CONTARINI, Alvise
Nacque a Venezia il 23 genn. 1537 da Vincenzo di Alvise e da Andriana Bernardo, che il padre aveva sposato in seconde nozze.
Il ramo del casato Contarini cui egli apparteneva, detto della Madonna dell'Orto dalla località al bordo della laguna ove aveva dimora, era allora tra i più illustri di esso: tra i fratelli del padre c'erano il celeberrimo card. Gasparo e Tommaso, procuratore di S. Marco, uno degli uomini più in vista nel governo della Repubblica nel periodo a cavallo della metà del secolo.
Dopo aver compiuto i primi studi a Venezia e avervi avuto come maestri sia Lazzaro Bonamico, che gli insegnò filosofia, sia Paolo Manuzio, che gli insegnò retorica e gli resterà poi amichevolmente legato, il C., conforme a un'abitudine in auge a quel tempo tra le maggiori famiglie del patriziato, si era trasferito a Padova per completare gli studi, dedicandosi alla filosofia. Aveva avuto ancora quale maestro Lazzaro Bonamico e condiscepolo Agostino Valier, il futuro vescovo di Verona, l'uomo che gli sarà più vicino per tutto il resto della sua vita. Il suo debutto ufficiale nella carriera politica avvenne tra giugno e dicembre del 1562, quando fu eletto alla carica di savio agli Ordini, la quale costituiva un po' l'apprendistato per i giovani cui si preconizzava un brillante futuro. La sua iniziazione ufficiosa nel settore cui egli intendeva avviarsi, la diplomazia, era avvenuta nel 1559, quando si era recato in Francia al seguito di Giovanni Cappello, destinatovi quale ambasciatore straordinario. Secondo quanto scrive P. Paruta nel suo Della perfettione della vita politica (Venetia 1599, p. 6), il C. si sarebbe recato, pur in veste privata, a Trento, per assistere a qualche fase del concilio, nel 1563, ossia poco dopo aver terminato il suo compito di savio agli Ordini. Giovane molto apprezzato, nonché per le sue qualità di animo e di mente, per esser nipote del card. Gasparo. Ma che godesse della stima del Senato veneziano, lo provava il fatto che di lì a due anni, il 10 nov. 1565, lo si eleggeva ambasciatore straordinario ad Alfonso II d'Este, duca di Ferrara, per porgergli le congratulazioni della Repubblica in occasione del suo matrimonio con Barbara d'Austria sorella dell'imperatore Massimiliano II.
Che poi egli stesso ambisse di dar prova delle sue qualità è dimostrato dall'ampia relazione sul ducato di Ferrara che egli presentava alla Signoria al suo ritorno a Venezia. Troppo breve, egli iniziava a dire, era stato quel soggiorno, per poter parlare adeguatamente di un ducato dal territorio così vasto, così come per poter fornire dei ritratti dei duca e degli altri personaggi; anche per chi abbia a disposizione molto tempo, aggiungeva a quest'ultimo riguardo, è comunque difficile "far giudizio di questa parte così intrinseca e così secreta come è l'animo nostro". Che era opinione rivelatrice di un interesse in lui predominante, il cogliere i connotati psicologici, di singoli e di popoli, considerandoli quale strumento indispensabile per intuire il loro agire politico. Così, malgrado le premesse, parlerà diffusamente del duca e della duchessa, e non rinuncerà a dilungarsi sulle caratteristiche geografiche del territorio, sulle strutture statali, sui rapporti con altri principi, dimostrando nel contempo un notevole gusto espositivo e il senso del particolare e della curiosità.
L'impressione suscitata da questa prima missione dovette esser senz'altro positiva: non trascorrevano quattro anni che il C. veniva eletto ambasciatore ordinario a una delle sedi più difficili, la corte di Francia.
Stavano già infuriando, in quel paese, le guerre di religione. Agostino Valier, che si riteneva un po' il mentore di tutto il patriziato veneziano, e in particolare di quei giovani come il C. cui riteneva fosse affidata la salvaguardia delle future fortune politiche e religiose della patria, aveva ritenuto di dovergli dedicare un opuscolo, De legatione ad Carolum IX Galliarum regem, in cui, dopo avergli ricordato la memoria dello zio card. Gasparo e i precetti filosofici e religiosi di cui era stato imbevuto nella sua educazione, lo incitava a tutelare con la sua attività di ambasciatore i comuni ideali civili e religiosi.
