CORNER, Alvise
Nono dei tredici figli di Giovanni di Marcantonio e di Chiara Dolfin, nacque a Venezia il 4 ott. 1588.
Entrambi i genitori appartenevano a famiglie tra le più doviziose e cospicue del patriziato veneziano: il padre, del ramo Corner di S. Polo, discendente in linea diretta da Caterina, regina di Cipro, nella redecima del 1582 aveva denunciato, insieme ai fratelli, una rendita di circa 4.500 ducati; la madre, che aveva portato al marito una dote di 12.000 ducati, era figlia di Lorenzo e di Chiara Vendramin della stirpe del doge. In un poema eroico dedicato al padre, allora podestà di Padova (L'honorata giostra fatta in Padova... l'anno 1600, Padova 1600), il padovano Ludovico Grota tesseva le lodi del C., allora dodicenne, predicendogli un brillante avvenire.
Nulla sappiamo però dei suoi anni giovanili, se non che si dedicò con cura e passione agli studi di letteratura e di filosofia; e il suo "gran sapere" verrà ricordato nel 1625 dal padovano Benedetto Salvatico, in un'orazione dedicata al padre (Oratione... per l'assontione del sereniss. Giovanni Cornaro al principato, Padova 1625). Nel 1615 iniziò l'attività politica ottenendo il saviato agli Ordini; nel maggio del 1616 rifiutò l'elezione ad ufficiale della Camera dei prestiti. Nel marzo del 1617, mentre la guerra contro gli Uscocchi raggiungeva una delle sue fasi più acute e decisive, venne eletto governatore di galee sottili, con l'incarico di sovrintendere alla preparazione e all'armamento di queste imbarcazioni, che nel mese successivo sarebbero partite da Venezia al comando di Lorenzo Venier. Nel maggio del 1618 venne eletto, con altri undici senatori, ambasciatore al nuovo doge Antonio Priuli - che si trovava a Veglia in qualità di plenipotenziario della Repubblica per condurre le trattative di pace con gli Arciducali - con l'incarico di incontrarlo a Chioggia e di scortarlo sino a Venezia a bordo di dodici "peote". Il 29 giugno 1619 è savio di Terraferma e il 5 novembre seguente venne eletto ambasciatore alla corte di Spagna.
Il C. partì da Venezia nell'ottobre del 1620 e, dopo una breve sosta a Milano dove si incontrò con il governatore spagnolo, giunse a Madrid il 23 dicembre.
L'ambasceria del C. cadeva in un momento particolarmente critico e difficile, che vedeva le maggiori potenze europee attestate su posizioni di conflitto a causa dei riacutizzarsi della questione valtellinese. Gli avvenimenti erano precipitati nell'estate del 1620, con il crudele eccidio dei riformati compiuto dalla fazione cattolica sostenuta dalle truppe del governatore di Milano, che occupavano la valle attestandosi su posizioni di forza. Venezia veniva così colpita gravemente nella propria sicurezza politico-militare poiché le venivano sbarrate le vie di comunicazione con la Francia e l'Europa centrale.
Il C. ricevette commissione dal Senato di esprimere al re di Spagna le più vive rimostranze della Repubblica per l'operato del duca di Feria in Valtellina. L'azione diplomatica del C. si rivolse però soprattutto all'ambasciatore francese Fargis, al fine di sollecitare un intervento più deciso della Francia nella questione valtellinese.
La sua iniziativa sembrò comunque rivelarsi promettente di risultati positivi, con l'invio, da parte francese, a Madrid dell'ambasciatore straordinario Bassompierre, con espresse commissioni di Luigi XIII di imporre agli Spagnoli la restituzione del territorio occupato. Il C. iniziò con il Bassompierre una intensa ed energica attività diplomatica, al fine di evitare che gli indugi e gli artificiosi ritardi degli Spagnoli spegnessero sin dal suo nascere l'iniziativa dell'ambasciatore francese; non poté però vincere la diffidenza e le indecisioni della Francia che, se da un lato riteneva indispensabile la restituzione della Valtellina, dall'altro nutriva un'inconciliabile avversione verso la politica di ingerenza che Venezia da tempo conduceva nei confronti dei Grigioni.
Così, il trattato stipulato a Madrid nello aprile del 1621 tra le due potenze maggiori, pur stabilendo il ritiro delle truppe spagnole dai territori occupati, impediva il rinnovo della lega tra Venezia e i Grigioni.
