Ambiente e qualità della vita nel territorio urbano
«In condizioni normali, nel loro habitat culturale, gli animali selvaggi non si mutilano, non si masturbano, non aggrediscono la loro prole, non si fanno venire l’ulcera allo stomaco, non diventano feticisti, non soffrono di obesità. [...] Ora tutte queste cose si verificano notoriamente tra gli uomini che popolano le città». Questa celebre frase di Desmond Morris (The human zoo, 1969; trad. it. 2005, p. 7) sintetizza con ironia e con efficacia un’idea largamente diffusa nell’antropologia contemporanea: quella della città come paradig-ma dell’evoluzione ‘antinaturale’ che segnerebbe irrevocabilmente l’odierno cammino della specie umana.
In effetti la città simboleggia, ancora meglio dell’industria e della tecnologia, quella dimensione artificiale, ‘denaturalizzata’ che denota l’attuale modernità. Oggi essa è divenuta anche l’emblema di uno dei maggiori e più inediti problemi dei tempi moderni: la crisi ecologica, cioè la comparsa e poi il progressivo accentuarsi di fenomeni – le varie forme d’inquinamento, l’impoverimento della biodiversità, i rischi di esaurimento delle risorse naturali – che testimoniano una sostanziale rottura, a opera dell’uomo, degli equilibri ecologici.
Questa rottura, infatti, nelle città si manifesta con forza ed evidenza moltiplicate, e da esse ha ricevuto il principale impulso. «Nel 20° secolo – scrive lo storico John R. McNeill – il processo di urbanizzazione ha avuto ripercussioni enormi sull’intera vita dell’uomo e ha rappresentato una frattura notevole rispetto ai secoli precedenti. In nessun altro luogo come in città l’uomo ha alterato l’ambiente: ma l’impatto delle città è andato ben al di là delle mura cittadine. L’espansione urbana è stata fonte primaria di cambiamento ambientale» (Something new under the sun, 2000; trad. it. 2002, p. 359).
La città come ecosistema
L’impatto ambientale delle città è oggetto da quasi mezzo secolo di un corposo indirizzo di studi e analisi quantitative, basato sul concetto di ecosistema urbano. Le città – questo l’assunto teorico da cui prende le mosse tale ambito di ricerca, trasversale a molteplici discipline (dalla biologia alla fisica, dalla sociologia all’urbanistica) – sono anch’esse un sistema vivente, un ecosistema, ma artificiale, nel quale il consumo e la degradazione del ‘capitale naturale’ è incomparabilmente più elevato: «Gli ecosistemi naturali – scrive l’ecologo Virginio Bettini – producono e rielaborano al proprio interno i rifiuti e i residui delle attività che vi si svolgono. I rifiuti ridiventano, cioè, materiali in entrata per gli stessi cicli naturali. L’ecosistema città utilizza, metabolizza e rielabora invece materiali che sono sostanzialmente estranei alla vita all’interno delle città. I rifiuti devono perciò essere portati all’esterno o trattati con processi tecnici e i rifiuti finali sono profondamente differenti dai materiali utili che sono entrati nella città e da cui i rifiuti si sono formati. La produzione di rifiuti ‘dentro’ un ecosistema urbano è quindi generalmente accompagnata da effetti ambientali negativi, da un peggioramento della qualità dell’ambiente, da un inquinamento» (Elementi di ecologia urbana, 1996, pp. 139-40).
Dunque le città sono gli ecosistemi più ‘dissipativi’, e la loro ‘impronta ecologica’ – cioè l’area corrispondente alla quantità di risorse naturali che utilizzano – è incomparabilmente superiore alla superficie da esse occupata. Secondo i dati dell’United Nations human settlements programme (noto come UN-HABITAT), oggi le aree urbane consumano circa i tre quarti di tutta l’energia prodotta e sono responsabili per circa quattro quinti delle emissioni di gas serra che favoriscono i mutamenti climatici.
Il clima delle città è notevolmente diverso da quello delle aree rurali adiacenti: le città sono più calde, più nuvolose, meno soleggiate e più piovose delle campagne circostanti. Ad accrescere il calore in ambito urbano sono le coperture di cemento e asfalto, materiali che, rispetto a un suolo coperto da vegetali, arrivano ad assorbire il 10% in più di energia solare; a tutto ciò si aggiunge il calore artificiale generato sia dalla combustione degli idrocarburi dei trasporti, sia dagli scarichi verso l’esterno degli impianti per il condizionamento dell’aria. Questo effetto, che viene chiamato isola di calore urbana, si conserva anche durante le ore notturne, perché il calore delle radiazioni solari viene in parte trattenuto da edifici e strade.
Il doppio boom urbano
All’inizio del 19° sec., esistevano nel mondo solo 6 città con più di 500.000 abitanti: Istanbul, Tokyo, Pechino, Parigi, Londra e Canton; un secolo dopo, il loro numero era salito a 43, ma la percentuale della popolazione urbana sul totale della popolazione mondiale rimaneva inferiore al 20%. All’inizio del 21° sec., per la prima volta nella storia dell’uomo, la popolazione urbana ha varcato la soglia del 50%, crescendo in cento anni da 225 milioni a 2,8 miliardi di persone (13 volte, contro un aumento della popolazione mondiale di 4 volte). Secondo i dati dell’United Nations department of economic and social affairs (United Nations 2008) vi sono più di 20 megalopoli con oltre 10 milioni di abitanti e quasi 500 città con una popolazione superiore al milione, mentre si prevede che entro pochi anni la percentuale della popolazione urbana sarà la più alta in tutti e cinque i continenti (fig. 1).
In termini di spazio occupato, la crescita delle città è stata meno rapida di quella sul piano demografico: gli spazi urbani occupavano nel 1900 circa lo 0,1% del totale delle terre emerse, e nel 1990 circa l’1%. In Europa, in particolare, questo rapporto si presenta oggi rovesciato: mentre per una lunga fase storica la popolazione urbana è cresciuta molto più intensamente della superficie urbanizzata (l’accrescimento dello spazio occupato dalle città è stata la diretta conseguenza dell’aumento della popolazione), da alcuni decenni l’estensione spaziale delle città cresce molto di più della popolazione, e in numerosi casi – soprattutto nel corso degli ultimi vent’anni – continua a crescere anche se la popolazione diminuisce.
