Alzheimer - Nuovi sviluppi sulla comprensione dei meccanismi della malattia
Nel morbo di Alzheimer, così come in altri tipi di demenze molto meno frequenti, il numero di neuroni del cervello diminuisce progressivamente; la perdita più consistente e invalidante, riguarda tuttavia il numero di sinapsi progressivamente colpite. Le sinapsi sono strutture altamente specializzate che funzionano come giunzioni dei prolungamenti nervosi (dendriti) dei neuroni. Poiché il numero di dendriti di ciascun neurone varia da qualche centinaio a molte migliaia, si stima che nel cervello operino più di 100 mila miliardi di sinapsi. Studi recenti hanno dimostrato che, molto tempo prima della degenerazione e della morte di intere popolazioni di neuroni, la funzionalità sinaptica viene progressivamente e spesso irreversibilmente colpita. Questo fatto è alla base di uno dei primi sintomi clinici del morbo di Alzheimer, la progressiva perdita della memoria, e in particolare della cosiddetta memoria breve, cioè quella che si verifica a livello sinaptico senza sostanziale coinvolgimento dell’intero neurone.
Anche se la descrizione clinica della malattia risale al neuropatologo Alois Alzheimer (1864-1915), per molto tempo questa patologia è stata confusa, e spesso identificata, con altre demenze senili dovute ad ischemie cerebrali e disturbi vascolari, o con demenze progressive di natura traumatica. Si deve, tuttavia, ad Alzheimer la descrizione dei due reperti istochimici che, in seguito, sono stati riconosciuti come patognomonici del morbo: le placche senili (SP) e i cosiddetti neurofibrillary tangles (NFT). Questi due ‘marcatori’ sono caratterizzati dalla presenza di due componenti di natura polipeptidica: il primo è principalmente costituito da peptidi di basso peso molecolare, composti da 40÷42 amminoacidi, chiamati beta-amiloide (bA). I secondi, al contrario, sono aggregati fibrillari principalmente costituiti da una proteina denominata tau. Grazie a una lunga e complessa serie di studi condotti su pazienti e su modelli animali, nell’ultimo decennio si sono compresi i meccanismi molecolari alla base della formazione delle SP e degli NFT e si sono avanzate numerose ipotesi sul significato patognomonico di questi due alterati depositi di aggregati proteici.
Se si induce un aumento di espressione del precursore di beta-amiloide (APP, Amyloid Precursor Protein) tramite opportune manipolazioni genetiche, si realizza una sindrome in tutto sovrapponibile al morbo di Alzheimer. Analoghe considerazioni valgono se topi transgenici sono indotti a produrre aumentate quantità della proteina tau.
I peptidi di amiloide sembrano essere la probabile causa scatenante della complessa sequenza di eventi che, coinvolgendo anche le numerose cruciali funzioni di tau, porta alla degenerazione e alla morte neuronale. In seguito a un abnorme produzione o accumulo di bA, tau subisce una serie di modificazioni postraduzionali e un attacco da parte di enzimi appartenenti alla classe delle calpaine e delle caspasi; a causa di ciò essa si aggrega a formare gli NFT e la sua funzione fondamentale, collegata con il funzionamento dei microtubuli, viene progressivamente a cessare. Di conseguenza, gli alterati metabolismi di APP e di tau provocano il duplice effetto negativo di cessata funzione fisiologica e di produzione di derivati altamente tossici. Mentre la funzione di APP non è ancora del tutto nota, si sa che quella della proteina tau è fondamentale per il funzionamento di diverse attività neuronali, fra le quali il trasporto assonale sia anterogrado (dal corpo della cellula alle terminazioni sinaptiche), sia retrogrado (dalle sinapsi al corpo neuronale). Tale trasporto svolge un ruolo essenziale nell’economia neuronale poiché garantisce il rifornimento di materiale prezioso, insostituibile, per la vita e il funzionamento della cellula nervosa.
Se, dunque, gli eventi molecolari alla base del morbo di Alzheimer sono ormai chiariti, rimane il quesito di fondo: qual è la causa o quali sono le cause che provocano l’attivazione della proteina amiloide e la degradazione di tau? Tra le varie ipotesi avanzate, si ritiene che il processo apoptotico (suicidio cellulare) possa costituire un effetto scatenante. L’apoptosi svolge un ruolo fondamentale nel corso dello sviluppo del cervello e della formazione dei circuiti nervosi, provvedendo a eliminare tutti i neuroni che non hanno formato circuiti appropriati e ben funzionanti. In altri termini, tutte le cellule che non hanno formato i circuiti funzionanti, seguendo ‘direttive’, sia dovute a particolari geni sia al contesto ambientale (quali stimoli sensoriali di varia natura), si autoeliminano e i loro dendriti vengono rapidamente digeriti da apposite cellule per evitare ingombro dannoso ed eccessivo consumo energetico. Ma se questi fenomeni di autoeliminazione venissero comunque ‘accesi’, nel cervello dell’adulto si verificherebbe una progressiva e irreversibile perdita di intere popolazioni neuronali che, nell’arco di qualche anno, condurrebbe l’individuo ai sintomi devastanti del morbo. Al contrario dei tumori, che non obbediscono all’ordine di attivare i propri geni apoptotici, i neuroni compirebbero l’errore di attivarli ‘a sproposito’ in quanto verrebbero a mancare loro i segnali che, di norma, li tengono repressi. In queste cellule, come è comprensibile, il congegno ‘a orologeria’ che attiva i geni dell’apoptosi deve essere bloccato per tutta la vita dell’organismo. Quando questo blocco viene a mancare, le cellule nervose si autoeliminano e, a seconda delle funzioni che esse svolgono nel cervello, vengono a essere gravemente compromesse memoria, intelligenza, movimento. Un processo apoptotico anomalo può essere attivato da diverse cause e fra queste si annoverano il diminuito apporto di fattori neurotrofici, fra i quali ricordiamo l’NGF, o la riduzione di condizioni o di fattori che mantengono sempre attive le funzioni cerebrali cognitive.