GRADENIGO, Alvise
Nacque nel sestiere veneziano di Cannaregio, nel 1458, secondogenito del cavaliere Domenico di Giacomo e di Lucrezia di Pantaleone da Veglia, esponente di antica famiglia patrizia, destinata a estinguersi giusto nella prima metà del XV secolo.
è possibile che negli anni dell'adolescenza il G. abbia esercitato la mercatura, sulle orme del fratello Pietro (sappiamo dal Sanuto che nel settembre 1499 la Signoria confiscò una loro caravella, per arruolarla nell'armata contro i Turchi); tuttavia, già nell'estate del 1480 si trovava podestà a Oderzo, dove rimase sino al novembre 1481. Non si sposò (a perpetuare la famiglia pensò il fratello minore Vincenzo, nel 1486) e proseguì la carriera politica - peraltro destinata a un lungo tirocinio - nelle minori magistrature giudiziarie a Venezia: il 15 maggio 1483 assunse l'incarico di giudice dell'Estraordinario, cui fece seguito (1485-86) quello di avvocato per gli uffici di Rialto, quindi di signore di notte (1490, quando risulta risiedere a S. Polo); l'8 genn. 1491 entrò a far parte dei Cinque alla pace, il 18 ag. 1495 degli auditori delle Sentenze nuove, nella qual carica fu confermato alla naturale scadenza, così da rimanervi per quasi tre anni. Quest'ultima magistratura, che aveva competenza sulle sentenze dei rettori in Terraferma, godeva di una certa importanza, tuttavia non rappresentò per il G. l'occasione per affermarsi, dal momento che il 5 marzo 1500 fallì l'elezione di provveditore sopra i Conti e per qualche tempo il suo nome non comparve più tra i registri del Segretario alle Voci.
Sappiamo però che fu lui a difendere gli interessi della famiglia, il 12 maggio 1503 e poi ancora il 27 luglio 1504, in un'annosa controversia discussa in sedi giudiziarie di vario grado e destinata a protrarsi per almeno un trentennio tra i Gradenigo e i Trevisan, che si contendevano il giuspatronato dell'abbazia di S. Cipriano di Murano. I Gradenigo sostenevano di aver fondato l'abbazia, ma il titolare Giovanni Trevisan, del ramo a S. Maria Mater Domini, era ricorso a Roma, sicché potrebbe trovarsi qui una delle ragioni atte a spiegare il perdurante atteggiamento di diffidenza verso la S. Sede che fu caratteristico del G., così come l'ostilità - debitamente ricambiata - che, specie nel corso del terzo decennio del XVI secolo, egli avrebbe dimostrato verso il prestigioso Leonardo Emo, il quale, benché del pari antiromano, era tuttavia parente dei Trevisan. Gli scontri tra i due, entrambi presenti in Collegio e/o nel Consiglio dei dieci, finirono per sfiorare a più riprese l'alterco, ritardando i lavori dei consessi, al punto che, riferisce Sanuto, l'8 apr. 1529 lo stesso doge "andò in colera".
Provveditore alla Sanità nel 1505 (vi era la peste nel Padovano), nel giugno dell'anno seguente troviamo il G. ufficiale alle Rason nove, nella qual veste trasse in giudizio alcuni membri della famiglia Pesaro e Antonio Condulmer ("et il Condulmer" - Sanuto - "si apizò col Gradenigo"). Fallita il 6 giugno 1507 l'elezione ad avogadore di Comun, il 1° ott. 1508 entrava nella zonta del Senato, la qual cosa gli facilitò la nomina all'avogaria (13 maggio 1509). Era la vigilia del disastro di Agnadello; negli anni che seguirono, per far fronte all'immane compito del riscatto politico e militare, Venezia dovette chiamare a raccolta tutta la sua nobiltà. Anche il G. si trovò investito di più gravosi impegni: dopo aver sostenuto, come avogador, l'opportunità di richiamare dall'esilio quell'Antonio Grimani che sarebbe poi salito al dogato, nell'ottobre dello stesso 1509 entrò a far parte del Consiglio dei dieci e un anno dopo veniva eletto luogotenente della Patria del Friuli.