Questa tendenza delle città, soprattutto di molte città europee, a ‘mangiare’ sempre nuovo territorio malgrado un rallentamento, o addirittura un arresto o un’inversione della crescita demografica (urban sprawl), ha assunto in alcuni casi dimensioni rilevantissime. Tra i suoi effetti ambientali, uno dei più negativi è rappresentato da un’accelerazione dei processi di frammentazione naturale: «La frammentazione ambientale – scrive Gianfranco Bologna, direttore scientifico della sezione italiana del WWF (World Wildlife Fund for nature) – è un processo dinamico, dovuto all’intervento umano, attraverso il quale un’area naturale subisce una suddivisione in frammenti più o meno disgiunti e progressivamente più piccoli e isolati. […] La frammentazione ambientale influenza i fattori e i processi ecologici a tutti i livelli gerarchici (dall’individuo all’ecosistema e al paesaggio) e lo fa a scale spaziali e temporali differenti. […] Nei frammenti le popolazioni delle specie viventi, isolate e ridotte di dimensioni, mostrano una maggiore vulnerabilità verso gli eventi stocastici» (Worldwatch Institute 2007; trad. it. 2007, p. 17).
In Europa, dove i tre quarti circa della popolazione vivono in aree urbane (United Nations 2008), nel decennio 1990-2000 ben 800.000 ha di terreno (un’area grande tre volte il Lussemburgo) sono passati da naturali a urbanizzati (European Commission JRC, EEA 2006): questo fenomeno si è concentrato sia nelle aree più densamente popolate (Belgio, Paesi Bassi, Italia) sia in quelle che hanno registrato una più intensa crescita economica (Spagna, Portogallo, Irlanda).
Quanto ai trend demografici delle città europee, secondo elaborazioni della Commissione europea relative ai 258 principali centri urbani della UE a 27, nel periodo 1996-2001 un terzo delle città è cresciuto a un tasso appena superiore allo zero (0,2%), un terzo è rimasto stabile e un terzo ha visto declinare il numero dei residenti (Commissione europea 2007); questi dati, peraltro, non sempre tengono conto dei flussi di immigrati irregolari che si stabiliscono nelle periferie urbane.
L’Italia, rispetto a molti altri Paesi europei, conserva una struttura demografica peculiare. Secondo stime dell’ISTAT relative al 31 dicembre 2007, nei 12 ‘grandi comuni’ (quelli con popolazione superiore ai 200.000 ab.) risiedono poco più di 9 milioni di persone, cioè il 15,2% della popolazione totale (ISTAT 2008, p. 6), mentre la maggioranza degli italiani vive in comuni di dimensione demografica compresa tra i 5000 e i 20.000 abitanti. Nonostante questi caratteri originali che persistono, in Italia negli ultimi anni si è registrato un fenomeno molto intenso di urban sprawl che ha visto crescere in misura rilevante gli spazi urbanizzati e in molti casi, soprattutto nelle regioni meridionali, ha assunto caratteri particolarmente disordinati per effetto dell’altissima percentuale di nuove costruzioni abusive (si stima che nel Sud almeno un terzo delle nuove costruzioni realizzate negli ultimi vent’anni sia abusivo). Secondo il rilevamento satellitare condotto nell’ambito del progetto europeo Corinne land cover 2000, tra il 1990 e il 2000 la superficie urbanizzata in Italia è cresciuta di oltre il 6% (80.000 ha), attestandosi a quasi il 5% della superficie totale. La Lombardia è la regione con la più alta percentuale di suolo urbanizzato (10,4%), seguita dal Veneto (7,7%) e dal Friuli Venezia Giulia (6,7%). A Milano, dove da molti anni la popolazione è in decremento, tra il 1950 e il 1990 l’area urbanizzata è più che raddoppiata (da 114,5 a 233,4 km2, su un territorio comunale di 325,2 km2), mentre nel periodo 1995-2002 la media annua delle nuove cubature autorizzate è stata superiore ai 30 milioni di m3, contro i 22 milioni del decennio 1958-1967, all’apice del boom edilizio (European Commission JRC, EEA 2002).
Qualità dell’ambiente e qualità della vita
La popolazione del 21° sec. è in maggioranza urbana e, particolarmente nelle città, i problemi ambientali – mutamenti climatici, inquinamento dell’aria, produzione di rifiuti, assenza o insufficienza dei sistemi di smaltimento delle acque reflue (fognature, impianti di depurazione), acqua potabile inaccessibile oppure inquinata, scarsità di verde pubblico – incidono sulla qualità della vita delle persone, influenzandone la salute, le condizioni pratiche della vita quotidiana (igiene, rapidità e comodità degli spostamenti), la tranquillità psicologica. Questo legame oggettivo tra qualità dell’ambiente e qualità della vita in città è tanto più stretto e diretto in quanto sempre più vivere in un ambiente sano, pulito, esteticamente gradevole, rientra tra i criteri in base ai quali gli esseri umani misurano la nozione di benessere.
Rispetto alle diverse problematiche ambientali, una differenza di fondo separa le città dei Paesi industrializzati da quelle dei Paesi più poveri e anche da quelle dei Paesi emergenti. Nelle città europee, nordamericane, giapponesi ecc., la pressione sull’ambiente è maggiore: più alte le emissioni inquinanti, più alta la produzione pro capite di rifiuti, più alti i consumi di acqua e di energia. Al tempo stesso, nelle città del Nord del mondo sono molto più avanzate le politiche, le strategie, le normative per ridurre l’impatto dei problemi ambientali sulla vita dei cittadini, mentre in buona parte delle città dell’Asia, dell’Africa, dell’America Latina si registra una grave insufficienza dei servizi e delle infrastrutture igienico-ambientali – dai trasporti pubblici, ai sistemi fognari, ai servizi di raccolta e smaltimento dei rifiuti – che assume dimensioni e determina effetti anche sanitari particolarmente drammatici nelle zone abitate dalla fascia più povera della popolazione.
