Abstract
La materia con la quale il cd. diritto dell'ambiente presenta maggiori affinità risulta essere il diritto amministrativo, del quale costituisce sempre più un motore propulsore. Risulta centrale il ruolo dei poteri pubblici, chiamati a fronteggiare dei problemi che trascendono i confini territoriali di competenza e che presentano caratteri di novità tali da imporre azioni anche in assenza di parametri normativi e in situazioni di incertezza tecnico-scientifica: ne deriva la forte autonomia che deve essere riconosciuta all'amministrazione, per affrontare in maniera adeguata le questioni che si pongono. In questo settore l'amministrazione fa largo uso di strumenti programmatori, autoritativi, e si aspira all'adozione di strumenti di mercato per tutelare l'interesse pubblico.
L'analisi si concentrerà sulle peculiarità dei profili amministrativi della disciplina generale dell'ambiente.
Il cd. diritto dell'ambiente (sulla cui nozione, v. Ambiente [dir. cost.]), si occupa di un oggetto esaminato anche da altre discipline (tra le altre, il diritto internazionale, europeo, costituzionale, penale, civile, urbanistico, agrario, tributario); la materia con la quale essa presenta maggiori affinità, al punto da esserne – almeno attualmente - considerata una gemmazione, risulta essere il diritto amministrativo, del quale tuttavia recentemente costituisce sempre più spesso un motore propulsore (Satta, F., Introduzione all'ambiente, in www.apertacontrada.it, 2010).
Risulta infatti centrale, nella cura dell'interesse ambientale, il ruolo dei poteri pubblici, chiamati a fronteggiare dei problemi che trascendono i confini territoriali di competenza e che presentano caratteri di novità tali da imporre azioni anche in assenza di parametri normativi e in situazioni di incertezza tecnico-scientifica: ne deriva la forte autonomia che deve essere riconosciuta all'amministrazione, per affrontare in maniera adeguata le questioni che si pongono (De Leonardis, F., Le trasformazioni della legalità nel diritto ambientale, in Rossi, G., a cura di, Diritto dell'ambiente, Torino, 2011, 123).
Il ruolo dei poteri pubblici nella materia ambientale è quindi peculiare, sebbene per alcuni aspetti simile a quello che caratterizza la regolazione di beni e attività culturali: si fa largo uso di strumenti programmatori, autoritativi, e si aspira all'adozione di strumenti di mercato per tutelare l'interesse pubblico.
Nelle norme, in particolare nel cd. Codice dell'ambiente (d.lgs. 3.4.2006, n. 152), si affermano principi, si indicano funzioni (delle quali si distribuiscono le competenze e si disciplina l'esercizio), si regolano procedimenti, si prevede il sindacato del giudice amministrativo: la disciplina è perciò a ragion veduta oggetto dello studio del diritto amministrativo.
L'attenzione si concentrerà sulle peculiarità dei profili amministrativi della disciplina generale dell'ambiente tralasciando, per ragioni di economia del lavoro, l'esame dei molteplici singoli settori regolati (rifiuti, acqua, suolo, ecc.).
La normazione statale a tutela dell’ambiente (sul riparto di competenze si veda la voce Ambiente [dir. cost.]), si caratterizza per il largo uso della decretazione d'urgenza e delegata, già frequente in ogni ramo del diritto, ma in questo caso giustificato da un lato dalla fisiologica necessità di dovere rispondere a delle emergenze; dall'altro dalla elevata complessità della regolazione e dal conseguente largo uso di normazione tecnica, che si traduce nella produzione governativa delle norme, con peraltro un normale rinvio ad allegati tecnici contenuti in fonti secondarie. Le difficoltà nella formazione della normazione risalgono quindi all'inadeguatezza dei produttori e alla necessità di costanti e tempestive modifiche.
Nell'attuazione, ciò si traduce nella difficoltà di comprendere e valutare l'impatto delle disposizioni: molte leggi di settore risultano inoltre inattuabili-inattuate, perché pretenziose (si pensi alla legislazione sul suolo 18.5.1989, n. 183 o sulla gestione dei servizi idrici 5.1.1994, n. 36), oppure malamente redatte, in quanto traduzioni di norme comunitarie effettuate in ritardo e in maniera frettolosa. Sovrapposizioni, contraddizioni e l'elevata complessità delle disposizioni contribuiscono così a rendere la legislazione difficilmente prevedibile e conoscibile.
Si assiste a due peculiarità dell'attuale regolazione dell'ambiente: da un lato a una ricerca di auto-legittimazione del legislatore, tentata sia facendo ricorso ad un'accurata istruttoria (si veda cons. 24 VI programma comunitario), che alla giustificazione delle norme e alla continua revisione, il che evidentemente riduce la discrezionalità del legislatore (o dell'amministrazione, quando la disciplina sia affidata a regolamenti). Dall'altro, sia al largo uso di standard, al cui superamento l'ordinamento ricollega degli effetti giuridici (tra i quali monitoraggi, controlli, sanzioni; sul tema si v. Fonderico, F., Limiti e standard, in Ferrara, R.-Sandulli, M.A., a cura di, Trattato di diritto dell'ambiente, Milano, 2014, II, 57, senza dimenticare che nel diritto dell'ambiente molti standard sono determinati direttamente dagli operatori); sia al ricorso ai principi, che sono richiesti proprio dal largo uso di normazione di dettaglio, per consentire all'operatore e al regolatore di orientarsi in ogni circostanza (v. infra).
In Italia la disciplina si è sviluppata per lo più con leggi di settore: leggi generali sono invece la l. 26.4.1986, n. 193, che ha istituito il Ministero dell'ambiente, e il più recente e prima citato Codice dell'ambiente (più volte emendato nel corso degli anni), che raccoglie buona parte della disciplina ambientale, sebbene non alcuni settori rilevanti, quali energia, aree protette, incentivi economici (si v. Fonderico, F., La "codificazione" del diritto dell'ambiente in Italia: modelli e questioni, in Riv. trim. dir. pubbl., 2006, 613).
