Ambiente
di Laura Castellucci
L’economia dell’ambiente, composta da due filoni di ricerca, quello del controllo efficiente dell’inquinamento e quello dell’allocazione intertemporale delle risorse naturali, poggia sulla circolarità delle relazioni ambiente naturale-economia. Nonostante la crescita dell’inquinamento e dei rifiuti pro capite, ancor oggi si stenta a prendere atto della circolarità. Alla domanda più generale se sia possibile individuare la relazione che lega la crescita economica al deterioramento dell’a. è stato risposto con studi empirici che stimano la cosiddetta curva di Kuznets ambientale (relazione tra reddito pro capite e un indicatore di deterioramento). Questa mostrerebbe come le prime fasi della crescita avvengano ai danni dell’a., mentre nelle successive crescita e qualità ambientale sarebbero entrambe positive. L’esistenza o meno delle curve di Kuznets ambientali è oggetto di dibattito perché se davvero a un certo livello di reddito pro capite anche l’ambiente naturale migliorasse automaticamente, non resterebbe che perseguire la crescita. In verità, il raggiungimento del tratto virtuoso della relazione, quando si verifica, è la conseguenza di politiche di intervento pubblico.
È stato dimostrato che, sotto precise assunzioni, la massimizzazione dell’utilità da parte dei consumatori e quella del profitto da parte dei produttori portano anche alla massimizzazione del benessere sociale (ottimo paretiano). Qualora però vi siano effetti esterni (per es., un’acciaieria che emette gas dannosi alla salute) oppure si utilizzino risorse naturali libere e/o pubbliche (acque di un fiume per irrigazione o scarico), il sistema dei prezzi non assicura l’ottimo paretiano perché non esiste il prezzo delle esternalità (danno alla salute) né del bene libero o pubblico (fiume): siamo cioè in presenza di fallimenti del mercato. Nel caso di beni privati commerciali il mercato è il sistema di allocazione ottimo, mentre nel caso di beni liberi conduce al loro esaurimento (tragedy of the commons) e in quello di beni pubblici alla loro sottoproduzione. La possibilità di escludere dal godimento del bene coloro che non pagano il prezzo porta alla situazione ottima nel caso dei beni privati, ma ciò non è possibile nel caso di beni pubblici. Una volta disinquinata l’aria di una città, viene respirata da tutti e nessuno può essere escluso. Questo impedisce al mercato di funzionare ed è perciò necessario l’intervento pubblico correttivo.
Occorre distinguere tra valore d’uso e valore di non uso. Il valore d’uso di una foresta è dato dal valore (prezzo) del legno ottenibile dal suo taglio; ma essa produce altri servizi, che non hanno prezzo di mercato sebbene abbiano valore, quali protezione del suolo, conservazione di biodiversità, regolazione del clima e così via. Per questi beni naturali si parla perciò di valore economico totale dato dalla somma di quelli di uso e di non uso, di opzione (differimento del taglio) e di esistenza. Per passare dai concetti alle misure sono stati elaborati vari metodi, indiretti e diretti, a seconda della tipologia di risorsa da stimare. I primi, tra cui il travel cost e il prezzo edonico, sono applicabili solo in dati casi mentre il metodo diretto della valutazione contingente lo è sempre. Questo metodo gode di crescente utilizzazione. Il punto di partenza è quello di mimare il mercato per ottenere direttamente dalle dichiarazioni dei singoli le loro preferenze (preferenze dichiarate) e non indirettamente tramite la disponibilità a pagare (preferenze rivelate). L’utilizzazione di questa metodologia è alquanto diffusa all’estero: per es., prima di installare un inceneritore, si procede alla valutazione contingente per conoscere la disponibilità delle comunità coinvolte dalle esternalità negative a pagare per non avere l’inceneritore nel loro territorio oppure ad accettare indennizzi per lasciarlo costruire.
