GARZONI, Alvise
Nacque a Venezia nel 1449, in contrada S. Polo, dal futuro cavaliere e procuratore Marino di Francesco, e dalla prima moglie di Marino, Elena Barbarigo di Giacomo di Andrea. La famiglia, originaria di Lucca e ascritta al patriziato lagunare dopo la guerra di Chioggia (1381), in poco tempo si accrebbe e conobbe una rapida fioritura fondata sull'omonimo banco, forse il più famoso della Venezia quattrocentesca.
Questo ramo del casato, pur detenendo talune quote del capitale investito, non aveva tuttavia diretta ingerenza nella conduzione del banco, le cui vicende, culminate nel fallimento del 1499, la sfiorarono pertanto marginalmente.
Il G. aveva un solo fratello maschio, Zaccaria, ma almeno quattro fratellastri, in seguito al nuovo matrimonio contratto dal padre con Antonia Zorzi nel 1454. Ritrovandosi pertanto in famiglia "larga", al G. non rimase che uniformarsi alle consuetudini del tempo, che volevano i nobili veneziani dedicare la gioventù all'esercizio della mercatura.
Nel 1471-72 il G. figura imbarcato come mercante nella muda di Fiandra, e nel 1475-76 in quella di Barberia.
Quest'ultimo fu un viaggio assai travagliato: alla fine del luglio 1475 il G. fu tra i protagonisti di un contrasto armato contro una nave corsara, nel porto di Siracusa; quindi, nel gennaio 1476 a Tortosa, importante piazza del Regno d'Aragona, dovette vincere la resistenza del "patrono" della sua nave, che non intendeva imbarcare una partita d'indaco.
L'esperienza così acquisita, e la determinazione e il coraggio in più occasioni dimostrati, giustificano la partecipazione del G. alla guerra di Ferrara (1482-84); in qualità di comandante di una galera partecipò anche all'espugnazione di Otranto, in Puglia, ripresa ad Alfonso d'Aragona, alleato di Ferrara; in quell'occasione, nel maggio del 1484, rimase ucciso il capitano da Mar, Giacomo Marcello.
Servizio pubblico e interessi privati convivevano probabilmente in quegli anni in tutta la famiglia: fra il 1484 e il 1487 il padre del G. era infatti duca di Candia, il fratello Zaccaria esercitava la mercatura in Levante e lo stesso G. il 27 dic. 1487 fu nominato capitano del convoglio del Trafego (la muda che operava fra Tripoli e Alessandria).
La carriera politica in patria non sembrava offrire al G. prospettive troppo rosee, visto che qualche mese prima, il 5 apr. 1487, i consiglieri ducali avevano invalidato la sua elezione all'ufficio sopra le Camere per via di certi debiti fiscali non compiutamente onorati. Egli preferì quindi volgersi ancora al mare, dopo aver sposato una non meglio identificata figlia di Francesco Marcello (fratello del defunto comandante dell'armata veneta); da lei avrebbe avuto Vincenzo, con cui si sarebbe estinto il ramo del casato; la Marcello infatti morì presto e il matrimonio del G., nel 1494, con Chiara Erizzo del procuratore Antonio sarebbe risultato sterile.
Erano comunque la vocazione marinara e i traffici a essa collegati a dominare gli interessi del G., che nel marzo del 1490 accettò la nomina di provveditore a Lepanto; rimpatriato, il 16 dic. 1496 era eletto patrono all'Arsenale, carica dalla durata triennale; in tale veste, il 15 sett. 1497 vendeva una nave del valore di 1000 ducati ai Pisani dal Banco.
Negli anni che seguirono il G. sembra ulteriormente defilarsi dall'attività politica: il 10 apr. 1500 manca l'elezione a capitano delle galere grosse; il 24 marzo dell'anno successivo la cosa si ripete con il provveditorato in Armata; poi è la volta di un reggimento in Terraferma - il provveditorato a Faenza -, che il G. fallisce per pochi voti sia il 25 nov. 1503 sia il 5 sett. 1505.
Nel frattempo la morte del padre (14 giugno 1505) fece sorgere contrasti tra i numerosi figli, oltre tutto divisi tra quelli di primo e di secondo letto; le divergenze sfociarono in lunghi e complessi processi, dei quali è rimasta ampia documentazione; a partire da questo momento, al G. fu assegnato il secondo piano del palazzo paterno, in campo S. Polo, dove sarebbe vissuto sino alla morte.