Energia, inquinamento e global warming
Se in tutto il mondo nelle città si concentra la gran parte dei consumi di energia, l’ambiente urbano oltre a essere energivoro è il luogo in cui si producono rilevanti effetti ambientali negativi anche per l’uomo, in particolare provocati dall’uso della quota di energia ricavata dalla combustione di petrolio, carbone e altri materiali fossili (80% dell’energia prodotta). Bruciando nelle centrali elettriche, nei motori degli autoveicoli, negli impianti di riscaldamento, il petrolio e gli altri combustibili fossili determinano due tipi fondamentali di inquinamento: da una parte lo smog e le altre forme di inquinamento locale, che restano concentrati e circoscritti nelle aree ‒ per una gran parte aree urbane ‒ dove avvengono le emissioni di gas inquinanti; dall’altra, l’inquinamento globale dovuto al rilascio nell’atmosfera dei gas a effetto serra, primo fra tutti l’anidride carbonica, che insieme ai fenomeni di deforestazione sono la causa principale del riscaldamento globale (global warming) e dei connessi mutamenti climatici.
Considerati fino a pochi anni fa una minaccia proiettata in un futuro più o meno prossimo, oggi i mutamenti climatici costituiscono una drammatica realtà: il clima sta già cambiando e tale processo sta provocando danni sociali ed economici rilevanti; la maggioranza degli scienziati del clima concorda sul fatto che il global warming nasca in larga misura da cause antropiche, e in primo luogo dalla quantità crescente di anidride carbonica (CO2) rilasciata dall’uomo nell’atmosfera e, in secondo luogo, dalla deforestazione in atto nelle grandi foreste pluviali, che riduce l’assorbimento di CO2. L’attuale concentrazione nell’aria di CO2 è superiore di circa un terzo rispetto ai livelli dell’era preindustriale e continua a crescere, il che fa aumentare la capacità dell’atmosfera di trattenere il calore solare, determinando un progressivo incremento della temperatura e i fenomeni collegati quali l’innalzamento del livello di mari e oceani, lo scioglimento dei ghiacciai, l’avanzata dei deserti, l’intensificazione degli eventi meteorologici estremi come cicloni e siccità. L’IPCC (Intergovernmental Panel on Climate Change) – l’organismo scientifico che per conto dell’ONU studia da anni i mutamenti climatici, e che nel 2007 è stato insignito insieme ad Al Gore del premio Nobel per la pace – nel suo rapporto del 2007 prevede per i prossimi 90 anni un aumento della temperatura tra un minimo di 1,1 e un massimo di 6,4 °C, e un innalzamento del livello dei mari tra i 9 e gli 88 centimetri (IPCC 2007).
Dall’efficacia degli interventi finalizzati a ridurre l’uso di combustibili fossili (e quindi le emissioni di CO2) e a stabilizzarne le concentrazioni in atmosfera dipenderà se i mutamenti climatici già in atto si arresteranno o se, al contrario, si avvicineranno alle previsioni più pessimistiche; conseguentemente dalla loro validità dipenderanno anche l’entità e la sostenibilità delle future ricadute negative – sociali ed economiche – del global warming per l’uomo. Sono soprattutto i Paesi industrializzati, abitati da circa un quinto della popolazione mondiale ma che contribuiscono per circa la metà alle emissioni dannose per gli equilibri climatici, a doversi assumere le proprie responsabilità. Il Protocollo di Kyoto, firmato nel 1997 ed entrato in vigore nel 2005, prevede per ogni Paese industrializzato, rispetto al 1990, target specifici di abbattimento delle emissioni di CO2 da raggiungere entro il 2012. Per l’Italia l’obiettivo di riduzione è del 6,5%, ma mentre Paesi come la Germania e il Regno Unito hanno già ottenuto risultati consistenti, nel nostro Paese, nel 2008 le emissioni di anidride carbonica sono state superiori di circa il 10% ai livelli del 1990; questo è dovuto soprattutto a uno scarsissimo sviluppo delle fonti rinnovabili (a cominciare dall’energia solare) e all’assenza di interventi incisivi nel campo del risparmio energetico e del potenziamento dei sistemi di trasporto dei passeggeri e delle merci meno ‘energivori’ e con minori emissioni di CO2 (quali ferrovia, trasporti pubblici urbani, cabotaggio).
Per l’elevata densità abitativa, per l’altissima concentrazione di edifici e infrastrutture, per la presenza – soprattutto nelle megalopoli dei Paesi poveri – di bidonvilles e favelas dove milioni di persone vivono in spazi ristrettissimi e in condizioni socioeconomiche, igieniche e logistiche quanto mai degradate, nelle città si registrano le maggiori conseguenze dannose dei fenomeni legati al global warming: aumento della temperatura, impoverimento delle risorse idriche, accresciuta frequenza e intensità di alluvioni e inondazioni.
Questa vulnerabilità è maggiore nelle grandi megalopoli asiatiche, africane, latinoamericane, che già risentono pesantemente dei mutamenti climatici e che nei prossimi decenni potrebbero pagare prezzi sempre più alti al global warming. È il caso di Shanghai, dove al rischio dell’intensificarsi dei cicloni si aggiunge quello dovuto agli straripamenti sempre più frequenti del fiume Yangzi (già Yangtze); o di Lagos e delle sue poverissime periferie galleggianti, aree dove l’erosione delle coste e l’innalzamento del livello dell’oceano potrebbero cancellare centinaia di km2 di terreno; o ancora di Dacca, una delle città più esposte ai mutamenti climatici dovendo fronteggiare da un lato il rischio dei cicloni, dall’altro quello delle inondazioni del Brahmaputra il cui regime è oggi alterato dal progressivo scioglimento dei ghiacciai dell’Himalaya.
Per limitare l’impatto sociale dei mutamenti climatici sulle megalopoli è decisivo predisporre e attuare interventi di cosiddetto adattamento: dal miglioramento dei sistemi di deflusso delle acque superficiali al consolidamento degli edifici, dal risparmio di acqua potabile al risanamento delle spesso inumane condizioni di vita nelle baraccopoli.
