Abstract
L’ambiente è stato espressamente menzionato nella Costituzione solamente nel 2001, e unicamente in riferimento al riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni.
Alla dottrina e alla giurisprudenza, in particolare costituzionale, è toccato il compito, sempre più urgente con l’accrescere dell'importanza dell’ambiente nell’ordinamento, di rinvenirne un fondamento nella Costituzione
L’ambiente costituisce così una sfida per i giuristi, alla ricerca di una definizione condivisa, di una collocazione tra i principi e i diritti indicati dalla Costituzione, della delineazione delle materie che lo menzionano e di una ragionevole ricostruzione del riparto di competenze tra Stato e Regioni.
Una menzione espressa dell’ambiente nel testo della Costituzione italiana viene introdotta solo nel 2001 (l. cost. 18.10.2001, n. 3). Essa è collocata nel titolo V della parte II, all’art. 117, il quale disciplina il riparto di competenze legislative tra Stato e Regioni: al secondo comma si affida alla esclusiva legislazione statale la «tutela dell'ambiente, dell'ecosistema e dei beni culturali» (lett. s), mentre il terzo comma attribuisce alla competenza concorrente Stato-Regioni la «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». L’art. 116, inoltre, rende possibile l’attribuzione alle Regioni di ulteriori forme e condizioni di autonomia nell’ambito di alcune materie indicate dall’art. 117, secondo comma, (tra le quali la lettera s), e di tutte le materie di cui al terzo comma del 117.
Non costituisce una singolarità il riferimento all’ambiente in una carta fondamentale, e neppure la recente introduzione, dal momento che l’ambiente stesso in un certo qual modo è una scoperta recente. Solo negli anni Sessanta infatti vi si è fatto riferimento a livello internazionale e si è manifestata l’esigenza di una tutela condivisa, la quale si è poi concretizzata in un riconoscimento formale, nel 1972, con la dichiarazione di Stoccolma, e con il successivo e conseguente moltiplicarsi delle affermazioni di principio, nonché degli strumenti giuridici per garantirne l’effettività. Non che mancassero ovviamente discipline regolatrici delle acque, o dei rifiuti, che oggi riconduciamo all’ambiente (si pensi all’antica Roma, per tutti Di Porto, A., La tutela della “salubritas” fra editto e giurisprudenza. Il ruolo di Labeone, Milano, 1990), ma la categoria giuridica acquista una sua dignità e diffusione in quegli anni.
Non a caso, le Costituzioni che espressamente vi fanno riferimento sono state redatte o riformate successivamente agli anni settanta: in Europa la Costituzione greca, che configura come un dovere pubblico la protezione dell’ambiente naturale e culturale (1975, art. 24), la Costituzione spagnola (1978, art. 45), portoghese (art. 9), sino a quelle delle repubbliche sovietiche (sui profili comparati, tra i lavori più recenti si v. Cordini, G., Diritto ambientale comparato, in Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di P. Dell’Anno e E. Picozza, Padova, I, 2012, 101); a livello mondiale sono più o meno 150 le Carte che hanno inserito la protezione dell’ambiente nel proprio articolato (non quella statunitense, ad esempio).
Studi comparati mostrano come sovente la tutela dell’ambiente venga posta tra i principi fondamentali. Si afferma un diritto all’ambiente dal contenuto positivo (a godere di un ambiente sano) e negativo (ad essere tenuti indenni da sostanze tossiche), di dimensione individuale e collettiva, con valenza sostanziale e procedurale: la maggior parte delle Costituzioni affermano in primo luogo il dovere dei poteri pubblici di tutelare l’ambiente; poi, in un decrescendo, il diritto dell’individuo a godere di un ambiente sano, il dovere individuale di tutelare l’ambiente, misure procedurali.
Per quanto non sia possibile trarre conclusioni certe, studi recenti sostengono l’influenza positiva delle disposizioni costituzionali sulla legislazione, sulla considerazione dell’ambiente da parte dei giudici, sullo stato complessivo della tutela (si v. sul punto Boyd, D. R., The environmental rights revolution, A Global Study of Constitutions, Human Rights, and the Environment, University of British Columbia Press, 2011).
Quanto alle formulazioni, in Europa, una delle prime e più esaustive è contenuta nella Costituzione spagnola, la quale da un lato fa riferimento a diritti dei singoli e doveri pubblici nello stabilire il diritto di ciascuno a godere dell’ambiente, nonché al dovere di conservarlo, collegando l’ambiente allo sviluppo della persona; dall’altro attribuisce ai poteri pubblici la vigilanza sulla razionale utilizzazione di tutte le risorse naturali, nella prospettiva della protezione e il miglioramento della qualità della vita, della difesa e del ripristino dell’ambiente, della solidarietà collettiva.
La Legge Fondamentale tedesca dal 1994 invece, all’art. 20A, concentra l’attenzione solo sul ruolo dei poteri pubblici, limitandosi a prescrivere che lo Stato assuma la tutela delle naturali condizioni di vita anche nei confronti delle generazioni future.
Al contrario, sebbene nella Costituzione francese solo nel 2004 sia stata introdotta la tutela dell’ambiente, ora risulta proclamata la fedeltà non solo alla Dichiarazione del 1789 e alla Costituzione stessa, ma anche ai diritti e doveri indicati dalla Carta dell’ambiente: in questo modo tutta la carta è stata costituzionalizzata, a partire dal diritto di ogni individuo a vivere in un ambiente equilibrato e rispettoso della sua salute, indicato dall’art. 1, e al dovere di contribuire alla conservazione e miglioramento dell’ambiente: l’accento è posto sul cittadino, e l’ambiente è visto in sua funzione.
