Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Oltre che per le due guerre mondiali e la velocità dei cambiamenti sociali e politici, il XX secolo sarà ricordato soprattutto per la portata del mutamento ambientale verificatosi secondo modalità complesse non lineari, per cui cause e conseguenze del fenomeno risultano di difficile definizione. Crescita demografica, crescita economica e progresso tecnico hanno prodotto i tre principali tipi di questioni ambientali del presente: la perdita di risorse, il rischio ambientale, la disuguale distribuzione sociale dei costi ambientali. Il XX secolo ha prodotto anche una risposta intellettuale e politica alle trasformazioni ambientali, che prende il nome di ambientalismo, e che si declina in tre filoni distinti: il conservazionismo, l’ecoefficienza e l’ecologia politica.
Qualcosa di nuovo sotto il sole
Rachel Carson
Primavera silenziosa
Perchè la nostra primavera non sia silenziosa...
Paghiamo a caro prezzo la nostra mania insetticida. A mano a mano che la valanga dei prodotti chimici di questa nostra “Era industriale” ha sepolto l’ambiente in cui viviamo, si è verificato un radicale cambiamento nella natura dei problemi più gravi che riguardano la salute pubblica. Fino a ieri, si può dire, il genere umano viveva nella costante paura di flagelli come il vaiolo, il colera o la peste che un tempo sterminavano intere popolazioni. Ormai le nostre preoccupazioni non sono più rivolte verso gli agenti di malattie che erano onnipresenti in passato: l’igiene, il miglioramento delle condizioni di vita e la produzione di nuovi medicinali ci consentono un’efficace protezione contro le malattie infettive. Oggi le nostre apprensioni sono determinate da un rischio di tutt’altro genere, un rischio che ci sovrasta e che noi stessi abbiamo creato, ed è aumentato di pari passo con l’evolversi del nostro modo di vivere.
R. Carson, Primavera silenziosa, Milano, Feltrinelli, 1999
Qualche anno fa, per intitolare la sua storia dell’ambiente nel XX secolo (probabilmente la sintesi più aggiornata sulle questioni ambientali del Novecento), lo storico John McNeill sceglieva un titolo suggestivo e provocatorio: Something New Under the Sun . L’idea del libro era che la novità più rilevante dell’ultimo secolo fosse data dalle modificazioni dell’ambiente fisico introdotte, più o meno consapevolmente, dall’uomo. Queste modificazioni erano tali che, secondo l’autore, questo si sarebbe rivelato l’aspetto alla lunga più importante della storia di questo secolo, più ancora delle due guerre mondiali, della diffusione di comunismo e democrazia, dell’alfabetizzazione di massa e dell’emancipazione femminile. Questo non significa, naturalmente, che soltanto nell’ultimo secolo l’umanità abbia modificato in modo sostanziale l’ambiente fisico e l’ambiente vivente che la circonda: si tratta, piuttosto, di una questione di scala e di intensità. Nel XX secolo i cambiamenti ambientali sono diventati così rilevanti da trasformarsi da fenomeni locali in fenomeni globali, come testimonia la questione dell’inquinamento atmosferico e del cambiamento climatico. Questo tipo di fenomeni viene definito dall’ecologia scientifica come “effetti non lineari”: oltre una certa soglia di cambiamento, ad esempio l’aumento di temperatura dei mari presso i tropici oltre i 26 gradi centigradi, si possono determinare cicloni devastanti, che hanno la capacità di modificare il clima globale e gli ecosistemi di vaste regioni. Un cambiamento di ordine quantitativo diventa di tipo qualitativo.
