Abstract
L’Unione europea svolge, da tempo, un ruolo centrale nell’ambito della tutela dell’ambiente, che è diventata una politica e un obiettivo inserito nei Trattati. Gli interventi dell’Unione, in linea con gli obiettivi fissati dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, sono realizzati nel pieno rispetto di principi quali quello di prevenzione, di precauzione, di correzione alla fonte e “chi inquina paga”. Questi principi risultano sviluppati anche nei numerosi atti di diritto derivato adottati dall’Unione europea e nel Settimo programma di azione in materia di ambiente e consentono ormai di delineare caratteristiche proprie, anche nel contesto internazionale, dell’azione dell’Unione europea in questo settore.
La realizzazione della politica ambientale dell’Unione europea è oggi assicurata dal titolo XX del Trattato sul funzionamento dell’Unione europea, adottato a Lisbona il 13.12.2007 (in vigore dal 1°.12.2009) e, in particolare, dagli artt. 191, 192 e 193, che attribuiscono una competenza di natura concorrente all’Unione. Il rilievo che ha assunto, nel corso degli anni, la tutela dell’ambiente nel contesto dell’Unione europea, diventata attore di primo piano sullo scenario internazionale, è oggi evidente ed è desumibile sia dal numero davvero ingente di atti di diritto derivato vincolanti (oltre 450 tra direttive, regolamenti e decisioni), sia dalla circostanza che, accanto al nucleo centrale di norme specificamente dedicate all’ambiente, all’interno dei Trattati sono presenti altre disposizioni che pongono la protezione dall’inquinamento, anche in ragione del principio di integrazione di cui all’art. 11 TFUE (che riprende l’art. 6 del Trattato CE), come centrale nell’attività delle istituzioni dell’Unione con riferimento alla realizzazione di altre politiche.
Eppure, nel Trattato istitutivo della Comunità economica europea del 25.3.1957 non era individuata una competenza dell’allora Comunità in materia di ambiente, in ragione del fatto che il Trattato aveva una finalità prettamente economica, con il principale obiettivo di realizzare il mercato interno, e che le tematiche di lotta all’inquinamento nella fase di ricostruzione successiva alla seconda guerra mondiale non erano particolarmente sentite, tenendo conto che l’obiettivo prioritario era la ricostruzione economica.
Tuttavia, malgrado questa lacuna, proprio mentre era in svolgimento la Conferenza delle Nazioni Unite conclusasi con la Dichiarazione di Stoccolma del 5.6.1972 sull’ambiente umano che lanciò il monito “Only one world”, l’allora Cee adottò la prima comunicazione in materia di ambiente (22.7.1971) nella quale si stabilì che la protezione e il miglioramento dell’ambiente facevano già parte dei compiti assegnati alla Comunità, rientrando implicitamente o esplicitamente negli obiettivi dell’organizzazione, come ribadito anche nel Vertice di Parigi del 1972 che definì i nuovi campi di azione della Comunità, incluso quello ambientale. È stata poi la Corte di giustizia dell’Unione europea (allora Cee), partendo dalla constatazione che «la tutela dell’ambiente costituisce uno degli obiettivi essenziali della Comunità» in grado di limitare la libera circolazione delle merci in quanto esigenza imperativa (C. giust., 7.2.1985, C-240/83, Adbhu, punto 13 e poi ripreso, dopo l’adozione dell’Atto Unico europeo, nelle sentenze C. giust., 20.9.1988, C-302/86, Commissione c. Danimarca, punto 8; C. giust., 2.4.1998, C-213/96, Outokumpu, punto 32) a fornire, con alcune sentenze significative, la base giuridica per legittimare interventi settoriali in materia di lotta all’inquinamento. La Corte ha così non solo consentito l’approvazione di misure in materia ambientale, legittimando l’adozione degli interventi delle istituzioni in base agli artt. 100 e 235 secondo i quali se un’azione della Comunità risultava necessaria per il funzionamento del mercato comune e per realizzare uno degli scopi della Comunità era possibile utilizzare la norma in esame esercitando i poteri di azione necessari, ma ha anche ritenuto legittimo l’intervento di alcuni Stati funzionale a limitare, a patto del rispetto del principio di proporzionalità, libertà espressamente garantite dal Trattato come, ad esempio, quella della libera circolazione delle merci. L’adozione di numerosi atti specificamente rivolti alla tutela dell’ambiente, pur in assenza di una specifica base giuridica, ha così condotto a interventi non solo sporadici, ma anche di carattere strutturale in grado di tracciare la strada per la costruzione di una vera politica ambientale – diventata obiettivo fondamentale dell’organizzazione – basata su principi e criteri specifici del contesto territoriale europeo e condurre poi all’integrazione delle istanze ambientali in altri settori di competenza dell’Unione, incluse le politiche economiche e sociali. Così, in questo cammino, si è arrivati alla successiva introduzione della tutela dell’ambiente all’interno dei Trattati. Ciò è avvenuto, per la prima volta, con l’Atto Unico europeo del 17.2.1986, in vigore dal 1°.7.1987, che ha dedicato il titolo VII all’ambiente (pur nel contesto delle azioni della Comunità e non delle politiche vere e proprie), seguito dal Trattato di Maastricht del 7.2.1992 (in vigore dal 