Giunse a Udine l'8 genn. 1511; il Friuli era ancora in mano di Venezia, ma la minaccia imperiale si faceva sentire, alimentata ad arte dalle opposte fazioni degli "strumieri" e degli "zamberlani", ossia dei castellani e dei seguaci dei Savorgnan, questi ultimi a loro volta divisi nelle fazioni che si riconoscevano nei due cugini Antonio e Girolamo. La città era ormai divenuta luogo di scontro aperto; il 25 febbraio Antonio Savorgnan, nella sua veste di comandante delle "cernide", le milizie contadine al servizio della Serenissima, entrava con 800 uomini in Udine, ma il G. riuscì a imporgli di ritirarsi fuori delle mura. Forte di questo successo (verso cui le fonti locali, nella circostanza, sono larghe di riconoscimenti), il G. convocò per l'indomani i capi delle fazioni, inducendoli a concludere una tregua che però non venne rispettata: il 27 ebbe luogo infatti la cosiddetta "crudel zobia grassa", ossia il tragico giovedì di carnevale che vide l'eccidio degli "strumieri" e il saccheggio delle loro case a opera degli uomini del Savorgnan. A nulla valsero i replicati sforzi del G., come si ricava da una lettera del tesoriere Antonio Badoer, testimone degli eventi: "El locotenente" - scrive Badoer - mai ha mancato di far ogni provision e comandamenti e protesti per parte di la ill.ma Signoria […], e sempre li era a presso infra schiopeti e balestre protestandoge, e meterge pena la forcha, i se dovesse retirar in drio; non fo mai homo da ben né de sorte alguna el volesse obedir né aldirlo, e precipue el forzo dei villani" (Sanuto, XII, col. 19). Solo dopo due giorni di devastazioni e di sangue l'ordine fu ristabilito, con l'arrivo di reparti armati fatti giungere dal G. da Gradisca, ma le tensioni si propagarono alla campagna, dove per una settimana ebbe luogo una vasta insurrezione antifeudale. Il 5 marzo, pertanto, giunse a Udine uno dei capi del Consiglio dei dieci, Andrea Loredan, formalmente con funzioni inquisitoriali, in realtà per confermare l'appoggio del Senato ai Savorgnan. Qualche settimana più tardi Udine era funestata da un'altra e non meno grave calamità: il terremoto, peraltro ben avvertito pure a Venezia. Così il G., nel riassunto fornitoci da Sanuto, in data 27 marzo 1511: "Come el teramoto fo etiam l'altro ieri lì, qual fu tanto tremebondo qual dir se puol, e tanto più spaventevole per lui, quanto el se trovava in castello, luogo altissimo, e ruinò forsi la mità di quello con tanta furia e tanto tremar, che pareva che 'l mondo chazesse […]; tamen per la Dio gratia è vivo, ché 'l si trovoe per un gran pezo che 'l pioveva la ruina da ogni banda, et ruinado le scale, e li convene passar con la fuga sopra ruine e fra polvere, che non si vedeva e non si cognosceva niuno, né si udiva altro cha cridi: chi chiamava Dio, chi la Verzene Maria, chi un santo e chi un altro: cossa molto spaventevole". Seguì la peste ("et resta sollo morti", 9 agosto) e poi, in una regione così duramente provata, l'invasione degli Imperiali, mentre le difese veneziane crollavano in rapida successione. Il 18 settembre il G. tentava un'ultima resistenza, esortando il Consiglio cittadino a "non voler lassar la Signoria […], con molte parole che li comosse tutti a lacrimar, chi con fazoleti a li ochij, chi con li mantelli"; dopo di che, però, scappò a Venezia, con la città ancora presidiata dalle sue truppe e mentre Gradisca ancora resisteva.