Un ruolo importante assumono poi le ordinanze di necessità ed urgenza, adottate nel caso di imprevisti, quali calamità naturali o contaminazioni, aventi un contenuto atipico (si cita spesso l'art. 8, l. 8.7.1986, n. 349 , ma contra Andronio, A., Le ordinanze di necessità e urgenza per la tutela dell'ambiente, Milano, 2004, 162; si v. anche artt. 191 e 244, d.lgs. n. 152/2006, sui quali Marazzita, G., Il conflitto tra autorità e regole: il caso del potere di ordinanza, in www.forumcostituzionale.it,2010; sul tema in generale Cavallo Perin, R., Poteri di ordinanza e principio di legalità. Le ordinanze amministrative di necessità e d’urgenza, Milano, 1990). La Corte Costituzionale ne ha però notoriamente delimitato l'utilizzo, ritenendole legittime solo in caso di: impossibilità ad adottare provvedimenti tipici, efficacia temporale limitata, rispetto dei principi generali (norme costituzionali, il principio di riserva assoluta di legge, i principi del diritto comunitario, i principi generali dell'ordinamento, anche i principi del diritto dell'ambiente ex art. 3 bis, d.lgs. n. 152/2006), presenza della motivazione sulla base di un'istruttoria tecnica, rispetto del principio di proporzionalità (C. cost., 20.6.1956, n. 8 e C. cost., 23.5.1961, n. 26).
I principi, ora espressamente menzionati nel Codice dell'ambiente, sono di derivazione internazionale e, soprattutto, comunitaria; la loro scrittura è eccentricamente avvenuta due anni dopo l'entrata in vigore del Codice, anche se essi avevano comunque già improntato la legislazione nazionale, ricalcata sulla legislazione comunitaria, e quindi già orientata da quei principi.
Il dibattito generale circa il valore immediatamente precettivo o programmatico dei principi rimane sempre aperto (sui principi, si veda D'Alberti, M., Diritto amministrativo e principi generali, in Id., a cura di, Le nuove mete del diritto amministrativo, Bologna, 2010, 67): in questo settore essi si rivolgono in particolare ai pubblici poteri, per conformarne l'azione (Dell'Anno, P., Ambiente (dir. amm.), in Dell’Anno, P.-Picozza, E., a cura di, Trattato di diritto dell'ambiente, I, Padova, 2012, 308 sulla base dell'art. 3 bis, co. 2, ma più in generale Id., Principi del diritto ambientale europeo e nazionale, Milano, 2004), il che ha peculiare rilievo se si pensa alla normazione secondaria e alle ordinanze, che così hanno a disposizione parametri che ne limitino la portata.
Gli articoli da 3 bis a 3 sexies del Codice disciplinano i principi generali in tema di tutela dell'ambiente: per quanto essi dovrebbero ritenersi applicabili solo al Codice stesso, e derogabili da qualunque legge ordinaria, enfaticamente se ne afferma la valenza di regole generali nell'adozione degli atti normativi, di indirizzo e di coordinamento e nell'emanazione dei provvedimenti di natura contingibile ed urgente; se ne proclama inoltre la derogabilità, la modifica o l'abrogazione solo per dichiarazione espressa.
Se pure non è espressamente riportato il principio comunitario dell'elevato livello di tutela (menzionato però negli artt. 4, 5, 186, d.lgs. n. 152/2006), sono comunque citati lo sviluppo sostenibile (che consiste nel garantire che il soddisfacimento dei bisogni delle generazioni attuali non comprometta la qualità della vita e le possibilità delle generazioni future), la prevenzione (che consente l'intervento pubblico per scongiurare la verificazione di danni, nel caso in cui sia noto il rischio di pregiudizio), la precauzione (che consente l'intervento a tutela dell'ambiente anche in casi di incertezza scientifica circa il rischio di pregiudizi), la correzione dei danni alla fonte, il “chi inquina paga”.
Risulta discutibile invece che l'applicazione che il Codice riserva ai principi di sussidiarietà e di leale collaborazione (art. 3 quinquies) abbia una valenza generale, nel senso della possibilità per le Regioni di prevedere un livello di tutela più elevato di quello statale (in presenza di situazioni particolari del territorio, e senza arbitrarie discriminazioni o ingiustificati aggravi procedimentali), in quanto sembra più convincente l'idea che si applichi l'oramai consolidato principio affermato dalla Corte costituzionale secondo il quale non sia possibile derogare agli standard statali (ma contra Renna, M., L'allocazione delle funzioni normative e amministrative, in Rossi, G., op. cit., 149).
I principi propri del diritto dell'ambiente a loro volta dialogano con altri principi del nostro ordinamento. Si pensi, in particolare, alla problematicità del frequente ricorso a poteri straordinari e d'urgenza rispetto al principio di legalità; oppure a come il richiamo dell'art. 41, co. 2, Cost. all'utilità sociale, e soprattutto alla necessità di evitare danni alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana, possa incidere sul principio di libertà di iniziativa economica, ad esempio imponendo l'ottenimento di un'autorizzazione e l’adozione di misure ad hoc per lo svolgimento di attività aventi un impatto sull'ambiente.
In presenza di una molteplicità di livelli di governo, già a livello nazionale, l’articolazione delle funzioni amministrative relative all'ambiente risulta complessa e soggetta a frequenti rimodulazioni.
La difficoltà è oggi esacerbata dal dettato dell’art. 117 Cost. (riscritto dalla l. cost n. 3/ 2001), il quale assegna la competenza legislativa esclusiva in materia di tutela dell’ambiente allo Stato e la valorizzazione dell’ambiente alla competenza concorrente di Stato e Regioni, lasciando però all’interprete il compito di determinare il contenuto della prima e della seconda materia, e di conseguenza quale sia il legislatore che debba distribuire le funzioni (v. Ambiente [dir. cost.]).
Non appena assurto l'ambiente sulla scena giuridica, con i d.P.R. del gennaio del 1972 (d.P.R. 14.1.1972, n. 4; d.P.R. 15.1.1972, n. 8; d.P.R. 15.1.1972, n. 11) si era già proposta la delega alle Regioni delle funzioni relative all'igiene del suolo e dell'ambiente, all'inquinamento atmosferico e delle acque (d.P.R. n. 4/1972 in materia di sanità), all'urbanistica (d.P.R. n. 8/1972), alla protezione della natura (d.P.R. n. 11/1972).
Poi nel 1977 si è attuato il primo vero trasferimento di funzioni alle Regioni (d.P.R. 24.7.1977, n. 616) e con l'occasione si è tentata una prima delimitazione della “tutela dell'ambiente” (art. 101, d.P.R. n. 616/1977): al di là degli articoli specificamente ricondotti sotto tale voce, ai nuovi enti territoriali sono state affidate molteplici funzioni, anzitutto attraverso l'urbanistica e al territorio, ma anche in riferimento a sanità, agricoltura e foreste e calamità naturali, protezione della natura, riserve e parchi naturali, risorse idriche, caccia e protezione della fauna, patrimonio ittico, igiene del suolo e inquinamento atmosferico, idrico, termico ed acustico; diverse funzioni sono state affidate anche a comuni e province.
