AMBROGIO da Paullo
Cronista, nato intorno al 1470, e autore d'una narrazione, in volgare, dei fatti riguardanti lo stato di Milano dal 1476 al 1515. Era di professione fattore nelle tenute della casa ducale e risiedeva abitualmente a Paullo, borgo agricolo presso Milano, sulla strada per Crema. È dalla cronaca, e solo da essa, che si possono ricavare alcune notizie sulla sua vita. Lo troviamo dapprima in Asti, con mansioni non precisate, nell'aprile 1498. Nell'agosto 1499, durante l'invasione francese, aiuta un gruppo di donne e bambini paullesi a rifugiarsi a Lodi. Ai primi di febbraio 1500 è a Milano, dove annota le vicende di quei giorni tumultuosi: le discussioni dei gentiluomini a palazzo ducale, la rivolta antifrancese del popolo, la partenza di Gian Giacomo Trivulzio, le entusiastiche accoglienze fatte a Ludovico il Moro al suo rientro in città. Il 10 aprile successivo è presente nel campo del Moro ed è coinvolto nel suo sfacelo. Rifugiatosi a Milano, passa un periodo prigioniero dei Francesi, come garante d'un suo fratello. Negli anni dal 1501 al 1508 deve aver atteso al suo abituale lavoro a Paullo, con frequenti viaggi fino a Milano. Nel 1509 si mette al seguito dell'esercito francese che muove in campagna contro i Veneziani, e assiste abbastanza da presso alla battaglia d'Agnadello (14 maggio), della quale ci dà una descrizione. Si può pensare che fosse addetto al vettovagliamento. Il 30 maggio assiste alla presa del castello di Peschiera.
Tornato a casa, la lascia nuovamente nel 1511 per trasferirsi nel Cremonese "a la corte de madona per fatore de quella possessione, quale era grandissima imprexa'' (ed. Ceruti, p. 260). Si tratta, crediamo, della località chiamata oggi Corte Madama, a circa 4 km da Castelleone, il borgo fortificato della zona. A. fu costretto a lasciare il luogo in seguito a una pericolosa avventura occorsagli nel giugno 1512, quando un certo Gian Giacomo Belloni, che aspirava a diventare signore di Castelleone, donde era stato espulso dalla parte ghibellina (sforzesca), vi rientrò a capo d'un gruppo d'armati e per vendicarsi si mise a saccheggiare i beni della camera ducale. Era il momento in cui le truppe venete e svizzere, agli ordini del cardinale legato Matteo Schiner, inseguivano i Francesi in ritirata. Salvatosi a stento, A. seguì appunto quelle truppe, che si stanziarono a Pavia e in Lomellina. Anche questa volta è probabile che fosse addetto al vettovagliamento, perché lo vediamo seguire ancora l'esercito veneto nel suo ritorno attraverso il Cremonese. Con la restaurazione della casa sforzesca, in persona del duca Massimiliano, A. riprende il suo normale servizio a Paullo, e si adopera anche attivamente per proteggere i suoi concittadini oppressi dalle esazioni fiscali e dal continuo passaggio degli eserciti. Non si hanno di lui notizie oltre l'8 luglio 1515 che è il punto d'arrivo della cronaca.
A. mostra di possedere un certo grado di cultura classica, anche se nulla rivela in lui l'umanista esperto; la sua prosa italiana procede faticosamente e senza eleganza, molto legata ancora alle forme dialettali. E tuttavia egli ha velleità letterarie e scrive perfino versi, guardando a Dante e Petrarca come modelli. Opera sua è un carme elegiaco in terzine su Ludovico il Moro, intercalato a tratti nella narrazione cronachistica, e così pure una "barzelletta" in trentacinque strofe e altrettanti ritornelli, che descrive le calamità occorse nell'anno 1505. Ma s'intende che A. interessa soprattutto come cronista. Uomo pratico, la sua attenzione si volge ai fatti concreti, alle cose viste; non pochi sono gli avvenimenti sui quali porta una testimonianza diretta, con abbondanza di particolari. La sua cronaca quindi ha fornito, e molto più potrebbe fornire, integrazioni alla storia di quei tempi: certi fatti locali, gli eventi climatici, l'andamento delle colture, i prezzi dei prodotti agricoli, le feste e le cerimonie sono da lui seguiti con particolare cura. Per quanto riguarda la grande politica, A. non è certo in grado di fornire notizie di prima mano; e tuttavia i suoi racconti e giudizi di semplice "uomo della strada", che vive in mezzo al popolo e ne conosce bene le miserie e le aspirazioni, sono spesso indicativi della mentalità e dello stato d'animo della gente comune. Il suo giudizio sulla classe aristocratica del tempo è molto severo: per l'egoismo e la faziosità dimostrati, essa è la principale responsabile delle sventure d'Italia; tuttavia ad essa spetta sempre il privilegio del comando. Il popolo, cui spetta obbedire, ha però diritto d'essere governato con giustizia e di vivere tranquillo. Ludovico il Moro, che ha oppresso i sudditi con ogni sorta d'arbitri e di violenze, è severamente condannato; tuttavia A. rimane in fondo sempre devoto alla dinastia sforzesca, che è chiaramente, anche se non esplicitamente, preferita alle signorie straniere o forestiere (soprattutto veneziana). Il sentimento nazionale, o per meglio dire il patriottismo milanese, è senza dubbio presente in A., ma in ogni caso è assai meno forte dell'istanza sociale, che lo porta a partecipare profondamente alle sofferenze del popolo e ad afferma me con energia il diritto, fondamentale e pregiudiziale, a una vita ordinata e tranquilla.
Bibl.: A. Ceruti, Cronaca milanese dall'anno 1476 al 1515 di maestro A. da P., in Miscell. di storia ital., XIII (1871), pp. 91-378, con ed. della cronaca; G. Martini, Note biografiche e critiche su A. da P. cronista del primo Cinquecento, in Acme (Annali della Fac. di fil. e lett. dell' Univ. di Milano), X (1957), pp. 95-125.