AMBASCIATORE (dal gall. ambactus "domestico" attraverso il germanico; fr. ambassadeur; sp. embajador; ted. Botschaftler; ingl. ambassador)
Ambasciatori sono coloro che si recano o risiedono, per conto o in nome di uno stato o di una comunità presso un altro stato, o presso un'autorità politica o religiosa, per eseguirvi una missione diplomatica.
Nel mondo antico. - Grecia. - Nella legazione greca è sempre implicito un temporaneo trasferimento di sede da parte degli ambasciatori (πρέσβεις) e la precarietà dell'ufficio; ciò, perché il diritto pubblico greco non conobbe né ambasciatori con sede fissa presso stati stranieri, istituzione moderna che non ha riscontro nell'antichità, né ambasciatori permanenti con funzioni di politica interna, come il legatus romano presso il magistrato fornito d'imperium (v. sotto).
L'ufficio dell'ambasciatore greco di regola è ben distinto da cluello dell'araldo (κῆρυξ; v. araldo):
1. Per la natura della missione: l'ambasciatore, infatti, è incaricato di condurre le trattative, mentre l'araldo non compie che atti formali. L'ufficio dell'araldo è fisso e può, in certi casi, trasmettersi in via ereditaria per generazioni, mentre l'incarico dell'ambasciatore è occasionale e temporaneo; l'araldo ha determinati uffici anche di carattere interno, religiosi, pubblici e privati, mentre l'ambasciatore ha solo incarichi che riguardano i rapporti con gli altri stati.
2. Per le prerogative: l'ambasciatore durante lo stato di guerra non è inviolabile come l'araldo, a meno che lo stato presso cui si reca non osservi per consuetudine l'inviolabilità degli ambasciatori. Per conseguenza, in guerra si preferisce inviare araldi piuttosto che ambasciatori, e tanto in guerra che in pace, si dà agli ambasciatori una scorta di araldi. Tuttavia l'ambasciatore è fatto segno di maggior considerazione, sia da parte dello stato che l'invia, sia da parte di coloro presso cui è inviato.
3. Per la dignità dell'ufficio: mentre nell'età classica l'ufficio dell'araldo è scaduto, la nomina ad ambasciatore è il più alto segno di onore che si possa dare a un cittadino che abbia ben meritato della patria. Questo vale soprattutto per le repubbliche i cui ambasciatori, avendo più ampio mandato, godevano di un'autorità superiore a quella degli inviati regi (del re di Persia, del re di Macedonia ecc.), più simili agli araldi coi quali spesso li vediamo confusi e, perciò, più umili. Nelle repubbliche democratiche, come Atene, essendo la maggior parte delle magistrature tratte a sorte, l'ufficio dell'ambasciatore, in quanto elettivo, era considerato fra i più onorifici e i più delicati. Vi aspiravano, infatti, anche i capi politici dell'assemblea (ῥήτορες) che sdegnavano di concorrere alle ordinarie magistrature.
Gli affari affidati agli ambasciatori potevano esser tanti, quante sono le occasioni che uno stato ha di trattare con un altro: domanda. di spiegazioni, intimazione di rilascio di cittadini o di rispetto a città alleate, discussioni per trovare un modus vivendi che conciliasse le ambizioni e gl'interessi di due stati in conflitto, trattati di alleanza o di pace, richiesta di consentire il passaggio di forze armate. Anche nei rapporti amichevoli fra stati e stati si ricorreva all'invio di ambasciatori, come per concludere trattati di commercio o convenzioni di reciproea protezione dei cittadini (σύμβολα), o per chiedere l'invio di arbitri a cui rimettere la soluzione di controversie con altre città o le liti private fra cittadini, quando queste fossero divenute troppo numerose e complicate. Talvolta, l'invio di ambasciatori rispondeva a semplici esigenze di cortesia (ringraziamenti, rallegramenti, ecc.).