1°.11.1993), da quello di Amsterdam del 2.10.1997 (in vigore dal 1°.5.1999) che, tenendo conto anche degli sviluppi sul piano internazionale e, in particolare, della Dichiarazione di Rio del 5.6.1992 sull’ambiente e lo sviluppo (cd. “vertice per la terra”), ha sancito l’integrazione dell’ambiente in tutte le politiche dell’Unione, evidenziando il legame tra crescita economica e tutela dell’ambiente nell’ottica di uno sviluppo armonioso, equilibrato e sostenibile. Il progressivo rafforzamento dell’obiettivo di protezione ambientale, continuato anche con il Trattato di Nizza del 26.2.2001, in vigore dal 1°.2.2003 (nonché nel Trattato che adotta una Costituzione per l’Europa, firmato a Roma il 29.10.2004 e mai entrato in vigore, di cui all’art. III-233-234), ha poi condotto al Trattato di Lisbona, che riprende i principi e gli obiettivi già presenti nei precedenti Trattati dando, però, esplicito rilievo ai cambiamenti climatici (una novità, questa, anche rispetto alla cd. Costituzione europea) che, in effetti, sono considerati una vera e propria sfida come risulta dalla Comunicazione del 29.6.2011 intitolata «Un bilancio per la strategia Europa 2020», con la quale la Commissione europea ha dichiarato che «intende aumentare la proporzione del bilancio dell’Unione destinata al clima ad almeno il 20 %, attraverso i contributi di diverse politiche». A tal proposito, l’Unione europea ha firmato l’Accordo globale sui cambiamenti climatici concluso a Parigi il 12.12.2015 e aperto alla firma a New York il 22.4.2016 (v. oltre, par. 4).
Accanto alle norme specificamente dedicate all’ambiente, all’interno del TFUE sono presenti, nell’ottica di un giusto bilanciamento tra integrazione e flessibilità, altre disposizioni in cui emergono la considerazione dell’importanza della lotta all’inquinamento e le esigenze di protezione ambientale e delle risorse naturali, in un’ottica preventiva e di tutela delle generazioni future, che comporta la necessità di permeare ogni intervento dell’Unione con le esigenze ambientali. È il caso delle regole relative alla competenza dell’Unione europea nel settore dell’energia e nell’ambito del processo di armonizzazione (va ricordato anche l’art. 13 TFUE sul benessere degli animali).
Con riguardo al primo profilo, l’art. 194 TFUE, attribuendo all’Unione una competenza in materia di energia, impone di tenere conto «dell’esigenza di preservare e migliorare l’ambiente», con ciò assicurando l’integrazione dell’ambiente in una politica ad alto tasso di impatto economico; per quanto concerne le misure in materia di ravvicinamento delle legislazioni (art. 114), è richiesto che in materia di protezione dell’ambiente la Commissione presenti proposte basate su un “livello di protezione elevato” ed è altresì previsto che gli Stati, malgrado l’adozione di una misura di armonizzazione da parte delle istituzioni UE, nell’ottica appunto dell’indicata flessibilità, possano mantenere disposizioni nazionali relative alla protezione dell’ambiente. Di particolare rilievo, poi, in linea con il passato, l’art. 11 TFUE (ex art. 6 TCE) che, nell’affermare nella cd. “clausola trasversale” il principio di integrazione, sancisce che le esigenze connesse con la tutela dell’ambiente devono essere integrate nella definizione e nell’attuazione delle politiche e azioni dell’Unione, in particolare nella prospettiva di promuovere lo sviluppo sostenibile, seguendo in questo modo quanto affermato, nel contesto globale, durante la Conferenza di Johannesburg del 2002 interamente dedicata allo sviluppo sostenibile (terminata con l’adozione della Dichiarazione di Johannesburg) e nella Conferenza Rio+20 del 2012 alla quale l’Unione europea ha dato anche un impulso preparatorio con la Comunicazione «Rio+20: verso un’economia verde e una migliore governance» (COM(2011)363, 20 giugno 2011), seguita dall’Agenda 2030 per lo sviluppo sostenibile adottata dall’Onu nel 2015.
D’altra parte, che si tratti di un obiettivo primario dell’Unione europea, è evidente dai considerando del Preambolo in cui si precisa che gli Stati membri, «determinati a promuovere il progresso economico e sociale dei popoli» e a realizzare il mercato interno, tengono conto non solo del principio dello sviluppo sostenibile, ma anche del rafforzamento della tutela dell’ambiente, in ragione della necessità di perseguire una crescita sostenibile e compatibile con la salvaguardia della salute e della natura, poiché l’integrazione ambientale in ogni settore è funzionale a diminuire le pressioni della produzione sull’ambiente naturale. Nella stessa realizzazione del mercato interno, d’altra parte, l’Unione europea individua, come fine, non solo lo sviluppo sostenibile e la crescita equilibrata, ma anche il raggiungimento di un elevato livello di tutela e di miglioramento della qualità dell’ambiente (art. 3, par. 3, TUE). Così, anche con riguardo all’azione esterna dell’Unione, l’art. 21, lett. f), TUE indirizza gli interventi verso l’adozione di misure internazionali «volte a preservare e migliorare la qualità dell’ambiente e la gestione sostenibile delle risorse naturali mondiali al fine di assicurare lo sviluppo sostenibile», che ha un valore giuridico funzionale a conciliare la tutela ambientale con la crescita economica.