Il C. restò in Francia sino all'inizio del 1572 (l'ultimo suo dispaccio è dei febbraio 1572), ottenendo, a conclusione, quale attestato di riconoscenza da parte del re, il titolo di cavaliere, oltre a un dono: altrettanto soddisfatto doveva esser stato il governo veneziano.
La narrazione delle vicende della sua ambasciata fatta dal C. nella relazione conclusiva esprime la consapevolezza di una missione condotta con successo. Essa è scritta con la stessa vivacità e lo stesso gusto sin sovrabbondante della precedente. Dopo aver tratteggiato il paesaggio francese, soffermandosi massime sui boschi e sulla presenza di piante, come i roveri, di maggior utilità per costruzioni navali - un tema cui un rappresentante di una Repubblica marinara quale Venezia era particolarmente attento -, e dopo aver delineato le qualità e le forze militari dei Francesi, il C. affrontava il tema più scottante, quello delle lotte religiose, badando a fissarne le cause, e ancor più le implicazioni politiche, a trarne una morale che fosse di monito ai Veneziani. "Niuna qualità o costume del popolo di Francia a questi tempi è più considerabile che la religione - scriveva - materia della quale ora dipendono quasi tutti i negozi e pensieri di quel Regno, e importantissima a tutti gli Stati". Da quarant'anni in qua, si è potuto infatti constatare, egli continuava, che "l'alterazione della religione... ha fatto così grande e importante alterazione in quasi tutti i regni della cristianità. E di questo che si prova per esperienza la ragione è anco chiara; perché chi muta la fede, e a un certo modo la obbedienza verso Dio, facilmente s'induce a mutarla anco verso il principe". Riecheggiavano, nelle parole dei C., gli orientamenti di tutto un gruppo di politici veneziani, devotissimi alla Sede apostolica, inclini a metter la politica veneziana al servizio della Controriforma; uomini su cui influiva Agostino Valier, il quale sentiva molto, a sua volta, la suggestione del card. Carlo Borromeo. Orientamenti che emergevano più evidenti nel passo in cui il C. indicava le cause dell'attuale situazione francese: il commercio troppo intenso con la Germania, così che dietro ad esso eran filtrate in Francia le nuove idee religiose (era un avvertimento ai Veneziani, accanto ai quali vivevano, appoggiati al loro fondaco, molti mercanti tedeschi di religione riformata); la cattiva distribuzione dei benefici ecclesiastici, che in Francia era fatta dal re. Qui l'avvertimento era nei confronti di coloro che, a Venezia, lamentavano di non aver più, dopo la sconfitta di Agnadello del 1509, quella prerogativa, avocata dalla Sede apostolica, così che quando volevano che a un beneficio ecclesiastico, e in particolare ai vescovati, fosse nominato un uomo di loro fiducia, dovevano rivolgerne supplica a Roma: meglio rinunciare definitivamente a tale prerogativa, sembrava ammonire il C., per evitare nello Stato veneziano conseguenze analoghe a quelle verificatesi in Francia.
Durante il suo soggiorno in Francia, il C. aveva voluto recare un contributo alla vita culturale del paese, e indirettamente, pertanto, alla sua vita religiosa, facendo stampare a sua cura nel 1571 a Parigi, per i tipi di Sébastien Nivelle, l'Opera dello zio card. Gasparo. Aveva ordinato gli scritti ivi raccolti, spiegava lo stesso C. nella lettera dedicatoria al card. Alessandro Farnese, nello stesso ordine in cui lo zio li aveva scritti: "consueverat enim ille studia ci vitac generi, in quo versabatur, accomodare", diceva. Precedevano così gli scritti di filosofia e fisica; seguivano le questioni civili; infine, gli argomenti sacri. In realtà era un ordine fittizio: scritti come il De officio episcopi, il De potestate pontificia e la Confutatio articulorum lutheranorum, Gasparo Contarini li aveva stesi quando era ancora laico. Integrava gli scritti dei cardinale la vita di lui, opera di un grande protagonista della Controriforma, massime a Venezia, monsignor Giovanni Della Casa.