Anche nel mondo ‘ricco’ le città sono particolarmente esposte alle conseguenze dei mutamenti climatici: perché l’aumentata frequenza e intensità di cicloni, alluvioni e inondazioni non risparmia le latitudini temperate, come ha dimostrato l’apocalittico bilancio di vittime e di danni del passaggio dell’uragano Katrina su New Orleans nell’agosto 2005; e perché le ondate anomale di calore estivo, che sempre più spesso colpiscono anche l’Europa e gli Stati Uniti, hanno proprio sulle città un effetto sulla popolazione più accentuato che nelle aree rurali.
In quasi tutte le città europee, le temperature medie hanno fatto registrare nell’ultimo decennio aumenti significativi. Mettendo a confronto le medie del periodo 1960-1980 con quelle del periodo 2000-2006, si evidenzia un incremento superiore a 1 °C per Londra, Parigi, Berlino, Oslo, Madrid, Roma, Milano, Lisbona, Belgrado, Zurigo (fig. 2).
Questo aumento delle temperature medie sull’intero territorio europeo produce effetti che risultano ingigantiti nelle città, sia per la maggiore densità di popolazione sia per il fenomeno delle isole di calore: nei centri abitati, infatti, dove il suolo è quasi interamente ricoperto di asfalto e cemento, e dove più elevata è la concentrazione di impianti di riscaldamento e di condizionamento dell’aria e di veicoli a motore, si registra più caldo che nelle zone meno antropizzate.
Da uno studio dell’associazione Legambiente (2007), che pone a confronto le temperature misurate nel centro di alcune città italiane con quelle misurate nei rispettivi aeroporti, risulta che nei primi sei mesi del 2007 la media delle temperature nel centro di Roma e di Milano è stata superiore di almeno 1 °C a quella registrata negli aeroporti di Linate e di Ciampino.
Tra le conseguenze del riscaldamento globale vi è la tendenza a un progressivo allargamento delle aree di diffusione di malattie tipiche dei climi tropicali, come la malaria o la febbre dengue. Molti studi epidemiologici indicano che tale fenomeno è già in atto, mentre, secondo una recente ricerca sui costi economici dei cambiamenti climatici (Stern 2007), un aumento di 2-3 °C delle temperature medie potrebbe determinare la ricomparsa della malaria in Paesi situati in zone temperate che l’avevano debellata da tempo, tra cui, per es., l’Italia.
Anche le ondate di calore che con frequenza e violenza sempre maggiori colpiscono molte città europee, comportano costi umani significativi. Il gruppo di studio europeo 2003 heat wave project (2007), per es., ha stimato in 70.000 (20.000 soltanto in Italia) le vittime – in maggioranza persone con più di 75 anni – del caldo eccezionale che nell’estate 2003 ha colpito quasi tutte le città europee.
Come attestano sempre più numerosi e autorevoli dati scientifici, l’inquinamento atmosferico che grava sulle città di tutto il mondo è, prima ancora che un problema ambientale, un urgente problema sanitario: per la popolazione urbana, il fatto di respirare aria inquinata predispone a un rischio maggiore di soffrire di patologie gravi del sistema respiratorio e cardiocircolatorio (cancro ai polmoni e altre patologie respiratorie, infarto, ictus).
In base a elaborazioni della Commissione europea (2007), le persone nate nel 2001 nelle città dell’Unione hanno una speranza di vita di 2 anni inferiore a quella media, che è di 79 anni per le femmine e 73 per i maschi. Diverse ricerche convergono nell’indicare che questa differenza dipende in larga misura dalla costante esposizione della popolazione urbana a livelli di inquinamento atmosferico particolarmente alti; così, uno studio epidemiologico condotto in 13 città italiane dall’Organizzazione mondiale della sanità per conto dell’APAT (Agenzia per la Protezione dell’Ambiente e per i servizi Tecnici), ha stimato in 8000, su una popolazione totale di 13 milioni di abitanti, le morti all’anno dovute agli effetti a lungo termine di una costante esposizione a concentrazioni di PM10 (le cosiddette polveri sottili) nell’aria superiori ai 20 microgrammi al m3 (APAT 2006).
Vittime sacrificali dei mutamenti climatici, gli ambiti urbani sono anche i luoghi dove si concentrano i maggiori consumi energetici e le maggiori emissioni di gas a effetto serra: per entrambe queste ragioni, in molte città di tutto il mondo sono stati avviati programmi, interventi, esperienze-pilota con l’obiettivo di migliorare i livelli di efficienza e risparmio nell’uso dell’energia; di diffondere l’uso di fonti energetiche rinnovabili, come i pannelli solari per il riscaldamento dell’acqua, per il riscaldamento degli edifici e per la produzione di elettricità – a impatto zero sul clima –; di aumentare l’utilizzo dei mezzi di trasporto pubblici, che a parità di passeggeri trasportati determinano emissioni di CO2 notevolmente più basse.
Smog e traffico
La parola smog nacque a metà del secolo scorso dalla fusione di due termini inglesi, smoke (fumo) e fog (nebbia), per indicare la fitta coltre di fuliggine che avvolgeva Londra e altre grandi città industriali: si trattava di una miscela combinata di nebbia e di fumi che fuoriuscivano dai camini delle fabbriche e dagli impianti dove bruciava carbone.
Oggi questo termine è usato in modo molto più generale, come sinonimo dell’aria inquinata delle città. Tuttavia, lo smog del 21° sec. è diverso da quello di mezzo secolo fa, soprattutto nelle città occidentali dove l’uso quasi del tutto scomparso del carbone negli impianti di riscaldamento ha determinato un drastico abbattimento dell’inquinamento da zolfo, ma al contempo il boom delle automobili e degli altri veicoli a motore ha prodotto nuovi fenomeni di inquinamento, prevalentemente legati alle emissioni dei mezzi di trasporto. In particolare, il tipo di inquinamento dell’aria di città oggi considerato più temibile, per i danni che provoca sulla salute umana e per la tendenza costante a crescere, è rappresentato dal PM10.