La lista dei cambiamenti non lineari prodotti dall’uomo nel corso del XX secolo è piuttosto lunga, e una sua compilazione è complicata dalla tendenza che questi cambiamenti hanno a intrecciarsi tra loro: è questo, in realtà, un altro dei punti chiave di un ragionamento sulla storia dell’ambiente, ossia il concetto di complessità, o interrelazione sistemica, tra le componenti fisiche, chimiche, ma anche sociali e culturali, di ciascun ecosistema e del pianeta nel suo complesso. La riflessione su questi aspetti si è sviluppata proprio nel corso del Novecento, a partire dalle scoperte scientifiche dell’ecologia – il concetto di biosfera, ad esempio, reso celebre dallo scienziato russo Vladimir Vernadskij negli anni Trenta – e hanno conosciuto un livello di divulgazione eccezionale, come forse mai era accaduto alle teorie scientifiche prima di questo secolo. La complessità, che è il paradigma concettuale utilizzato per analizzare i fenomeni ecologici, è il codice interpretativo di un libro scritto nel 1962 da una scienziata statunitense, la biologa Rachel Carson, e destinato ad avere un enorme successo di pubblico, diventando un caposaldo del pensiero ecologico in tutto il mondo. Il libro si chiamava Silent Spring e descriveva chiaramente gli effetti cumulativi e imprevisti provocati dai pesticidi chimici sull’intera sfera del vivente, attraverso la catena alimentare e i cicli biogeochimici. Questa denuncia, circostanziata e scientificamente fondata, fu inizialmente confutata con ogni mezzo dall’industria chimica, ma costituisce ancora oggi il pilastro portante di tutta la riflessione sulla sicurezza alimentare e sull’inquinamento di suoli e acque a livello mondiale.
Dunque non linearità e complessità dei fenomeni ambientali possono essere considerati due importanti novità che riguardano tanto le modificazioni dell’ambiente terrestre nel corso del Novecento, quanto la comprensione che il genere umano ha di questi cambiamenti, o meglio, il livello di consapevolezza raggiunto dalla scienza ecologica rispetto a essi, non sempre recepito dalle altre scienze, dai governi o dall’opinione pubblica.
Tuttavia, la riflessione ecologica del XX secolo non si ferma qui: essa piuttosto parte da queste due acquisizioni, per elaborare poi un’analisi del cambiamento storico basata sulle interrelazioni reciproche tra l’ambiente fisico terrestre (il clima, la geologia, la distribuzione di risorse) e l’ambiente vivente (vegetazione, fauna, microrganismi e, naturalmente, esseri umani). Si tratta, per la storia dell’ambiente, di capire il cambiamento, anche quello sociale, culturale, economico, istituzionale, senza escludere la natura dalla trama del racconto; senza cioè collocare le vicende umane in un universo metafisico in cui il suolo, le piogge, i virus o il sole non abbiano alcuna rilevanza. In questa ottica, dunque, si possono guadagnare due prospettive diverse, tra loro collegate: la prima riguarda il ruolo che la natura, l’ambiente fisico e l’ambiente organico, hanno avuto sullo sviluppo delle vicende umane. Gli effetti del fenomeno El Niño sulle carestie che devastarono India, Brasile e Africa equatoriale dalla fine dell’Ottocento, mostrati dallo storico Mike Davis in un libro intitolato Late Victorian Holocauts; oppure l’importanza dell’ultima glaciazione nel formare le miniere di minerali e fossili che resero il Nord America la prima potenza economica mondiale nel Novecento, ricostruita da Ted Steinberg nel suo Down to Earth. Nature’s Role in American History, solo per fare qualche esempio. La seconda prospettiva consiste, all’inverso, nel guardare al ruolo che l’uomo (inteso come specie dominante all’interno delle altre specie), o meglio alcuni popoli, etnie, gruppi sociali dominanti, ha avuto nel modificare l’ambiente fisico e l’ambiente vivente (compresi altri popoli, etnie, gruppi sociali) nel corso del tempo. Evidentemente, soprattutto per quanto riguarda il Novecento, quest’ultima è la parte principale della storia. Quasi tutti i libri che trattano la storia dell’ambiente concordano su questo punto: l’età contemporanea, considerando tali gli ultimi 200 anni circa, ma soprattutto il XX secolo, ha una caratteristica del tutto propria, che la distingue da tutte le altre epoche storiche. Essa forma un salto, una discontinuità assai marcata nella linea dell’evoluzione umana e di quella geologica. In altre parole, vista nella lunga prospettiva delle epoche storiche, dalla comparsa dell’uomo in poi, l’età contemporanea si distingue per la velocità e l’intensità dei cambiamenti sostenuti dalla superficie terrestre: deforestazione, aumento della temperatura dei mari e dell’atmosfera, buco dell’ozono, superficie urbanizzata, inquinamento di aria, suoli, falde, oceani, estinzione di specie. La lista potrebbe continuare, e basta dare un’occhiata ai rapporti annuali sullo stato dell’ambiente redatti dalle organizzazioni specializzate per farsi un’idea della rapidità e intensità delle alterazioni che il pianeta nel suo complesso continua a sopportare.