L'inasprirsi del conflitto in Valtellina impedì però l'attuazione di questo trattato e pure rimasero inoperose le decisioni prese a Aranjuez nel maggio del 1622, che prevedevano la cessione a terzi dei forti spagnoli. Le trattative giunsero finalmente ad una soluzione nel febbraio del 1623, quando, in seguito ad accordi segreti, tenuti a Madrid tra il Fargis, l'Olivares e il nunzio pontificio, venne firmata una convenzione, in base alla quale i forti della Valtellina dovevano essere consegnati momentaneamente al papa.
Il C., insospettito dalle trattative, di cui, sin dall'inizio, era stato tenuto all'oscuro e subdorando quanto sarebbe stato intrapreso dalle potenze maggiori, tentò inutilmente di mettere sull'avviso l'ambasciatore Pesaro a Parigi e impedire la conclusione di un accordo che avrebbe frustrato le ambizioni di Venezia di estromettere gli Spagnoli dalla Valtellina.
Nel corso della sua lunga ambasceria, il C. ebbe anche il modo di misurarsi con un avvenimento di estrema importanza: nel maggio del 1621 alcune truppe spagnole, in marcia di trasferimento nel Cremonese, avevano cercato di passare per la strada dello steccato o imperiale, che univa Crema al territorio bergamasco, appartenente alla Repubblica per antica giurisdizione. Il Senato mantenne in questa occasione un atteggiamento rigido in difesa dei propri diritti e nel giugno seguente inviava al C. le istruzioni del Sarpi che rivendicavano la giurisdizione veneziana sulla strada, incaricandolo di comunicare al re le "ragioni valide della Serenissima" e la sua "dispostissima volontà alla quiete".
Il compito del C. non si presentava facile per le misure di difesa aggressiva che la Repubblica aveva adottato sin dal sorgere del contrasto, irrigidendo l'atteggiamento, inizialmente conciliante, del Consiglio di Stato spagnolo. Egli iniziò, comunque, le trattative di pace e, dopo numerosi abboccamenti con il reggente Caimo e l'interposizione del nunzio pontificio, pervenne ad un accordo con il quale si permetteva il transito delle truppe spagnole, rimettendo ad un collegio di arbitri la spinosa questione del possesso della strada.
Il C. registrò un successo diplomatico ottenendo, nell'ottobre del 1622, la restituzione delle merci veneziane sottratte alcuni anni prima dal viceré di Napoli, duca di Ossuna.
Nei suoi dispacci il C. si rivelò osservatore attento e preciso; descrisse con tratti eleganti e sicuri gli intrighi di corte, l'effimero entusiasmo del nuovo re Filippo IV, destinato ben presto a soccombere di fronte all'emergere prepotente dei nuovi favoriti, Baldassar di Zuñiga e, soprattutto, Gaspar de Guzmán d'Olivares. Non tralasciò neppure di informare il Senato delle vicende interne dello Stato spagnolo: nei dispacci dell'11 e 15 febbr. 1620 riferì che a Siviglia s'erano verificate alcune sollevazioni popolari guidate da "uno ... che per intelligenza di astrologia et di notitia di natività, si arrogava di dover riuscire huomo grande".
Ritornato in patria, venne eletto savio agli Ordini, carica che ricoprì sino al settembre del 1624 e nel mese seguente entrò nel Consiglio dei pregadi. Il 6 dic. 1624 moriva il doge Francesco Contarini e fra i candidati alla successione veniva indicato anche il padre del C., procuratore di S. Marco, che riscuoteva simpatie e consensi tra il partito papalista. Poiché le leggi della Repubblica interdicevano ai figli del doge la via degli onori e delle cariche, il C. si oppose con forza all'elezione del padre, che gli avrebbe stroncato sul nascere una promettente carriera. Quando, però, la lotta tra i due contendenti principali, Agostino Nani e Francesco Erizzo, si rivelò inconcludente, i voti dei quarantuno elettori - tra cui c'era anche il fratello del C., Francesco - finirono per riversarsi sul padre, il quale venne eletto doge di Venezia il 4 genn. del 1625.