A partire dalla metà degli anni ottanta si è poi riscontrato un primo accentramento delle funzioni, in virtù sia della istituzione del Ministero, sia dell'adozione di leggi settoriali a tutela delle zone di particolare interesse ambientale, del suolo, delle aree naturali protette, di inquinamento atmosferico, acustico (tra le altre, la l. 8.9.1985, n. 431 , il d.P.R. 24.5.1988, n. 203 , la l. 6.12.1991, n. 394 , la l. 26.10.1995, n. 447 ). Ciononostante il processo di devoluzione è continuato, con la l. 8.6.1990, n. 142 (Ordinamento delle autonomie locali), che ha devoluto importanti funzioni agli enti locali, anche se in maniera generica e senza grandi risultati.
Sulla scorta della legge Bassanini (art. 4, lett. c, della l. 15.3.1997, n. 59), che pure ha riservato allo Stato le funzioni amministrative relative alla tutela dell'ambiente, il d.lgs. 31.3.1998, n. 112 ha posto al centro del sistema le Regioni, affidando loro funzioni di programmazione e pianificazione, riservando allo Stato provvedimenti a carattere generale e tecnico (quali la fissazione di obiettivi e standard, elaborazione di dati e compilazione di elenchi, adempimento degli obblighi internazionali, tutela di aree protette, parchi nazionali e ambiente marino), e prevedendo ampie forme di coordinamento e cooperazione.
Il quadro da allora non è sostanzialmente cambiato.
Quanto agli enti locali, anche alle province è assegnato un ruolo di programmazione (v. infra). Dal punto di vista di amministrazione attiva, poi, gli enti locali hanno importanza soprattutto nella gestione dei servizi ambientali (idrici e rifiuti), in quanto il livello provinciale riveste funzioni di controllo e vigilanza, e quello comunale di erogazione, della quale storicamente si è sempre occupato (mentre l'esercizio associato di funzioni non ha dato in questi anni gli esiti sperati).
Nel Codice dell'ambiente si può registrare il tentativo di riportare al centro una molteplice quantità di funzioni (Romano, A., Verso il recupero di competenze generali dell'amministrazione centrale, in Gazzetta Ambiente, 2005, 5, 15): in ogni caso, il riparto delle funzioni risulta caratterizzato da frammentazione, la quale ha comportato sovrapposizioni, complessità, disomogeneità.
L'istituzione del Ministero dell'ambiente, nel 1986, ha fatto di quest'ultimo il punto di riferimento degli interessi ambientali già rappresentati sul territorio. L'entificazione ha inoltre consacrato l'interesse ambientale e collocato lo stesso tra gli altri interessi pubblici. Il modello di un ministero dalle dimensioni contenute ha allora prevalso sia sul modello del grande ministero, sia su quello dell'agenzia, in ragione della trasversalità degli interessi intercettati dall'ambiente, così che si è proceduto da un lato al ritaglio di un limitato nucleo di funzioni proprie, dall'altro, soprattutto, alla partecipazione del ministero a tutti i procedimenti affidati ad altri ministeri nei quali fossero presenti interessi ambientali. Questo modello ha comportato un coinvolgimento degli altri enti pubblici nel rispetto dell'interesse ambientale e lo sviluppo di forme di collaborazione o indirizzo e coordinamento nei confronti delle Regioni. L'effetto negativo di tale processo è consistito nella dilatazione degli adempimenti e della durata dei procedimenti.
In un secondo momento il Ministero ha invece assunto un più rilevante ruolo di amministrazione attiva, sebbene con risorse scarse e in assenza di articolazioni periferiche. Oggi il Ministero dell'ambiente e della tutela del territorio e del mare (l. 17.7.2006, n. 233), è ripartito in sei direzioni generali, articolate in divisioni (da ultimo d.m. 2.12.2009, n. 135 e 21.10.2010, n. 177). Esso riveste rilevanti funzioni (anche se la delimitazione degli ambiti non è comunque agevole in concreto) in tema di: assetto del territorio con riferimento a valori naturali e ambientali, aree protette, biodiversità, fauna e flora, rifiuti, bonifiche, risorse idriche, sviluppo sostenibile, inquinamento (atmosferico, acustico, elettromagnetico), danno all'ambiente, difesa del suolo e del mare, polizia forestale (art. 36, d.lgs. 30.7.1999, n. 300); ha anche poteri in materia di accreditamento delle associazioni, di informazione, di ordinanza. Il ritaglio e le interferenze comportano frequenti (e spesso complessi) rapporti in particolare con il Ministero dell'agricoltura (per quanto riguarda agricoltura, caccia, pesca) e con il Ministero dei beni culturali (in particolare per quanto riguarda il paesaggio). Il ruolo del Ministero, in ultima analisi, è di indirizzo e programmazione, nonché di vigilanza e controllo.
Dal Ministero dipendono enti tecnici come l'ISPRA (Istituto superiore per la protezione e la ricerca ambientale, di cui alla l. 6.8.2008, n. 133 e al d.m. 21.5.2010, n. 123), che svolge attività di ricerca nel settore ambientale (e del quale, si sostiene, andrebbero rafforzati i caratteri di autonomia e indipendenza). L'amministrazione inoltre si avvale, tra gli altri, delle ARPA e delle ASL, così come delle Camere di commercio (nell'ambito dei rifiuti, per l'albo degli operatori e per le informazioni ambientali), di enti di ricerca o privati qualificati, nonché degli Uffici Territoriali di Governo e dei corpi dello stato (forestale, capitanerie di porto, guardia di finanza, polizia, carabinieri). Compiti importanti sono svolti anche da figure organizzative di natura statale, quali le autorità di bacino, gli enti parco e di gestione delle riserve naturali nazionali.
Il coordinamento tra autorità avviene in sede di Conferenza Stato Regioni e Conferenza Unificata per quanto riguarda gli enti territoriali, così come per il tramite di organismi collegiali, quali il CIPE.
Un ruolo rilevante è assunto dalla pianificazione-programmazione, la quale dovrebbe consentire di stabilire indirizzi e priorità dell'azione dell'amministrazione.