Decretare un'ambasciata è sempre una prerogativa dello stato; ma è naturale che la scelta delle persone inviate e l'ampiezza del loro mandato sia in armonia con l'ordinamento interno dello stato che spedisce gli ambasciatori. Nelle monarchie gli ambasciatori sono nominati dal re e non hanno altro ufficio che renderne nota la volontà; consegnano la lettera del sovrano, il più delle volte dand0 chiarimenti e chiedendo informazioni nei limiti segnati dal tenore dell'epistola; negli stati aristocratici, come Sparta, in cui il governo dello stato riposa tuttora sull'autorità dei magistrati, gli ambasciatori vengon scelti fra i magistrati; nelle repubbliche democratiche, invece, sono eletti dal popolo conforme un decreto (ψήϕισμα) che determina l'oggetto delle trattative e i limiti dell'iniziativa lasciata agli inviati; questi sono scelti fra i più influenti uomini politici (ῥήτορες). Fra gli eletti vi è di regola chi ha proposto i decreto e il πρόξενος (v. prossenia) della città a cui l'ambasceria è diretta. Vario è il numero dei componenti l'ambasceria: uno, due, tre, quattro, anche sedici e venti; solo verso gl'inizî dell'età romana si cominciò a nominare un capo della legazione (ἀρχιπρεσβευτής). Gli ambasciatori viaggiano su navi dello stato e hanno diritto a speciali competenze (ἐϕόδια), calcolate in base al numero delle diarie della missione. Giunti nella città a cui sono diretti, presentano le loro credenziali ai magistrati in carica e chiedono di essere introdotti davanti a chi, secondo la costituzione interna di quella città, ha il potere di decidere su ciò che forma il contenuto del loro mandato (assemblea o consiglio). Avvenuta la discussione, a cui essi prendon parte, e la decisione, se la missione ha avuto esito soddisfacente per i due stati, è uso che gli ambasciatori siano invitati a un banchetto solenne e che, ove le leggi della loro città (come avveni va in Atene) non lo vietino, ricevano doni, anche in denaro. Tornati in patria, debbono render conto del modo con cui hanno eseguito il loro mandato. Nel diritto attico ogni cittadino può, mediante γραϕὴ παραπρεσβείας o anche, eccezionalmente, mediante εὶσαγγελία, accusare l'ambasciatore di non essersi attenuto ai termini del mandato, o di aver mal condotto, per dabbenaggine o per frode, le trattative affidategli, o di aver fatto al ritorno una relazione non conforme a verità. Era poi considerato come reato punibile con la morte arrogarsi qualità di ambasciatore senza averne avuto regolare mandato mediante legittimo decreto (οὔτε βουλῆς οὔτε δήμου χειροτονήσαντος: Demostene, Amb., 126). Contro l'ambasciatore che, eludendo il divieto della legge attica, avesse accettato doni, poteva essere esperita la γραϕή δώρων (actio ob accepta dona).
Roma. - La complessità e la vastità dei rapporti di Roma con gli altri stati resero l'ufficio dell'ambasciatore un munus publicum fra i più importanti e delicati, a cui si designavano uomini esperti di politica, che dessero affidamento di possedere in alto grado prudenza, abilità diplomatica, tatto ed energia. Alle legazioni temporanee, il cui oggetto non differiva da quello delle legazioni degli altri stati dell'antichità (fra le quali tuttavia ebbe singolare importanza l'ordinamento delle provincie sottomesse) l'ingerenza del senato nell'amministrazione dello stato aggiunse una forma di legazione permanente, poiché al lato dei comandanti militari e dei governatori delle provincie venivano inviati dal senato dei legati che assistessero il magistrato, ne dirigessero col consiglio l'attività, ne controllassero l'opera, per riferirne al senato, e, nell'assenza di lui, incaricassero uno dei loro di sostituirlo (legatus propraetore). L'uso ha stabilito che anche in italiano si osservi la distinzione tra queste due categorie di inviati, chiamandosi gli uni ambasciatori, gli altri legati.
Decidere dell'opportunità e dello scopo di un'ambasciata spetta all'organo di diritto pubblico che ha la suprema direzione della politica statale: perciò nell'età regia gli ambasciatori sono spediti dal re, e legati regi (non molto diversi dagli araldi greci) sono i fetiales, un collegio che anche nell'età posteriore conserva alcuni uffici formali; nell'età repubblicana le ambascerie son decretate dal senato (quis legatos unquam audivit sine senatusconsulto?; Cicerone, In Vatinium, 15, 36), sebbene gli ambasciatori siano scelti dal magistrato che presiede il senato (di regola, ma non sempre né tutti, fra i senatori); nell'età imperiale è il principe che invia le legazioni, e a questo scopo è ordinato un apposito ufficio, ab epistulis.
La nomina costituisce un obbligo per l'eletto, il quale non può essere esonerato dall'ufficio che per una giusta causa. Gli ambasciatori formano sempre un collegio (due, tre, quattro, cinque, dieci), presieduto dal membro più autorevole (princeps legationis). Sono trattati con ogni onore, tanto da parte dello stato che li invia e che suol farli scortare da navi da guerra, fornendoli di un seguito numeroso e di splendida suppellettile, quanto da coloro a cui sono inviati o per il cui territorio passano: questi per consuetudine li considerano come ospiti pubblici, pur non essendo giuridicamente obbligati a ciò. Gli ambasciatori non sono magistrati, né hanno perciò le insegne del magistrato; portano solo l'anello che dà loro il diritto al trasporto gratuito (evectio). Accadeva a volte che un senatore, dovendo recarsi per ragioni private in terre lontane, ottenesse dal senato di poter godere di tutti i vantaggi spettanti a un ambasciatore (legatio libera); esoso privilegio di cui si abusò. Tornati in patria, gli ambasciatori dovevano riferire sull'esito della loro missione (legationem renuntiare, referre).