Se è evidente il carattere multidisciplinare della tutela dell’ambiente, ormai politica dell’Unione ma anche obiettivo generale, e l’importanza di un ambiente non inquinato per il benessere e la salute di ogni individuo, non appare del tutto condivisibile la scelta operata con l’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali adottata a Nizza il 7.12.2000 e proclamata a Strasburgo il 12.12.2007 (vincolante in base all’articolo 6 TUE), il quale afferma, ispirandosi anche alle disposizioni di alcune costituzioni nazionali come precisato nelle «Spiegazioni relative alla Carta dei diritti fondamentali» (GUUE, C 303/07, 14.12.2007), che un livello elevato di tutela dell’ambiente e il miglioramento della sua qualità devono essere integrati nelle politiche dell’Unione e garantiti conformemente al principio dello sviluppo sostenibile. Una simile affermazione nel contesto di una Carta dedicata ai diritti fondamentali dell’uomo appare limitativa considerando che l’ambiente salubre non è affermato in modo esplicito come diritto dell’individuo (malgrado gli sviluppi giurisprudenziali nel contesto della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali grazie all’attività della Corte europea), ma piuttosto come obiettivo che gli Stati e l’Unione devono perseguire.
Per quanto riguarda l’iter legislativo funzionale ad adottare gli atti vincolanti in materia, l’art. 192 TFUE prevede il sistema della procedura ordinaria. Di conseguenza, spetta alla Commissione formulare una proposta sulla quale è chiamato a deliberare il Parlamento europeo e il Consiglio previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni. È fatta salva la possibilità, in deroga alla procedura decisionale da adoperare in via ordinaria, dell’utilizzo della procedura legislativa speciale con delibera all’unanimità nei casi di atti con disposizioni aventi principalmente natura fiscale; misure che hanno incidenza sull’assetto territoriale, sulla gestione quantitativa delle risorse idriche, sulla destinazione dei suoli, salvo che per quanto concerne la gestione dei residui; misure che incidono in modo sensibile sulle scelte di uno Stato membro in ordine alle diverse fonti di energia e alla struttura generale dell’approvvigionamento energetico. Tuttavia, l’art. 192, par. 2, co. 2, consente, anche per le indicate misure, la possibilità di procedere all’utilizzo della procedura legislativa ordinaria piuttosto che quella all’unanimità a condizione che il Consiglio deliberi in tal senso con voto unanime, su proposta della Commissione e previa consultazione del Parlamento europeo, del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni (cd. “clausola passerella”).
Se l’eliminazione della struttura in pilastri avvenuta con il Trattato di Lisbona non comporta più problemi in ordine all’individuazione della tipologia di atto da adottare visto che non esistono più le decisioni quadro, tuttavia rimane fermo il problema della scelta, in taluni casi, della base giuridica, tenendo conto che è ben possibile che un atto di tutela dell’ambiente possa essere adottato anche nel contesto della cooperazione penale. Nell’individuazione della base giuridica va tenuto presente quanto affermato dalla Corte di giustizia nella sentenza del 13.9.2005 (causa C-176/03) con la quale, nell’annullare la decisione quadro n. 2003/80/GAI sulla protezione dell’ambiente attraverso il diritto penale, la Corte ha chiarito che, nei casi in cui l’obiettivo prioritario risulti essere quello della tutela dell’ambiente, la base giuridica deve essere costituita dalle norme del Trattato rivolte a questo fine e questo anche quando vengano previste sanzioni effettive, proporzionate e dissuasive in quanto misure indispensabili di lotta contro violazioni ambientali gravi. A seguito dell’indicato annullamento è stata poi adottata, sulla base delle norme del Trattato dedicate all’ambiente, la direttiva 2008/99/CE del 19.11.2008 sulla tutela penale dell’ambiente (la Corte di giustizia ha anche annullato, con la sentenza del 23.10.2007, causa C-440/05, Commissione c. Consiglio, la decisione quadro 2005/667/GAI adottata il 2.7.2005, intesa a rafforzare la cornice penale per la repressione dell’inquinamento provocato dalle navi, già sostituita dalla direttiva 2005/35/CE del 7.9.2005, relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni).
Riguardo alla possibile sovrapposizione tra più norme, per l’individuazione della corretta base giuridica, tenendo conto sia del principio di integrazione, sia della possibilità che un atto abbia rilievo per diversi settori, la Corte di giustizia ha avuto modo di chiarire che, poiché nel Trattato è affermato che qualsiasi misura comunitaria deve rispondere alle esigenze di tutela dell’ambiente, ciò «implica che un provvedimento comunitario non può rientrare nell’azione della Comunità in materia di ambiente per il solo fatto che tiene conto di dette esigenze» (sentenza del 29.3.1990, C-62/88, Grecia c. Consiglio, relativa alla richiesta di annullamento (respinta), presentata dalla Grecia, del regolamento n. 3955/87/Cee relativo alle condizioni di importazione dei prodotti agricoli originari dei Paesi terzi a seguito dell’incidente verificatosi nella centrale nucleare di Chernobyl).