Nelle grandi città di tutto il mondo, le concentrazioni in atmosfera di PM10 superano frequentemente i limiti considerati sicuri per la salute dell’uomo. Così è anche in Europa dove, pur vigendo da tempo una legislazione rigorosa in materia, in quasi tutte le metropoli – da Londra a Roma, da Vienna a Bruxelles, da Milano a Praga – l’inquinamento da polveri sottili è un fenomeno pressoché costante. In Italia, concentrazioni analoghe a quelle rilevate nelle metropoli si osservano anche in molte città di medie e piccole dimensioni: secondo uno studio di Legambiente (2009), nel 2007 il 25% di tutti i capoluoghi di provincia italiani, comprese molte città inferiori ai 200.000 ab., ha fatto registrare livelli di PM10 nell’aria superiori ai limiti di legge.
Sia il PM10 sia le altre sostanze insidiose per l’uomo largamente presenti nell’aria urbana (monossido di carbonio, ossidi di azoto, idrocarburi, ozono troposferico) hanno nel traffico automobilistico la loro fonte principale. E malgrado i progressi in campo tecnologico e l’adozione, soprattutto nei Paesi industrializzati, di limiti di legge sempre più severi ai livelli massimi ammessi di inquinamento atmosferico abbiano reso ogni singola automobile un po’ meno inquinante, la scarsa qualità dell’aria di città per l’aumento esponenziale del parco auto circolante – che ha riguardato e riguarda, sebbene con numeri tra loro imparagonabili, ogni angolo del mondo, dai Paesi più ricchi a quelli più poveri – continua a essere un problema molto grave, causa di danni rilevanti per la salute di chi vive nei centri urbani.
Nel 1970 circolavano nel mondo 200 milioni di automobili, salite a 850 milioni nel 2006, e si prevede che nel 2030 si arriverà a 1,5 miliardi. Il tasso di motorizzazione e il consumo pro capite di carburante variano moltissimo da Paese a Paese: sono massimi negli Stati Uniti, con oltre un’auto ogni due abitanti e oltre 1000 litri di carburante consumati pro capite, sono minimi in Africa e nelle altre aree più povere del mondo. Tuttavia, il tasso di motorizzazione non è determinato soltanto dal reddito pro capite: in particolare in Europa, esso è più alto e tende a crescere più rapidamente dove sono meno efficienti e capillari i sistemi di trasporto pubblico urbano. Così l’Italia è tra i grandi Paesi europei quello con il più alto rapporto tra automobili e abitanti e, al tempo stesso, quello con il minor uso del trasporto pubblico nelle città.
Al traffico automobilistico è riconducibile anche un altro fenomeno di inquinamento tipicamente urbano: il rumore, che in quasi tutte le città del mondo supera stabilmente la soglia (al di sopra dei 60 decibel) oltre la quale la popolazione esposta è soggetta a un senso di fastidio e anche a frequenti disturbi psicologici e fisici (difficoltà di concentrazione, disturbi del sonno, danni al sistema uditivo).
Infine, l’alto tasso di motorizzazione provoca la ‘congestione’ della mobilità urbana, implicando tempi lunghi anche per spostamenti di pochi chilometri. Secondo uno studio ISFORT (Istituto Superiore di Formazione e Ricerca sui Trasporti), nel 2008 è stato di oltre un’ora il tempo che ogni italiano ha impiegato per spostarsi in un giorno feriale tipo, e la distanza media percorsa è stata di 40 km (ISFORT 2008).
Il numero già oggi così elevato, e così rapidamente crescente, di automobili circolanti nelle città, è dunque la causa principale dello smog, ed è anche una delle voci che pesano di più sulle emissioni di gas a effetto serra che alimentano i mutamenti climatici. Per questo, la possibilità di ridurre le varie forme di inquinamento, sia locali sia globali, necessita di una radicale riorganizzazione della mobilità urbana, fondata sulla centralità dei trasporti pubblici e sulla promozione dell’uso di mezzi di trasporto ‘ecologici’ (per es., la bicicletta), nonché di un riassetto complessivo del disegno urbanistico che riduca per chi vive in città la necessità dell’uso dell’automobile per le esigenze quotidiane di spostamento.
Acque, rifiuti e verde urbano
Accanto all’inquinamento, altri indicatori della qualità ambientale delle città incidono direttamente sulla qualità della vita della popolazione urbana: tra i più importanti vi sono la gestione delle risorse idriche (consumi, sistemi fognari e depurativi, accessibilità e qualità dell’acqua potabile), la raccolta e lo smaltimento dei rifiuti, il verde urbano.
Dal punto di vista dell’impatto sull’ambiente e sulla qualità della vita della popolazione urbana, il problema acqua si presenta con caratteristiche completamente diverse nelle città dei Paesi ricchi e in quelle del Sud del mondo. In Europa e in generale nel mondo industrializzato, nelle città la quasi totalità degli abitanti ha accesso diretto a un’acqua potabile sufficiente ai propri bisogni e di buona qualità, ed è generalmente assicurato uno smaltimento corretto delle acque reflue, con sistemi fognari e impianti di depurazione adeguati al fabbisogno. Una parziale eccezione è rappresentata dall’Italia, dove soprattutto nel Mezzogiorno vi è ancora una quota significativa di acque reflue non depurata (a Palermo e Catania, più di due terzi delle acque reflue non sono allacciati ad alcun impianto di depurazione), e per una parte esigua della popolazione urbana l’approvvigionamento di acqua potabile risulta essere ancora intermittente.
D’altra parte, nelle città del mondo più ricco il consumo pro capite di acqua per usi domestici è oggi decisamente elevato: secondo l’ultimo rapporto dell’ONU sulle risorse idriche (WWAP 2009), ogni abitante dei Paesi industrializzati consuma in media più di 200 l d’acqua al giorno. Ciò determina un prelievo di risorse idriche talvolta maggiore della capacità di rigenerazione delle falde e dei bacini superficiali (laghi e fiumi); tale differenza tende ad accentuarsi, a causa del complessivo impoverimento delle risorse idriche legato ai mutamenti climatici. Nelle città dell’Asia, dell’Africa, e dell’America Latina, dove i consumi idrici pro capite sono incomparabilmente più bassi, almeno un terzo della popolazione non ha accesso diretto all’acqua potabile, e circa metà degli abitanti, cioè oltre un miliardo di persone, vive in case prive dei principali servizi igienici e di fognature e in aree dove le acque reflue scorrono a cielo aperto. Questa drammatica condizione sociale, aggravata dal fatto che spesso l’acqua utilizzata per bere è molto inquinata, determina problemi igienici e sanitari assai gravi: per es., nel 2006 a Calcutta si registrava tra i bambini da 0 a 14 anni una mortalità di oltre il 10% causata dalla dissenteria, dunque più o meno direttamente dall’indisponibilità per milioni di persone di acqua potabile (Worldwatch Institute 2007).