Per il principio di reciprocità i Romani ricevevano con ogni riguardo gli ambasciatori degli stati che avessero ius legationis, esclusi quindi i popoli soggetti e le colonie, i cui messi potevano esser sentiti con benevolenza, ma senza assumere la figura giuridica del legatus peregrinus. I legati di popoli in guerra con Roma erano ricevuti fuori del pomerium, ma non sempre era data loro udienza; e la stessa inviolabilità non era loro garantita se non entro un breve limite di tempo, entro il quale dovevano affrettarsi a lasciare il territorio di Roma. Magnifica accoglienza avevano, invece, i legati di popolazioni amiche; ricevevano alloggio gratuito (locus) e splendidi doni ospitali (lautia), erano invitati a pubblici spettacoli e fatti segno a ogni premura (per esempio, se un ambasciatore si ammalava o moriva, veniva curato o seppellito a spese dello stato). Il giorno nel quale doveva trattarsi in senato l'affare per il quale erano stati inviati attendevano di essere introdotti in un edifizio, detto Graecostasis; quindi erano ammessi all'udienza. Se si trattava di questione complicata, a cui non poteva esser risposto immediatamente, si nominava una commissione che la studiasse. Terminato il loro mandato, gli ambasciatori erano onorevolmente congedati e accompagnati al confine da un questore.
La vasta organizzazione dell'impero romano e il sistema adottato di lasciare amministrativamente autonomi i centri municipali, resero usuale e frequente un tipo di legazione destinato a mantenere i municipî e le diete provinciali in rapporto diretto col governatore della provincia, e anche, a seconda delle età, col senato o col principe. Di qui due tipi di legazione: municipale e provinciale.
Legazione municipale. - Nell'età repubblicana le città della provincia inviavano al senato ambasciatori per lodare il governatore o per reclamare contro il suo operato; durante l'Impero queste legazioni si moltiplicarono: portavano al principe richieste relative a interessi municipali (desideria), o gli sottoponevano casi dubbî da risolvere, o, come accadeva più spesso, gli rendevano semplicemente omaggio. Per la conoscenza del modo con cui queste legazioni funzionavano, oltre alle menzioni che ne troviamo in testi letterarî e in epigrafi relative a singole ambasciate (queste ultime dovute alla consuetudine di iscrivere su lapidi il risultato della legazione, quando la domanda che ne era oggetto fosse stata favorevolmente accolta) hanno per noi importanza alcuni testi legislativi; cioè: 1) la lex coloniae Genetivae (documento epigrafico del 46 a. C., Corp. inscr. lat. II, 5439, p. 852, Dessau, II, i, 6087), fondamentale fonte d'informazione sull'organizzazione interna dei municipî, da cui ricaviamo che la procedura seguita nel decretare le ambascerie municipali era analoga a quella osservata da Roma nell'età repubblicana: i supremi magistrati del municipio (duoviri) proponevano la legatione (referre de legatione), e i decuriones (il senato municipale) decretavano; 2) alcune costituzioni imperiali, del sec. IV d. C., conservate nel Codice teodosiano, emanate con lo scopo di limitare e regolare l'eccessivo numero delle legazioni municipali, sottoponendo il relativo decreto dei decurioni all'approvazione del governatore della provincia (Cod. Theod., XII, 12, v3 [a. 364 d. C.]: ut impudentior petitio refutetur, aut iustior petita commoda consequatur). L'ambasciatore designato era tenuto ad accettare; aveva diritto di viaggiare con la posta e riceveva dal municipio le competenze dovutegli per le spese di viaggio. Era questo un forte aggravio per le finanze municipali, per cui i cittadini più ricchi a volte viaggiavano a proprie spese (legatio gratuita). Introdotti presso il principe, gli ambasciatori esponevano l'oggetto del mandato e al ritorno riferivano ai decurioni sull'esito dell'ambasceria.
Legazioni provinciali. - Periodicamente i rappresentanti dei municipî di una stessa provincia si riunivano in una dieta provinciale (commune, concilium), per trattare insieme di argomenti d'interesse comune, deliberando in conformità al preciso mandato che i municipî avevano affidato ai loro rappresentanti; se si decretava di mandare una legazione al governatore o al principe, si sceglievano i legati (fra i componenti il concilium sino a Diocleziano, variamente da Diocleziano in poi). Oggetto della legazione erano atti di omaggio, espressione di desiderî, reclami. Un carattere di singolare importanza acquistava la legazione quando la dieta poneva in istato di accusa il governatore della provincia; se il reclamo era accolto, si iniziava davanti al senato o al principe un processo in cui i legati provinciali esercitavano l'ufficio di accusatori.