L’art. 191, par. 4, in ultimo, riconosce una competenza dell’Unione nella cooperazione con Paesi terzi e organizzazioni internazionali con la connessa possibilità di concludere accordi internazionali (senza pregiudicare la competenza degli Stati membri), anche in relazione a problemi globali che comportano la presa in considerazione di questioni legate ai cambiamenti climatici, allo sviluppo sostenibile e alla qualità dell’ambiente, dei quali l’Unione si occupa come risulta anche dalla recente comunicazione su una politica UE per l’Artico (COM(2016)21, 27.4.2016. Si veda, supra, par. 1 e oltre, par. 4, per gli interventi in materia di cambiamenti climatici).
L’art. 192 TFUE, oltre ad occuparsi dell’iter legislativo per l’approvazione degli atti di diritto derivato, al par. 3 disciplina la procedura per l’adozione dei programmi generali di azione che caratterizzano, da sempre, anche prima dell’individuazione di una base normativa certa, l’intervento dell’Unione nel campo ambientale. Ed invero, ispirata agli atti internazionali di carattere globale approvati in materia di ambiente, l’Unione europea è intervenuta, sin dal 1973, con l’adozione di Programmi di azione nel settore ambientale volti a individuare gli obiettivi da raggiungere e gli strumenti necessari per la loro realizzazione sia a livello UE sia a livello degli Stati membri, costituendo così un quadro strategico degli interventi anche di lunga durata e di ampia applicazione territoriale che, anche a seguito degli allargamenti, ha consentito di far assumere un ruolo di primo piano all’azione dell’Unione europea nel campo della tutela ambientale, dello sviluppo sostenibile e della lotta all’inquinamento.
Il testo attualmente in vigore è il Settimo programma generale di azione dell’Unione in materia di ambiente (PAA) fino al 31.12.2020 «Vivere bene entro i limiti del nostro pianeta», adottato con decisione n. 1386/2013 del 20.11.2013 (GUUE, L354, p. 171 ss., 28.12. 2013).
Il nuovo Programma, adottato secondo quanto previsto dall’art. 192, par. 3 (delibera del Parlamento europeo e del Consiglio secondo la procedura legislativa ordinaria, previa consultazione del Comitato economico e sociale e del Comitato delle regioni), tiene conto, nell’individuare gli obiettivi prioritari, che non tutto quanto previsto nel Sesto Programma con riguardo alle quattro priorità è stato realizzato con particolare riferimento ai cambiamenti climatici, alla natura e alla biodiversità, all’ambiente, alla salute e alla qualità della vita e alle risorse naturali e ai rifiuti. Tuttavia, rispetto al passato, il Programma ha una visione di ancora più lunga durata che va avanti fino al 2050, data fissata per arrivare alla realizzazione di un’economia circolare senza sprechi, con un utilizzo delle risorse in modo sostenibile e una riduzione di emissioni di carbonio. La constatazione è che gli interventi ormai consolidati dell’Unione europea hanno portato a vantaggi sugli ecosistemi e sulla qualità della vita, ma anche alla creazione di nuove opportunità economiche, con un incremento dell’industria ambientale di oltre il 50% tra il 2000 e il 2011 (si veda lo studio dell’Agenzia europea dell’ambiente L’ambiente in Europa: stato e prospettive nel 2015, reperibile nel sito www.eea.europa.eu).
Tra i nove obiettivi prioritari, specificati nell’allegato, sono indicati: a) la protezione, la conservazione e il miglioramento del capitale naturale dell’Unione; b) la trasformazione dell’economia dell’Unione in un’economia a bassa emissione di carbonio ed efficiente nell’impiego delle risorse, verde e competitiva; c) la protezione dei cittadini dell’Unione da pressioni e rischi ambientali per la salute e il benessere; d) lo sfruttamento “al massimo” dei «vantaggi della legislazione dell’Unione in materia di ambiente migliorandone l’applicazione»; e) il miglioramento delle conoscenze scientifiche della politica ambientale dell’Unione; f) la previsione di investimenti a sostegno delle politiche ambientali, tenendo conto delle esternalità ambientali; g) il miglioramento dell’integrazione ambientale e la coerenza con le diverse politiche dell’Unione; h) la sostenibilità delle città dell’Unione; i) il miglioramento dell’efficacia dell’azione dell’Unione nelle sfide ambientali e climatiche a livello internazionale. Le azioni nei settori indicati devono essere realizzate secondo i principi della “regolamentazione intelligente” e secondo una valutazione d’impatto generale. Inoltre, in modo analogo al passato, l’Unione europea assicura un monitoraggio costante attraverso l’attività della Commissione europea e dell’Agenzia europea dell’ambiente che già da tempo utilizza specifici indicatori per accertare lo stato dell’ambiente nello spazio dell’Unione (v. oltre). Nel Settimo Programma, inoltre, si evidenzia il ruolo degli Stati chiarendo che questi ultimi sono responsabili, insieme alle istituzioni competenti dell’Unione, «per l’adozione delle azioni appropriate ai fini della realizzazione degli obiettivi prioritari stabiliti nel Settimo PAA. Le azioni sono adottate tenendo in debita considerazione i principi di attribuzione, di sussidiarietà e di proporzionalità, in conformità dell’articolo 5 del Trattato sull’Unione europea» (art. 7). Va sottolineato che, in linea con il passato, per realizzare gi obiettivi fissati nel Programma, è stato adottato anche il nuovo piano di finanziamento “LIFE”, disciplinato dal regolamento n. 1293/2013/UE dell’11.12.2013 sull'istituzione di un programma per l’ambiente e l’azione per il clima (LIFE) e che abroga il regolamento n. 614/2007/CE, il quale ha stabilito una dotazione finanziaria di 3.456.655 milioni di euro a prezzi correnti (si veda anche la decisione della Commissione del 19.3.2014 sull’adozione del programma di lavoro pluriennale LIFE per il periodo 2014-2017). Questo è in linea con l’obbligo di cui all’art. 192, par. 4, in base al quale gli Stati membri sono tenuti al finanziamento e all’esecuzione della politica in materia ambientale, tenendo conto che proprio detto paragrafo richiama la possibilità per l’Unione di adottare misure di finanziamento.