La programmazione nazionale, anche per i pessimi risultati conseguiti, ha lasciato posto nel 1998 in particolare a quella regionale (art. 73, d.P.R. n. 112/1998) e, quanto al metodo, si caratterizza per il largo uso di strumenti di concertazione (convenzioni, intese, accordi). Risultano rilevanti tuttavia anche la programmazione provinciale (art. 57, d.P.R. n. 112/1998) e quella settoriale (ad esempio, per la gestione dei rifiuti ex art. 199, d.lgs. n. 152/2006, l'utilizzazione delle acque ex artt. 65, 117, d.lgs. n. 152/2006, o i parchi ex art. 12, l. 6.12.1991, n. 394).
Costituisce però un serio problema il coordinamento tra diversi piani, sia per l'assenza di una previa composizione da parte del legislatore, sia per la diversità di approcci che caratterizza gli stessi: i piani inoltre contengono talvolta disposizioni troppo generiche – autoritative, talaltra indicazioni fin troppo dettagliate (Rossi, G., op. cit., 67).
Proprio per queste difficoltà il piano territoriale di coordinamento provinciale è stato visto molto favorevolmente – e un po' troppo enfaticamente - come un modello di piano di sintesi degli interessi sottesi alle pianificazioni di settore (art. 57, d.lgs. n. 112/1998 e art. 20, d.lgs. 18.8.2000, n. 267), in quanto ne assume il valore e gli effetti.
Giacché l'amministrazione, con riguardo agli interessi ambientali, opera spesso in assenza di chiare indicazioni normative, in casi di incertezza tecnico-scientifica e in situazioni caratterizzate da intrecci di interessi (anzitutto culturali, storici, estetici), l'attività appare connotata da un ampio ricorso al tempo stesso alla discrezionalità, alla discrezionalità tecnica e all'uso di standard. I provvedimenti perciò si caratterizzano per l'importanza che assumono, nella decisione, l'analisi dei fatti, la valutazione costi-benefici, la ragionevolezza e la proporzionalità delle misure adottate. Questo diverso approccio, se mostra le attuali difficoltà del principio di legalità, non consente di derogare all'esigenza di legittimità dell'azione, il cui sindacato giurisdizionale risulta comunque molto ampio (De Leonardis, F., op. cit.).
Il forte connotato autoritativo che qui caratterizza l'amministrazione si esprime principalmente mediante l'adozione di controlli, che a monte si presentano come autorizzazioni: del resto l'importanza del bene tutelato giustifica verifiche sulla compatibilità con l'ambiente delle attività che si vogliono intraprendere, anche per evitare di dovere intervenire quando già potrebbero essersi prodotti dei danni. Provvedimenti di autorizzazione sono richiesti, tra l'altro, per gli impianti e attività di gestione di rifiuti (art. 208, d. lgs. n. 152/2006), per le emissioni in atmosfera (art. 269, d.lgs. n. 152/2006), per gli scarichi idrici (art. 124, d.lgs. n. 152/2006). Si deve trattare di provvedimenti espressi, con qualche eccezione in caso di rinnovo o per disposizione espressa (art. 124, co. 8, d.lgs. n. 152/2006). Le autorizzazioni sono: temporanee (artt. 124, co. 8, 208, co. 12, 269, co. 7, d.lgs. n. 152/2006), il che è comprensibile viste la mutevolezza della condizione dell'ambiente e l'evoluzione della tecnologia e dei controlli; eventualmente rinnovabili, e spesso se ne impone la revisione anche prima della scadenza, sulla scorta di sopravvenute esigenze ambientali; inoltre l'amministrazione ha un ampio potere conformativo, così che gli atti sovente impongono ai privati prestazioni, talvolta complesse e costose.
Sono frequenti i casi di autorizzazioni plurime in un unico atto, di autorizzazioni generali (per impianti numerosi e di dimensioni ridotte, ovvero a ridotta capacità di inquinamento, art. 272, d.lgs. n. 152/2006, assimilabili alla DIA), di abilitazioni, di nulla osta, sebbene comunque per le attività di scarso o nullo impatto siano previste procedure semplificate (artt. 214 ss., 180 bis, d.lgs. n. 152/2006; art. 209, d.lgs. n. 152/2006, che prevede che nell'ipotesi di rinnovo delle autorizzazioni alle imprese in possesso di certificazione ambientale esse possono autocertificare).
Rivestono un ruolo importante anche i provvedimenti di concessione (ad esempio di gestione delle risorse idriche, dei rifiuti urbani, o di beni demaniali quali le spiagge), nei quali casi l'amministrazione mira generalmente a limitare l'impatto dell'attività di sfruttamento dei beni.
A valle sono previste attività di controllo in senso stretto (ad esempio artt. 29, 128 , 165, 188, 248, 260-bis, 288, d.lgs. n. 152/2006). Ci sono controlli sull'ambiente o sulle singole attività, sui dati forniti dai privati o sul rispetto dei valori limite. Essi si caratterizzano, tra l'altro, per la periodicità (art. 128, d.lgs. n. 152/2006), nonché per l'intervento di privati come verificatori (Rossi, G., op. cit., 73); sono eliminati o ridotti per le imprese o le organizzazioni in possesso di certificazioni emessi da organismi o enti accreditati (da ultimo art. 14, d.l. 9.2.2012, n. 5 , convertito in l. 4.4.2012, n. 35). Le sanzioni che possono conseguire generalmente sono ripristinatorie o pecuniarie e difficilmente incidono sullo svolgimento dell'attività.
L'emersione dell'interesse ambientale ha costituito occasione per l'introduzione nell'ordinamento di strumenti poi recepiti dalla l. 7.9.1990, n. 241: si pensi al diritto di accesso (l. n. 349 /1986), alla pubblicazione (d.P.R. 24.5.1988, n. 203), alle conferenze per l'approvazione dei progetti di smaltimento dei rifiuti (l. 29.10.1987, n. 441 ).