Una condotta difficilmente giustificabile (scrive Sanuto, in data 20 sett. 1511: "In questa matina fo gran mormoration in Colegio, che sier Alvise Gradenigo […] si sia partito di Udene e lassato tante belle artellarie che val un thesoro, senza averle condute via over fate inchiodar") e che valse al G. l'incarcerazione non già nelle prigioni, ma nella libreria del palazzo ducale, insieme con altri nobili come lui inquisiti per viltà. Nel corso del lungo processo il G. fu ascoltato più volte, senza peraltro che il Consiglio dei dieci giungesse a emanare la sentenza: probabilmente non vi era stato nulla di illegittimo nel suo comportamento, tranne la macchia di aver fornito meschino esempio di opportunismo e codardia. Rimase incarcerato sino a tutto gennaio del 1512, dopo di che - evidentemente assolto - il 20 marzo successivo ricevette alcuni voti nel corso dell'elezione del capitano di Padova e il 1° ottobre entrò a far parte della zonta del Senato, ove si schierò contro i fautori dell'alleanza con la Spagna. Negli anni che seguirono fu puntualmente confermato fra i pregadi, ma con altrettanta regolarità fallì ogni altra elezione, pagando lentamente il suo debito verso lo Stato; solo il 16 ott. 1514 ottenne un incarico, ma di natura tecnica e non politica, e per di più limitato al circuito urbano: quello di provveditore (insieme con Alvise Malipiero e Federico Renier) sopra le fabbriche di Rialto, la cui area era stata devastata qualche mese prima da un grave incendio.
Solo dopo essersi distinto in occasione di pubblici prestiti a favore della Signoria, e una volta segnata la pace di Noyon, il G. vide conclusa la sua contumacia dalla politica e l'8 ott. 1516 entrò a far parte (ma per soli tre mesi) dei Savi di Terraferma. L'incarico gli fu rinnovato nella sua interezza l'anno seguente, per il semestre aprile-settembre 1517; dopo di che (1° ottobre) passò nel Consiglio dei dieci. Aveva già ricoperto tale carica, cui sarebbe stato chiamato molte altre volte: forse troppe, a giudicare dalla sua vera aspirazione, che era di ottenere il saviato del Consiglio; Sanuto, che è la principale fonte biografica sul G., riporta un'infinità di ballottazioni per l'elezione dei "savi grandi" ove il G. risulta regolarmente perdente. Nominato governatore delle Entrate il 25 luglio 1518, il 20 maggio dell'anno seguente risulta eletto ambasciatore a Roma; probabilmente il Senato ravvisava nel G. talune capacità diplomatiche che compensavano le manchevolezze palesate quale uomo d'azione; inoltre come governatore delle Entrate aveva contribuito ad aprire un contenzioso fiscale (che avrebbe dato adito a una lunghissima controversia) nei confronti dei benedettini di Correzzola, rei di aver bonificato parte della laguna verso Chioggia, e quindi avrebbe potuto seguire con la necessaria competenza la controversia, che si dibatteva anche nella sede romana.
Il G. lasciò Venezia quasi un anno dopo, il 18 apr. 1520, ed entrò a Roma il 14 maggio, accolto da papa Leone X con grandi dimostrazioni di affetto ("lo abrazoe, facendo segni di gran benevolentia verso la patria nostra"). In realtà, il pontefice era ostile a Venezia sia perché fiorentino, sia perché la sua condotta oscillava tra l'alleanza con la Francia (cui la Serenissima era strettamente legata) e l'Impero. Sappiamo dai riassunti dei dispacci e della relazione finale del G., riportati dal Sanuto, che i rapporti politici fra Venezia e la S. Sede alla fin fine si ridussero a poca cosa, soprattutto a schermaglie improntate alla duplicità insita nel papa mediceo, ma anche ben presente nelle deliberazioni del Senato veneziano, legato sì alla Francia, e tuttavia attento a non alterare l'equilibrio delle forze presenti nella penisola. Donde l'attenzione del G. agli aspetti esteriori, ai risvolti mondani della complessa personalità pontificia, troppo spesso rivolta ai "piazeri" e troppo debolmente - o saltuariamente - memore dei Turchi che assediavano Rodi, o di Lutero che acquistava nuovo seguito in Germania: il 19 marzo 1521, per esempio, il G. riferiva che il papa "par habbi paura" di quel frate Martino che si ostinava a voler seguire il solo Vangelo, per cui l'aveva confortato dicendogli: "Pater sancte, seguiterà di questo, che 'l farà mal fin come hanno fatto li altri heretici". Al che il pontefice aveva risposto: "Vui dite il vero", rimuovendo di lì a poco il pensiero, sicché il 5 maggio "era a la Magnana a purgarsi, né dà audientia; sta su comedie et musiche".