Per garantire al meglio il rispetto degli obiettivi fissati nei Programmi e, più in generale, degli atti nel settore, accanto all’attività “tradizionale” della Commissione europea, l’Agenzia europea per l’ambiente (vd., www.eea.europa.eu), istituita con regolamento n. 1210/90/CEE, modificato in diverse occasioni e codificato nel regolamento n. 401/2009/CE del 23.4.2009, adotta una valutazione quinquennale contenuta in un rapporto (l’ultimo, citato sopra, è intitolato L’ambiente in Europa – Stato e prospettive nel 2015, SOER 2015). Inoltre, presso la Direzione generale sull’ambiente è attivato lo European Union Network for the Implementation and Enforcement of Environmental Law (IMPEL), con il compito di verificare il livello di attuazione del diritto derivato in materia di ambiente da parte degli Stati (per un’analisi dei dati circa le procedure d’infrazione aperte nel campo dell’ambiente si veda il sito www.ec.europa.eu, 286 nel 2015).
Nel verificare, poi, la piena attuazione sul piano della tutela ambientale è centrale il ruolo della Corte di giustizia UE che, in particolare nell’ambito dei poteri in materia di inadempimento, può adottare sanzioni nei confronti degli Stati, anche a seguito di non esecuzione di sentenze con le quali è stato constatato il mancato rispetto del diritto dell’Unione. Non è un caso che i primi interventi in questa direzione sono stati posti in essere dalla Corte proprio con riguardo a questioni “ambientali”, come ad esempio con la sentenza C. giust., 4.7.2000, C-387/97, Commissione c. Repubblica Ellenica, con la quale la Grecia è stata condannata a pagare una somma ingente per il mancato adempimento della pronuncia del 7.4.1992, C-45/91, Commissione c. Grecia, nella quale era stata constatata la non esecuzione della legislazione in materia di rifiuti, inclusa la direttiva 75/442/Cee. Anche l’Italia, con la sentenza del 16.7.2015, C-653/13, Commissione europea c. Repubblica italiana è stata condannata a pagare una somma forfettaria di 20 milioni di euro più 120.000,00 euro per ciascun giorno di ritardo nell’attuazione della sentenza del 4.3.2010, C-297/08, Commissione c. Italia, con la quale è stato accertato l’inadempimento dell’Italia che non ha adottato, per la regione Campania, «tutte le misure necessarie per assicurare che i rifiuti siano recuperati o smaltiti senza pericolo per la salute dell’uomo e senza recare pregiudizio all’ambiente», in violazione della direttiva 2006/12/CE del 5.4.2006, relativa ai rifiuti.
La politica ambientale dell’Unione europea, come delineata nel Trattato, prende in considerazione sia l’ambiente nella sua visione naturale con specifico riferimento alla tutela delle risorse naturali per la quale è richiesta un’utilizzazione accorta e razionale in vista, evidentemente, dei diritti delle generazioni future (seppure non espressamente richiamati), sia nella sua prospettiva antropocentrica, considerando la protezione della salute umana che ha anche un’apposita, autonoma regolamentazione nell’art. 168 TFUE. Ed invero, nell’individuare gli obiettivi da raggiungere e i principi da seguire nella realizzazione della politica ambientale, il Trattato di Lisbona, al pari del passato, evidenzia l’importanza degli aspetti scientifici nell’adozione degli atti settoriali perché l’Unione, proprio in base all’art. 191, par. 3, deve valutare i dati scientifici e tecnici disponibili, le condizioni dell’ambiente nelle varie regioni dell’Unione, i vantaggi e gli oneri che possono derivare dall’azione o dall’assenza di interventi, lo sviluppo socioeconomico, nonché lo «sviluppo equilibrato delle sue singole regioni». L’individuazione di detti elementi mostra la volontà evidente di raggiungere, con una certa flessibilità pur nel rispetto del principio di integrazione, un giusto equilibrio tra esigenze di protezione ambientale e crescita economica anche di singole entità territoriali e, quindi, di una precisa valutazione di impatto in ordine agli interventi dell’Unione sia sulla base dei dati scientifici disponibili (nel rispetto, però, del principio di precauzione), sia della realtà economica di alcune regioni, tenendo conto, al contempo, degli obblighi derivanti dall’art. 37 della Carta dei diritti fondamentali che richiede la realizzazione di un elevato livello di tutela dell’ambiente e di un miglioramento in prospettiva della qualità ambientale. Inoltre, proprio la previsione di cui all’art. 193 che, nell’includere una clausola di salvaguardia, ammette la possibilità per gli Stati di adottare, in via provvisoria e sotto il controllo dell’Unione, provvedimenti per una protezione ancora maggiore per motivi ambientali di natura non economica, implica un evidente favore, nel bilanciamento tra i diversi interessi in gioco, a vantaggio delle esigenze di protezione ambientale, anche sullo sviluppo socioeconomico delle singole regioni pur richiamato all’art. 191, par. 3.