Sebbene non sia possibile approfondire il tema, è evidente che le Costituzioni europee rinvengono una comune forza trainante nella Unione europea, fin dal 1987: già allora nel Trattato si richiedeva un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente (art. 3.3) e che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente venissero integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile (art. 11).
Un primo confronto già evidenzia come nella Costituzione italiana non sia esplicitamente enunciato alcun principio relativo all’ambiente, né vi sia un riferimento a diritti e doveri dei soggetti privati; in via indiretta sono ricavabili gli obblighi rivolti alle istituzioni pubbliche, in quanto, se la disciplina della tutela dell’ambiente è di competenza statale, vi sarà un obbligo dello Stato di tutelare l’ambiente, così come la valorizzazione sarà un dovere in capo allo Stato e alle Regioni. L’assenza di qualunque formulazione di principio sull’ambiente si accompagna peraltro anche all’evidente mancanza di riferimenti al principio dello sviluppo sostenibile o ai diritti delle generazioni future, che si ritrovano nella Costituzione francese e ancor più nelle Costituzioni asiatiche, africane e sudamericane (queste ultime in particolare hanno dato grande rilievo all’ambiente, si pensi alla brasiliana, la quale vi dedica un intero capitolo, trattando dell’educazione ambientale, o alla ecuadoriana, che riconosce diritti inalienabili alla natura stessa).
I pochi riferimenti all’ambiente nella Costituzione italiana evidentemente non permettono di risolvere diverse questioni, a partire dalla ricostruzione della nozione giuridica (per una rassegna delle questioni, si v., ad es., Grassi, S., Problemi di diritto costituzionale dell’ambiente, Milano, 2012; tra i contributi più recenti Amirante, D., Profili di diritto costituzionale dell’ambiente, in Trattato di diritto dell’ambiente, cit., 233).
Non solo il termine “ambiente” non aiuta a delineare i confini della nozione, in quanto generico (Cecchetti, M., Principi costituzionali per la tutela dell’ambiente, Milano, 2000, 11): etimologicamente esso delinea “tutto ciò che sta intorno” (così come nelle altre lingue europee, environment inglese, environnement francese, umwelt tedesco), ma esso è anche ambiguo, in quanto ci si deve chiarire se ci si riferisca all’ambiente cd. naturale, o all’ambiente cd. antropizzato, sul quale cioè sia intervenuto l’uomo: considerare e quindi tutelare solo il primo sarebbe inadeguato, in quanto ciò che ci circonda è anche l’esito continuo dell’opera, difficile nella sua stessa valutazione, dell’uomo.
Bisogna inoltre interrogarsi anche sulla prospettiva dalla quale si guarda all’ambiente. Si sono infatti confrontate due visioni: una antropocentrica, la quale legge ciò che sta intorno in funzione dell’uomo, e una visione ecocentrica, nella quale l’attenzione è posta alla casa (lett. oikos) in cui l’uomo è ricompreso, che si ritiene debba essere tutelata di per sé, anche-anzitutto difendendola dall’uomo. Se da un lato il diritto è prodotto dell’uomo e per l’uomo, dall’altro la prospettiva ecocentrica risulta utile, in quanto ricorda come l’uomo stesso sia solo una componente del sistema: in questa chiave di lettura risulterebbe meno chiara la ricostruzione di un diritto dell’individuo all’ambiente, se non si tenesse conto che questi ne è al tempo stesso artefice perturbatore. Per questo al diritto fondamentale si affianca e/o contrappone l’interesse pubblico.
L'impostazione del dibattito giuridico nostrano sull’ambiente presenta delle peculiarità, in quanto non prescinde, in nessuna trattazione, dal confronto con la nota tripartizione di Giannini (Giannini, M.S., Ambiente: saggio sui diversi suoi aspetti giuridici, in Riv. trim. dir. pubbl., 1973, 15), secondo il quale non era possibile ricostruire in materia unitaria la disciplina giuridica dell’ambiente, e quindi ricavare dello stesso una univoca nozione, in quanto ad esso si riferivano normative molto diverse, a tutela del paesaggio e dei beni culturali, a difesa di acqua, aria e suolo dagli inquinamenti, al governo del territorio.
Con questa tesi, che ancora costituisce il modello al quale ricorrere o contrapporsi, si sono confrontati i tentativi di ricostruzione unitaria dell’ambiente, che hanno tratto spunto di volta in volta o dalla legislazione (dalla l. 8.7.1986, n. 349, istitutiva del Ministero dell’ambiente, alla disciplina della VIA, originariamente contenuta nella l. 22.2.1994, n. 146) ovvero da altre scienze, quali la scienza dell’ecologia (secondo Caravita di Toritto, B., Diritto dell’ambiente, Bologna, 2005, 30, la tutela dell’ambiente perseguirebbe la conservazione dell’«equilibrio ecologico» della «biosfera o dei singoli sistemi di riferimento»).
Alcuni autori invece, sulla scia di Giannini, hanno ritenuto o impossibile ricondurre ad unità i profili di rilevanza giuridica, in quanto molteplici (agricoltura, forestazione, bonifiche, ricerca mineraria, energia, caccia e pesca, ecc., in Predieri, A., Paesaggio, Enc. dir., Milano, 1981, XXXI, 507), o hanno fatto convergere gli stessi nelle due macroaree dell’assetto del territorio – nel quale far confluire anche la tutela del paesaggio – e della tutela della salute dagli inquinamenti (Capaccioli, E.-Dal Piaz, F., Ambiente (Tutela dell’), Nss. D. I., App. 1980, 258).