Il prodotto interno lordo (PIL) è l’indicatore aggregato di performance di un’economia quale valore del flusso di beni e servizi prodotti nell’anno. Fu elaborato, intorno agli anni Cinquanta, per offrire ai governanti una base conoscitiva concreta sulla quale basare le politiche di intervento economico, ma con il tempo ha assunto il significato errato di benessere sociale. Ai tempi della sua elaborazione i problemi ambientali non si erano ancora manifestati e soltanto verso la fine degli anni Ottanta del 20° sec. si affermò l’idea che la misurazione del PIL dovesse essere completata da informazioni quantitative e qualitative sullo stato delle risorse naturali e sull’ambiente. La revisione del system of national accounts è tutt’ora in corso, ma vari Paesi (incluso il nostro) hanno già adottato il sistema dei conti satelliti sullo stato del capitale naturale (RUMEA,Resource Use and Management Expenditure Account) e sulle spese per la protezione ambientale (EPEA, Environmental Protection Expenditure Account) da affiancare al PIL. Ciò nonostante la contabilità del PIL produce un’immagine distorta dell’ambiente naturale. Basti pensare all’impatto di un disastro naturale, per es. un terremoto o un’alluvione. La distruzione di immobili, infrastrutture ecc. implica che si ricostruiscano: investimenti e occupazione crescono e la contabilità registra un incremento di produzione interpretato come aumento di benessere mentre si è, nella migliore delle ipotesi, ripristinato quello precedente il disastro. Paradossalmente i disastri ambientali sarebbero eventi positivi.
I problemi di economia dell’a. sono legati alle esternalità, ai beni pubblici e liberi e rientrano perciò nei fallimenti di mercato. Nell’attuale era di liberismo economico e di globalizzazione commerciale, il Nobel per l’economia attribuito nel 2009 a Elinor Ostrom per i suoi studi sui beni comuni, ha contribuito a riportare l’interesse per i beni e i servizi non commerciali nel dibattito corrente (v. figura). Non sono emerse però nuove ricette per un’efficiente governance dei beni non commerciali nelle economie avanzate e, anzi, i richiami alla cooperazione volontaria come tipologia organizzativa adatta alla gestione dei beni comuni possono essere fuorvianti. La cooperazione volontaria, come risulta dalla teoria e dalla realtà, può infatti esistere solo in piccoli gruppi, partecipare ai quali porta benefici a ciascuno mentre ciascuno è esposto al controllo da parte degli altri. La teoria dei giochi mostra come al crescere del numero dei partecipanti a un gruppo cresce anche l’incentivo al free riding (cioè ad avvantaggiarsi dal gruppo senza partecipare ai costi) e la realtà, anche quella analizzata dalla Ostrom come le organizzazioni di alcuni villaggi in India, rivela che le esperienze positive sono ristrette a gruppi piccoli (sotto i 15.000 individui) e non facenti uso di tecnologia avanzata. Nel mondo tecnologico dei Paesi sviluppati la cooperazione volontaria non può rappresentare una concreta alternativa all’azione degli Stati. Mentre è noto che il mercato non è in grado di fornire la quantità ottima di beni pubblici né di gestire i beni comuni/liberi, gli Stati, quali organizzazioni fondate sul diritto, possono con il loro potere di coercizione, decidere quali e quanti beni fornire.
L’intervento pubblico per la tutela ambientale può avvalersi di due gruppi di strumenti, quelli command and control (C&C) e quelli basati sugli incentivi di mercato. La logica del C&C implica che lo Stato stabilisca l’obiettivo (lo standard) e lo faccia rispettare con sanzioni. Elementi di debolezza di questi strumenti riguardano l’individuazione dello standard socialmente ottimo, gli elevati costi di controllo e la loro inefficienza rispetto ai costi di abbattimento dell’inquinamento. Essi infatti implicano che ciascuna impresa rispetti lo standard, ma se il costo di abbattimento è diverso per ciascuna impresa si potrebbe minimizzare quello complessivo se le imprese con costi più bassi avessero incentivo ad abbattere maggiori quantità di quelle con costi più alti. Questa è la logica degli incentivi di mercato che cercano di indurre comportamenti socialmente virtuosi e di scoraggiare quelli dannosi. Tali sono i sussidi per l’uso di tecnologie pulite, le imposte sulle emissioni nocive e i diritti o permessi di inquinamento negoziabili. Imposte e diritti portano proprio alla minimizzazione del costo sociale di abbattimento. Nel caso dei permessi lo Stato deve stabilire, per l’inquinante che vuole limitare, la quantità consentita e quindi ‘stampare’ i corrispondenti titoli (v. mercati ambientali). Le imprese interessate hanno la libertà di scegliere se acquistare i diritti o se utilizzare tecnologie non inquinanti. In entrambi i casi l’obiettivo sarà raggiunto e il costo minimizzato perché ciascuna impresa avrà scelto la decisione meno costosa. L’Unione Europea ha introdotto nel 2005 un sistema di permessi negoziabili per le emissioni di CO2 di tipo cap and trade. È il primo sistema di permessi internazionale e consente di ottenere un prezzo per la CO2. Altri strumenti, che presuppongono decisioni decentrate, sono la legge di responsabilità (liability law); la definizione, quando possibile, dei diritti di proprietà sui quali possono formarsi gli accordi negoziali e la moral suasion per ottenere decisioni individuali socialmente ottime (campagne pubblicitarie per educare a non disperdere i rifiuti nell’a., a non accendere fuochi nei parchi e così via).