Nel riprendere il contenuto dell’art. 174 TCE, l’art. 191 TFUE individua 4 obiettivi che costituiscono il cuore della strategia degli interventi dell’Unione, costituiti: dalla salvaguardia, dalla tutela e dal miglioramento della qualità dell’ambiente, con interventi finalizzati non solo al mantenimento dello status quo, ma a raggiungere un progressivo miglioramento della qualità ecologica; dalla protezione della salute umana evidentemente con specifico riferimento agli effetti negativi dell’inquinamento sull’essere umano; dall’utilizzazione accorta e razionale delle risorse naturali, tenendo conto così delle esigenze delle generazioni future e dello sviluppo sostenibile; dalla promozione sul piano esterno di misure di carattere internazionale proprio alla luce della considerazione che, per quanto possa essere ampio lo spazio di intervento dell’Unione sotto il profilo territoriale, anche alla luce degli allargamenti, non si può considerare sufficiente per il carattere globale di alcuni fenomeni, primo tra tutti quello legato al surriscaldamento e ai cambiamenti climatici.
Per realizzare la politica ambientale e raggiungere gli obiettivi fissati dall’art. 191 TFUE, l’Unione agisce tenendo conto del principio di precauzione e di prevenzione, della correzione alla fonte, della riparazione dei danni e del principio “chi inquina paga”. Si tratta di principi presenti già in passato nei Trattati, a partire dall’Atto unico europeo, nel quale mancava unicamente il richiamo al principio di precauzione (art. 130R). Detto principio, enunciato nel n. 15 della Dichiarazione di Rio sull’ambiente e lo sviluppo del 1992, prevede che «in tutti i casi in cui una preliminare valutazione scientifica obiettiva indica che vi sono ragionevoli motivi di temere possibili effetti nocivi sull’ambiente» è necessario intervenire a protezione dell’ambiente (COM(2000)1, del 2.2.2000). Pertanto, anche in presenza di incertezze sull’esistenza e sulla portata di eventuali rischi «possono essere adottate misure di protezione senza dover attendere che siano pienamente dimostrate l’effettiva esistenza e la gravità di tali rischi». Di conseguenza, se persiste la probabilità di un danno per la salute pubblica, anche se è impossibile determinare con certezza l’esistenza o la gravità dei rischi, il principio di precauzione consente l’applicazione di misure restrittive (C. giust., 17.12.2015, C‑157/14, Neptune Distribution, punto 81). Nell’applicazione del principio e, quindi, nella scelta circa l’adozione di misure, è necessario avvalersi di dati scientifici e statistici validi quantitativamente e qualitativamente, effettuare una valutazione del rischio e delle potenziali conseguenze nei casi di mancato intervento, nel rispetto del principio di non discriminazione e di proporzionalità, assicurando un costante riesame delle misure (si veda l’applicazione del principio alle questioni relative agli organismi geneticamente modificati, C. giust., 8.9.2011, cause da C-58/10 a C-68/10, Monsanto. Si vedano, altresì, sull’evoluzione nell’interpretazione del principio di precauzione, le conclusioni dell’Avvocato generale Bot, depositate il 12.5.2016, in relazione al batterio della xylella, cause C-78/16 e C-79/16, Pesce e altri, nonché la sentenza depositata il 9.6.2016).
Il principio di precauzione, come detto, ha poi trovato ampio riconoscimento nella sua qualificazione giuridica considerando che è da iscrivere in un rafforzamento dell’attività di lunga durata della prevenzione, essenziale in ogni intervento in materia di protezione dell’ambiente considerando che, in molte situazioni, un’azione ex post, anche nei casi in cui possa essere soddisfacente dal punto di vista economico, non lo è mai dal punto di vista delle risorse naturali che finiscono sempre per essere danneggiate da un fenomeno di inquinamento. A ciò si aggiunga che la predisposizione di una politica ambientale ispirata alla prevenzione mira a rafforzare la protezione dell’ambiente con la possibilità, per di più, per i singoli Stati membri di intervenire con provvedimenti idonei ad assicurare una protezione ancora maggiore. Qualora gli Stati agiscano in questa direzione e abbiano, così, la necessità di assicurare una più ampia protezione dell’ambiente, essi sono tenuti a notificare i provvedimenti nazionali – che devono essere compatibili con i Trattati – alla Commissione europea (art. 193). Inoltre, in base all’art. 114 TFUE riguardante il ravvicinamento delle legislazioni, gli Stati, come detto, possono mantenere talune disposizioni nazionali relative alla protezione dell’ambiente, notificando alla Commissione le relative disposizioni con l’indicazione dei motivi.