Tale elezione vedeva il C. e il fratello Francesco insediati nel Consiglio del pregadi ordinario con possibilità di voto, mentre le leggi della Repubblica vietavano espressamente che i figli del doge potessero entrare in Senato "con balla". Ciò nondimeno il doge, appena tre giorni dopo la propria elezione, rivolgeva una petizione alla Signoria, chiedendo che i figli Alvise e Francesco potessero rimanere nel Consiglio dei pregadi con possibilità di "poner balla". I sei consiglieri risposero affermativamente e, nel luglio del 1625, mutata la Signoria e approssimandosi l'elezione di un nuovo Pregadi e di una nuova zonta, Giovanni Corner chiese se i suoi figli avrebbero potuto esservi riballottati ed ottenne nuovamente una risposta positiva.
Il C., nell'ottobre del 1625 e 1626, venne in tal modo eletto, per due volte consecutive, con possibilità di voto, nella zonta del Pregadi.
L'episodio provava in modo inequivocabile l'acquiescenza e l'ossequio che gran parte del patriziato dirigente veneziano dimostrava verso la famiglia Corner, assurta ad un grado elevato di potenza e di prestigio. Questa palese violazione delle leggi della Repubblica, unitamente ad altri episodi che ebbero come protagonisti il doge Giovanni Corner e la sua famiglia, negli anni 1625-1628, non mancarono di far nascere una violenta reazione, che vide schierata la parte del patriziato più povero ed emarginato contro il monopolio di ricchezza e di potere, esercitato dalla nobiltà più doviziosa e dall'organo politico che più la rappresentava, il Consiglio dei dieci. Si trattava di un movimento di opposizione che sotto molti aspetti ricordava da vicino quello del 1582-1583; ma, a differenza del precedente, questo aveva trovato un fautore e un capo nella figura di Renier Zeno, patrizio di temperamento deciso ed intransigente.Il 30 sett. 1627, giorno in cui si ballottava la zonta del Senato, intuendo i pericoli che lo minacciavano, il C. fece precedere la propria elezione da un intervento del padre in Collegio, in cui si ponevano in evidenza le precedenti due terminazioni della Signoria. La reazione dello Zeno non tardò però di molto: alcuni giorni dopo tale intervento, avvalendosi di una legge che stabiliva che tutti i dubbi concernenti la promissione ducale dovevano esser risolti dal Maggior Consiglio, egli chiese agli avogadori di Comun di tagliare l'elezione del C., sicché quest'ultimo si vide costretto ad evitare un giudizio sfavorevole chiedendo, tramite il padre, l'annullamento della sua elezione.
Questi e i successivi avvenimenti, tra cui il ferimento dello Zeno compiuto da un altro figlio del doge, non giovarono alla carriera politica del C., che per alcuni anni dovette rimanere in ombra. Non a caso, come ebbe ad osservare il residente di Modena a Venezia Codebò, l'elezione del nuovo doge Nicolò Contarini, nel gennaio del 1630, era avvenuta "per oprimere molti senatori, ma particolarmente la casa Cornara".
Dall'ottobre del 1629 al settembre del 1630 il C. fu provveditore sopra le Galee dei condannati; dal luglio all'ottobre del 1631, mentre la città era colpita dalla peste, fu tra i capi del sestiere di Dorsoduro sopra la Sanità; nel settembre del 1632 era savio di Terraferma.
In tale veste si fece promotore, insieme con i colleghi e i savi del Consiglio, di numerose leggi di natura economico-finanziaria, tra cui quella del 9 ott. 1632 che si proponeva di salvaguardare i fedecommessi testamentari che rimanevano spesso ineseguiti, ordinando a tutti i notai della città di depositare, nel corso di un mese, nella Cancelleria inferiore tutti i testamenti loro affidati dal 1613 in poi, in cui fosse contenuta la disposizione del fedecommesso.
Dall'agosto del 1633 al marzo del 1634 fu provveditore alle Artiglierie; dall'ottobre del 1634 all'ottobre del 1635 conservatore alle Leggi; dal dicembre 1634 al dicembre 1635 regolatore sopra la Scrittura; nell'agosto del 1638 provveditore sopra i Beni inculti e dal giugno del 1639 sino alla morte, provveditore sopra l'Esazione del denaro pubblico.
Morì a Venezia il 19 maggio 1641.
Le facoltà del C. erano cospicue: nel 1623 il padre, nel suo testamento, gli affidò un terzo del patrimonio familiare, che crebbe nel 1627 con il diseredamento del fratello Giorgio. Nell'aprile del 1631 entrò, inoltre, in possesso di un terzo del patrimonio dello zio Giorgio. Alla sua morte tutti i suoi beni furono ereditati dal fratello Francesco.
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