La grande crescita economica e della popolazione degli ultimi due secoli, principalmente dovuta alla sostituzione dell’energia animale con l’energia prodotta dai combustibili fossili, è avvenuta al costo del cambiamento climatico. Questo modello di crescita è chiamato brown growth. Gli scienziati (fisici, climatologici) avvertono che se non si adottano misure globali per contenere l’aumento della temperatura entro due gradi, gli effetti sul clima saranno irreversibili (v. cambiamenti climatici). Il brown growth va abbandonato a favore del green growth (o di una low carbon society) come modello di crescita compatibile con i vincoli naturali. Un global green new deal sarebbe in grado di accelerare questa transizione e insieme di combattere l’attuale crisi economica, analogamente al New deal di Franklin Delano Roosevelt alla fine della Seconda guerra mondiale. Nella green economy gli attori, i governi, le imprese, i consumatori, consapevoli della circolarità delle relazioni, agiscono nel rispetto dei limiti naturali a beneficio delle generazioni future. Anche il recente termine blue economy creato in ambito industriale ha lo stesso significato. Green economy (v.) è il termine più diffuso e in uso sin dal 1992 (Convenzione UNFCCC, United Nations Framework Convention on Climate Change).
I problemi ambientali sono di difficile soluzione non soltanto perché riguardano esternalità, beni pubblici e liberi, ma perché hanno dimensione globale, necessitano di decisioni globali edunque di accordi internazionali. È stato anche teorizzato che, in assenza di tali accordi, gli sforzi messi in atto dai Paesi virtuosi per ridurre, per es., le emissioni di CO2 verrebbero neutralizzati dalle maggiori emissioni dei Paesi non aderenti ai trattati. Si verificherebbe un green paradox ovvero l’inefficacia delle politiche ambientali introdotte da Paesi singoli.
I contenuti delle tre Convenzioni delle Nazioni Unite, emerse dall’Earth Summit di Rio (1992), sul cambiamento climatico, sulla perdita di biodiversità e sulla desertificazione, rappresentano problemi ancora irrisolti e che anzi si sono acutizzati con il cattivo uso del territorio. Il taglio della foresta amazzonica brasiliana per far posto a piantagioni industriali (palma da olio) e allevamento, e di quella boreale canadese per utilizzare le tar sands (v. idrocarburi non convenzionali), hanno aggravato gli effetti sul cambiamento climatico (rilascio di CO2 accumulata). Spesso i Paesi che non partecipano agli accordi sostengono di voler contribuire alla decarbonizzazione dell’economia tramite il ricorso alle tecnologie pulite. In effetti la transizione verso una low carbon society può avvenire soltanto grazie al progresso tecnico; questo può già essere disponibile, come quello per la CCS (Carbon Capture and Storage, v. cattura e stoccaggio della CO2), oppure in fase di studio (v. tecnologie per la transizione energetica). Dichiarare la fiducia nel progresso tecnico non è però sufficiente perché non ci si può aspettare che esso si evolva automaticamente verso la soluzione dei problemi ambientali.