Nel corso di questi anni le tre aree identificate da Giannini hanno accentuato i propri profili di specialità: in particolare la seconda viene oggi identificata come il nucleo del diritto dell’ambiente, seppure permanga una continua interazione e interferenza con gli altri due ambiti, il diritto del paesaggio e dei beni culturali e il governo del territorio (urbanistica ed edilizia); il diritto dell’ambiente può anche essere considerato in condizione di superiorità rispetto agli altri due settori, ma senza possibilità di confusione.
Nella disciplina che tutela acqua, aria, suolo, fauna, flora viene così rinvenuto un nucleo comune della tutela ambientale; ma vi sono anche materie che possono essere ricondotte all’ambiente, se inteso in modo più ampio (urbanistica, beni culturali, energia).
La soluzione, compromissoria e di buon senso, al dilemma dell’unità-pluralità, emersa in dottrina e giurisprudenza, evidenzia come l’ambiente possa e debba essere inteso sia come unità che nelle sue singole componenti (aria, acqua, ecc.). Altrimenti si correrebbe il rischio di una disciplina inefficace, in quanto limitata da una visione settoriale; al tempo stesso, lo smembramento potrebbe impedire una ricostruzione oggettiva dell’ambiente. Come effetto, l’unità si esprime attraverso il largo uso e richiamo a principi comuni alle diverse discipline settoriali.
Così l’estensione dell’ambiente (e quindi la sua qualificazione) appare in continua rimodulazione ed espansione: si pensi a come i rifiuti radioattivi o gli organismi geneticamente modificati siano considerati oggetto del diritto dell’ambiente (Conv. Aarhus, 25.6.1998).
Di conseguenza, proprio perché dipende anche dalle sue componenti, l’ambiente non viene inteso come un oggetto statico, ma in chiave evolutiva e dinamica; inoltre, proprio perché variamente definito, interpretato, plasmato dalle diverse scienze, la sua definizione risulta relativizzata; ancora, bisogna sempre tenere presente come la sua tutela interferisca con lo svolgimento di molteplici attività.
Prima della riscrittura del titolo V, la ricerca di un fondamento costituzionale dell’ambiente è stata tentata soprattutto a partire dagli articoli 9 e 32 Cost.
In particolare è parso un riferimento idoneo l’art. 9, co. 2, allorché stabilisce che la Repubblica «tutela il paesaggio e il patrimonio storico e artistico della Nazione».
Chi ha definito il paesaggio come «la forma del paese, creata dall'azione cosciente e sistemica della comunità umana» (Predieri, A., Significato della norma costituzionale sulla tutela del paesaggio, in Studi per il ventesimo anniversario dell’Assemblea Costituente, vol. II, Firenze, 1969, 381 ss, 387), che comprende «ogni preesistenza naturale» e «ogni intervento umano», vi ha conseguentemente ricompreso sia l’urbanistica che l’ambiente, in un’ottica pan-paesaggistica (Predieri, A., op. ult. cit., 512). Inoltre, anche ad opera della Corte costituzionale, vi è stata l’estensione del riferimento al paesaggio, dalle bellezze naturali (C. cost., 24.7.1972, n. 141) al «valore culturale» (C. cost., 29.12.1982, n. 239), ad «ogni elemento naturale e umano attinente alla forma esteriore del territorio» (C. cost., 3.3.1986, n. 39).
La riconduzione dell’ambiente al paesaggio ha ampliato a dismisura quest’ultima nozione; in compenso la tutela dell’ambiente è apparsa collocabile tra i principi fondamentali contenuti nella Costituzione. Certo, il sovradimensionamento dell’art. 9 sembra paradossale, laddove si ricordi come la previsione fosse stata ritenuta persino inutile in sede di Assemblea costituente, ma è apparso giustificato dal mutato spirito dei tempi.
Altro riferimento, citato in aggiunta a quello dell’art. 9, è stato rinvenuto nell’art. 32, il quale prevede la tutela della salute come fondamentale diritto dell’individuo e interesse della collettività, e mira a garantire la salubrità dell’ambiente nell’interesse dell’integrità fisica (sostenuto sia da Cass., S.U., 9.3.1979, n. 1463 e 6.10.1979, n. 5172, che da C. cost., 28.5.1987, n. 210 e 30.2.1987, n. 641). Così si è ipotizzata l’esistenza di un «diritto alla salubrità» degli ambienti di vita e di lavoro, incomprimibile anche dalla pubblica amministrazione nell’esercizio dei suoi poteri discrezionali, in quanto fondato sulla tutela costituzionale della persona umana. In particolare l’interesse collettivo alla tutela della salute ha fornito all’ambiente una ricostruzione conforme tanto all’idea di diritto della persona quanto all’interesse pubblico (si v. Giampietro, F., Diritto alla salubrità dell’ambiente, Milano, 1980).
Altri articoli invocati, a corollario, sono stati in particolare il 2, in virtù del riferimento ai diritti inviolabili dell’uomo e ai doveri inderogabili di solidarietà politica, economica e sociale; il 44, che pone obblighi e vincoli alla proprietà terriera al fine di conseguire il razionale sfruttamento del suolo e di stabilire equi rapporti sociali e preannuncia provvedimenti a favore delle zone montane (anche se, più che la sostenibilità ambientale, il costituente aveva in mente lo sviluppo agricolo).