Poco prima del suo ritorno a Venezia, ossia nel dicembre del 1571, il C. era stato eletto savio di Terraferma, che significava l'ingresso, per un periodo di sei mesi, in uno dei maggiori consessi di governo della Repubblica; la stessa carica gli verrà conferita una seconda volta nel giugno del 1575. Nell'intervallo il C., che aveva dato una svolta alla sua vita privata sposandosi con la nobildonna Pisana di Vettor Pisani, il 28 febbr. 1572, nella chiesa di S. Paternian, fece l'esperienza del "reggimento" di una grossa città del dominio: fu infatti eletto, il 7 giugno 1573, capitano a Verona, e vi restò sin quasi alla fine di ottobre del 1574, salvo un breve intermezzo, durante il quale dovette andare a Milano a render omaggio al vincitore di Lepanto don Giovanni d'Austria, che vi si trovava di passaggio. Fissò il ricordo di questa magistratura veronese in una relazione esemplare per accuratezza e ricchezza di informazioni, nonché per la finezza dei consigli sui problemi veronesi da lui proposti al governo della Repubblica. Nel gennaio 1574 venne raggiunto a Verona da Niccolò Barbarigo di Giovanni Battista, che vi era stato destinato quale podestà: il sodalizio veronese di questi due vecchi amici e compagni di studi era completato dal contatto col vescovo Agostino Valier: un sodalizio di studi, nonché di impegno civile e religioso, e di studi intesi in funzione di quell'impegno. Frutto di esso era un opuscolo, Qui mores in cive veneto requirantur, scritto dallo stesso Valier durante quel periodo, pare su richiesta del C., cui infatti era dedicato.
Era una parenetica che ricordava quella di mons. Della Casa, nel De officiis inter potentiores et tenuiores amicos, oltre che nel Galateo, ma volta qui a un obiettivo preciso, stabilire il comportamento che doveva avere un senatore della Repubblica di Venezia. Anzitutto, il Valier ricordava al C. che bisognava diventare senatore: perché un conto era il riprovevole smaniare per conseguir onori, altro conto era il corretto adoperarsi per averli. Una volta ottenuti, e doverosamente accettati, bisognava esercitarli al lume dei doveri cristiani e sulla scorta di ideali civili: come esser fautori di bontà, consolar gli afflitti, amare la pace, manifestare prudenza, eloquenza, dottrina, ma senza ostentazioni. Raccomandazioni in fondo superflue per il C., che l'amico Niccolò Barbarigo già chiamava "padre del decoro", "che vuol dire - spiegava adabundantiam ilValier - persona che sa molto quanto si convenga... Voi" proseguiva, passando ad istruire il C. perfino sui suoi futuri compiti mondani, "voi che avete il grado di cavaliere dovrete quasi sempre essere capo del campo, avrete da preparare ragionamenti atti a convivii de' pari vostri, riprendendo col silenzio, e mostrando di non approvare quello che fosse detto in pregiudicio dell'amico assente...; non mostrando parimente di approvare le adulazioni che si usano, trovando occasione di laudare gli amici e parenti di quelli che si trovano presenti...". Pur incitando a non far sfoggio del proprio sapere, Agostino Valier riteneva che il possedere una solida informazione fosse assai importante anche per le esigenze pratiche di una carriera politica, e in altro scritto di quel periodo pur dedicato al C., riproducente un'ideale conversazione avvenuta tra lui, lo stesso C. e Nicolò Barbarigo, suggeriva degli accorgimenti utili per riuscire a tener a mente quanto si leggeva, quali la compilazione di commentari delle proprie letture (De commentariis conficiendis memoriae causa, si intitolava lo scritto edito in A. Valier, De recta philosophandi ratione libri duo, Veronae 1577, c. 74v). Quanto alle letture stesse, la preferenza del Valier andava senz'altro a quelle storiche, come quelle da cui ci si poteva attendere un ammaestramento politico, religioso, morale più efficace, a saperle scegliere bene, ovviamente. Ma proprio perché la storia era importante, bisognava che chi possedesse adeguati talenti non si limitasse a leggerla, ma la scrivesse. Il discorso era attuale, a Venezia. Dopo la morte del card. Pietro Bembo, nel 1547, non era più stato eletto il "pubblico storiografo" che ne continuasse l'opera storica, probabilmente a causa delle perplessità provocate dall'opera del cardinale, suscettibile, si pensava in seno al governo veneziano, di danneggiare l'immagine della Repubblica, anziché illustrarla, come sarebbe stato nei doveri istituzionali di uno storico al servizio della Repubblica stessa. Agostino Valier riteneva che, scegliendo bene il successore dei Bembo e dandogli gli ammaestramenti opportuni, se ne sarebbe potuto ricavare un'opera storica altamente edificante, nonché proficua per lo svolgersi della politica veneziana. Sembra, da un passo di un altro suo scritto coevo, Quibusin artibus adolescens venetus debeat excellere (edito in A. Valier, cit., c. 68r), che il suo candidato preferito per quell'incarico fosse Nicolò Barbarigo.