La l. n. 241/1990, poi, contiene diverse disposizioni che tengono conto di tale interesse: non si può prescindere dal parere in materia ambientale, se pure l'amministrazione richiesta non lo fornisce, e questo anche se si tratta di parere facoltativo (art. 16, l. n. 241/1990), così come non è in questa materia ammessa la richiesta di valutazione tecnica ad istituto od ente equipollente (art. 17, l. n. 241/1990). La cd. SCIA non è applicabile quando sia presente un vincolo ambientale, ed è comunque sempre pronunciabile il divieto di prosecuzione dell'attività e di rimozione degli effetti dannosi (art. 19, l. n. 241/1990). In presenza di interesse ambientale non si applica l'istituto del cd. silenzio assenso (art. 20, l. n. 241/1990). La disciplina sulla conferenza di servizi contiene poi diverse disposizioni relative all'ambiente (art. 14 ss., l. n. 241/1990): in particolare, in caso di dissenso, diversamente da quanto avviene per altri interessi, la soluzione del conflitto va rimessa alla deliberazione del Consiglio dei Ministri.
Anche per quanto si osserverà infra (§ 12), l'istituto degli accordi assume un peculiare rilievo, in particolare nel quadro della programmazione negoziata: sono previsti sia accordi tra amministrazioni che – soprattutto ( tra queste e i privati. Si fa riferimento sia alla disciplina generale contenuta negli artt. 11 e 15 della l. n. 241/1990, che a quella di cui all'art. 34 del d.lgs. n. 267/2000 per gli accordi di programma (si veda anche art. 2, co. 203 della l. 23.12. 1996, n. 662).
In questa materia gli accordi sono strumenti facoltativi, anche laddove sia obbligatorio un previo esperimento di tentativo: la loro formazione è segnata dalla trasparenza e, laddove previsto, possono consentire deroghe alla normativa. Hanno per lo più ad oggetto profili procedimentali o di programmazione-pianificazione: disciplinano le modalità per il perseguimento degli obiettivi del legislatore, la fissazione di ulteriori obiettivi, sperimentazione e ricerca (Casabona, S., L'accordo in materia di ambiente, Padova, 2008, 136).
Per limitarci al Codice dell'ambiente, accordi sono previsti nei procedimenti autorizzatori di VIA, VAS, AIA (sui quali v. infra): l'art. 9, in maniera peculiare, afferma che il fine sia solo di «disciplinare lo svolgimento delle attività di interesse comune» e non solo a fini di semplificazione ma anche «della maggiore efficacia dei procedimenti» ; ma in sede di AIA l’art. 29 quater, co. 15 ne prevede addirittura come oggetto la ponderazione degli interessi contrapposti economici e pubblici (tra le norme, si veda, sulla base del modello della l. n. 241/1990 l'art. 101 sul ripristino idrico nonché, per lo più sul modello degli accordi di programma, e in particolare nel settore dei rifiuti e idrico, gli artt. 70, co. 4, 75, 120, 158, 177, 180, 180 bis, 224, 205, 206, 246, 252 bis, d.lgs. n. 152/2006).
Vi sono inoltre alcuni istituti, contenuti anche nella l. n. 241/1990, quali l'accesso e la partecipazione, per i quali bisogna far riferimento a discipline ad hoc.
Quanto all'accesso, esso va collocato nel tema più ampio dell'informazione in materia ambientale. L'amministrazione infatti ha degli obblighi di informazione particolarmente pregnanti, in merito a dati e studi in suo possesso perché, dal momento che i soggetti interessati all'ambiente sono indeterminati, è particolarmente sentita l'esigenza di un controllo diffuso. Tali obblighi sono stati previsti fin dalla legge n. 349/1986 (e tra gli altri gli artt. 6, 14, 53, 122, 162, 219, d.lgs. n. 152/2006). Inoltre chiunque, senza essere tenuto a dimostrare la sussistenza di un interesse giuridicamente rilevante, può accedere alle informazioni relative allo stato dell'ambiente e del paesaggio nel territorio nazionale (si veda la ratifica con l. 16.3.2001, n. 108 della Convenzione di Aarhus, d. lgs. 19.8.2005, n. 195, e art. 3 sexies, d.lgs. n. 152/2006).
Il diritto di accesso è così consentito in termini più ampi rispetto alla l. n. 241/1990, in quanto ha ad oggetto le informazioni (e non solo i documenti); destinatario della richiesta può essere ogni persona fisica che svolga funzioni connesse alle tematiche ambientali o eserciti responsabilità amministrative sotto il controllo di un organismo pubblico; legittimato ad ottenere l'accesso è chiunque ne faccia richiesta, senza che questi debba motivare il proprio interesse (e non solo gli interessati); le eccezioni all'accesso vanno interpretate più restrittivamente di quanto non avvenga per la l. n. 241, alla luce dell'importanza dell'interesse all'ambiente.
Questa ampiezza dell'accesso in materia ambientale è stata peraltro confermata anche dal recente d.lgs. 20.4.2013 n. 33, che ha ampliato gli obblighi di trasparenza e pubblicità in capo a tutte le amministrazioni pubbliche, prevedendo che anche in relazione al governo del territorio (si pensi a piani e strumenti urbanistici) gli atti debbano essere sottoposti a pubblicazione – anche prima dell'approvazione – e che tale adempimento ne costituisca condizione di efficacia.
Sotto il profilo della partecipazione, invece, la Convenzione internazionale di Aarhus ne prevede la possibilità non solo per procedimenti relativi a singoli interventi (come nella l. n. 241/1990), ma anche per quelli di adozione di piani e programmi, nonché di regolamenti (che invece sono ne esclusi ai sensi dell'art. 13 l. n. 241/1990; sulla convenzione si veda Scotti, E., Partecipazione e ambiente: la convenzione di Aarhus, in www.apertacontrada.it, 2010). Nel nostro ordinamento la partecipazione per piani e programmi è nella disciplina della VAS. La partecipazione è favorita poi mediante la pubblicità delle iniziative e dei progetti, la possibilità di intervento a tutti i soggetti interessati, nonché con strumenti quali l'inchiesta pubblica, istituto in Italia ancora privo di una disciplina generale, in grado di consentire osservazioni orali, referendum, indagini (si veda Casini, L., L'inchiesta pubblica. Analisi comparata, in Riv. trim. dir. pubbl., 2007, 43).
Abbiamo del resto già osservato come i problemi sul piano del principio di legalità siano stati affrontati mediante la tendenza a consentire nella maniera più ampia possibile partecipazione ed accesso a tutti i soggetti interessati. Ed è evidente come tale ampliamento debba comunque convivere con l'irrinunciabile principio di non aggravamento del procedimento.
Si è anticipato come la trasversalità dell'ambiente si sia generalmente tradotta in un innesto di procedimenti ambientali in procedimenti più complessi: si pensi ai procedimenti per l'insediamento delle attività produttive (d.lgs. n. 112/1998).
