venti mesi, fino al giugno 1516. Nell'attesa egli continuò la propria attività pubblica in Venezia, trovando peraltro un ostacolo nella sua riluttanza a contribuire alle spese di guerra. Chiamato infatti più volte assieme agli altri patrizi ad offrire denaro o il proprio servizio personale alla Repubblica, che, in guerra contro Spagna. Impero e pontefice, dopo la battaglia di Motta (7 ott. 1513) attraversava un altro momento critico, il B. oppose sempre un netto rifiuto, sicché uscì ripetutamente sconfitto nelle elezioni al Senato e in altri scrutini. Finalmente il 16 sett. 1515 riuscì eletto avogadore di Comun, dopo che si era deciso a prestare alla Repubblica 1.500 ducati. In tale ufficio rimase dal 19 dic. 1515 al 10 giugno 1516, giorno in cui tolse licenza dal Collegio, imbarcandosi la notte stessa alla volta di Segna. A Buda giunse il 9 luglio.
Tre anni durò la sua missione in Ungheria, in un periodo in cui Venezia, ricostituiti i possessi di terraferma dopo quasi un decennio di dure lotte che ne avevano stremato le forze, abbandonata ogni mira espansionistica, non aspirava ormai ad altro che a una pace duratura. Compito del B. era essenzialmente di conservare con l'Ungheria quei buoni rapporti, che avevano superato anche la difficile prova di quegli anni burrascosi, quando, resistendo a tutte le sollecitazioni, il Regno aveva rifiutato di unirsi ai nemici di Venezia. Soprattutto la necessità di fronteggiare la minacciosa pressione turca creava tra la Serenissima e l'Ungheria una reale solidarietà d'interessi. Per essa Venezia, benché in gravi strettezze finanziarie, non negava nel 1518 un contributo all'ambasciatore, che Luigi II aveva inviato a questo scopo nonostante il parere contrario del Bon. I movimenti militari dei Turchi, le lotte intestine che travagliavano in quegli anni il mondo musulmano, le vane insistenze del papa affinché l'Ungheria si unisse in una lega cristiana contro gli ottomani, e la tregua triennale stipulata infine nel 1519 tra il re d'Ungheria e il sultano, costituiscono i temi dominanti nei dispacci dell'ambasciatore veneziano.
La sua coscienza tipicamente umanistica trovò certo un ambiente congeniale nella corte jagellonica, che aveva visto di recente, sotto il regno di Mattia Corvino, la fioritura del rinascimento ungherese. È espressione d'un ideale di vita che già in Italia si avviava al tramonto la motivazione con cui, al momento del congedo, ricusò dal re il titolo cavalleresco, dicendo che egli era dottore, e sapeva "usar la ottrina" a beneficio della Signoria, mentre se egli fosse cavaliere "non havendo richeza non la poria usar". Nei tre anni di quel soggiorno aveva appreso la lingua tedesca e l'ungherese.
È pure da ricordare il viaggio compiuto nel 1518 in Polonia, col compito di consegnare un dono della Repubblica a Bona Sforza, andata sposa a re Sigismondo. Sulla via del ritorno, quando un incendio scoppiò nella casa in cui era alloggiato, poté salvarsi a stento dall'ira della folla che lo credeva responsabile, rifugiandosi nell'alloggio del cardinale Ippolito d'Este, in compagnia del quale viaggiava. L'amicizia da lui stretta col prelato estense in Ungheria ebbe modo di manifestarsi anche nel marzo del 1520, in occasione d'un soggiorno di questo a Venezia.
Finalmente, nel giugno del 1519, giunse a Buda il successore, che egli andava da tempo sollecitando, nella persona del dottore Lorenzo Orio, e il mese dopo il B. poté mettersi in viaggio, giungendo a Venezia il 17 luglio. Il giorno successivo lesse in Senato la sua relazione, "la qual - commenta il Sanuto - fu inepta et a la fin risibile. Pur disse assa' cose". Infatti egli non si limitò a riepilogare le fasi salienti della missione, ma espose una ricca messe di notizie sulle risorse economiche, sulle finanze, sulle vicende interne e sui principali personaggi del regno.