Ricaviamo dalle fonti che talvolta potevano essere udite anche legazioni di collegi e comunità, non riconosciuti come organi di diritto pubblico e perciò sforniti, anche nei rapporti interni, di ius legationis.
Nel Medioevo. - Il concetto e la pratica di una rappresentanza diplomatica stabile in paese straniero, che integrano e modificano la figura e la funzione dell'ambasciatore dell'età medievale, hanno origine ed incremento dallo sviluppo coevo di due condizioni fondamentali della vita politica e sociale: l'espansione degli scamhî per una crescente intensità di traffico; il trionfo degli stati nazionali entro la vecchia unità dell'Impero. Questi due fatti strettamente connessi, pur operando in due sfere diverse, dànno origine ad un sistema di equilibrio internazionale, di cui la funzione diplomatica rappresentativa, con carattere di stabilità, diventa strumento essenziale.
Agli albori del Medioevo, gli stati che sono in rapporti commerciali con altri paesi iniziano i primi rudimentali interventi, in uno stato straniero, solo per la protezione dei connazionali. Ne offre un esempio, già nel sec. VI - esempio del resto piuttosto isolato - la legge visigota (L. XI, tit. III, cap. II), col riconoscere ai mercanti transmarini il diritto di risolvere le liti, che fra loro insorgessero, davanti a proprî telonarii anziché davanti a giudici visigoti. Analogamente, gli Arabi, che negoziavano in Cina, avevano a Canfù un proprio qaḍī per amministrare la giustizia ai connazionali. Se però in questi riconoscimenti è implicito il principio di extraterritorialità, non si affaccia in nessun modo la presunzione di una rappresentanza politica. I normali rapporti diplomatici fra stati, fino a che dura con efficacia pratica la concezione universalista del sistema imperiale (Impero d'Oriente ed Impero carolingio d'Occidente), sono attuati per mezzo di rappresentanze temporanee, designate caso per caso, investite di mandato specifico e temporaneo, anziché generico e permanente. Numerose ambascerie si scambiano fra i due imperi, e fra questi e la sede apostolica, nei secoli IX e X, e numerose arrivano dagli stati minori all'una ed all'altra corte: ma tutte di carattere temporaneo e per oggetti specifici e determinati. Inoltre, esse presentano due aspetti, il primo dei quali strettamente collegato con il concetto e con la funzione di universalità proprio dell'istituto imperiale e di quello pontificio: le rappresentanze diplomatiche solenni di una delle corti imperiali sono accreditate presso l'altra o presso il pontefice romano, ma non presso stati minori, coi quali i rapporti diplomatici sono direttamente regolati alla corte imperiale; le rappresentanze stesse sono formate di alti dignitarî ecclesiastici e laici, con precedenza e prevalenza dei primi, come quelli che rivestono carattere sacro e che, nell'amministrazione dello stato, per la loro cultura e preparazione giuridica, disimpegnano le mansioni più importanti. Manca però sempre ogni carattere di continuità, ché non si può attribuire figura di rappresentanza diplomatica ai missi carolingi, stabiliti nel corso dei secoli IX e X a Roma, dal momento che il territorio romano, giuridicamente, non può essere ancora considerato come uno stato indipendente, ma è, almeno teoricamente, terra dell'Impero.