La progressiva emersione dell’importanza dell’ambiente ha però al contempo reso evidente come non fosse adeguata la collocazione nelle norme costituzionali che si riferissero ad altri beni.
Anche in assenza di una chiara indicazione testuale, la giurisprudenza ha comunque ricostruito la tutela dell’ambiente, definendone contorni e confini.
La Corte dei conti aveva costruito l’ambiente come «bene pubblico», per esercitare la giurisdizione in materia di “danno ambientale”, da intendere come danno all’erario (a partire dalla sentenza sul Parco Nazionale d’Abruzzo, C. conti, sez. I, 15.5.1973, n. 39 poi confermata dalle S. U. 20.12.1975, n. 108). Da un altro versante, la Cassazione aveva configurato un diritto ad un “ambiente salubre”, riconosciuto sia al singolo che alla comunità, ritenendolo un diritto fondamentale (Cass., S.U., 8.5.1978, n. 2207; Cass., S.U., 9.3.1979, n. 1463; Cass., S.U., 6.10.1979, n. 5172; in dottrina Patti, S., Ambiente (tutela dell’)nel diritto civile, in Dig. civ., I, Torino, 1987, 285). Ovviamente queste ricostruzioni sono state funzionali al fornire tutela – pubblicistica e privatistica – per i danni all’ambiente.
Lo stesso problema si è posto anche innanzi alla Corte costituzionale, sebbene risulti difficile capire quando si sia iniziato a fare riferimento all’ambiente, perché quest’ultimo, in virtù del dettato costituzionale, è stato declinato secondo il riferimento al paesaggio o alla salute, fin quando non si è fatto largo tra i due.
La Corte aveva menzionato l’ambiente già nel 1971, sebbene riconducendo la disciplina relativa alla limitazione della proprietà al paesaggio (a tutela dei beni di valore scientifico ed interesse storico, etnografico, turistico, la cui conservazione sia di interesse fondamentale per il complesso sociale al quale appartengono C. cost., 26.4.1971, n. 79).
Un primo momento di svolta si è avuto con il trasferimento delle funzioni amministrative alle Regioni a statuto ordinario (d.P.R. 15.1.1972, n. 11), in cui questo nuovo concetto di ambiente è stato messo alla prova.
In relazione alla sistemazione idrogeologica, la conservazione del suolo, la protezione della natura (C. cost., 24.7.1972, n. 142, ma anche 12.11.1974, n. 257 e 12.5.1977, n. 72), la Corte ha così avuto occasione di precisare che una politica ecologica non può venire adeguatamente realizzata se non sulla base di una «visione unitaria», e con strumenti i cui effetti siano estesi a tutto lo Stato: l’«interesse nazionale» giustifica così la sottrazione all’autonomia regionale legislativa-amministrativa, ma sono fatti salvi gli interventi regionali non contrastanti, a tutela di quella parte dell’ambiente più strettamente connessa ai propri interessi (agricoltura e foreste); non è considerata contraddittoria la scelta del legislatore di prevedere l’audizione delle Regioni, e in caso di intreccio con materie regionali (agricoltura, urbanistica), sono da invocare “forme di collaborazione” (C. cost., 14.7.1976, n. 175 e 4.7.1974, n. 203). Pur con tutti i distinguo, a questo approccio, dotato di profonda razionalità, in quanto dettato dal livello e dall’importanza dell’interesse, la Corte è rimasta saldamente legata anche in seguito. Negli anni successivi la giurisprudenza ha poi intensificato i riferimenti all’ambiente (sulla caccia, C. cost., 27.6.1973, n. 93 e 25.3.1976, n. 57), e in alcune pronunce, in particolare relative a convenzioni internazionali, confermato come solo lo Stato sia in grado di valutare le esigenze e gli interessi ecologici di scala nazionale (Ramsar, C. cost., 23.7.1980 n. 123 e 25.7.1984, n. 223).
Il secondo punto di svolta si è avuto con l’istituzione del Ministero dell’Ambiente, che ha sancito il radicamento dell’ambiente nell’ordinamento.
Poco prima la Corte, con l’ord. 22.6.1983, n. 184, seppure sbrigativamente, aveva considerato l’ambiente un “bene” costituzionalmente rilevante e poi nella sentenza 27.6.1986, n. 151 affermatone il “valore” in merito alla tutela di zone di particolare interesse ambientale, sebbene la disciplina fosse riferibile al paesaggio (ritenuto valore primario, insuscettibile di essere subordinato a qualunque altro, come poco prima sostenuto da C. cost., 1.4.1985, n. 94 e 21.12.1985 n. 359).
Nella prima delle due fondamentali sentenze di questo periodo, la n. 210/1987, la Corte ha: richiamato nuovamente il valore, ma stavolta riferendosi esplicitamente all’ambiente; dato atto della tendenza ad inquadrare la tutela dell’ambiente come «diritto fondamentale della persona ed interesse fondamentale della collettività»; fatto riferimento al dibattito relativo all’unità-pluralità dell’ambiente, osservando la tendenza verso una concezione unitaria del bene ambientale, comprensiva e delle risorse naturali e di quelle culturali, indicando così anche la contiguità tra ambiente e paesaggio; tentato di perimetrarne l’ambito, affermando che esso «comprende la conservazione, la razionale gestione ed il miglioramento delle condizioni naturali (aria, acqua, suolo e territorio in tutte le sue componenti), l’esistenza e la preservazione di patrimoni genetici terrestri e marini e di tutte le specie animali e vegetali che in essi vivono allo stato naturale ed in definitiva la persona umana in tutte le sue estrinsecazioni»; infine rinvenuto il fondamento, in consonanza con la citata giurisprudenza civilistica sul diritto all’ambiente salubre, negli artt. 9 e 32 Cost., come fonti di valori costituzionali primari.