Il B. era ormai una figura prestigiosa del patriziato, e lo troviamo numerose volte tra gli accompagnatori ufficiali di principi e di ambasciatori in visita a Venezia; ma non volle accettare nell'ottobre 1523 l'ufficio di oratore a Carlo V, cui era stato eletto. Fece parte invece, nella primavera del 1524, dell'ambasceria straordinaria inviata a Roma per porgere al nuovo papa Clemente VII il saluto della Repubblica. Attiva fu sempre la sua partecipazione alla vita pubblica: tralasciando minori incarichi, fu dal settembre 1520 al gennaio 1522 podestà a Chioggia; nell'ottobre 1522 e nel gennaio 1525 fu eletto tra i Savi preposti all'estimo della Dominante; dal maggio 1523 al 28 marzo 1524, e poi dal luglio 1526 alla morte ricoprì nuovamente l'ufficio di avogadore di Comun.
La rigidità di cui il B. dette prova (come del resto alcune uscite scherzose della sua relazione poco consone all'usuale austerità del Senato) sembrano rivelare il carattere d'un uomo che non sempre aveva il senso dell'opportunità: come la proposta d'una taglia per un furto di galline - accolta con ilarità dal Consiglio dei quaranta - e come quando, nel febbraio del 1528, in piena carestia, voleva far condannare all'impiccagione un ufficiale di barca, che di fronte ad un magistrato intento a ricercare frumento di contrabbando, aveva imprecato contro i "gentiluomini", esclamando: "Se dura questa fame sare' taià a pezi; che crede' vu esser?" (fu condannato a dieci anni di prigione forte, essendosi mossa a pietà la Quarantia per i suoi numerosi figlioli).
E tuttavia il B. in diversa circostanza, in cui non era in gioco l'autorità della classe dominante, seppe dimostrarsi umano e duttile interprete della legge, secondo la tradizione veneta che suggeriva - come si esprimeva il Consiglio dei dieci lodando l'operato del B. - "la prudentia del judice esser preposta et dover spesse fiate moderar la leze". Inviato infatti dai Dieci con poteri eccezionali a Brescia, per dirimere un grave contrasto insorto tra il Consiglio cittadino, espressione della nobiltà fondiaria, e i rettori veneziani, che con l'appoggio del "popolo" volevano imporre il calmiere sui prezzi del grano, saliti alle stelle per effetto della grave carestia, non solo propose la requisizione di tutte le biade reperibili, ma fece restituire ad alcuni poveri abitanti del contado gli animali che i custodi delle porte avevano sequestrato mentre essi cercavano di far uscire dalla città un po' di grano per il proprio sostentamento: pena che se non costituiva una "estorsione", rappresentava pur sempre una "asperrima execuzione" delle leggi.
Fu questo l'ultimo atto del Bon. Colpito in quei giorni dalla peste petecchiale che infuriava in tutto lo Stato, morì a Brescia il 17 apr. 1528.
Aveva sposato nel 1522 una Contarina figlia di Giorgio Contarini.
Fonti e Bibl.: M. Sanuto, Diarii, Venezia 1879-1903, VI-X, XII-XV, XVII-XLVII, ad Ind. (il sommario della relaz. d'Ungheria è nel XXVII, coll. 495-502); Archivio di Stato di Venezia, M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, p. 82; Ibid., Senato,Dispacci Ungheria, filza 30, f. 267; Ibid., Capi del Consiglio dei Dieci,Lettere di rettori, busta 19, ff. 198, 200-205 (da Brescia); A. Morosini, Historia veneta, I, Venezia 1719, p. 85; E. A. Cicogna, Delle Inscrizioni Veneziane, VI, Venezia 1853, p. 233; A. Meozzi, Azione e diffusione della letteratura italiana inEuropa (secc. XV-XVII), Pisa 1932, p. 65; B. Nardi, Letteratura e cultura veneziana del Quattrocento, in La civiltà veneziana delQuattrocento, Firenze 1957, p. 118; A. Ventura, Nobiltà e popolonella società venetadel '400e '500, Bari 1964, p. 395.