In questo quadro si collocano i procedimenti ambientali più importanti: VIA, VAS e AIA.
La VIA, che ha funto anche da modello per la VAS e l'AIA, è la Valutazione di impatto ambientale di un progetto; la VAS è la Valutazione ambientale strategica, per piani e programmi che riguardino un'area; l'AIA, Autorizzazione integrata ambientale, verifica l'incidenza inquinante di un impianto.
La VIA è richiesta per gli interventi che possano avere impatti negativi significativi su ambiente e patrimonio culturale; è obbligatoria per alcuni progetti, per altri va richiesta dopo verifica di assoggettabilità, ed è invece esclusa nei casi di urgenza e calamità.
È caratterizzata da una duplice natura, sia tecnica, di verifica dell'impatto del progetto, che discrezionale, di ponderazione dell'interesse ambientale con gli altri interessi in gioco, e questa duplice natura è particolarmente rilevante sia per la ricostruzione dell'istituto che per il sindacato giurisdizionale.
Essa sostituisce autorizzazioni, intese, concessioni necessarie per la realizzazione e l'esercizio dell’opera o dell'impianto, inglobando anche l'AIA nei casi previsti. Può essere anche solo di competenza regionale, sulla base della dimensione del progetto o della competenza all'autorizzazione.
Il relativo procedimento si caratterizza, in estrema sintesi, per la redazione di un elaborato tecnico da parte del proponente, la pubblicità dell'iniziativa (anche con una sintesi non tecnica e pubblicità a mezzo stampa), la comunicazione alle amministrazioni interessate, la partecipazione (consentita a qualunque interessato e mediante presentazione di memorie e documenti e attraverso l'inchiesta pubblica, che può essere richiesta dall'amministrazione), nonché per il ricorso alla conferenza di servizi. Il procedimento comunque è caratterizzato da continui momenti di confronto e negoziazione tra cittadino e amministrazione (art. 21, d.lgs. n. 152/2006).
In caso di inerzia nell'adozione della valutazione vengono attivati dei poteri sostitutivi e comunque, anche in caso di esito positivo, è pur sempre richiesto un provvedimento finale che stabilisca se l'opera debba essere compiuta. Sono inoltre previsti controlli e monitoraggi.
La VAS, il cui procedimento è per molti versi simile, è invece adottata contestualmente al progetto di pianificazione, che importa collaborazione tra le autorità, e la natura vincolante del parere motivato conclusivo.
L'AIA infine è un procedimento di autorizzazione, che mira alla prevenzione di ogni forma di inquinamento, con riferimento ad un particolare progetto. In questo caso viene indetta una conferenza di servizi.
Dall'esame degli istituti della l. n. 241/1990 in chiave ambientale e dei procedimenti ambientali appare confermato il limitato spazio che, in presenza dell'interesse ambientale, può essere riservato alla semplificazione. Essa viene vista con sospetto, perché potenzialmente dannosa per l'ambiente (Dell'Anno, P., op. cit., 305), anche se comunque, almeno in qualche ipotesi, è irrinunciabile: certamente opera per superare possibili duplicazioni (si vedano i rapporti tra AIA, VIA e VAS, art. 10 d.lgs. n. 152/2006, di consultazione art. 14, d.lgs. n. 152/2006), così come in alcune ipotesi previste dal legislatore (si vedano gli artt. 112, 118-bis, co. 4-bis, 249, 252 co. 4, 266, co. 7, d.lgs. n. 152/2006, procedure semplificate sono previste dagli artt. 214 ss., d.lgs. n. 152/2006 in tema di rifiuti). In un'ottica di comprensibilmente cauta apertura verso la semplificazione si può leggere, ad esempio, la recente introduzione dell'AUA (Autorizzazione Unica Ambientale), adottata in sostituzione di ogni comunicazione, notifica ed autorizzazione per le piccole e medie imprese e per impianti non soggetti ad AIA, e rilasciata tramite il Sportello Unico delle Attività Produttive (comunque fatta salva la disciplina sulla VIA, la disciplina è contenuta all'art. 23, d.l. n. 5/2012, conv. con modif. nella l. n. 35/2012).
Molti profili pubblicistici sono presenti infine in tema di responsabilità. Dopo una prima fase in cui si è fatto ricorso a categorie e strumenti civilistici per la tutela dell'ambiente, la legge n. 349/1986 ha introdotto una disciplina autonoma della responsabilità per danno che poi, sulla scia del diritto europeo, è stata modificata e oggi è contenuta nel Codice.
Il Codice dà grande importanza al danno ambientale, che finalmente definisce come «qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell'utilità assicurata da quest'ultima» (art. 300, d.lgs. 152/2006), in particolare in riferimento alle specie ed agli habitat naturali protetti, alle acque interne (costiere e ricomprese nel mare territoriale), al terreno.
Vista la gravità delle conseguenze del danno, al centro della parte VI del Codice relativa al risarcimento del danno ambientale è in realtà posto il potere di intervento per evitare pregiudizi (artt. 301 ss., d.lgs. 152/2006): l'operatore deve avvertire immediatamente del pericolo le autorità pubbliche ed intervenire, il Ministero dell'ambiente può chiedere informazioni e che vengano adottate delle misure, quando non voglia adottarle esso stesso; misure possono comunque essere sollecitate da qualunque soggetto pubblico o privato interessato. I provvedimenti (che devono essere istruiti, motivati, proporzionati e ragionevoli) sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo o in via amministrativa.
Le misure possono essere adottate facendo ricorso al principio di precauzione (art. 301, d.lgs. n. 152/2006 ) quando non vi siano certezze circa il rischio, e comunque per garantire un elevato livello di tutela dell'ambiente: le misure devono essere proporzionate, non discriminatorie, basate su ponderazione di costi-benefici, su una valutazione scientifica obiettiva e aggiornabile.
In caso di verificazione del danno, la peculiarità della disciplina risiede nella centralità del ricorso al risarcimento in forma specifica: la misura da adottare è infatti il ripristino, al quale il danneggiante deve provvedere, anche in accordo con l'amministrazione, a proprie spese. Qualora questi non intervenga o il ripristino non sia completo o corretto, l'amministrazione provvederà, reperendo presso il danneggiante le risorse necessarie.