L’ambiente nel “secolo planetario”
Per spiegare questa peculiarità del “secolo planetario”, come lo definisce Piero Bevilacqua nell’omonimo saggio del 1997, occorre servirsi di un’ottica storica di medio periodo, che risalga ad alcuni meccanismi chiave innescatisi a partire dalla metà del Settecento. Tre di essi rivestono un’importanza fondamentale, e sono: la crescita demografica, la crescita economica e il progresso tecnico.
La crescita demografica del XX secolo è davvero sorprendente, e non paragonabile a nessun altro fenomeno dello stesso tipo in epoche precedenti. Nel corso di soli 100 anni la popolazione mondiale si è moltiplicata per più di cinque volte, passando da un miliardo e 700 milioni a circa sei miliardi. Questo fenomeno, più di altri, dà la misura, in termini “umani”, di quella discontinuità del Novecento rispetto al continuum storico cui si accennava sopra. Inoltre, per la prima volta nella storia dell’umanità, la crescita della popolazione si è accompagnata alla crescita economica: in altri termini, non soltanto la popolazione è aumentata, ma anche il reddito medio pro capite. Ciò vuol dire che è stata la crescita economica a consentire la crescita della popolazione, garantendo una produzione di beni e prodotti agricoli enormemente superiore rispetto al passato. Ovviamente questo ragionamento è storicamente valido soltanto per i Paesi industrializzati: nei Paesi poveri, generalmente collocati nell’emisfero meridionale, la crescita della popolazione non è stata sostenuta dalla crescita economica, dunque il risultato è stato un impoverimento generale, cioè la diminuzione del reddito pro capite rispetto al passato. Vista da un punto di vista globale, la crescita economica del Novecento si configura come un gigantesco drenaggio di risorse da una parte del mondo verso l’altra; oltre a ciò, appare chiaro come l’aumento della capacità produttiva non possa di per sé accrescere anche la quantità di materia e di energia presente sulla superficie terrestre, o la capacità del pianeta di assorbire i rifiuti e le scorie derivanti dalle attività umane. In altre parole, se l’economia cresce, al contrario la Terra rimane una, fisicamente limitata, e regolata da meccanismi diversi da quelli del sistema economico.
La spiegazione storica di questi due meccanismi di base del cambiamento ambientale contemporaneo risiede comunque in un terzo fattore, che ne forma l’indispensabile supporto: questo fattore è il progresso tecnico, inteso come capacità di utilizzare l’energia, il flusso di radiazioni solari e lo stock di materia, trasformata in calore e movimento, che consente la vita sul pianeta in tutte le sue forme, e forma la base materiale dell’evoluzione sociale. Generalmente i libri di storia danno poca importanza all’energia, considerandola un aspetto sul quale non è necessario soffermarsi, che non è necessario spiegare. Ciononostante, alcuni storici hanno da più tempo messo in risalto come l’evoluzione delle civiltà sia direttamente collegabile con le forme di sfruttamento delle risorse energetiche, cioè con la capacità di utilizzare al massimo rendimento l’energia disponibile, ottenendo surplus da dedicare all’incremento della popolazione, allo sviluppo della cultura, delle arti e della politica. Questa capacità, mediante convertitori altamente produttivi come la macchina a vapore, la turbina idroelettrica, il motore a scoppio o il reattore nucleare, è enormemente cresciuta nel corso dell’età contemporanea, e in particolare nel Novecento.