Mentre dopo i due primi shock petroliferi degli anni Settanta il progresso tecnico portò a un aumento dell’efficienza nella produzione dell’energia e alla sostituzione di fonti inquinanti con altre meno, nei primi anni del 21° sec. si è registrata un’inversione di tendenza. La tecnologia nota come fratturazione idraulica (fracking) che ha consentito agli Stati Uniti di ridurre drasticamente le importazioni di petrolio negli ultimi tre anni, ha aperto la via all’estrazione di fossili non convenzionali più inquinanti del petrolio. Il progresso tecnico è un prodotto del mercato e come tale segue il profitto e i prezzi di mercato e non può rispondere ai segnali di deterioramento qualitativo dell’ecosistema, di perdita di biodiversità, di rischi di estinzione, proprio perché non hanno prezzo di mercato. Solo scelte di politica ambientale volte a ridurre l’intensità nell’uso delle risorse naturali (v. anche protocollo di Kyoto) possono indirizzare il progresso tecnico nella direzione desiderata.
R. Perman, Y. Ma, M. Common et al., Natural resources and environmental economics, London 1996, New York 20114; K. Hamilton, G. Atkinson, Wealth, welfare and sustain ability. Advances in measuring sustainable development, Cheltenham-Northampton (Mass.) 2006; E.B. Barbier, A global green new deal.Rethinking the economic recovery, Cambridge-New York 2010; R. Gerlagh, Too much oil, «CESifo Economic Studies», 2011, 57, pp. 79-102; A. Wijkman, J. Rockström, Bankrupting nature, Stockholm 2011, London-New York 20122 (trad. it. Natura in bancarotta. Perché rispettare i confini del pianeta, a cura di G. Bologna, Milano2014); E.B. Barbier, A. Markandya, A new blueprint for a green economy, New York 2013; Government and the environment. The role of the modern State in the face of global challenges, ed. L. Castellucci, London-New York 2014; R.S.J. Tol, Climate economics, Cheltenham 2014.
di Lina Maria Calandra
La nozione di giustizia ambientale ha acquistato rilievo a livello globale nella seconda metà degli anni Novanta del 20° sec. entrando nel campo di interesse di organizzazioni e agenzie internazionali, nelle attività di denuncia e di intervento di Organizzazioni non governative (ONG) che operano soprattutto in Africa e nel Sud-Est asiatico, nelle agende politiche nazionali, in particolare di Paesi dell’America Latina. Affermatasi negli USA come principio ispiratore di movimenti ambientalisti e gruppi organizzati di difesa dei diritti civili a partire dagli anni Ottanta del 20° sec., la giustizia ambientale rappresenta oggi una materia di studio e discussione complessa che, a partire dal riconoscimento dell’ambiente come fondamentale componente per la giustizia sociale, si articola su più piani.
Per un verso, tale dibattito porta all’attenzione dell’opinione pubblica e della politica come l’esposizione a rischi e danni ambientali (inquinamento, degrado delle risorse) negli USA, e più in generale, nei Paesi cosiddetti occidentali, riguardi in misura sistematicamente maggiore le comunità povere o discriminate e le minoranze etniche. In questi Paesi la localizzazione e la concentrazione spaziale di impianti e attività ad alto rischio per la salute (discariche di rifiuti tossici, industrie fortemente inquinanti ecc.) seguono spesso criteri ispirati a razzismo, disuguaglianza sociale, ingiustizia socioeconomica; così come la distribuzione dei rischi e dei danni ambientali spesso si basa sull’individuazione di contesti territoriali deboli come, per es., quelli abitati da comunità povere, che in ragione della loro debolezza (sociale, economica, politica) sono meno propensi a opporsi o più propensi a cedere al 'ricatto' ambientale, ossia degrado ambientale in cambio di posti di lavoro.
Per un altro verso, e più recentemente, riconoscendo l’ambiente un diritto fondamentale dell’essere umano, la discussione sulla giustizia ambientale investe anche il piano dei diritti umani e della loro difesa sotto più punti di vista. In primo luogo, in termini di difesa dall’ingiustizia per l’esposizione a rischi e danni ambientali conseguenti alla delocalizzazione di siti, attività e sostanze pericolosi dai Paesi industrializzati ai Paesi in via di sviluppo (PVS); in secondo luogo, in termini di difesa delle comunità insediate dal depauperamento e prelevamento di risorse, spesso all’origine di conflitti armati, da parte degli Stati e di corporazioni multinazionali. In questa accezione (che recupera problematiche sollevate già dagli anni Settanta del 20° sec. dalla political ecology anglosassone e dal dibattito sulla questione ambientale in riferimento ai PVS), la giustizia ambientale si traduce in interventi a favore del riconoscimento alle comunità insediate del diritto di esercitare il controllo sulle risorse (accesso e distribuzione; ripartizione dei proventi e dei costi derivanti dallo sfruttamento) e sui meccanismi di compensazione per i danni e gli svantaggi derivanti dallo sfruttamento.