Una modificazione profonda nella figura della rappresentanza diplomatica si profila tra il sec. XI e il XII, quando la concezione imperiale ha subito una forte crisi per il distacco di nuclei territoriali che pretendono una sovranità propria, e soprattutto per la formazione di centri mercantili, in tutto indipendenti, eretti a stato autonomo. La presenza di questi stati, dalla figura giuridica propria e distinta, che con i loro mercanti si espandono in terra straniera, pone automaticamente il problema della protezione degl'interessi, cose e persone, dei connazionali. Già fin dal sec. X, al duca della nuova Venezia era stato riconosciuto l'esercizio della districtio sui proprî sudditi residenti nelle terre del regno italico; e in territorio imperiale, ai margini della laguna, erano state costituite le prime zone franche sottoposte alla giurisdizione ducale. Coll'intensificazione dei traffici e coll'aumento dei rapporti, il sistema gradualmente si generalizza e si perfeziona. Il problema della tutela dei connazionali all'estero, dato il carattere di continuità della residenza, non può essere risolto con garanzie formali e generiche, bensì con garanzie reali e specifiche: tanto più se si riflette che si pongono a contatto elementi i quali vivono secondo consuetudini e tradizioni giuridiche diverse, le cui disformità vengono aggravate da profonde e insopprimibili esigenze economiche e sociali. La garanzia più sicura è quella che riconosce agli elementi immigrati il diritto di extraterritorialità, perfezionato nella costituzione della colonia nazionale, in cui un rappresentante nazionale, comunque si denomini, visconte, console, bailo, ecc., stabilmente residente nel luogo, esercita la giurisdizione privilegiata. Le colonie veneziane, amalfitane, genovesi, pisane, marsigliesi, ecc., sorte al tempo delle crociate in Oriente, sono esempî luminosi di questo processo di formazione, che non si svolge in un solo e medesimo tempo, né con assoluta uniformità di particolari in ogni caso e in tutte le circostanze, per la diversità dei rapporti e delle situazioni, da cui deriva. Non si possono mettere sullo stesso piano le colonie siriache, nate da conquista, con quelle costantinopolitane, originate da concessione; le une, autonome anche territorialmente, le altre, solo giurisdizionalmente. Il problema più importante è stabilire se, in ogni modo, all'esercizio dei diritti giurisdizionali si accoppii nella persona del visconte, bailo o console che sia, anche la rappresentanza diplomatica: se, cioè, la stabilità della rappresentanza consolare sia coeva, per unità di persona, a quella diplomatica. Che il residente consolare in via di fatto abbia esercitato anche funzioni politiche, specialmente nei momenti più critici, non si può escludere; ma le fonti del Due e del Trecento, quando l'istituto consolare è divulgato e perfezionato nelle sue funzioni e nei suoi attributi, distinguono chiaramente l'originaria differenza, che ancora permane, tra il consul e l'ambaxator, tra la persona che è formalmente investita di poteri giurisdizionali, e quella che ha iunzioni diplomatiche: l'una con stabilità di residenza e continuità di funzione, l'altra occasionale e temporanea. I visconti, i consoli, i baili veneti, genovesi, pisani, marsigliesi e catalani, che risiedono a Costantinopoli o ad Alessandria d'Egitto, in terra di Puglia o in Sicilia, in via normale e principale esercitano funzioni amministrative e giurisdizionali, in confronto dei loro connazionali e a tutela degli interessi di questi (v. console). Tutti i problemi che implichino una responsabilità politica sono trattati da speciali legati, espressamente accreditati a tal fine presso lo stato estero: e se, per avventura, il compito di negoziarli si affida all'autorità consolare, questa è munita di speciale mandato, e il consul, per l'occasione, diventa anche ambaxator.
Se non che, col tempo, le autorità consolari residenti nelle sedi di governo diventano, per consuetudine, il tramite delle ordinarie comunicazioni anche politiche: e quanto più le colonie, superata la fase di espansione, perdono potenza e ricchezza, con conseguente restrizione di privilegi e d'immunità ed affievolimento del diritto di extraterritorialità, tanto più s'allarga il campo delle funzioni politiche e diplomatiche, che sono demandate al residente nazionale. Alla fine del Trecento, l'evoluzione è già compiuta, né vi è bisogno di un atto formale che muti la figura giuridica del consul, perché la pratica stessa l'ha tramutata: tanto più che le nuove funzioni, gradualmente attribuite all'autorità consolare, non sostituiscono le precedenti, ma le integrano, e i privilegi riconosciuti alla persona del rappresentante diplomatico traggono origine da quelli consolari. Di siffatta evoluzione mette in evidenza i tratti caratteristici, per fortuite circostanze, la storia del consolato veneto di Trani. Istituto in origine prettamente consolare, esso, nella seconda metà del Trecento, viene investito di funzioni diplomatiche: mutamento di funzioni, al quale si riconnette il cambiamento di residenza, cioè l'obbligo di seguire la corte, anziché di risiedere permanentemente a Trani. Abbandonando la normale residenza per trasferirsi presso il re, il console alle funzioni consolari sovrappone quelle più strettamente politiche. Non necessitano cambiamenti di nome, né formulazione di mandati specifici per definire la nuova figura, dal momento che le funzioni politiche e diplomatiche ad essa deferite non sostituiscono, ma integrano quelle consolari. In tal guisa, fra tutte le autorità consolari, quelle residenti nelle sedi di governo assumono la rappresentanza diplomatica, la quale, anche senza che muti il nome della persona che la esercita, diventa, per necessità di cose, preponderante, sì da attenuare e far quasi scomparire la nozione dell'origine, e da trasformare automaticamente il consul in ambaxator.