Nelle più autorevoli sedi internazionali, si è molte volte riaffermato che disporre di sufficiente acqua potabile e di servizi igienici (e fogne) adeguati è un diritto inalienabile di tutti gli esseri umani. Tale principio, però, resta ancor oggi largamente inapplicato. Molti osservatori sostengono inoltre che la progressiva privatizzazione dei servizi idrici in atto nel mondo, specialmente nelle città con maggiori problemi di povertà, si traduce in un ostacolo ulteriore alla possibilità, per centinaia di milioni di persone, di bere acqua pulita e di vivere in case con uno standard minimo di servizi igienici.
Come per le acque, così anche per i rifiuti, le città dei Paesi industrializzati e quelle dei Paesi più poveri o di più recente sviluppo presentano, dal punto di vista ambientale, condizioni e problemi speculari. Nelle prime, la produzione pro capite di rifiuti solidi urbani è molto più alta (in media, nel decennio 2000-2009, è stata di 1,4 kg per ab. al giorno, contro gli 0,6/0,8 delle altre), ma, con poche eccezioni – che riguardano anche molte città dell’Italia meridionale, prima fra tutte Napoli –, tutti i rifiuti prodotti sono raccolti e smaltiti in modo sicuro per la salute dei cittadini. Invece nelle città dell’Africa, dell’America Latina e di gran parte dell’Asia, solo una parte dei rifiuti prodotti viene raccolta e smaltita correttamente; a Calcutta come a Rio de Janeiro, a Nairobi come a Città di Messico, slums, favelas e bidonvilles pullulano di discariche a cielo aperto, causa di gravissimi problemi igienico-sanitari.
Nelle città del mondo industrializzato, dove maggiore è la produzione pro capite di rifiuti ma al tempo stesso sono molto più avanzati ed efficienti i sistemi di raccolta e smaltimento, si concentrano gli sforzi maggiori per affrontare efficacemente le problematiche ambientali legate ai rifiuti solidi urbani. Finora l’obiettivo di ridurre a monte la quantità di rifiuti è rimasto quasi del tutto sulla carta, mentre in molti casi si sono fatti grandi passi in avanti sia nel massimizzare la quota di rifiuti recuperati e riciclati attraverso la raccolta differenziata o, in misura minore, attraverso l’incenerimento, sia nel minimizzare il collocamento nelle discariche, che rappresenta la modalità di smaltimento dei rifiuti più inquinante per l’ambiente e più pericolosa per la salute umana. L’Italia in tale quadro costituisce un caso decisamente anomalo: le città del Nord e molte del centro sono allineate agli standard medi europei, mentre in quasi tutte le città del Sud, nelle quali la raccolta differenziata dei rifiuti è a livelli minimi, non vi sono impianti di incenerimento e la quasi totalità dei rifiuti prodotti viene smaltita nelle discariche. Questa grave insufficienza dei servizi e delle infrastrutture di raccolta e smaltimento dei rifiuti, sommata al forte peso delle attività del loro smaltimento illegale – soprattutto industriali ma anche urbani – che vedono protagonista la criminalità organizzata (le cosiddette ecomafie), determina in buona parte dell’Italia del Sud una condizione di ricorrente crisi ambientale, sanitaria, sociale (fig. 3).
La presenza all’interno delle città di aree verdi pubbliche è anch’esso un importante indicatore di qualità dell’ambiente urbano (parchi e giardini pubblici hanno effetti mitigatori sia sull’inquinamento atmosferico sia sulle cosiddette isole di calore), influendo più direttamente sulla qualità di vita e in generale sul benessere degli abitanti.
La dotazione pro capite di verde urbano varia moltissimo da città a città. In Europa si oscilla tra gli oltre 30 m2/ab. di Oslo, Stoccolma, Copenaghen, e i 4 di Riga o Saragozza (Ambiente Italia 2007), mentre in Italia vi sono città che superano i 20, come Lucca, Modena, Prato, Firenze, Perugia, Ferrara, Siena e altre con meno di 5, come Napoli, Reggio Calabria, Lecce, Varese, Imperia (Legambiente 2008b).
Migliorare l’ambiente urbano
Molte città di ogni parte del mondo sono coinvolte in programmi ed esperienze finalizzate a ridurre l’impatto ambientale delle proprie attività e a migliorare, con la qualità dell’ambiente urbano, la vita dei propri abitanti. Queste ‘buone pratiche’ sono più numerose e sistematiche nei Paesi industrializzati, ma sono presenti anche in diverse città del Sud del mondo.
Nel corso dell’ultimo ventennio, sono nati inoltre vari network di città impegnate in azioni rivolte alla sostenibilità ambientale: come, per es., l’ICLEI-Local governments for sustainability, un’associazione fondata nel 1990 che riunisce oltre 800 città e province, la rete europea dei comuni firmatari della Carta di Aalborg ‘delle città europee per uno sviluppo durevole e sostenibile’ (1994), o quella italiana degli enti locali che hanno promosso sul proprio territorio Agende 21 (dal nome del documento approvato in occasione dell’Earth summit tenuto a Rio de Janeiro nel 1992, che fissava 21 obiettivi prioritari per affrontare i problemi ambientali, declinabili su scala sia globale, sia nazionale, sia locale).