La crescita della disponibilità di energia è legata a un mutamento epocale che interessò la società europea, e da lì si diffuse nel Nord America e in altre parti del mondo, intorno alla metà del Settecento: l’uscita dell’umanità dal paradigma energetico solare e l’ingresso nel paradigma fossile. Si tratta di un mutamento enormemente complesso e multiforme, che tuttavia si spiega in modo semplice: l’invenzione della macchina a vapore, a opera dell’inglese James Watt, consentiva di sfruttare le riserve di energia racchiuse nel sottosuolo sotto forma di carbone fossile, poi anche petrolio e gas naturale, e così accresceva enormemente la quantità di risorse energetiche a disposizione delle nazioni che possedevano tali risorse, e la tecnologia adatta. Grazie a questo semplice fatto, l’umanità nel suo complesso ha imboccato, da allora, un percorso del tutto diverso da quello del passato, poiché ha potuto crescere a un tasso superiore a quello della riproduzione “solare”. Fino a quel momento, infatti, tutte le fonti di energia utilizzate per produrre cibo, movimento, calore (piante, animali, prodotti agricoli, legna da ardere, acqua), dipendevano direttamente dal sole, che ne garantiva la ricrescita in base a tempi e cicli naturali. Per questo motivo, periodicamente l’umanità, comprese grandi civiltà e imperi, andava soggetta a crisi di sussistenza, dovute al fatto che la popolazione era cresciuta a un tasso superiore a quello consentito dalla riproduzione solare delle risorse. Un’annata arida, con conseguente carestia, poteva bastare a indebolire la popolazione rispetto alla diffusione di qualche virus, e innescare una crisi demografica come quelle descritte dal reverendo Malthus nel suo Saggio sul principio di popolazione del 1798. La crisi demografica, in altre parole, aveva il compito di riportare l’equilibrio tra popolazione e risorse disponibili, e pertanto essa ricorreva periodicamente come una necessità storica, similmente a quanto accadde poi con le crisi economiche riguardo all’equilibrio tra domanda e offerta.
Dunque, mai come nell’ultimo secolo l’umanità, o almeno una parte di essa, ha visto la possibilità di liberarsi dal pesante condizionamento che la natura ha avuto sulle società del passato, in termini di vincoli e costrizioni che impedivano la crescita della popolazione e dell’economia, lo spostamento nello spazio, lo sfruttamento delle risorse, il pieno sviluppo delle potenzialità sociali. Si tratta di quella che lo storico inglese Clive Ponting, nella sua ormai classica A Green History of the World ha definito la “seconda grande transizione”, la prima essendo costituita dall’invenzione dell’agricoltura, cioè dall’ingresso nel Neolitico, circa 10 mila anni fa. La domanda che ci si pone oggi rispetto a questo grande cambiamento epocale è sostanzialmente questa: si tratta di un cambiamento permanente, cioè del definitivo superamento di un limite, oppure questa è una illusione ottica, una convinzione di carattere ideologico che rischia di mascherare la realtà dei fenomeni fisici? Si tratta di una domanda che riguarda più che altro il futuro, un campo che sfugge alla competenza degli storici, e risulta di difficile definizione anche per gli economisti o gli ecologi. Per quanto riguarda gli storici dell’ambiente, il loro contributo principale consiste nell’esaminare la crescita contemporanea nella complessità delle sue interrelazioni ecologiche, che riguardano gli effetti indesiderati, i costi, le ripercussioni che ciascun mutamento degli equilibri ecosistemici ha su ciascuna componente fisica, biologica e anche sociale di quel sistema complesso che chiamiamo Terra. Viste da questa prospettiva, che è quella della complessità cui si faceva riferimento prima, la storia del Novecento appare assai meno trionfale e progressiva di quanto si sia portati a pensare.