Agli inizi di dicembre Leone X morì e per il G. si aprì un periodo praticamente caratterizzato dall'inattività, nel quale la sua maggior preoccupazione fu di riferire al Senato le manovre di un conclave non privo di contrasti ("li reverendissimi cardinali fanno de gran cridar et alzano molto la voce"), sfociato poi nell'inattesa elezione del pontefice "alienigina", Adriano VI di Utrecht. Venezia avrebbe potuto giocare la carta del cardinale Domenico Grimani (in ottimi rapporti personali con il G.), oltretutto favorito dalla fresca assunzione (6 luglio 1521) del padre Antonio al trono ducale, ma l'ostilità di un altro cardinale veneziano, Marco Corner, che non esitò a pronunciarsi pubblicamente contro il Grimani, ne affossò le speranze. Poiché il neoeletto si trovava in Spagna e non mostrò gran fretta di recarsi a Roma, i mesi che seguirono comportarono un'ulteriore stagnazione nelle relazioni politiche veneto-pontificie, sicché i dispacci del G. riportano fatterelli di cronaca o indugiano sull'anarchia sociale - sorprendente agli occhi di un veneziano - in cui era piombata la città ("tutto è sottosopra, e di zorno si amazano et di notte si sassinano, né si fa justitia", 1° apr. 1522). Poi finalmente giunse papa Adriano. Il G. fu a incontrarlo a Civitavecchia, il 27 agosto; i primi colloqui furono rassicuranti: il pontefice olandese dalla vita "esemplare et devota" avrebbe guardato con affetto benevolo a Carlo V, ma non sarebbe divenuto un semplice strumento della sua politica.
Il sopraggiungere della peste ritardò il rimpatrio del G., che poté lasciare Roma solo il 29 apr. 1523, dopo l'arrivo del successore Marco Foscari e dell'ambasceria d'obbedienza. Si presentò in Collegio il 12 maggio; mancava da Venezia da soli tre anni, eppure apparve a Sanuto come un uomo provato: "è venuto vechio e canuto et stete pocho". La sua relazione, benché importante per le notizie sulla Tesoreria pontificia, trovò scarsa attenzione per la particolarità del momento politico, segnato dall'avvicendarsi di alcuni protagonisti: il 20 maggio veniva eletto il nuovo doge Andrea Gritti e qualche mese dopo, in settembre, Clemente VII saliva alla cattedra di Pietro. Il G. venne nominato fra gli ambasciatori d'obbedienza: dapprima accettò, ma poi (9 marzo 1524) oppose vari pretesti, sicché ottenne la dispensa. Probabilmente la sua fu una ritorsione per i reiterati fallimenti all'elezione a savio del Consiglio che continuavano a segnare una carriera sostanzialmente relegata nell'ambito di incarichi finanziari: eletto dei Venti savi sopra l'Estimo il 3 ott. 1523, l'11 nov. 1524 entrò a far parte dei provveditori sopra Banchi e il 25 luglio 1525 dei savi deputati a difendere la Signoria nell'interminabile vertenza contro i frati di Correzzola, probabilmente a motivo del suo persistente anticurialismo (il 2 maggio dello stesso anno riferisce Sanuto che, trattandosi in Senato di far lega con la S. Sede, il G. "disse non è da fidarse dil papa ch'è uso a romper la fede […]; li venga il cancaro a lui e il resto di preti").