Invece il Consiglio dei dieci, il 13 marzo 1577, elesse il C., con l'incarico, enunciava la legge di nomina, di scrivere in latino "l'istoria di presenti tempi et particolarmente di questa Republica". Dove era importante, e insieme indicativo di una nuova visione del mondo contemporaneo, il fatto che si respingesse la storiografia strettamente venetocentrica che si era voluta dianzi: e altrettanto importante era che nel preambolo, in luogo delle esigenze umanistico-letterarie del passato, se ne fissassero altre, di carattere contenutistico, come la "sincerità", lo scrivere "fidelmente".
All'elezione da parte dei Consiglio dei dieci, A. Valier aveva fatto eco con un suo nuovo scritto diretto al C., Ricordi per scriver le historie della Repubblica di Venezia (in Anecdota veneta, a cura di G. B. Contarini, Venezia 1757), in cui si adoperava a metter in chiaro che la storiografia era bensì maestra ma di precetti umani, non già politici; che essa deve insegnare la caducità e l'insussistenza delle cose terrene; che i benefici da essa apportati sono di carattere morale.
Il C. si era accinto subito al suo lavoro, pur non ritirandosi completamente dalla vita politica: venne eletto il 29 giugno 1578 provveditore "sopra i ogli" e, il 7 ottobre di quell'anno, provveditore sopra le Fortezze. La morte, comunque, non gli consentì di portarlo a termine: quando scomparve, nel novembre del 1579, aveva pronta solo una sintesi di quanto si proponeva di scrivere, tracciata comunque in una bella prosa latina, e alla quale era stato, dato come titolo, forse dal trascrittore, Delineatio historiae quae res gestas Venetorum complectitur, nulla diligentia contexta, iterum expolienda et debitis coloribus exornanda, in quatuordecim libros distincta (Venezia, Bibl. naz. Marciana, Mss. It. X, 685[= 3180]).
Scomparso il C., il Valier - sarà poi lui a raccontarlo - aveva deciso di dedicarsi egli stesso al compito di scriver una storia di Venezia, malgrado i grandi impegni derivatigli dalla sua diocesi. Il suo disegno era però più ampio di quello del C., una storia di Venezia a partire dalle sue origini. Egli accentuava inoltre l'intonazione moraleggiante che aveva consigliato al C., tanto che il titolo dell'opera suonava: De adulterina prudentia ac regulis vitandis, sive de politica prudentia cum christiana pietate coniungenda ex Venetorum potissimum historiis (conservata a Vienna, Österreichische Nationalbibl., Fondo ex Foscarini, cod. 6118). Quello che il pio e compunto vescovo non rivelava era che nello stendere l'ultima parte della sua opera si era valso largamente della Delineatio del Contarini. La contrapposizione delle due opere è pertanto molto interessante, in quanto le differenze, e soprattutto le modifiche apportate dal Valier al testo del C., rivelano le differenze esistenti, dal punto di vista religioso nonché politico, tra due uomini pur così vicini. Il C., che risentiva ancora delle idealità riformistiche dello zio Gasparo, appare più libero, scevro da tutte quelle remore che indurranno il Valier a tacere di vari episodi, a smorzare i toni parlando di qualche personalità o ad accentuarli enfaticamente riferendosi ad altre. Il C., a differenza del Valier, esprime la sua viva ammirazione per Carlo V, mentre su Carlo Borromeo dà un giudizio sfumato; non omette di citare le contese insorte tra la Repubblica e la Sede apostolica riguardo il conferimento dei vescovato di Brescia, né quelle avvenute più tardi a causa dell'Inquisizione, e neppure evita di raccontare dei misfatti imputati al cardinale Carafa; e, circa la politica veneziana, fa conoscere le lotte accesesi nel patriziato per una successione dogale. Complessivamente, malgrado la concisione di cui si è detto, la Delineatio resta opera nitida e pacata, utile per conoscere la temperie politico-religiosa della classe dirigente veneziana, la sua visione dei problemi del tempo, in un momento che costituiva una svolta determinante nella sua storia.