Possiamo riassumere le principali questioni ambientali del Novecento in tre grandi categorie: la prima interessa la perdita di risorse, ossia la diminuzione dello stock di combustibili, acque, minerali, suolo, copertura arborea, specie viventi e persino ossigeno, presenti nella biosfera. Non si tratta di uno stock in senso stretto, poiché tutte le risorse sono in qualche modo riproducibili: persino il petrolio, che si è formato nel corso di milioni di anni per la lenta decomposizione di materia organica vegetale. Tuttavia i tempi della riproduzione spesso non coincidono con quelli della vita umana, nemmeno in un arco generazionale ampio. La perdita di risorse è legata al sovrasfruttamento, cioè al loro prelievo a ritmi superiori a quelli della rigenerazione (nel caso di acque, foreste, o animali), oppure in quantità tali da non garantirne una disponibilità futura nemmeno nel medio periodo (il caso dei combustibili fossili). Essa è legata, in secondo luogo, all’inquinamento, poiché una buona parte delle risorse diventa inutilizzabile, o va incontro a morte biologica, a causa dell’immissione di sostante inquinanti che ne compromettono il funzionamento organico: è il caso, ad esempio, dell’eutrofizzazione di mari e laghi; o della contaminazione di suoli e falde da agenti chimici.
La seconda categoria interessa la questione del rischio ambientale, in senso strettamente antropico: il rischio, cioè, per gli esseri umani, di essere vittima di una catastrofe di tipo ambientale (incidente industriale, fall-out radioattivo, desertificazione, alluvione, innalzamento del livello marino), o di subire le conseguenze dell’esposizione a fattori di rischio non conosciuti, o non considerati tali. È il caso delle patologie tumorali derivanti, in larga parte, dall’esposizione a sostanze tossiche sui luoghi di lavoro (amianto, mercurio, diossina ecc.) e in genere nei luoghi in cui si vive (discariche, impianti industriali a rischio – attivi o dismessi – smog urbano, pesticidi e residui chimici nei cibi ecc.).
La terza categoria è una estensione delle due precedenti, e riguarda la questione della distribuzione sociale dei costi ambientali. Tanto nel caso della perdita di risorse, quanto in quello dell’inquinamento e della salute, i rischi non interessano ugualmente tutte le fasce sociali, né tutte le nazioni o le aree geografiche. La percezione di questo problema, che si configura come un problema di giustizia sia dal punto di vista nazionale o locale, che dal punto di vista globale, ha dato vita a una attenta riflessione da parte di discipline come il diritto ambientale, l’ecologia politica, l’economia ecologica, e costituisce allo stato attuale una delle sfide più impegnative per il secolo in corso.