Dopo aver fatto parte del Consiglio dei dieci nel 1526 e nel 1528, riuscì infine a ottenere la sospirata nomina a savio del Consiglio il 26 luglio 1527, allorché ricopriva la carica di provveditore alle Biave, nel corso di una durissima congiuntura segnata dalla carestia e dalla pestilenza. Una volta entrato nel giro dei "savi grandi", vi fu ancora presente nella seconda metà del 1529, poi per il semestre ottobre-marzo degli anni 1530-31, 1531-32, 1536-37, quindi nella seconda metà del 1538 e nel primo semestre del 1540: era ormai un personaggio di rilievo, anche se non un protagonista della guida politica del governo marciano, distinguendosi per un atteggiamento pacifista nei confronti degli Ottomani (con i quali la Repubblica fu in guerra negli anni 1537-40), e diffidente verso Carlo V.
Ciononostante, il 29 dic. 1529 venne eletto fra gli ambasciatori destinati ad assistere all'incoronazione imperiale a Bologna, insieme con Lorenzo Bragadin, Marco Dandolo e Alvise Mocenigo. Si trattenne colà dal 24 gennaio alla fine di febbraio del 1530, dividendosi - per quanto poteva permettergli una salute ormai cagionevole - fra cerimonie e mondanità; a differenza dei colleghi non si era fatto accompagnare da qualche familiare, ma unicamente "seco havea uno puto di qualche 9 in 10 anni vestito da prete con una vesta di damasco nero, il qual mai lo lassava in niun loco".
Membro del Collegio delle acque nel 1531, eletto fra i correttori delle Leggi il 28 dicembre dello stesso anno, quasi sempre presente nella zonta del Consiglio dei dieci, il 20 ag. 1541 venne innalzato all'alta dignità procuratoria de supra.
Il G. morì a Venezia qualche mese dopo, il 13 maggio 1542, e fu sepolto nel chiostro dei Frari.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato di Venezia, Misc. codd., I, St. veneta, 20: M. Barbaro - A.M. Tasca, Arbori de' patritii veneti, c. 78; Avogaria di Comun, reg. 164, Balla d'oro, c. 176v; Segretario alle Voci, Misti, regg. 6, cc. 34v, 37r, 114r, 125v, 129r; 9, cc. 12rv, 19r, 20v, 22v, 24r, 25v-26r, 31v, 33r; 15, c. 8v; Elezioni del Senato, regg. "A", cc. 12r, 18r, 55v-56r, 65r, 104r, 110v-111r, 116r, 121v, 124r; "B", cc. 1, 3, 55v; Capi del Consiglio dei dieci, Lettere di rettori, b. 169, nn. 66-72 (Udine 1511); Letteredi ambasciatori, b. 22, nn. 88-95 (Roma 1520); Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di E. Alberi, s. 2, III, Firenze 1846, pp. 66-76 (sommario della relazione di Roma, con cenni biografici del G.); P. Bembo, Historiae Venetae, in Degl'istorici delle cose veneziane…, II, Venezia 1718, pp. 299, 435; M. Sanuto, I diarii, Venezia 1879-1903, I-III, V-LVIII, ad indices (principale e ricchissima fonte sulla vita del G.); P. Bembo, Lettere, a cura di E. Travi, II, Bologna 1990, pp. 147, 153 (cenni sul soggiorno romano del G.); A. Morosini, Historia Veneta, ibid., V, ibid. 1719, pp. 347, 466 s., 492, 508; E.A. Cicogna, Delle inscrizioni veneziane, IV, Venezia 1834, p. 525; V, ibid. 1842, p. 588; L. von Pastor, Storia dei papi, IV, 1, Roma 1926, pp. 308, 313, 323, 342, 347, 349, 351, 367; IV, 2, ibid. 1929, pp. 19, 47; A. Ventura, Nobiltà e popolo nella società veneta del '400 e '500, Bari 1964, pp. 206 ss., 381; G. Benzoni, Della Torre, Luigi, in Diz. biografico degli Italiani, XXXVII, Roma 1989, pp. 606 s.; G. Gullino, Marco Foscari (1477-1551). L'attività politica e diplomatica tra Venezia, Roma e Firenze, Milano 2000, pp. 45 s., 85.