La personalità dei C. riceve una ulteriore, suggestiva connotazione dal suo testamento. È composto di vari brani, redatti in momenti diversi, il primo nel 1564, il secondo nel 1572, il terzo nello stesso 1572, il quarto e il quinto nel 1578, quasi tutti assai brevi, privi delle consuete ostentazioni devozionali e di legati pro anima, incentrati su asciutte disposizioni patrimoniali, raddolciti da espressioni delicatamente affettuose nei riguardi dei fratelli, dei nipoti, della moglie. Dal 1572, il pensiero del C. è volto, oltre che ai parenti più stretti, ai padri gesuiti: qualora né lui né i fratelli avessero figli maschi, o avessero tutt'al più due femmine entrambe maritate, il C. voleva che tutto lo "stabile" della famiglia alla Madonna dell'Orto andasse ai gesuiti, "nel quale instituischino" collegio de gioveni gentil'homini venetiani che studiino et si allevino nel timor de Dio"; aggiungeva al detto "stabile" i beni posseduti dalla famiglia presso Padova, vincolandoli tutti in perpetuo "a questa santa opera. ... della qual la nostra città et per consequente tutto il stado ne ha tanto bisogno"; destinava infine agli stessi gesuiti altri 1000 ducati, "per accomodarvi una chiesia et le altre comodità apartinenti a collegio". Nell'agosto 1578 devolveva al seminario istituito dal defunto vescovo di Belluno Giulio Contarini un legato che quel prelato gli aveva fatto, nonché dei capitali che risultano frutto di operazioni finanziarie da lui compiute recentemente e sulle quali fornisce utili indicazioni, come, ad esempio, l'acquisto, effettuato nel 1577, di più di 3.000 ducati di "daie" (imposte) veronesi. Appaiono dunque in questo testamento aspetti tipici del settore della classe dirigente veneziana di quegli anni cui il C. apparteneva, l'intraprendenza negli affari, e in particolare la speculazione sui tributi del dominio, la devota ammirazione per i gesuiti, la consapevolezza dell'importanza della formazione dei giovani gentiluomini, cui sarebbe toccato il governo non solo di Venezia, ma dì tutto lo Stato.
Nel necrologio della Sanità del 2 nov. 1579 si legge: "Il cl.mo m. Alvise Contarini de anni 36 ammalato di febre za zorni 10 et petechie, morto a Padoa". Riteniamo trattarsi di lui, anche se l'età non corrisponde e se non figura il titolo di cavaliere, perché a Padova, come risulta dal testamento, egli aveva una casa, e perché il necrologio indica come parrocchia quella di S. Alvise, ove era appunto la sua dimora veneziana.