Dopo tanti anni, la ripresa della carriera politica del G. doveva verificarsi proprio alla vigilia del periodo peggiore della storia della Repubblica marciana; all'inizio del 1509, infatti, egli si recava a Bergamo per esercitarvi la carica pretoria. I problemi della città (le famiglie nobili erano tradizionalmente divise nelle due fazioni dei guelfi, filoveneziani, e dei ghibellini, che guardavano a Milano) non fecero in tempo ad assorbire l'attenzione del G., subito preso dai gagliardi venti di guerra che spiravano da Cambrai. Scrive il Sanuto - da questo momento la principale fonte sul G. - che il 12 marzo 1509 uno dei due comandanti delle truppe venete, Niccolò Orsini conte di Pitigliano, entrava a Bergamo annunciando che un'avanguardia di duecento cavalieri francesi aveva oltrepassato l'Adda e devastato le campagne. Purtroppo gli allestimenti difensivi furono ostacolati dai forti dissapori che dividevano il G. dal suo collega capitano, Francesco Venier; incurante che quest'ultimo fosse cognato del doge, il 16 marzo il G. venne con lui addirittura alle mani, "adeo", riferisce Sanuto, "quella terra è sottosopra […]; tamen non fo fato provision alcuna".
Qualche settimana dopo, la disfatta veneziana ad Agnadello consegnava ai Francesi tutta la Lombardia; il 20 maggio i rettori furono deportati a Milano e di lì in Francia; nella tragica circostanza migliore fortuna toccò invece a un fratello del G., Francesco, che da Verona, dove era podestà, fece in tempo a riparare in laguna.
Diversamente da altri prigionieri che riuscirono a farsi riscattare, i due veneziani non ebbero fortuna: il Venier morì infatti Oltralpe, mentre il G. sarebbe riuscito a rimpatriare solo dopo diversi anni e lunghi patimenti.
Un poco fu anche colpa sua: convinto di affrettare la liberazione, chiese al re Luigi XII di affidarlo a un privato come preda di guerra, onde trattare più speditamente il riscatto; senonché sfortuna volle che la scelta cadesse sul signore di Besançon, Giovanni, il quale, a sua volta catturato dagli Svizzeri mentre si trovava a Como con le truppe francesi, non solo era stato derubato di grossa somma, ma costretto altresì a pagare una taglia. Pertanto il G. era venuto a trovarsi prigioniero di un prigioniero, il quale non trovò di meglio che girare sul veneziano il costo dell'operazione.
Gli Svizzeri però chiesero una cifra esorbitante: 3000 ducati d'oro, che la famiglia dello sventurato G. non era in grado di pagare; e così, mentre un po' alla volta vedeva i suoi compatrioti tornarsene a casa, egli continuava a restare prigioniero in un castello della Borgogna. Neppure poté giovarsi del rovesciamento politico che portò all'alleanza franco-veneta del 1513; la particolare posizione del G. non venne infatti prevista nei capitoli del trattato, sicché - annota il Sanuto - "tuti li presoni è zonti", ad eccezione di pochissimi tra cui il G., "per aversi lui stesso intrigato" (13 giugno 1513).
La liberazione doveva tardare ancora più di un anno, non è noto con quali modalità. Quello che giungeva a Venezia era però un uomo provato nel fisico e nello spirito. Sanuto scrive in data 17 ott. 1514: "Vene sier Alvixe di Garzoni […], stato prexon in Franza poi la rota dil campo in Geradada, vestito in negro, ma con caveli canuti che prima era toso, e non pol caminar […]. E dice mesi undeci è stà tenuto a pan e acqua; hor ha auto bella gratia ch'è ritornato; che il suo collega […] morì in Franza, e lui ha patito tanto et qui è venuto. Questo riferì con li Cai di X in Colegio".
A parziale sollievo di tante sventure, la Signoria decretò la sospensione per due anni di certi debiti dovuti dal G. per via di gravezze non corrisposte, e il 17 dic. 1514 lo nominò consigliere ducale del sestiere di S. Polo.
Nell'esercizio della carica la sua condotta sembrerebbe contradditoria: il 1° marzo 1515 propose l'emissione di una decima supplementare per far fronte alle esigenze della guerra, salvo poi non versare un solo ducato quando la Signoria il 4 agosto bandì un prestito appunto per tal fine; forse per questa ragione non riuscì a entrare nel Consiglio dei dieci per l'anno 1515-16. Ma il 4 ottobre offriva in prestito alla Repubblica 1000 ducati, e contemporaneamente veniva eletto bailo e capitano a Corfù.
Tornava dunque nello Stato da mar, in quel mondo greco che già conosceva grazie all'esperienza di Lepanto. Ma ora la situazione era ben diversa, a causa della politica espansionistica del sultano, e il G. dovette occuparsi delle continue scorrerie turche nelle campagne dell'Albania veneta e delle piazzeforti greche, che chiedevano aiuto; ma il pericolo maggiore, e più diretto, era rappresentato dall'attività dei corsari barbareschi che minacciavano l'isola; donde incessanti richieste del bailo a Venezia, per avere uomini, mezzi, denari al fine di rafforzare le difese.
