Catarino, Ambrogio
Al secolo Lancellotto Politi, nacque nel 1484 a Siena, dove si addottorò in diritto. Interruppe una promettente carriera in campo giuridico alla fine del 1515, quando la lettura di alcune opere di Girolamo Savonarola lo spinse a indossare l’abito domenicano, adottando il nome di Ambrogio Catarino. Tra i numerosi bersagli della sua lunga e prolifica opera controversistica si debbono citare almeno Martin Lutero (1520), Bernardino Ochino e il Beneficio di Cristo (1544), e persino il suo precedente modello, Savonarola (1548). L’eclettica e inesauribile vis polemica non impedì d’altronde a C. di svolgere nel corso degli anni Quaranta un’intensa attività di proselitismo, fondata su una serie di «tentativi di risoluzione non inquisitoriale di casi di eresia» (Caravale 2010, p. 309), mentre negli stessi anni portava dei contributi rilevanti su varie questioni affrontate nella prima fase del Concilio di Trento. Morì a Napoli nel 1553, poco dopo la nomina ad arcivescovo di Conza e mentre era in viaggio per Roma, dove avrebbe dovuto ricevere l’ambita porpora cardinalizia.
Nel 1551, in appendice alla ristampa di una Disputatio sull’Immacolata Concezione, C. aveva pubblicato alcune pagine contro M., che sarebbero confluite pochi mesi dopo nell’imponente ed eterogeneo volume delle Enarrationes in quinque priora capita libri Geneseos (coll. 340-44: Quam execrandi Macchiavelli Discursus et institutio sui Principis), di seguito a un paragrafo De libris christiano detestandis et a christianismo penitus eliminandis, all’interno di uno scritto sui volgarizzamenti delle Scritture. L’opera del Segretario fiorentino aveva già incontrato varie censure, ma quella di C. rappresenta la prima significativa riflessione sulla sua influenza nell’Italia della prima metà del Cinquecento e al contempo la prima, compiuta definizione del «nesso tra machiavellismo ed eresia» (Caravale 2007, p. 286). M. è visto infatti come colui che aveva insegnato ai principi la necessità di ricorrere al tradimento e alla simulazione, per consolidare il proprio potere, e di considerare la religione stessa come uno strumento politico. E se resta solo implicito il timore, pur percepibile, che le autorità poste a capo di comunità protestanti fossero spinte da argomenti simili ad aderire alla Riforma, l’autore non nasconde la convinzione che le pagine di M. sanciscano un modello di comportamento per quei «novi heretici» che, pur disprezzando le cerimonie della Chiesa, erano pronti a simulare l’adesione a esse propter scandalum infirmorum («onde evitare di scandalizzare i deboli», Enarrationes, col. 341). Tale intuizione – al di là della polemica di C. contro alcuni fondamentali precetti di M., quali la necessità di «pigliare la golpe e il lione» o l’opportunità di imitare Cesare Borgia – avrebbe incontrato un’ampia fortuna nella successiva pubblicistica antimachiavellica, sia cattolica sia protestante; né è improbabile che la denuncia di C. abbia influito sulla proibizione delle opere di M. sancita dall’Indice del 1559.
Bibliografia: M. D’Addio, Il pensiero politico di Gaspare Scioppio e il machiavellismo del Seicento, Milano 1962, pp. 271-75; A. Rotondò, La censura ecclesiastica e la cultura, in Storia d’Italia, a cura di R. Romano, C. Vivanti, 5° vol., t. 2, Torino 1973, pp. 1397-1492; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995, pp. 89-92; S. Anglo, Machiavelli. The first century. Studies in enthusiasm, hostility, and irrelevance, Oxford 2005, pp. 167-71 e passim; G. Caravale, Sulle tracce dell’eresia. Ambrogio Catarino Politi (1484-1553), Firenze 2007, pp. 281-88; G. Caravale, Catarino Ambrogio (Lancillotto Politi), in Dizionario storico dell’Inquisizione, 1° vol., Pisa 2010, ad vocem.