Il C. venne sepolto nella cappella di famiglia, nella chiesa della Madonna dell'Orto, accanto al card. Gasparo, e con una lapide che gli attribuiva pur essa, ma questa volta per eccesso, un'età errata.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Miscell. Cod., I, Storia veneta, 22: M. Barbaro, Arbori de' patritii veneti, II, c. 466; Ibid., G. A. Cappellari Vivaro, Il Campidoglio veneto, I, c. 827; Ibid., Avogaria di Comun, Matrimoni, r. 1560; Consiglio dei dieci, Comuni, r. 29, c. 8, alla data 13 apr. 1569 (stanziamento di danari per rimborso spese durante la sua ambasceria in Francia); Ibid., Notarile. Testamenti, Atti Ziliol, r. 1256/56; Provveditori alla Sanità, Necrologio, r. 811; Segretario alle voci, Senato, rr. 3, 4, 5; Ibid., Maggior Consiglio, r. 5. Quanto alle sue ambasciate, Ibid., Senato Secreta, Dispacci Francia, f. 7 (dal 5 maggio 1569 al 1° febbr. 1572), da integrare con Rubricari Francia, c. 1, e Senato, Secresa, Rubricario Ferrara, r. 1 (dal 5 al 15 dic. 1565). Le notizie maggiori sulla vita del C. e su altri membri della famiglia Contarini della Madonna dell'Orto sono fornite da E. A. Cicogna, Le Inscrizioni Venez., II, Venezia 1927, pp. 244 ss. Della vita del C. parla I. Morelli, nella prefazione al Memoriale d'Agostino Valiero vescovo di Verona poi cardinale a Luigi C. cavaliere sopra gli studi ad un senatore veneziano convenienti, Venezia 1803. Varie notizie fornisce G. Fragnito, Memoria individuale e costruzione biografica, Urbino 1978, pp. 15, 19 s., 22, 26 ss., 50, 167 s. (particolarmente interessante la n. 100, dove si spiega l'ordine fittizio dato dal C. alle opere dello zio card. Gasparo). Cfr. inoltre: A. Valier: De recta philosophandi ratione libri duo, Verona 1577, ove sono contenuti, rispettivamente alle cc. 62r e 74v, gli scritti destinati al C., Quimores in cive Veneto reauirantur e De commentariis conficiendis memoriae causa; Ricordi per scriver le historie della Repubblica di Venetia di questi tempi a m. Aloigi C. cavalier e Legationis Bernardi Naugerii ad Paulum IV commentarius, in Anecdota Veneta, a cura di G. B. Contarini, Venezia 1757, rispettivamente a pp. 173 e 131; De legatione ad Carolum IX regem. Epistola ad Aloysium Contarenum, Venezia 1807. Sull'operetta storiografica del C., e sui rapporti con quella di A. Valier, cfr. G. Cozzi, Cultura, politica e relig. nella "pubblica storiografia" venez. del '500, in Boll. dell'Ist. di storia della società e dello Stato venez., V (1963), pp. 29-42. Per i rapporti con i Manuzio, cfr. P. Manuzio, Lettere volgari, Venetia 1560, cc. 81v-83v; Aldi Manutii Paulli f. Aldi n. De quaesitis per epistolam libri III, Venetiis 1576, l. I, p. 73 (De Parma, Clypeo, Scuto, Pelta, Ancile. Ad Aloysium Contarenum equitem); E. Pastorello, L'epistolario manuziano. L'inventario cronologico-analitico 1483-1597, Firenze 1957, pp. 102, 128, 173, 233; Id., Inedita manutiana 1502-1597, Firenze 1960, pp. 148 ss.; O. H. Soranzo, Ad cohortandos Venetos adolescentes ad philosophiae studium, Venezia s. d., con dedica al C. di Angelo Pedrazano. La relaz. sull'ambasciata di Ferrara, già edita da A. Segarizzi, Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, I, Bari 1912, pp. 3-20, è ora riedita a cura di A. Ventura, Relazioni degli ambasciatori veneti al Sonato, I, Bari 1976, pp. 79 ss.; la relazione sull'ambasciata di Francia è edita da E. Alberi, Le relazioni degli ambasciatori veneti al Senato..., s. 1, IV, Firenze 1840, pp. 227-273 (cfr. su questa ambasciata Ch. Hirschauer, La politique de st. Pie V en France (1566-1572), Paris 1922, ad Ind.). La relazione al ritorno dalla carica di capitano a Verona è stata edita in Relazioni dei rettori veneti in Terraferma, IX, Podestaria e capitanato di Verona, a cura di G. Borelli, Milano 1977, pp. 85 ss.