Nella di poco successiva sentenza n. 641/1987 la Corte ha approfondito l’analisi, tentando di risolvere il problema unità-pluralità dell’ambiente, considerando quest’ultimo un bene immateriale «unitario» sebbene «a varie componenti», ciascuna delle quali può anche costituire, isolatamente e separatamente, oggetto di cura e di tutela; in merito al parametro costituzionale, ribadito che la tutela dell’ambiente, in quanto elemento determinativo della qualità della vita, deve considerarsi imposta anzitutto da precetti costituzionali (artt. 9 e 32 Cost.), affermandone il valore primario ed assoluto (v. anche C. cost., 30.12.1987, n. 617). Però ne ha sottolineato “l’autonomia”, in particolare dall’art. 9, in quanto la tutela non è una finalità naturalistica o estetizzante, ma necessaria alla collettività.
Diventa centrale in questi anni il dibattito sulla collaborazione tra Stato e Regioni: la Corte assegna allo Stato il compito di definire la consistenza dell’interesse della collettività alla difesa ambientale di una determinata area, e perciò affida alla discrezionalità del legislatore nazionale di stabilire le particolari forme di cooperazione fra le Regioni e lo Stato, seppure nei limiti dei criteri di ragionevolezza (C. cost., 15.11.1988, n. 1031). Del resto, queste sentenze sempre più spesso si sono confrontate con il dPR 24.7.1977, n. 616, che prevedeva il trasferimento delle funzioni amministrative in tema di protezione della natura (C. cost., 15.11.1988, n. 1029), e sulla base di quella disciplina la Corte ha invocato forme di collaborazione (C. cost., 29.10.1987, n. 344 e 15.6.1989, n. 337, la cui assenza ha anche comportato l’illegittimità della legge statale; la n. 151/1986 su disciplina statale paesaggistica e regionale urbanistica).
A seguito di queste sentenze non viene sopito il dibattito tra unità e pluralità dell’ambiente, che ad esempio vede a favore della soluzione pluralistica il giudice amministrativo, il quale aveva rifiutato che esistesse un «bene ambiente» di per sé tutelabile, e sosteneva la configurabilità di una pluralità di beni giuridici, oggetto di distinte tutele, per convenzione ricadenti sotto il termine “ambiente” (Cons. St., sez. IV, 11.4.1991, n. 257; Cons. St., sez. IV, 28.2.1992, n. 223).
Riguardo però alle altre enunciazioni, le pronunce della Corte successive non hanno contraddetto le posizioni assunte. La giurisprudenza degli anni novanta ha riconosciuto un’autonomia alla protezione dell’ambiente, al di là dei settori che attraversa e che ricadono in diverse competenze (C. cost., 27.7.1994, n. 356), così come affermato che l’integrità ambientale sia un bene unitario (C. cost., 3.2.1994, n. 21). Ci si è preoccupati piuttosto di cercare un equilibrio tra ambiente e iniziativa economica (secondo C. cost., 16.3.1990, n. 127 il limite massimo di emissione inquinante non potrà mai essere superiore a quello tollerabile per la salute e l’ambiente: ma, rispettato il limite, l’autorità non può imporre nuove tecnologie, capaci di ridurre ulteriormente il livello d’inquinamento, se eccessivamente costose).
La menzione dell’ambiente nel nuovo titolo V ha indirizzato la riflessione verso il riparto tra Stato e Regioni e, in assenza di definizioni e prescrizioni, ha legittimato il forte ruolo di supplenza assunto dalla Corte costituzionale; l’inserimento quasi surrettizio ha comunque costituito un punto di riferimento per il rafforzamento dell’importanza dell’ambiente riscontrato negli ultimi anni.
La formulazione del 2001, che prevede «la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema» ad opera della sola legislazione statale, di fatto ha condotto l’ambiente nell’ambito della sfera dei poteri pubblici, con il riconoscimento di un interesse pubblico, in mancanza dell’indicazione testuale di un diritto fondamentale. L’idea del diritto ad un ambiente salubre, che almeno nel testo manca, avrebbe infatti più agevolmente condotto a ritenere la tutela dell’ambiente riconducibile ad un diritto della persona.
La formulazione è rimasta ambigua: vi è chi ha notato come il termine “ambiente” potrebbe richiamare la citata prospettiva antropocentrica, mentre il termine “ecosistema” la prospettiva ecocentrica. Ugualmente non è chiaro cosa si intenda come “bene ambientale”: se legislazione e giurisprudenza sembrano intendere «ambiente» e «beni ambientali» come sinonimi (si v. ad es. la l. 8.7.1986, n. 349, o C. cost., 10.2.2006, n. 51), eventualmente identificando i secondi come aspetti del primo, si è anche sostenuto che con l’espressione si voglia fare riferimento all’utilità (anzitutto economica) ricavabile dall’ambiente (Porena, D., La protezione dell’ambiente tra Costituzione italiana e “Costituzione globale”, Torino, 2009, 239).
E così, se la tutela attiene evidentemente alla conservazione, difesa, preservazione, la valorizzazione ricomprende per la Corte «ogni attività diretta a migliorare le condizioni di conoscenza e conservazione dei beni ambientali e ad incrementarne la fruizione» (C. cost., 13.1.2004, n. 9), e così l’uso del bene, il godimento.