La situazione peggiorò ulteriormente - quantomeno nell'ottica del G. - allorché Selim procedette con rapida e brillante operazione alla conquista della Siria e dell'Egitto (1516-17); la flotta veneziana, comandata da Sebastiano Moro, rimase alla fonda a Corfù per buona parte dell'estate 1517, e al G. toccò provvedere alla sistemazione delle navi e della numerosa truppa. Il 4 marzo 1518 informava il Senato del probabile imminente arrivo di Selim a Valona, preludio di uno sbarco turco in Puglia dalle terribili conseguenze ("el voleva andar a Roma el Gran Signor", così il Sanuto, "a sentar su la sedia et cariega di San Piero").
In realtà il sultano guardava piuttosto alla Persia o ai Balcani, non certo all'Italia; sicché forse gli allarmati dispacci del bailo avevano soprattutto lo scopo di ottenere rinforzi da Venezia per impiegarli, o soltanto per usarli come minaccia, nei confronti del pascià di Valona, con cui era aperto un contenzioso per via del pagamento di certe forniture di stagno e di argento. Il comportamento del G. non doveva risultare propriamente limpidissimo, dal momento che il 23 ott. 1518, informa il Sanuto, la Signoria decideva l'invio nell'isola di un notaio dell'Avogaria, Filippo Zamberti, "il qual […] de lì debbi formar diligente processo".
Il G. giunse a Venezia qualche mese dopo, il 1° apr. 1519, ammalato ("si fa portar in cariega"); in giugno rimpatriò pure Zamberti; gli avogadori istruirono il processo circa la condotta dell'ex bailo, che fu difeso da Alvise Badoer. Il dibattito però tardò ad effettuarsi, forse a causa della complessità del caso o per le cattive condizioni di salute dell'imputato: si svolse dopo quasi tre anni, agli inizi del 1522. Né si limitò all'amministrazione tenuta dal G. a Corfù, poiché l'ex avogador Maffeo Lion ne pose in discussione la stessa figura morale, ricostruendo episodi della sua carriera politica che parevano dimenticati "et lo cargò assai […], et mostrò alcuni danari tolti per mal muodo hessendo Patron a l'Arsenal" (Sanuto, 11 febbr. 1522).
Il processo si concluse il 13 febbraio, con l'avvocato difensore ormai "rauco" e la condanna del G. a restituire tutto ciò di cui si era impossessato, più il bando dai pubblici uffici per cinque anni.
Ancora il 27 giugno 1524 gli venne negato il ricorso su taluni crediti risalenti alla podestaria bergamasca; il G. morì nella sua abitazione a S. Polo agli inizi di agosto del 1526. Fu sepolto nella tomba di famiglia, nel chiostro dei Frari.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii…, IV, c. 19; Venezia, Bibl. del Civico Museo Correr, Cod. Cicogna 3782: G. Priuli, Pretiosi frutti…, II, c. 49rv; Arch. di Stato di Venezia, Avogaria di Comun, reg. 164: Balla d'oro, c. 195r; Ibid., Segretario alle Voci, Misti, regg. 6, cc. 30, 77, 84; 7, cc. 8v, 30v; 15, c. 51v; sul patrimonio e la sua amministrazione, Ibid., Avogaria di Comun, Miscell. civile, b. 54/3; Ibid., Misc. Gregolin, bb. 39, 40, passim (dove appare certamente meglio provvisto di beni di fortuna di quanto non risulti dalla notifica di decima, nella quale dichiara, oltre alla casa in cui abita, soltanto tre campicelli nell'isola di Sant'Erasmo: Ibid., Dieci savi alle decime, Redecima del 1514, b. 59/96); M.A. Sabellico, Historiae rerum Venetarum, in Degl'istorici delle cose veneziane…, I, 2, Venezia 1718, p. 860; M. Sanuto, I diarii, Venezia 1879-93, I-III, V-VI, VIII, XV-XVI, XIX-XXVII, XXX, XXXII-XXXIV, XXXVI, ad indices; B. Belotti, Storia di Bergamo e dei Bergamaschi, III, Bergamo 1959, pp. 166, 182; L. Greco, Sulle rotte delle galere veneziane: il cartulario di bordo del prete-notaio Giovanni Manzini (1471-1486), in Archivio veneto, s. 5, CLXXII (1991), pp. 24, 29; B. Doumerc, Il dominio del mare, in Storia di Venezia, IV, Il Rinascimento. Politica e cultura, a cura di A. Tenenti - U. Tucci, Roma 1996, p. 170.