di Stefano Villamena
L’a. è uno dei temi più vasti e articolati che il settore giuridico conosca. È sufficiente scorrere gli indici delle principali trattazioni specialistiche in tema (Trattato di diritto dell’ambiente, 2012; Trattato di diritto dell’ambiente, 2014) per accorgersi che esso abbraccia un vasto campo disciplinare che spazia dal diritto sovranazionale al diritto costituzionale, dal diritto civile al diritto penale, fino a investire il diritto processuale civile e quello processuale penale. Per altro, in ognuna delle discipline indicate il tema qui in esame rileva sia sul piano generale (con riferimento ai principi), sia sul piano particolare (relativamente a settori specifici che volta per volta vengono presi in considerazione dalla normativa).
Nonostante tale obiettiva complessità, la prospettiva giuridica consente se non altro di fare riferimento a elementi di relativa certezza, in particolare attingendo alle fonti normative ambientali, come, per es., le convenzioni internazionali, il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell’Unione Europea), le costituzioni statali, le leggi e gli altri atti normativi.
Volendo qui tracciare un quadro sufficientemente informativo e sistematico, si è scelto di seguire un metodo espositivo a cascata, ossia che muove dal più alto livello sovranazionale per poi scendere (lungo l’asse dei livelli di governo) verso il più basso livello nazionale.
Occorre distinguere fra normativa internazionale e normativa europea. La prima si interessa dell’a. in numerose convenzioni che sono poste a tutela di una serie di beni ambientali specifici. La seconda, invece, si interessa dell’a. sia nel Trattato europeo sia in una serie di regolamenti e direttive. Molte delle indicazioni provenienti dal livello sovranazionale qui in esame sono state poi riprese nel nostro ordinamento con l’approvazione del codice dell’a. avvenuta nel 2006 di cui successivamente si accennerà.
Volendo fare un rapido cenno alla prospettiva internazionale, un primo gruppo di provvedimenti riguarda la protezione dell’atmosfera, della fascia di ozono e della lotta contro i cambiamenti climatici. In questo ambito si possono ricordare la Convenzione di Vienna del 1985 e il Protocollo di Montreal del 1987. Un secondo gruppo riguarda invece la protezione della natura e delle biodiversità. In questo ambito si possono menzionare la CITES (Convention of International Trade of Endagered Species) del 1973 e quella di Ramsar del 1971. Ancora, un terzo gruppo di accordi internazionali interessa la protezione dell’ambiente marino e delle acque dolci. In questo ambito, fra le altre, sono rilevanti la Convenzione delle Nazioni Unite sul diritto del mare del 1982 e la Convenzione di Helsinki del 1992. Infine, un quarto gruppo riguarda la protezione dell’a. dalle sostanze pericolose. In tal senso, emblematica è la Convenzione di Basilea sul movimento transfrontaliero dei rifiuti del 1989.
A livello internazionale occorre poi considerare il grande risalto offerto al tema dei principi. In questo senso principi come quello di prevenzione, di precauzione e di sviluppo sostenibile rappresentano la vera e propria base del diritto dell’a. tout court, dunque non soltanto del diritto internazionale dell’a. singolarmente considerato. Del resto, ciò trova conferma nel fatto che tali principi sono spesso ripresi e ampliati dal diritto interno e dal diritto comunitario. Così, il principio di sviluppo sostenibile ha consentito di superare (a ogni livello) la forte barriera protezionista che tradizionalmente caratterizzava la disciplina ambientale, fondata sul rifiuto di qualsiasi forma di interazione con altre attività, prima fra tutte quella di tipo economico.