L’Europa è certamente all’avanguardia in questo cammino d’innovazione orientato alla sostenibilità ambientale urbana. Diverse città europee si sono date obiettivi di riduzione delle emissioni di gas a effetto serra superiori a quelli assegnati dal Protocollo di Kyoto ai propri Paesi: tra queste Berlino (−25% nel 2010 in confronto ai valori del 1990, contro il −21% della Germania), Copenaghen (−35%, contro il −21% della Danimarca), Barcellona (−1% all’anno dal 2000 al 2010, sebbene la Spagna in base al Protocollo di Kyoto non sia vincolata a ridurre le emissioni). Monaco di Baviera e Barcellona sono al primo posto quanto a superficie installata di pannelli solari (sia nella città bavarese sia in quella catalana vi sono più pannelli solari che in tutte le città italiane), mentre a Vienna, Praga, Helsinki, Torino, Copenaghen, Riga, Stoccolma e Göteborg almeno un terzo delle abitazioni sono riscaldate attraverso sistemi di teleriscaldamento, cioè utilizzando il calore residuo prodotto nelle centrali termoelettriche che altrimenti andrebbe disperso; ad Anversa, Copenaghen, Heidelberg, Vienna e Saragozza tutta la carta utilizzata negli uffici pubblici è riciclata. In molte città europee si vanno poi diffondendo i servizi di car-sharing e bike-sharing (auto e bicicletta offerte in uso a ora e a giornata), e di car-pooling (auto condivisa tra più passeggeri, soprattutto per gli spostamenti casa-lavoro); a Londra, Oslo, Zurigo e (dal 2007) Milano, l’accesso delle auto nelle zone centrali della città è a pagamento per i non residenti.
Nel campo della gestione dei rifiuti, è San Francisco la città nel mondo con la maggiore percentuale di raccolta differenziata: oltre il 70% di tutti i rifiuti prodotti viene raccolto separatamente dai cittadini materiale per materiale, e viene poi avviato a forme di recupero e di riciclaggio. In Europa i livelli più alti di raccolta differenziata si registrano a Helsinki, Hannover, Dresda e Anversa, con oltre il 50%; in Italia diverse città – tra cui Brescia, Bergamo, Reggio nell’Emilia, Novara – superano il 40%.
In più di un caso, progetti e interventi di eccellenza riguardano città italiane: Bolzano è una delle città europee dove si registra il più efficiente rendimento energetico degli edifici, dove cioè – grazie a politiche sistematiche rivolte a promuovere il risparmio e l’efficienza energetici – i consumi di energia per uso civile (nelle abitazioni, negli uffici, nelle scuole, negli ospedali, nei negozi) sono più bassi; Roma vanta nel mondo una delle più ampie zone ‘a traffico limitato’ (quasi 10 milioni di m2), dove possono accedere e circolare in automobile solo i residenti; Ferrara è la città europea dove l’uso della bicicletta è più diffuso (oltre il 30% della popolazione utilizza quotidianamente le ‘due ruote’ per i propri spostamenti, e si prevede un aumento della percentuale grazie a vari interventi dell’amministrazione locale); in alcune città dell’Emilia Romagna le amministrazioni locali, aderendo a un progetto promosso da Legambiente, hanno distribuito a migliaia di famiglie riduttori di flusso da applicare ai rubinetti e alle docce, che consentono un risparmio idrico tra il 10% e il 15%.
Diversi sono nel mondo anche i progetti per dare vita a quartieri o a intere città integralmente ecologici. Vicino a Shanghai, alla foce dello Yangzi, è in costruzione Dongtan, la prima città del mondo a ‘impatto ambientale zero’. Progettata per ospitare una popolazione di 500.000 ab., Dongtan, che dovrebbe venire completata entro il 2050, sarà interamente autosufficiente per i consumi di energia e di acqua, prodotte all’interno dello spazio urbano utilizzando fonti energetiche rinnovabili e sfruttando l’umidità naturale del suolo; la mobilità sarà assicurata da autobus elettrici e da un sistema di tapis roulant, mentre i taxi saranno alimentati a idrogeno. Su questo stesso terreno sono da segnalare due altre esperienze di grande valore: quella di Hammarby Sjöstad, quartiere ‘ecologico’ di Stoccolma, dove tutti i rifiuti confluiscono in un sistema di raccolta e smistamento sotterraneo e le abitazioni sono riscaldate da stufe alimentate con biogas ricavato dalle acque di scarico, e quella di Curitiba, capitale dello Stato brasiliano del Paraná. Curitiba è una città-modello in termini di sostenibilità ambientale: ognuno dei 2 milioni di abitanti può contare su una dotazione pro capite di oltre 50 m2 di verde pubblico urbano, e grazie alla presenza di un sistema moderno e innovativo di autobus a capienza elevata, corsie preferenziali riservate ai mezzi pubblici, e di una rete capillare di stazioni, più di metà della popolazione usa per spostarsi i mezzi pubblici.
Città: simbolo della crisi ecologica
Nel mondo attuale, dove la popolazione urbana è divenuta maggioranza e dove ogni anno si aggiunge qualche nuova megalopoli con più di dieci milioni di abitanti, la città con i suoi problemi ingigantiti di inquinamento, di consumo delle risorse ben superiore alla capacità del ‘capitale’ naturale di autorinnovarsi, diviene più che mai il simbolo della crisi ecologica e dei danni che essa arreca, non solo all’ambiente ma anche all’uomo. Danni che colpiscono noi contemporanei e minacciano ancora più temibilmente le generazioni future. Danni sociali ma danni, anche, squisitamente economici: dai costi che paga l’agricoltura per le crescenti anomalie climatiche legate all’aumento delle emissioni di gas a effetto serra, ai costi pagati dai cittadini e dai sistemi sanitari pubblici per fronteggiare l’aumento di patologie addebitabili all’inquinamento atmosferico. E infine danni che colpiscono con speciale violenza la popolazione urbana: quella soprattutto dei Paesi più ricchi per ciò che riguarda l’impatto sanitario e sociale dell’inquinamento, quella dei Paesi più poveri rispetto ai problemi igienico-sanitari legati all’insufficienza dei servizi idrici e di quelli di raccolta e smaltimento dei rifiuti.