La nascita dell’ambientalismo
Rispetto alle grandi questioni ambientali, sempre connesse a questioni di ordine sociale e politico tanto a livello nazionale che planetario, il Novecento ha sviluppato anche un’altra novità importante: l’acquisizione di una consapevolezza, sia scientifica che culturale, dei costi e dei rischi connessi al mutamento ambientale. Questa consapevolezza è stata definita con il termine “ambientalismo”: un movimento di opinione e mobilitazione collettiva che va ad aggiungersi alla lunga lista degli “ismi” del XX secolo (dal femminismo al pacifismo, passando per comunismo, nazismo, fascismo ecc.). L’ambientalismo, o ecologismo, del Novecento ha radici, come quasi tutti gli altri fenomeni culturali e politici, nel secolo precedente, l’Ottocento della rivoluzione industriale, che vide nascere in una parte dell’élite occidentale la preoccupazione per la perdita di natura e i guasti ambientali connessi alla civiltà industriale. E tuttavia, esso ha conosciuto cambiamenti profondi e una generale evoluzione filosofica che ha rivoluzionato i suoi stessi presupposti. Se all’origine c’era il concetto di wilderness – la natura selvaggia, originaria, del continente americano, celebrato da Henry David Thoureau, Aldo Leopold o John Muir – o quello di “patria” inteso come unità di sangue e suolo del romanticismo tedesco, o ancora il paesaggio come valore storico-estetico da salvaguardare, nei decenni successivi alla seconda guerra mondiale questi capisaldi iniziali hanno subito un certo ridimensionamento, a vantaggio di altre preoccupazioni. In particolare, alla “conservazione”, che portò alla istituzione dei parchi nazionali (il primo, lo Yellowstone, è del 1873; il Parco Nazionale d’Abruzzo è del 1923), si affiancò quella che è stata definita l’ecoefficienza, ossia la tendenza a risparmiare risorse e a sfruttarle nel modo più efficiente possibile, spingendo al massimo il progresso tecnico. Questa linea di azione non è priva di contraddizioni interne, poiché essa mira più che altro a garantire la disponibilità di risorse energetiche per lo sviluppo economico, considerato come il fine ultimo da perseguire. Da questo punto di vista, ad esempio, l’energia nucleare rappresenta un’occasione unica, per l’altissima produttività energetica dell’atomo, mentre vengono considerati secondari i problemi legati alle scorie di produzione, al rischio di incidenti e all’estrema nocività del processo produttivo.
Un terzo filone dell’ambientalismo contemporaneo, maturato negli ultimi due decenni, è quello “sociale”, che riguarda la questione della giustizia ambientale, ossia la distribuzione dei costi e dei rischi legati all’inquinamento e al depauperamento di risorse tra gruppi sociali e tra popoli. Questo terzo filone è la novità più interessante dell’ambientalismo novecentesco, poiché esso articola la questione ambientale ben dentro i meccanismi politici nazionali e internazionali, e la declina in base alle differenze di classe, etnia, genere, appartenenza nazionale, che sono proprie dell’umanità rispetto alle altre specie viventi. La prima spinta in questa direzione viene, all’inizio degli anni Ottanta, dal movimento per la giustizia ambientale negli USA: a partire dalla constatazione che i danni alla salute derivanti dall’esposizione a sostanze e rifiuti tossici si concentravano sui segmenti marginali della società americana, in particolare gli abitanti afroamericani o latini di quartieri popolari alla periferia delle aree urbane, il movimento elaborò una linea di azione simile a quella seguita negli anni Sessanta dal movimento per i diritti civili, ponendo cioè espressamente una questione di diritto e democrazia. In questo senso, l’Environmental Justice Movement, non si è mai considerato un settore dell’ambientalismo tradizionale: a questo, anzi, e in particolare alle sue organizzazioni leader come Greenpeace o il WWF, il movimento rimprovera un interessamento rivolto esclusivamente alla natura non umana, senza considerare i rischi e i danni subiti da gruppi umani marginali a causa dell’inquinamento o della perdita di risorse. Questa prospettiva è molto simile a quella che, nel Sud del mondo, va sviluppando il variegato universo dei movimenti antiglobalizzazione, che sono stati definiti come “l’ambientalismo dei poveri”: la dipendenza da semi e risorse provenienti dal mercato internazionale, la biopirateria, la perdita di biodiversità e di risorse comunitarie, per fare posto alle monocolture industriali, il maggiore peso che cambiamento climatico e inquinamento globale hanno in ecosistemi spesso già fragili o più esposti al rischio ambientale, sono solo alcuni degli aspetti che la questione ambientale ha assunto nel Sud, e con i quali l’ecologismo del futuro dovrà misurarsi sempre di più nei prossimi anni.