A seguito della riforma del titolo V, per un primo periodo in consonanza con la giurisprudenza precedente, la tutela dell’ambiente è stata intesa come un valore (C. cost., 26.7.2002, n. 407), autonomo (e quindi diverso, ad esempio, dalla salute), definito «bene unitario» (C. cost., 20.12.2002, n. 536). L’affermazione del valore ha posto così in secondo piano il tema della ricostruzione di un diritto o un dovere all’ambiente.
In virtù di questa scelta, la tutela è stata esclusa dal novero delle materie “in senso tecnico”, sul presupposto che non tutti gli ambiti materiali specificati nel comma 2 dell’art. 117 possano configurarsi come “materie” in senso stretto, poiché in alcuni casi si tratta più esattamente di competenze del legislatore statale idonee ad investire una pluralità di materie. Proprio alla luce dell’idea dell’ambiente come non-materia e come valore, la tutela è stata ricostruita come una materia “trasversale”, che incrocia competenze regionali e statali (come la tutela della concorrenza, C. cost., 13.1.2004, n. 14, sul parallelismo con l’ambiente v. D’Alberti, M., La tutela della concorrenza in un sistema a più livelli, Dir. amm., 2004, 715). La ricostruzione come una “non materia” ha lasciato, correlativamente, prevalere la tesi dell’ “immaterialità” dell’ambiente.
Si è delineata così una materia priva di propria consistenza (in continuità con il vecchio titolo V), ricompresa in altre materie, e negata una sfera di competenza circoscritta e delimitata, in virtù dell’intreccio della tutela con altri interessi e competenze.
Le competenze concorrenti collegate alla tutela dell’ambiente comunque risultano molteplici: tutela della salute, protezione civile, tutela e sicurezza del lavoro, governo del territorio, produzione, trasporto e distribuzione nazionale dell’energia, ricerca scientifica e tecnologica e sostegno all’innovazione per i settori produttivi, per fare riferimento solo alle materie di competenza concorrente, oltre alla «valorizzazione dei beni culturali e ambientali». Anche materie ricondotte alla competenza residuale delle Regioni, hanno sicura attinenza: agricoltura, foreste, industria, commercio, artigianato, caccia e pesca (oltre che produzione, trasporto e distribuzione regionale e locale dell’energia; reti di trasporto e navigazione regionali e locali).
La Corte in questa fase ha precisato che la trasversalità e l’affermazione dell’ambiente come valore servano a non escludere legittimazione alle Regioni (e quindi a sottrarre degli ambiti), così da conciliare determinazioni nazionali e la competenza regionale (C. cost., 24.6.2003, n. 222).
Ma in merito alla competenza delle Regioni in tutela d’ambiente, se la Corte ha limitato la competenza regionale alla cura di «interessi funzionalmente collegati» con quelli propriamente ambientali, per soddisfare ulteriori esigenze rispetto a quelle di carattere unitario definite dallo Stato (C. cost. n. 407/2002), ha precisato anche che, nell’esercizio della potestà concorrente o di quella “residuale”, una Regione possa assumere fra i propri scopi anche finalità di tutela ambientale (C. cost., 7.10.2003, n. 307). Quindi una tutela funzionale e indiretta rispetto a quella statale.
Sulla base di questo quadro, secondo la Corte, il legislatore statale può intervenire per le esigenze meritevoli di disciplina uniforme sull’intero territorio nazionale, con il potere di fissare standard, i quali però, inevitabilmente, si pongono come limite alla legislazione regionale, la cui ampiezza della competenza risultante costituisce il punto controverso.
La Corte ha affermato l’inderogabilità degli standard dalle leggi regionali, perché già la legislazione statale costituisce bilanciamento tra diversi interessi (C. cost. n. 307/2003 sull’inquinamento elettromagnetico, in cui sono in gioco la salute e la costruzione di impianti di interesse nazionale).
La Corte, dopo avere escluso che le Regioni potessero stabilire degli standard in pejus. (C. cost. n. 536/2002, tantomeno le Regioni a Statuto speciale; cfr. C. cost., 18.3.2005, n. 108), ha così negato anche le deroghe in melius, in tema di salute, comunicazione, energia, territorio (C. cost. n. 307/2003). L’indirizzo si pone evidentemente il compito di risolvere sia il problema del nimby che delle distorsioni della concorrenza che deriverebbero dalla coesistenza di regimi differenti a livello nazionale.
In questi primi anni di applicazione del titolo V, caratterizzati da entusiasmo regionalista, si sono fatte largo sia un’interpretazione restrittiva della competenza statale di definizione degli standard, con conseguente riduzione dello spazio di intervento del legislatore nazionale, che l’idea che la trasversalità creasse un intreccio delle competenze che si dovesse poi tradurre in una competenza “sostanzialmente condivisa-concorrente” (in questo senso, C. cost. n. 108/2005 e 6.4.2005, n. 135). Del resto, in carenza di menzione dell’ambiente nella Carta costituzionale, era stata fornita supplenza dalle competenze relative al territorio, settore per vocazione affidato alle funzioni amministrative delle Regioni. L’effetto è stato, dal punto di vista amministrativo, il forte coinvolgimento di altri livelli territoriali, sul piano legislativo, la possibilità di lasciare ampi margini alla legislazione regionale. Il tutto, attraverso un richiamo continuo al principio di leale collaborazione: proprio perché praticamente in ogni disciplina si presentavano intrecci con altre discipline, si è ritenuto che andassero previste forme di intesa (si v. C. cost., 29.1.2005, n. 62).