L'amministrazione può imporre la tutela riparatoria con ordinanza esecutoria, adottata dopo istruttoria, nei confronti del responsabile o del soggetto nel cui interesse sia stato commesso l'illecito (313, d.lgs. n. 152/2006) e, in caso di mancato ripristino, anche parziale, con una seconda ordinanza il pagamento dei costi sostenuti per il ripristino. Tali provvedimenti sono impugnabili innanzi al giudice amministrativo.
La tutela risarcitoria può essere chiesta nel corso di un processo civile o penale (art. 311, d.lgs. n. 152/2006). In questo caso l'azione giurisdizionale è solo in capo al Ministero dell'ambiente, per evitare il proliferare del contenzioso: agli enti locali, ai cittadini ed alle associazioni ambientaliste residua solo un potere di denuncia e di sollecitazione al Ministro per la promozione dell'azione di risarcimento, fatta salva la possibilità di ricorrere contro l'eventuale inerzia o provvedimento negativo del Ministero (artt. 309 e 310, d.lgs. n. 152/2006) o per il pregiudizio derivante dal danno all'ambiente (ma non per il danno all'ambiente in sé).
In merito agli elementi dell'illecito, di recente il nostro ordinamento si è adeguato all'ordinamento comunitario, il quale prevedeva per le attività ad alto rischio la responsabilità a titolo oggettivo, mentre per le altre attività il criterio è del dolo e della colpa, finora l'unico applicato (art. 298 bis). Rimane comunque sempre ineludibile l’obbligo di provare la sussistenza di un nesso causale tra condotta dell'operatore e danno provocato (C. giust., Sez. Grande, 9.3.2010, in C-378,379,380/2008).
Il discorso sulle situazioni giuridiche soggettive viene posto in fondo, dopo avere definito i poteri che l'ordinamento attribuisce all'amministrazione.
In riferimento ai singoli, si è assistito prima al riconoscimento al cittadino di una tutela rispetto alle esalazioni modulata sulla tutela del diritto di proprietà, mediante il criterio della vicinitas proprio delle immissioni, configurando un diritto soggettivo all'ambiente (esalazioni, Cass., S.U., 9.4.1973, n. 999); in seguito si è legata la tutela dell'ambiente alla tutela della salute, e quindi al diritto fondamentale alla salute (inteso come salubrità dell'ambiente Cass., S.U., 6.10.1979 n. 5172, in relazione ad opere di depurazione), incomprimibile dall'amministrazione (ma, per inciso, questo non esclude poteri dell'amministrazione, ad esempio ampliativi), che con la l. n. 349/1986 ha visto riconosciuto un radicamento innanzi al giudice ordinario (art. 18).
La successiva riflessione, attesa l'acquisita consapevolezza dell'inadeguatezza di una configurazione di stampo appropriativo nei confronti dell'ambiente, oggetto piuttosto di fruizione, ha condotto a sottolineare in primo luogo l'importanza del profilo del dovere (Fracchia, F., Lo sviluppo sostenibile, Napoli, 2010), e quindi un profilo passivo. A conferma si veda l'art. 3 ter, d.lgs. n. 152/2006, secondo il quale enti e persone pubbliche e private devono garantire la tutela dell'ambiente, e il citato art. 3 quater.
In secondo luogo, è apparso sempre più evidente come la tutela dell'ambiente avvenga mediante l'intermediazione della pubblica amministrazione, e come detto interesse sia affidato anzitutto alla cura dell'amministrazione, la quale agisce mediante rilevanti poteri autoritativi conferiteli dalla legge. Di conseguenza, al di là dei profili penalistici, la tutela giurisdizionale ha luogo innanzi al giudice amministrativo, e tale scelta ha indotto la dottrina a qualificare come cd. interesse legittimo la situazione giuridica alla quale fanno riferimento i cittadini.
Uno studio sulle situazioni giuridiche non può essere affrontato in questa sede. Ma non vi è certamente dubbio che il cittadino abbia la possibilità di tutela avverso un provvedimento amministrativo adottato nell'esercizio di poteri di tutela dell'ambiente, paesaggio, territorio (Esposito, G.M., Tutela dell'ambiente e attività dei pubblici poteri, Torino, 2008, 244), se identifichi il bene leso ed esista un collegamento stabile con esso (così reinterpretando la nozione di vicinitas). Si tratta peraltro di un giurisdizione in larga parte esclusiva, che per ampia porzione rientra anche nell'urbanistica ed edilizia, e comunque concerne i provvedimenti adottati in situazioni di emergenza, la gestione del ciclo dei rifiuti, i provvedimenti del Sindaco in alcune materie, l’esercizio di industrie insalubri o pericolose, il danno all’ambiente (in particolare, art. 133, co. 1, lett. o)-s), d.lgs. 2.7.2010, n. 104, nonché la materia degli accordi, nella quale rientrano le forme di programmazione negoziata - convenzionata). La giurisdizione civile o contabile è più limitata (nel primo senso artt. 238 e 262, d.lgs. n. 152/2006, nonché quando un bene sia assegnato all'utilizzabilità di tutti o in cui comportamenti dell'amministrazione minino l'integrità dell'ambiente e quindi del cittadino, v. Gallo, C.E., L'ambiente e le situazioni giuridiche soggettive, in Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di R. Ferrara, cit., I, 401 e 417; nel secondo senso art. 313, d.lgs. n. 152/2006).
Parallelamente, la richiesta di tutela dell'ambiente da parte di una generalità di soggetti è stata a lungo disattesa, in quanto qualificata come un interesse diffuso e quindi, in quanto adespota, incapace di essere personalizzata e di essere fonte di legittimazione processuale; e di qui configurata come un interesse di mero fatto, irrilevante e non sindacabile.
Dopo i primi tentativi della Corte dei conti, sulla base della ricostruzione del danno erariale, di presentarsi come giudice degli interessi diffusi, con la famosa decisione del Cons. St., sez. V., 9.3.1973, n. 253 è stata riconosciuta legittimazione processuale alle associazioni ambientaliste, in virtù di una posizione differenziata e legittimante, da riscontrarsi grazie al fine statutario della salvaguardia del patrimonio naturale e al riconoscimento governativo; la decisione poi è stata prima contraddetta dalla Cassazione, che ha disconosciuto gli interessi diffusi, in quanto privi di un sostrato sostanziale (Cass., S.U., 8.5.1978, n. 2207); il Consiglio di Stato poi (Cons. St., A.P., 19.10.1979, n. 24) ha chiesto che questi interessi dovessero essere qualificabili come legittimi ai fini di una tutela giurisdizionale.