Nell'età moderna. - Quando fra il Trecento e il Quattrocento, la complessità e la frequenza dei rapporti politici e diplomatici, intercorrenti fra gli stati, consigliano a rinsaldare i reciproci contatti con organi permanenti, l'istituto consolare, rinnovato dalle funzioni diplomatiche ad esso deferite, serve di modello, perché offre il contributo della sua esperienza e della tecnica giuridica per dare stabilità alle funzioni, prima temporanee, dell'ambaxator come puro rappresentante diplomatico, che non eserciti immediatamente poteri giurisdizionali. Né è esagerato attribuire la paternità del nuovo istituto, che entra in pieno vigore agli albori del Rinascimento, alla pratica politica e giuridica veneziana, perché la maggiore e più salda e più robusta attività veneziana opera, in corrispondenza con le nuove necessità dei tempi, il perfezionamento dei proprî istituti consolari; mentre quelli delle altre città italiane, per effetto della progressiva decadenza politica di esse, si cristallizzano nella forma tradizionale.
Da Venezia il sistema della rappresentanza diplomatica stabile si irradia negli stati italiani; e dall'Italia, si diffonde nelle nazioni europee occidentali, Francia, Spagna, Germania ed Inghilterra, (solo nel sec. XVIII si estende alle nazioni orientali, Russia e Turchia), organizzandosi secondo i principî ed i metodi del regime consolare, ma ben distinguendosi da questo per le funzioni. La struttura giuridica della rappresentanza diplomatica è quella dell'istituto consolare, dal quale da prima mutua i diritti e le prerogative istitutive, l'inviolabilità personale, il diritto di extraterritorialità anche domiciliare, con conseguente diritto d'asilo, immunità dalla giurisdizione civile e penale; ma la funzione è diversa, perché su quella giurisdizionale, quand'anche non sia totalmente abrogata, prevale quella politico-diplomatica. E come la consuetudine, con opportuni adattamenti, è riuscita ad innestare nel tronco consolare la funzione diplomatica, in guisa da perfezionare la figura dell'ambasciatore, così la scienza pubblicistica, specialmente nei secoli XVI e XVII, da Corrado Bruno ad Alberigo Gentili, ad Ugo Grozio ed alla scuola olandese, culminata nell'opera grandiosa di Cornelio van Bijnkershoek (1673-1743), dinnanzi al nuovo ordinamento, si è sforzata di consolidarlo elaborando una dottrina atta a sistemare, in un piano strettamente giuridico, l'istituto nuovamente creato dalla pratica. La teorica della diplomazia segue, non precede l'istituto della rappresentanza diplomatica stabile: ché se antichi sono certi principî sulla figura del legato come tale, illustrati dai trattatisti dei secoli XIII e XIV da Guglielmo Durante in poi, uno svolgimento sistematico e dottrinario di essi si ha solo quando l'ambasceria temporanea si trasforma in un istituto permanente. Sorgono nuovi problemi; principî vecchi hanno bisogno di una giustificazione teorica diversa, così come nella pratica vecchi privilegi reclamano nuove forme d'applicazione. L'attenzione vuol essere richiamata particolarmente su due questioni, per le conseguenze che in passato produssero, e per gl'incidenti diplomatici che sollevarono: la questione della precedenza e quella dell'immunità domiciliare.
Soltanto nei congressi di Vienna e di Aquisgrana, nel 1815 e nel 1818, fu fissata la gerarchia degli agenti diplomatici, ambasciatori, ministri plenipotenziarî, inviati straordinarî e incaricati d'affari, in relazione all'importanza politica e diplomatica degli stati e ai rapporti fra essi intercedenti: classificazione in cui era implicitamente risolto il problema di precedenza. Per l'innanzi, con criterî approssimativamente simili, si distinguevano i rappresentanti diplomatici in due grandi categorie: quelli di teste coronate, e quelli degli altri stati. L'applicazione di tale principio, consacrata non da una norma positiva, ma dalla consuetudine, riusciva estremamente difficile, e spesso incresciosa, perché l'ambizione principesca di piccoli sovrani mal si rassegnava all'esclusione dalla prima categoria. Di più, come negare alle grandi repubbliche, specialmente alla dignità ducale veneta, l'onore dei primi posti, pur non possedendo esse i requisiti formali di testa coronata, dal momento che godevano di pari prestigio politico? Vi erano inoltre piccoli stati, quali il ducato di Toscana o quello sabaudo o quello di Modena, per ricordare solo alcuni stati italiani, che bramavano porsi a fianco della dignità imperiale o reale delle maggiori corti o di quella pontificia, né potevano ammettere che su essi prevalesse l'autorità di stati non rivestiti di attributi regali o principeschi. Alle repubbliche di Venezia e di Genova tali attributi si contestavano, e, mentre ognuno degli stati principeschi minori, con interminabili querele, tendeva ad elevare