CAVALLI (Cavallis, Caballis, Cavoli, de), Ambrogio
Di origine milanese, nacque intorno all'anno 1500. Battezzato con il nome di Gerolamo, entrò tra gli eremitani di S. Agostino e vi assunse il nome di Ambrogio da Milano.
Èdunque errata l'indicazione del C. come "Gerolamo da Milano" (Williams) e del tutto infondata l'identificazione con un contemporaneo Ambrogio da Milano benedettino (Gaeta).
Probabilmente il C. studiò a Padova, dato che il più antico riferimento che lo riguarda è la sua nomina a "cursore",il 2 giugno 1523, presso lo Studio eremitano di quella città. Nel giugno 1525 partecipò a Padova alle previste dispute accademiche,ottenendo il grado di lettore; e nel capitolo generale dell'Ordine, tenutosi a Treviso nel maggio 1526, venne nominato baccelliere, sempre con sede a Padova. Nel luglio 1528 gli veniva conferito il grado di maestro in sacra teologia e, in quello stesso anno o all'inizio del successivo, veniva mandato a Bologna come reggente dello Studio generale; nell'ottobre-novembre 1529 era riconfermato nell'incarico. Proprio negli anni bolognesi si determina (o, forse, si accentua) la "conversione" del C. all'erasmismo teologico e tale adesione sembra sia sostanzialmente continuata fino al 1540.
Al 1537 risale il suo primo scontro con l'Inquisizione allorché, essendo stato denunziato per le affermazioni contenute in certe sue prediche, dopo un processo, veniva bandito dalla diocesi di Milano, mentre in data 28 novembre il priore generale Della Volta gli vietava di predicare o di discutere senza sua speciale licenza.
Il C. nel frattempo si era rivolto a Roma, e il maestro del Sacro Palazzo, T. Badia, a cui era stata rimessa la questione, sentenziò che alcune affermazioni imputategli erano ortodosse, altre gravemente scandalose. Avendo però il C. dichiarato che queste ultime non erano mai state da lui sostenute, un breve papale, in data 21 nov. 1537, stabiliva che l'inquisito non doveva più essere molestato, né gli si poteva vietare di risiedere a Milano.
La riabilitazione fu dunque completa; e infatti, durante il capitolo generale di Verona, il 18 giugno 1538, il C. veniva nominato priore del convento di S. Marco a Milano e come tale partecipò l'anno successivo al capitolo generale tenutosi a Napoli. Nel luglio 1540 è compreso nella lista dei frati eremitani autorizzati a predicare dal generale Seripando, ma nell'agosto di quello stesso anno, in opposizione alla linea dello stesso Seripando di decisa intransigenza verso i frati "novatori" o comunque sospettati di simpatie protestanti, il C. e il confratello Giulio da Milano rinunziavano rispettivamente al priorato e alla "reggenza" dello Studio di S. Muco.
Praticamente da questo momento inizia un grave periodo di crisi per l'Ordine eremitano che vedrà nel giro dei successivi tre anni la persecuzione (e per i primi due anche la fuga dall'Italia) di religiosi quali Agostino Mainardi, Giulio da Milano, Nicolò da Verona. Ma mentre nei confronti dei confratelli appena ricordati l'atteggiamento del Seripando fu molto deciso e rigido, non così per il C., forse anche per l'incerta posizione teologica del C. in quegli anni.
Da quanto sappiamo pare comunque si possa dedurre che a partire dal 1542 il C. sia praticamente uscito dall'Ordine, ponendosi invece al seguito del veneziano Andrea Zantani, vescovo di Limisso nell'isola di Cipro, che lo inviava nell'isola come suo vicario.
Per la predicazione che tenne a Nicosia nella quaresima del 1544 il C. destò forti sospetti nell'Inquisizione; e (dopo un processo tenutosi a Cipro e ritenuto non regolare per il favore di cui godette l'imputato), tornato nel novembre a Venezia, venne arrestato nel gennaio 1545 per ordine del nunzio Della Casa e nei suoi confronti venne iniziato un severo procedimento.
Le accuse rivolte al C. costituiscono, per l'assenza di suoi scritti o lettere, la sola testimonianza del suo pensiero teologico. Gli s'imputò di negare valore al culto tradizionale reso a Maria ed ai santi, che, del resto, non possono intercedere per i fedeli; una generale svalutazione della liturgia e della stessa messa; il rifiuto degli ordini religiosi, delle immagini, delle elemosine (i beni della Chiesa dovrebbero essere distribuiti alla collettività), del digiuno come precetto e delle orazioni per i defunti; la negazione del libero arbitrio, del purgatorio e della confessione sacramentale; l'affermazione del sacerdozio universale dei fedeli contro ogni gerarchia ecclesiastica ed il valore unico della fede in Dio, che sola salva l'uomo: proposizioni che sembrano individuare nel C. un calvinista ortodosso, coerentemente, del resto, con i suoi successivi rapporti con Renata di Francia e con la sua permanenza nei Grigioni ed a Ginevra.
Il procedimento si concluse con una solenne abiura in S. Maria Formosa a Venezia, il 31 marzo 1545. Liberato dal carcere, il C. fu inviato a Roma, dove non fu molestato e, a quanto pare, fu ben presto rilasciato.
Sembra che nel 1546 sia stato a Chiavenna e nei Grigioni; mentre dal 1547 fino alla quaresima del 1554 sarà a Ferrara, presso Renata di Francia, di cui sarà anche elemosiniere e con la quale ebbe certamente una consonanza sui problemi religiosi, tanto da essere poi da qualcuno ricordato come "quello che sedusse Madama di Ferrara".
Al momento in cui avvenne la dispersione del circolo calvinista ferrarese, il C. fuggì (lasciò la città il 22 marzo) prima nei Grigioni (fu a Chiavenna, Poschiavo, Caspano), poi a Ginevra. Secondo le informazioni della Curia romana, a Ginevra, nel 1555, il C. avrebbe ricevuto la missione di ritornare in Italia, per esortare Renata di Francia a persistere nella fede riformata. Il suo arrivo fu segnalato al duca di Ferrara; perciò arrestato, non sappiamo in quali circostanze, il C. venne consegnato all'Inquisizione e condotto a Roma.
Del processo romano una parte ci è rimasta (gli interrogatori dell'11 e 12 ottobre): ed è un testo di grande interesse per le molte importanti notizie che contiene sul mondo ereticale italiano ed in particolare sul circolo di Renata.
Probabilmente il C. partecipò da spettatore alla pubblica abiura di 12 inquisiti che si tenne il 14 giugno 1556 alla Minerva; e il giorno successivo, impenitente, dopo aver dichiarato "che moriva per la gloria di Dio" venne prima impiccato e poi bruciato in Campo dei Fiori, riuscendo, non sappiamo per quale motivo, a evitare di essere bruciato vivo, nonostante non avesse abiurato i suoi presunti errori.
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