In questa fase sono rare le ipotesi nelle quali si sia affermata in maniera chiara una prevalenza dell’interesse nazionale (C. cost. n. 307/2003 e n. 62/2005). Tuttavia la Corte, sebbene non innovando esplicitamente, almeno in un’occasione ha chiaramente fatto presente alle Regioni che comunque esse avevano perso competenze, e non guadagnate (C. cost. n. 62/2005).
In maniera coerente con quanto avvenuto in altri settori, il 2007 ha segnato in maniera evidente il passaggio ad una fase di rafforzamento delle competenze statali. L’accentuazione del centralismo statale in materia di ambiente, testimoniato anche dal neo-Codice dell’ambiente (d. lgs., 3.4.2006, n. 152) è stato il naturale esito del fatto che le esigenze unitarie richiedono l’esercizio unitario delle competenze (Romano, A., Intervento al convegno L'Ambiente è sviluppo, Gazzetta ambiente, 5/2005, 16 ; Id., Osservazioni Conclusive, Annuario 2002 AIPDA, 2003, 590).
La Corte si è finalmente assunta l’incarico, in supplenza del legislatore, di offrire all’interprete una nozione di ambiente. A partire dalla sentenza 14.11.2007, n. 378 (preceduta da C. cost., 7.11.2007, n. 367 sul paesaggio) si stabilisce che l’ambiente non è un bene immateriale, ma un «bene della vita, materiale e complesso», per il quale è prevista la tutela e la salvaguardia delle qualità e degli equilibri delle sue singole componenti, oggetto di discipline dedicate (cfr. l’estensore, Maddalena, P., L’interpretazione dell’art. 117 e dell’art. 118 della Costituzione secondo la recente giurisprudenza costituzionale in tema di tutela e di fruizione dell’ambiente, Riv. giur. amb., 2011, 735).
La nozione che la Corte adotta proviene dalla citata Dichiarazione di Stoccolma del 1972, che fa riferimento alla “biosfera”, la quale non è considerata solo per le sue componenti, ma anche per le interazioni tra queste. La nozione in questo modo è intesa in termini generali ed onnicomprensivi, ed oggetto della tutela è quella parte di biosfera che riguarda il territorio nazionale (C. cost., 18.4.2008, n. 104): l’ambiente è presentato così come un’entità organica.
La Corte inoltre riprende l’inciso del 1987 per affermare che l’ambiente è un valore “primario ed assoluto”. La giurisprudenza civile ed amministrativa negli anni aveva continuato a citare quella pronuncia, dimenticata dalla Corte stessa (altro es. Cass., sez. III, 3.2.1998, n. 1087), la quale declinava questi attributi per la salute, o ancor più raramente per il paesaggio: il più esplicito era stato il giudice amministrativo, nell’indicare che l’ambiente, in virtù dei caratteri di primarietà ed assolutezza, costituisce un limite ad altri interessi (governo del territorio, valorizzazione dei beni culturali in Cons. St., sez. VI, 29.1.2013, n. 533; libertà di locomozione e di iniziativa economica in Cons. St., sez. VI, 28.1.2011, n. 654 e sez. V, 3.2.2009, n. 596; all’art. 41 e 42 Cons. St., sez. VI, 21.9.2006, n. 5552).
La Corte stabilisce che la materia non è un interesse pubblico, ma “un oggetto”, e sulla stessa cosa materiale le diverse normative disegnano diversi beni giuridici, sulla base degli interessi (come nel caso dei boschi e foreste, per i quali la funzione economico-produttiva rientra nella competenza delle Regioni mentre la tutela nella competenza statale, C. cost. n. 104/2008, o nei casi in cui si afferma che il profilo economico-produttivo delle acque minerali e termali è regionale, laddove la tutela della potabilità delle stesse acque è statale, C. cost., 14.1.2010, n. 1). Si stabilisce così che possono coesistere beni giuridici diversi, in quanto le singole componenti o i singoli aspetti dell’ambiente facciano riferimento ad interessi distinti. Al tempo stesso si chiarisce anche la distinzione tra materie, quali tutela dell’ambiente e salute, in quanto non diversi valori, ma in quanto aventi oggetti diversi (C. cost., 22.7.2009, n. 225, sulla quale Cioffi, A., L’ambiente come materia dello Stato e come interesse pubblico. Riflessioni sulla tutela costituzionale e amministrativa, Riv. giur. amb., 2009, 970).
La tutela dell’ambiente diventa oggettiva, perché assume ad oggetto un bene della vita, e finalistica perché ne mira alla conservazione. Il livello di tutela deve essere elevato, si afferma, richiamando il dettato comunitario (C. cost., 23.10.2013, n. 9).
La Corte inoltre rilegge la trasversalità nel senso della “prevalenza dell’interesse statale alla tutela dell’ambiente” rispetto all’interesse di cui possa farsi portatrice la Regione, che riguarda solo un aspetto o componente, e questa rilettura si traduce in limiti alla relativa azione (C. cost. n. 378/2007 e n. 9/2013): il potere dello Stato non consiste nel fissare una tutela minima, che le Regioni integrino, ma di decidere della tutela, con la possibilità di contestare le Regioni che dovessero porsi in contrasto con la disciplina nazionale: in questo senso gli standard non devono intendersi come minimo di tutela fornita, ma come la tutela adeguata e non riducibile indicata dal Parlamento (C. cost., 5.3.2009, n. 61).