il proprio rango, aspirando alla dignità regia od almeno a quella ducale e granducale, giudicava di rango inferiore quelli che, per la loro costituzione, non potevano nutrire siffatte aspirazioni, negando perciò il diritto di precedenza ai rispettivi rappresentanti. I secoli XVI, XVII, XVIII sono pieni di simili contrasti assai spesso tanto sterili di contenuto politico, quanto complicati, affannosi, clamorosi, ricchi di scene piccanti e di scandalosi retroscena: contrasti che molto spesso assorbono la parte principale dell'attività diplomatica di piccoli stati, che non trovano altra via per imporre la loro personalità politica. In pieno sec. XVII, è questa una delle preoccupazioni maggiori del granduca Cosimo; tra il sec. XVII e il XVIII, il principe sabaudo ne fa una questione di stato, ispirando numerosi scritti per difendere ed avvalorare le ragioni della sua tesi. Ma anche fra stati di pari rango, la questione di precedenza diventa pretesto di lotte e di competizioni che si risolvono in piccoli dispetti o clamorosi incidenti, secondo il clima politico in cui si svolgono. Ai margini della curia pontificia, nella grande Roma, cui tutti fanno capo, scene or buffe or tragiche si ripetono, con sorprendente frequenza e rabbioso accanimento: né basta l'ammonimento del Santo Padre né l'autorità dei prelati che lo circondano, a metter pace fra i contendenti, che non han rispetto nemmeno alla santità del luogo in cui s'incontrano. S'accapigliano, apostrofandosi con male parole e con gesti sconvenienti alla dignità delle persone e del luogo, pubblicamente, alla vista d'ognuno, nelle stesse anticamere della corte pontificia, e perfino nella sacra cappella, ove son convenuti per assistere alle cerimonie divine, alla presenza dell'augusta persona del Santo Padre. Cronisti e diaristi, spettatori involontarî, hanno tramandato un largo florilegio di questi episodî, che han dato luogo anche a motivi ridicoli e grotteschi: e il buon Burcardo, con ingenuità non disgiunta da sottile ironia ed amaro sarcasmo, riferisce molti di questi spettacoli poco edificanti. I quali non tanto presto sono messi in oblio: i protagonisti, con parole grosse, reclamano l'intervento dei rispettivi governi, perché sia data soddisfazione dell'offesa dignità; provocano proteste e minacce e, aggiungendo episodio ad episodio, ingrossano siffattamente l'incidente da trasformarlo in una questione diplomatica di prim'ordine, che spesso incomoda fastidiosamente non soltanto le cancellerie interessate, ma anche quelle estranee, costrette a farsi mediatrici di un qualunque accomodamento. Non meno ricca d'incidenti è l'attuazione pratica del privilegio d'immunità domiciliare, che è riconosciuto all'agente diplomatico. Esso è non solo riservato alla persona dell'ambasciatore, ma esteso ai famigliari e a tutte le persone del seguito, che divengono tanto più numerose, quanto più aumenta il fasto dell'ambasciata, secondo un rito ed un cerimoniale, minuziosamente fissato col trattato di Westfalia del 1648. Il privilegio s'allarga dalla residenza ordinaria alle case vicine, che si ritengono una dipendenza di questa; e tende ad estendersi su un raggio più o meno ampio di terreno che circonda il palazzo. Sorge quel diritto di lista, che il titolare si sforza di ampliare e consolidare con privilegi sempre più vasti, e i governi nazionali si ostinano a restringere, sia territorialmente, sia dal punto di vista immunitario. Il domicilio, con le sue appendici e con le relative liste, resta sottratto al controllo e alla giurisdizione dello stato, costituendo una zona neutra che non può esser violata dagli agenti nazionali. Esso diventa perciò un comodo asilo di quanti, dovendo regolare qualche conto con la giustizia del proprio paese, si mettono al sicuro d'ogni fastidio, riparando nel territorio immune sotto la compiacente protezione dell'agente diplomatico straniero. Colpevoli di delitti politici non solo, ma anche di reati comuni, fanno appello a questo presunto diritto, la cui interpretazione estensiva, che suona offesa alla giustizia, è motivo di proteste, di reazioni e d'incidenti diplomatici ed internazionali, ricorrenti specialmente nei momenti di tensione politica. Il dissidio franco-veneto, che virtualmente oscura i rapporti fra i due stati nel sec. XVIII, è inasprito da tale fastidioso contrasto, che la diplomazia viennese all'occorrenza, qualora le sia di vantaggio, invano si sforza di placare coll'attiva sua opera di mediazione. Le violenze private contro le residenze diplomatiche, spesso causate da tale diritto d'asilo s'interpongono a render più difficile e più aspro il normale e pacifico riconoscimento di esagerati privilegi che il diritto diplomatico moderno, sistemato dopo i congressi di Vienna ed Aquisgrana, ricondurrà entro limiti più moderati e corretti.