Del resto, lo sguardo del pensiero ecologico sulla città è sempre stato severo, preoccupato. Fondamentalmente antiurbana era la sensibilità del movimento conservazionista (conservation movement) sorto negli Stati Uniti a cavallo tra Ottocento e Novecento, che vedeva nell’avanzata delle città la più grande minaccia per la wilderness, la natura vergine della ‘frontiera’ che, proprio grazie all’impegno dei grandi conservazionisti come John Muir (1838-1914) e Aldo Leopold (1887-1948), verrà protetta nei grandi parchi nazionali (Yellowstone, Yosemite). E attraversata da una radicalissima, impietosa critica verso la città è la riflessione di uno dei padri nobili dell’ecologia politica, Lewis Mumford (1895-1990) che, da una parte, esalta la polis greca e il borgo medievale – città dell’equilibrio, del limite – e, dall’altra, condanna non soltanto le megalopoli contemporanee ma anche, come loro progenitrici, la Roma antica e la città rinascimentale e barocca, accomunate dalla medesima tendenza a tracimare ben oltre la propria ‘nicchia’ ecologica, e a crescere illimitatamente sia in popolazione sia in estensione a discapito dell’equilibrio.
Ma il rapporto del moderno pensiero ecologico con la città è tutt’altro che univoco. Anzi, è tipicamente un legame ambivalente e conflittuale. È infatti nelle città che maturano le condizioni culturali perché l’uomo possa ‘scoprire’ l’ambiente come oggetto di un’attenzione specifica. L’uomo che abita e lavora in città non vive più la natura come una condizione diretta, che interviene nella vita reale, anche come estensione della sfera economica; così, prendendone le distanze, può emanciparsi da un legame con essa esclusivamente utilitaristico e strumentale, e cominciare a riconoscerle un valore e un’importanza autonomi. Quanto più la società si va artificializzando e tecnicizzando – e la città è il luogo massimo di tale processo – tanto più attecchiscono nell’uomo i ‘semi’ della preoccupazione ecologica.
Ancora più decisamente urbano nella sua visione della crisi ecologica è l’ambientalismo, movimento culturale e sociale sviluppatosi a partire dagli anni Sessanta del 20° secolo. L’ambientalismo si presenta con caratteristiche assai diverse da quelle dei movimenti conservazionisti della prima metà del Novecento: nasce nel segno di una rifondazione dell’esigenza ecologica su basi sociali, umanistiche, più che etiche ed estetiche; nasce con l’ambizione di tradurre la difesa dell’ambiente da astratto valore ideale in concreto interesse sociale, e seguendo tale ambizione tende a intrecciarsi e contaminarsi con bisogni e preoccupazioni squisitamente urbani. Il suo obiettivo non è tanto di sottrarre lembi di natura all’avanzata di fabbriche e città, ma è molto più generale e politico: combattere l’inquinamento e dunque mettere in discussione la stessa desiderabilità, sociale prima ancora che ecologica, di una crescita economica illimitata. E come la fabbrica, secondo l’analisi marxiana, è al tempo stesso l’epicentro dell’iniquità del sistema capitalista e il luogo dove maturano le condizioni sociali per sconfiggere o limitare tale iniquità, così la città, nella concezione e nell’esperienza dell’ambientalismo, è la massima espressione della crisi ecologica ma anche il teatro principale della sua presa di coscienza da parte dell’uomo nonché dell’azione per evolvere verso una società e verso un’economia sostenibili.
La popolazione mondiale fra qualche decennio smetterà di crescere, invece continueranno ad aumentare la percentuale della popolazione urbana e il numero delle megalopoli. All’inizio del 21° sec., proprio a partire dalle città, l’uomo contemporaneo deve trovare e costruire la via stretta ma obbligata di uno sviluppo sostenibile. Questo è raggiungibile trovando un equilibrio tra l’aspirazione al benessere (anche materiale) e la necessità, anch’essa oggi un interesse prioritario dell’uomo, di non danneggiare irreparabilmente gli equilibri ecologici e di assumere la consapevolezza del carattere limitato, finito, degli ecosistemi e della loro capacità di assorbire la pressione antropica. Il nostro destino ecologico dipenderà in larga misura da come cambieranno le città: assomiglieranno sempre di più agli inferni metropolitani largamente descritti dalla letteratura e dal cinema, come la Leonia sommersa dai rifiuti che narra Italo Calvino (Le città invisibili, 1972), le megalopoli agonizzanti profetizzate da Roberto Vacca (Il medioevo prossimo venturo, 1971; La morte di megalopoli, 1974), o ancora la Manhattan rappresentata da John Carpenter in Escape from New York (1981; 1997: fuga da New York), sconfinata prigione metropolitana su cui regnano bande di ergastolani senza pietà e senza speranza? O invece cammineranno in direzione dell’utopia ‘ecotecnologica’ raccontata nel 1975 da Ernest Callenbach in Ecotopia, romanzo-manifesto dell’allora nascente movimento ambientalista, che descrive città-modello, modernissime e a perfetta misura d’uomo e di natura? Questa stessa alternativa, peraltro, si vede estremizzata non soltanto nell’opera di fantasia di scrittori e registi: non è meno immensa la distanza che separa Dongtan, la città ‘a impatto zero’ in costruzione in Cina, dagli slums di Nairobi o di Calcutta.
Come attesta lo stesso concetto di ecosistema urbano, la città non è affatto il luogo dell’antiecologia, anzi oggi è divenuta l’habitat per eccellenza di una specie tra le altre, la nostra: «La città – scrive l’urbanista Francesco Indovina – non è prodotto esogeno alla specie, è essa stessa il risultato di una ‘invenzione’ (sociale), come se l’umanità avesse, essa stessa, creato la nicchia all’interno della quale l’evoluzione sarebbe stata non solo assicurata ma anche più dinamica. Contemporaneamente la città in quanto tale genera un’entropia crescente e tale da incidere negativamente sulla nicchia. Per evitare questo evento catastrofico la soluzione non sta nella ‘fuga dalla città’, ma piuttosto nel lavorare sulla città, al fine di garantirne la sopravvivenza come nicchia ecologica» (La città sostenibile: sosteniamo la città, «Archivi di studi urbani e regionali», 2003, 77, p. 12). Insomma, la possibilità concreta che il trionfo dell’era urbana non segni anche l’apoteosi della crisi ecologica dipende in buona parte da quanto le città si andranno avvicinando alla Leonia di Calvino o invece all’Ecotopia di Callenbach.
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