Per attuare i principi guida di cui all’art. 192 TFUE, con riguardo all’azione preventiva (si veda, tra le altre, la direttiva 2008/1/CE del 15.1.2008 sulla prevenzione e la riduzione integrata dell’inquinamento che ha sostituito la 96/61 del 24.9.1996), l’Unione europea ha, da diversi anni, previsto l’applicazione ad ampio raggio della valutazione di impatto ambientale (cd. “via”) che si propone di verificare in anticipo l’impatto significativo sull’ambiente di progetti individuali privati e pubblici. La cd. “via” era stata già prevista, in una direttiva, prima dell’inserimento della tutela dell’ambiente nell’AUE, e oggi trova una regolamentazione, anche per tenere conto con più attenzione della Convenzione sulla valutazione dell’impatto ambientale in un contesto transfrontaliero del 25.2.1991 (Convenzione di Espoo), nella direttiva 2014/52/UE del 16.4.2014 che modifica la 2011/92/UE concernente la valutazione dell’impatto ambientale di determinati progetti pubblici e privati (si ricordino anche la direttiva 2003/35/CE del 26.5.2003, che prevede la partecipazione del pubblico nell’elaborazione di taluni piani e programmi in materia ambientale e modifica le direttive del Consiglio 85/337/CEE e 96/61/CE relativamente alla partecipazione del pubblico e all’accesso alla giustizia), nonché nella direttiva 2001/42/CE del 27.6.2001, concernente la valutazione degli effetti di determinati piani e programmi sull’ambiente (detta direttiva «ESIE»), riguardante i programmi pubblici elaborati o adottati da un'autorità competente e che sono previsti da disposizioni legislative, regolamentari o amministrative.
Va sottolineato che in questa fase preventiva e precauzionale un ruolo strategico è svolto dalla collettività, grazie alla previsione di una partecipazione del pubblico ai procedimenti decisionali (sul ruolo delle organizzazioni non governative, cfr. C. giust., 12.5.2011, C-115/09). È evidente che, per consentire una partecipazione consapevole, deve essere previsto l’accesso alle informazioni in materia di ambiente, contesto nel quale l’Unione ha adottato la direttiva 2003/4/CE del 28.1.2003 sull’accesso del pubblico all’informazione ambientale e che abroga la direttiva 90/313/CEE del Consiglio, le cui norme, come chiarito dalla Corte di giustizia, devono essere interpretate in modo tale che non producano “un effetto dissuasivo sulle persone che intendono ottenere informazioni” e non limitino il diritto di accesso (C. giust., 6.10.2015, C-71/14, East Sussex County Council c. Information Commissioner and Others; C. giust., 16.7.2015, C-621/13, ClientEarth c. Commissione europea).
Tra l’altro, l’Unione ha adottato la decisione 2005/370/Ce del 17.2.2005, relativa alla firma, a nome della Comunità europea, della Convenzione sull’accesso alle informazioni, la partecipazione del pubblico al processo decisionale e l’accesso alla giustizia in materia ambientale (nota come Convenzione di Aarhus, adottata il 25.6.1998 nell’ambito della Commissione economica per l’Europa delle Nazioni Unite – UNECE), nonché il regolamento n. 1367/2006/CE del 6.9.2006 con il quale è stata decisa l’applicazione della Convenzione anche alle istituzioni e agli organi comunitari. La centralità del ruolo della collettività nella lotta all’inquinamento è oggi ancora più evidente con l’introduzione dello strumento dell’iniziativa dei cittadini europei (art. 11, par. 4 TUE) che ha trovato una prima attuazione proprio con riguardo alle richieste connesse all’ambiente. È stato il caso dell’iniziativa sul diritto all’acqua registrata il 10.5.2012 che ha condotto la Commissione, nella comunicazione del 19.3.2014 (COM(2014)177), a impegnarsi per un rafforzamento della legislazione in materia di qualità delle acque in linea con il Settimo Programma di azione (è in corso di svolgimento anche l’iniziativa «Stop plastic in the sea»).
Sempre con riguardo all’applicazione dei principi contenuti nel Trattato, passando, però, ad analizzare quelli applicabili ex post, ossia nei casi in cui l’inquinamento si è verificato, rispetto a quello della “correzione alla fonte” non sempre applicabile soprattutto nei casi di impossibilità di ripristino dello status quo ante, va prestata attenzione al principio “chi inquina paga” che, oltre ad essere richiamato nelle direttive settoriali, ha trovato una sua disciplina generale nella direttiva 2004/35/CE del 21.4.2004 che stabilisce norme sulla responsabilità ambientale in materia di prevenzione e riparazione del danno ambientale. In relazione a tale direttiva che presenta non pochi problemi di attuazione anche con riguardo all’onere della prova, la Corte di giustizia è intervenuta a chiarire che, nell’ipotesi in cui sia impossibile individuare il responsabile dell’inquinamento e ottenere misure di riparazione, uno Stato può adottare una legislazione che vieti «all’autorità competente di imporre l’esecuzione delle misure di prevenzione e di riparazione al proprietario di tale sito, non responsabile della contaminazione, il quale è tenuto soltanto al rimborso delle spese relative agli interventi effettuati dall’autorità competente nel limite del valore di mercato del sito, determinato dopo l’esecuzione di tali interventi» (C. giust., ordinanza 6.10.2015, C-156/14, Tamoil Italia Spa c. Ministero dell’Ambiente e della Tutela del Territorio e del Mare; C. giust., 4.3.2015, C-534/13, Fipa Group e a.).