Se si considera il valore politico della rappresentanza diplomatica, si prospetta tutta l'importanza della funzione dell'ambasciatore, che è lo strumento più delicato, e molto spesso l'artefice più notevole della storia diplomatica degli stati. Nomi illustri, frammezzo ad altri meno noti, segnano pagine memorabili nella storia della diplomazia. Usciti tutti, nel passato, o dalla nobiltà (quando la persona designata non era nobile, assumeva non il titolo e la figura di ambasciatore, ma di segretario e di residente), o dal ceto ecclesiastico, il quale forniva non solo rappresentanti alla Santa Sede, col nome specifico di nunzî od internunzî, ma anche a stati laici, i diplomatici furono e sono fattori delle situazioni politiche internazionali. L'opera loro vale non soltanto per l'azione di stile strettamente diplomatico, svolta secondo le norme protocollari, ma anche per quella, più segreta e individuale, intesa a creare le condizioni adatte per determinate manovre, a plasmare l'ambiente. Per quanto ogni stato si sia mostrato sempre sensibile all'influenza esercitata dai rappresentanti esteri sull'opinione pubblica, e perciò siano stati vietati e più o meno severamente puniti i rapporti individuali di uomini politici nazionali, anche se non investiti di cariche pubbliche, con gl'inviati stranieri (la repubblica di Venezia fu in argomento la più gelosa, la più rigida e la più inflessibile), tuttavia, in pratica, nei segreti e spiccioli convegni con uomini di alta o anche di modesta condizione, si scoprivano gli arcani della politica, si preparavano trame e si sventavano quelle altrui, si forgiavano le situazioni. Le voluminose serie degli atti diplomatici, conservati negli archivî delle cancellerie dei singoli stati, sono testimonio della varia e molteplice attività di questi uomini, che, accanto all'azione pubblica, non mancavano di svolgere anche, a vantaggio dello stato rappresentato, un'attività privata e personale, di cui è traccia nelle lettere confidenziali e segrete, destinate personalmente ai capi di stato (come rivela la diplomazia piemontese), e nei carteggi privati degli stessi diplomatici. Ciò che costituisce una caratteristica singolare della diplomazia veneziana è la redazione di quel particolare documento, noto col nome di relazione, di carattere pubblico, inteso a dare un'idea sintetica della situazione politica, in largo senso, dei singoli stati. Da tempo assai antico, era fatto obbligo agli agenti diplomatici che ritornavano dalla loro missione, di fare in senato un'esposizione dell'opera compiuta. Fatta prima verbalmente, poi affidata a documento scritto, tale relazione, da pura esposizione dell'attività specifica del referente, si allargò in una visione più ampia e comprensiva delle condizioni degli stati esteri, trasformandosi in una rassegna, periodicamente aggiornata, della situazione politica, economica, sociale e militare di questi. Sono altrettanti quadri d'insieme della vita dei singoli stati, attraverso ai quali si assiste al loro progressivo sviluppo, fatti da persone che, per temperamento, per educazione, per tradizione e per costume politico, erano abituate a considerare uomini e cose molto realisticamente: sì che ad essi non sfuggono i tratti caratteristici e gli elementi essenziali della vita delle nazioni. Accanto all'acume delle intuizioni, proprio di osservatori obbiettivi, risalta la nitidezza delle linee, l'equilibrio dei rilievi, la precisione degli elementi raccolti, che imprimevano al documento, per questo ricercato e studiato anche da terzi stati, un valore universale e un'importanza tutt'altro che contingente e passeggera. Su questi modelli, anche altre nazioni, ma sporadicamente e occasionalmente, incoraggiarono la formulazione di studî d'insieme sulla vita degli altri stati: studî i quali riuscirono tuttavia sempre inferiori al compito, perché nelle Relazioni gli ambasciatori veneziani ebbero l'accortezza di non allontanarsi da quella architettura semplice e corretta, che è l'espressione della mentalità diplomatica veneziana. Ed è questo il vero tipo caratteristico della diplomazia veneziana, per costumi, riti e intenti politici, non disforme da quella degli altri paesi: tipo che si perpetua anche quando il valore politico dell'attività diplomatica veneziana è sopraffatto o soverchiato da quello degli altri stati più potenti. Ma la bufera rivoluzionaria francese trasfuse anche nel ritmo formale dell'attività diplomatica l'influsso della sua azione rinnovatrice. Pur non mutando radicalmente riti e costumi, introdusse uno spirito nuovo, chiamando all'esercizio del delicato compito uomini e classi nuove, che però non spregiarono la collaborazione e l'esperienza, in questa funzione, delle vecchie generazioni. I motivi sterili però del passato formalismo, in quanto contrarî o dannosi alle attuali esigenze, caddero, e la compassata, metodica e ferma opera della Restaurazione, fissando norme più rigide e discipline più precise alla diplomazia, armonizzò, con cautela e prudenza, il rito alle necessità dello stato e della vita moderna. (v. tavv. CLXVII, CLXVIII).
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