In tema di principi, merita infine ricordare che la dottrina internazionalista (Trattato di diritto dell’ambiente, 2012) individua la differenza fra (i suindicati) principi di prevenzione e di precauzione nel fatto che la prevenzione riguarda situazioni in cui il rischio ambientale è scientificamente provato, mentre la precauzione riguarda un mero principio di prova a sostegno della relativa azione di tutela. Una tale differenza sarà poi ripresa a livello europeo: non a caso la stessa dottrina richiama una convenzione internazionale (principio 15, Dichiarazione di Rio de Janeiro del 1992) per la definizione del principio di precauzione sancito a livello comunitario (Trattato di diritto dell’ambiente, 2012).
Per quanto riguarda la prospettiva europea occorre mettere in evidenza che la materia ambientale costituisce uno dei pilastri in cui si estrinseca l’azione dell’Unione Europea. I principali settori d’intervento sono quelli relativi all’inquinamento atmosferico, climatico, idrico, acustico, nonché il settore primario del trattamento dei rifiuti. Non mancano altresì importanti riferimenti alla tutela territoriale, paesaggistica e delle aree protette, così come al tema della responsabilità per danno ambientale e all’accesso alle informazioni ambientali.
Venendo ai giorni nostri, sia la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea (cosiddetta Carta di Nizza, che ora ha lo stesso valore del Trattato) sia il Trattato europeo si interessano della disciplina dell’ambiente. Nella Carta di Nizza, in linea con il diritto internazionale, si stabilisce che l’Unione garantisce «un livello elevato di tutela dell’ambiente», ma pur sempre integrata con il rispetto del «principio di sviluppo sostenibile» (art. 37).
Allo stesso modo nel Trattato europeo, all’art. 3, 3° par., si afferma che obiettivo generale dell’Unione è quello di «una crescita economica equilibrata», ossia che cerchi di coniugare armoniosamente tutela e miglioramento della qualità dell’a., stabilità dei prezzi e occupazione. Ulteriori indicazioni sono poi contenute all’art. 191 TFUE.
Rispetto a quelli propri del diritto internazionale, principi originali in questo ambito sono quelli di sussidiarietà e di proporzionalità, appartenenti al novero dei principi procedurali di tutela ambientale, nonché il principio di correzione (alla fonte dei danni causati dall’a.) e il principio ‘chi inquina paga’, questi ultimi due appartenenti al novero dei principi sostanziali. Sono principi su cui non è possibile dilungarsi, anche se va precisato che il principio di correzione fonda tutta la disciplina sulle bonifiche dei siti inquinati.
Ciò che invece merita di essere evidenziato è che il principio di prevenzione costituisce il fondamento dei principali strumenti al servizio del bene giuridico ambiente, in particolare procedure di VIA (Valutazione Impatto Ambientale), VAS (Valutazione Ambientale Strategica), AIA (Autorizzazione Integrata Ambientale), che, complessivamente considerate, rappresentano il sistema di pianificazione ambientale.
A livello interno occorre infine ricordare che nel 2006 è stato adottato in Italia il cosiddetto codice dell’ambiente (d. legisl. 3 aprile 2006 nr. 152), i cui primi articoli sono proprio dedicati a riaffermare i principi che costituiscono il diritto ambientale sovranazionale già trattato. Allo stesso modo negli artt. 4 e segg. si regolano in dettaglio le procedure di VIA, VAS e AIA.
Nel codice in parola grande attenzione è dedicata alla «difesa del suolo» e alla «lotta alla desertificazione» (artt. 53 e segg., intesa anche come risanamento idrogeologico del territorio e messa in sicurezza dello stesso); alla gestione dei rifiuti e alla bonifica dei siti inquinati (artt. 177 e segg., soprattutto nel senso di prevedere misure volte a proteggere l’a. e la salute umana dagli impatti negativi della produzione e della gestione dei rifiuti); alla tutela dell’aria e alla riduzione delle emissioni in atmosfera (artt. 267 e segg.); infine, alla tutela risarcitoria derivante dalla violazione delle norme ambientali (artt. 298 ter e segg.).
Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di P. Dell’Anno, E. Picozza, Padova 2012; Trattato di diritto dell’ambiente, a cura di R. Ferrara, M.A. Sandulli, Milano 2014.