A partire dall'art. 13, l. n. 349/1986 si è così previsto un meccanismo di individuazione ministeriale delle associazioni ambientali (carattere nazionale o comunque presenza in almeno cinque regioni, si deve tenere conto delle finalità e della democraticità dell'ordinamento previsto dallo statuto, continuità dell'azione, rilevanza esterna), che riconosce loro un interesse sostanziale, personalizzato, concreto, differenziato, ma non esclusivo, in quanto comunque ogni altra associazione può dimostrare, volta per volta, la legittimazione all'impugnazione degli atti illegittimi e all'intervento nei giudizi per danno ambientale (attualmente non ancora alle articolazioni locali). Come già si è osservato, con il Codice ora le associazioni possono presentare al Ministro denunce e osservazioni, chiedere l'intervento statale, impugnare provvedimenti adottati in violazione delle norme sul risarcimento del danno (il ricorso al giudice amministrativo in questi casi può essere preceduto da una opposizione indirizzata al Ministero dell'ambiente art. 310, d.lgs. n. 152/2006), ma non ricorrere per il danno ambientale. Rimane comunque possibile l'impugnazione da parte delle associazioni dei provvedimenti illegittimi lesivi degli interessi ambientali ex art. 18 della legge n. 349/1986. Alle associazioni sono anche forniti poteri processuali da discipline di settore (art. 13, l. 6.12.1991, n. 394, art. 14, l. 28.12.1993, n. 549, art. 146, d.lgs. 22.1.2004, n. 42). Sul versante procedimentale la legittimazione è riconosciuta a tutti i soggetti, che siano portatori di interessi individuali, diffusi o collettivi, quando paventino un pregiudizio dal provvedimento (artt. 9-10, l. n. 241/1990); ma alle associazioni riconosciute sono anche riconosciuti poteri consultivi, di vigilanza e controllo in settori specifici (si vedano l’art. 34, d.lgs. 152/2006, così come gli artt. 4 e 5, l. 25.1.1994, n. 70 ).
Un ultimo riferimento va fatto all'asserita tendenza al superamento (o alla commistione) di una regolazione improntata al command and control in favore di un maggiore uso di strumenti di mercato: il primo meccanismo, fondato su obblighi e divieti, giudicato rigido e centralista, tendenzialmente incapace di innestare meccanismi spontanei di miglioramento (gli standard devono essere precisi, e questo richiede informazioni difficili da ottenere, costose e precise, da controllare spesso e che spesso gli operatori non hanno interesse a fornire); laddove maggiori risultati sono attesi in particolare dal ricorso ad incentivi-disincentivi (si farà riferimento in particolare a Cafagno, M., Principi e strumenti di tutela dell'ambiente. Come sistema complesso, adattativo, comune, Torino, 2007, che più di tutti ha studiato questo tema).
Tra gli strumenti adottati per “orientare” i comportamenti dei consumatori verso produttori e prodotti virtuosi si fa ricorso alle certificazioni alle imprese che rispettino determinati standard fissati in particolare dalle istituzioni europee: in questo modo migliorano l'informazione, la reputazione degli operatori, la fiducia. Le certificazioni possono provenire dal mercato (ad. es. ISO) o da autorità pubbliche (ECOLABEL comunitari). In ogni caso si tratta di strumenti di mercato, conformati da autorità pubbliche, ideati per correggere le distorsioni del mercato stesso. Nel caso di certificazioni che provengono dal mercato, si può scegliere per l'accreditamento o forme di abilitazione dei certificatori. Si possono certificare inoltre non solo i prodotti, ma anche l'organizzazione (ISO4001, EMAS), per l'adozione di una politica ambientale che si ponga degli obiettivi, sia sottoposta a controlli, e tenda al miglioramento continuo; in questo caso non c'è uno standard, ma è certificata l'implementazione corretta della procedura che consente la certificazione, che nel caso dell'EMAS (in cui i poteri pubblici assumono un ruolo più rilevante) vede una dichiarazione ambientale dell'impresa in cui si espone la situazione attuale e le azioni da intraprendere, e in cui intervengono dei verificatori ambientali qualificati.
Le amministrazioni inoltre possono scegliere di dare un peso al rispetto dell'ambiente in sede di contrattazione, in questo modo orientando le imprese a certi standard (si veda l’art. 83, d.lgs. 12.4.2006, n. 163), o dando agevolazioni procedimentali (v. supra).
Ancora, la fissazione autoritativa di un prezzo a risorse ambientali altrimenti libere e disponibili, produce atteggiamenti virtuosi degli operatori (le tasse per le emissioni saranno sopportate da chi affronterebbe costi troppo alti per eliminare le emissioni, ma comunque spingerà a ridurle). Stessa funzione hanno anche i sussidi, anche se onerosi per la collettività.
Un meccanismo più evoluto consiste nella creazione di mercati artificiali, quali quello dei permessi di inquinamento, o i certificati verdi e bianchi. Una volta che l'autorità stabilisce una quantità di beni-diritti, il prezzo viene fissato dal mercato, e i certificati che circolano li rappresentano. Nel caso dei certificati verdi, ogni produttore di energia elettrica deve per legge produrre una percentuale di energia da fonti rinnovabili: nel caso in cui non possa rispettare questo parametro, può comprare dei certificati, i quali attestano la produzione di energia da fonti rinnovabili da parte di altri produttori. I certificati bianchi sono relativi a progetti di risparmio energetico, approvati dall'AEEG.
Rimane discusso che alla regolazione command and control si stia sostituendo una regolazione incentivante, sia perché comunque è più ampia la crescita di disposizioni del primo tipo che del secondo, sia perché spesso questa trasformazione si riduce alla sostituzione di autorizzazioni con autocertificazioni, mancano gli incentivi economici e anzi i costi dell'amministrazione spesso vengono fatti ricadere sugli operatori (es. SISTRI), il che è disfunzionale all'attivazione di nuovi regimi (Dell'Anno., P., op. cit., 305 ss.). Inoltre sono mancate verifiche ex ante e ex post sugli strumenti di mercato, il coordinamento dei regolatori; la regolazione stessa, episodica, di pessima fattura, spesso modificata, lascia molti dubbi sulla propria opportunità ed efficacia.
D. lgs. 3.4.2006 n. 152; l. 8.7.1986, n. 349; d.P.R. 24.7.1977, n. 616; d.P.R. 21,4.1998, n. 112; l. 7.8.1990, n. 241; d. lgs. 19.8.2005, n. 195.
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