I principi enunciati nel Trattato sono stati poi ripresi in atti di diritto derivato adottati dall’Unione europea su base settoriale, tenendo conto dei diversi corpi recettori suscettibili di essere colpiti dall’inquinamento e da perturbazioni ambientali, con particolare riferimento all’acqua, all’atmosfera, al suolo, alla fauna e alla flora (si veda la direttiva 92/43 del 21.5.1992 relativa alla conservazione degli habitat naturali e seminaturali e della flora e della fauna selvatiche). Così, sono stati adottati numerosi regolamenti, direttive e decisioni funzionali a combattere il fenomeno dei cambiamenti climatici, l’incidenza negativa di alcune attività industriali sulla qualità dell’aria, nonché ad assicurare una gestione dei rifiuti compatibile con l’ambiente, la protezione delle risorse idriche e della biodiversità, i controlli sui prodotti chimici. A titolo di esempio, nell’ambito della lotta all’inquinamento acustico, si può ricordare la direttiva 2002/49/CE del 25.6.2002 relativa alla determinazione e alla gestione del rumore ambientale; nel campo dell’inquinamento atmosferico la direttiva 2008/50/CE del 21.5.2008 sulla qualità dell’aria ambiente e per un’aria più pulita in Europa, nonché la direttiva 2015/2193/UE del 25.11.2015, relativa alla limitazione delle emissioni nell’atmosfera di taluni inquinanti originati da impianti di combustione medi; la decisione 377/2013/UE del 24.4.2013 recante deroga temporanea alla direttiva 2003/87/CE che istituisce un sistema per lo scambio di quote di emissioni dei gas a effetto serra nella Comunità; la direttiva 2010/75/UE del 24.11.2010 relativa alle emissioni industriali (prevenzione e riduzione integrate dell’inquinamento). A tal proposito, è operativo anche il Registro europeo delle emissioni e dei trasferimenti di sostanze inquinanti (www.prtr.ec.europa.eu). Per le sostanze chimiche, è stato adottato, il 18.12.2006, il regolamento 1907/2006/CE relativo alla registrazione, valutazione, autorizzazione, e restrizione delle sostanze chimiche (REACH) e che istituisce un’Agenzia europea per le sostanze chimiche (qui il sito www.echa.europa.eu). Per quanto riguarda l’acqua, si può ricordare la direttiva 2000/60/CE del 23.10.2000, che istituisce un quadro per l’azione comunitaria in materia di acque, nonché la direttiva 2006/7/CE del 15.2.2006 relativa alla gestione della qualità delle acque di balneazione e che abroga la direttiva 76/160/CEE e la citata direttiva 2005/35/CE del 7.9.2005, relativa all’inquinamento provocato dalle navi e all’introduzione di sanzioni per violazioni (v. supra, par. 2).
Molto articolato il quadro nel settore dei rifiuti che, tra l’altro, con la direttiva 75/442/CEE, è stato il primo ambito di intervento dell’allora Comunità economica europea ed è caratterizzato, in via generale, dall’adozione di misure volte a proteggere l’ambiente e la salute umana prevenendo o riducendo gli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti, comprimendo gli impatti complessivi dell’uso delle risorse, migliorandone l’efficacia. Ed invero, in quest’ambito, l’Unione ha svolto e continua a svolgere un ruolo centrale nel definire ciò che è rifiuto da ciò che non lo è e, quindi, tra recupero e smaltimento, con la conseguente diversa applicazione delle disposizioni esistenti. Si può citare, al riguardo, la direttiva 2008/98/CE del 19.112008, relativa ai rifiuti, che ha abrogato la 2006/12/CE del 5.4.2006; la direttiva 2006/66/CE del 6.9.2006, relativa a pile e accumulatori e ai rifiuti di pile e accumulatori e che abroga la direttiva 91/157/CEE; il regolamento n. 1013/2006/Ce del 14.6.2006 sulle spedizioni di rifiuti.
Nell’ottica della prevenzione e per favorire un’economia “verde”, nel pieno rispetto del principio di integrazione e di flessibilità, l’Unione è impegnata nel promuovere la diffusione di una coscienza ecologica sia tra le imprese sia tra i consumatori. In questa direzione, ad esempio, è stato adottato il regolamento n. 66/2010 del 25.11.2009 relativo al marchio di qualità ecologica dell’Unione europea (Ecolabel UE, il cui funzionamento è assicurato dal Comitato per il marchio di qualità ecologica istituito con decisione del 22.11.2010) che, seppure su base volontaria, punta alla diffusione dell’etichetta “verde” «per promuovere prodotti con minore impatto sull’ambiente durante l’intero ciclo di vita e per offrire ai consumatori informazioni accurate, non ingannevoli e scientificamente fondate sull’impatto ambientale dei prodotti». La stessa Unione, da tempo, è impegnata nella diffusione della “Corporate Social Responsibility” (CSR) ossia delle strategie di responsabilità sociale codificate nel Libro verde del 18.7.2001 «Promuovere un quadro europeo per un responsabilità sociale delle imprese». Tra gli strumenti adottati nell’ambito della responsabilità sociale di impresa si inseriscono quelli relativi all’ecogestione e all’audit ambientale introdotti con la certificazione EMAS a partire dal regolamento n. 1836/93/CEE sull’adesione volontaria delle imprese a un sistema comunitario di ecogestione e audit (poi modificato nel 2001 con il 761/2001/CE, al quale si affianca la decisione attuativa della Commissione del 7.9.2001).
Artt. 191, 192, 193 TFUE; Artt. 11 e 114 TFUE; Artt. 3, par. 3 e 21, par. 2, lett. f) TUE; art. 37 Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea.
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