Giacché poi sul bene della vita ambiente concorrono competenze distinte per finalità, non esisterebbe più possibilità di intreccio, ma solo di “concorso di competenze” (in questo senso, molto chiaramente in C. cost. n. 225/2009). Ciò consentirebbe di escludere il ricorso al cd. “principio di prevalenza”, che la Corte adotta per decidere della competenza, nel caso di pluralità di competenze, consentendo allo Stato di legiferare, purché per l’esercizio delle funzioni amministrative ricorra un’intesa forte (quindi insuperabile) con le Regioni. In realtà la giurisprudenza successiva ha continuato a fare ricorso al principio di prevalenza (C. cost. n. 9/2013), affermando che nel caso di sovrapposizione, la prevalenza vada semplicemente assegnata alla legislazione statale (C. cost., 12.12.2012, n. 278). Alla luce di questi indirizzi, mentre prima del 2007 la competenza trasversale significava necessità di far convivere le competenze regionali, ora la competenza trasversale comporta la prevalenza della competenza statale e rende le competenze regionali recessive (C. cost. n. 9/2013).
Rimane non sufficientemente chiarito, e quindi da valutare caso per caso, il profilo relativo alla cd. tutela indiretta, in quanto si conferma che le Regioni possono disporre livelli di tutela più alta nell’esercizio delle proprie competenze (C. cost. n. 61/2009), visto il possibile conflitto con gli standard che lo Stato vuole imposti. Si continua comunque ad escludere la possibilità di una tutela regionale più elevata nei casi in cui la legge statale debba ritenersi inderogabile, essendo quest’ultima frutto di un bilanciamento tra più interessi eventualmente tra loro in contrasto (C. cost., n. 225/2009).
Così come rimane affidato alla valutazione caso per caso il bilanciamento tra valori: è evidente infatti che il riferimento a “primarietà ed assolutezza” non può escludere la ponderazione con altri valori. La Corte (C. cost., 9.5.2013, n. 85, caso Ilva), nel tornare a riferirsi alla nozione di «ambiente salubre», ha precisato che sia il diritto al lavoro che all’ambiente salubre sono fondamentali, così che l’ambiente e/o la salute non vanno ritenuti al primo grado assoluto di una rigida gerarchia. La primarietà implica l’impossibilità del sacrificio del valore, ma il principio di proporzionalità e di ragionevolezza costituiscono criterio di equilibrio (si v. anche C. cost., 13.7.2011, n. 209 con la libera iniziativa economica, punto 6.4). Ragionevolmente, ne fa le spese l’enunciazione di assolutezza, esclusa espressamente nella sentenza n. 85/2013 per l’ambiente o la salute, per far posto a proporzionalità e ragionevolezza.
Il riparto di competenze normative incide poi sulla distribuzione delle funzioni amministrative. Lo Stato, ai sensi dell’art. 118 Cost. può riservarsi le relative funzioni, ovvero assegnarle alle Regioni o ad altri enti territoriali, o ancora prevedere il coinvolgimento di organi statali, regionali, locali (C. cost. n. 225/09): in ogni caso l’affermazione della competenza esclusiva in tema di tutela non impone da sola più forme d’intesa o di collaborazione tra diversi livelli territoriali nello svolgimento di funzioni amministrative, proprio perché la competenza è esclusiva e non “condivisa”.
Risulta evidente la discrasia tra l’attuale ruolo dell’ambiente nell’ordinamento e il testo della Costituzione. Non risulta al passo la formulazione dell’art. 117 Cost., così come la ricostruzione dell’ambiente da ricavare dagli artt. 9 e 32: salute e ambiente sono considerati dalla giurisprudenza distinti e, come noto, il rapporto paesaggio-ambiente genus-species si è ribaltato (si v. la giurisprudenza che ha ritenuto il paesaggio l’aspetto visivo dell'ambiente, C. cost., 22.7.2009, n. 226 e 21.10.2011, n. 275). Una riformulazione, ad es. dell’art. 9 Cost., avrebbe invece il pregio di risistemare gli oggetti e di fornire una formalizzazione ad un sistema che nel corso degli anni si è trasformato.
Non a caso, nonostante la riforma costituzionale fosse stata da poco varata, nel 2004 si è proposta la modifica dell'art. 9 Cost., al fine di introdurvi un riferimento all’ambiente (De Leonardis, F., L’ambiente tra i principi fondamentali della Costituzione, www.federalismi.it ). Il testo prevedeva l’aggiunta di un terzo comma, secondo il quale la Repubblica «tutela l’ambiente e gli ecosistemi, anche negli interessi delle future generazioni. Protegge la biodiversità e promuove il rispetto degli animali» (progetto di legge costituzionale n. 4307). In questo modo la tutela dell’ambiente, e di questa parte del dettato dell'art. 117, co. 2, sarebbe stata collocata tra i principi fondamentali. Inoltre il progetto di riforma in un primo momento aveva definito oggetto della tutela l’ambiente naturale (senza riferimento a quello antropizzato) in tutte le sue forme, affiancato però ad altre nozioni (biodiversità, ecosistema, animali).
Risulta improbabile che le riforme costituzionali possano nel prossimo futuro inserire l’ambiente tra i principi fondamentali, o che nella seconda parte ci possa essere un’estensione della qualificazione dell’ambiente. Tuttavia, se è vero che la menzione in una Costituzione garantisce una migliore tutela, questo nodo andrà sciolto, prima o poi.
L. cost., 18.10.2001, n. 3; l. 8.7.1986, n. 349; l. 22.2.1994, n. 146; d. lgs. 3.4.2006, n. 152; d.P.R. 15.1.1972, n. 11.
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