DI NEGRO, Ambrogio
Nacque a Genova nel 1519, figlio di Benedetto.
Il padre apparteneva al ramo dei Di Negro di Banchi, antica famiglia di nobiltà cittadina, impegnata nelle attività commerciali e imprenditoriali, e aveva raggiunto nei primi anni del Cinquecento alte cariche nell'amministrazione del Comune (fu anziano nel 1516 e nel 1527); può forse essere significativo, per spiegare successivi atteggiamenti politici del figlio, ricordare come Benedetto partecipasse nel 1525 al famoso giuramento in cui ci si impegnava per l'"unione e libertà" della Repubblica (che fu raggiunta solo nel 1528).
Scarse sono le notizie per il periodo giovanile del D.: sappiamo solo, da un appunto autobiografico lasciato su un libro mastro, come fosse emancipato nel 1541; mentre dalla premessa ad una raccolta manoscritta delle sue poesie risulta che nel 1543 si trovava in Borgogna al seguito di Laura Riario.
Ritornato brevemente a Genova nel 1546-1548, iniziò ad operare nel settore finanziario, attività che nel breve volgere di un decennio ne fece un uomo ricco: un'esperienza che ne segnò il carattere per il resto della vita. Secondo la testimonianza di Marco Gentile, infatti, il D. era "nato nobile, benché povero gentilhuomo", ma "dalla fortuna" gli furono date "ricchezze". Chi, oltre alla fortuna, gli diede ricchezza furono senz'altro la Corona spagnola e il sistema creditizio internazionale, controllato in quel tempo dai banchieri genovesi. Già per il 1549-1550 sono rimaste tangibili testimonianze della sua presenza in Spagna, impegnato in attività di prestito sulle principali piazze economiche della penisola iberica (Siviglia, Medina del Campo, Valladolid). Da solo o in società con altri banchieri divenne uno degli interlocutori finanziari dell'amministrazione spagnola: insieme con Angelo Giovanni Spinola, con Costantino Gentile, con Cristoforo Centurione, con Giovanni Ambrogio Negrone, trattò e concluse asientos di rilevante entità.
Nel 1553 era ancora a Madrid; l'anno successivo lo troviamo a Genova, dove sposa Minetta Spinola, figlia di Giovanni Battista, soprannominato il Valenza. L'anno dopo ripartì nuovamente alla volta della Spagna e qui rimase in modo pressoché continuativo fino al 1559, spostandosi tra le piazze in cui si svolgevano le principali fiere di cambio, o al seguito della corte (nel 1558, ad esempio, è rimasta testimonianza di una sua presenza nei Paesi Bassi, quando la Repubblica fece temporaneamente riferimento a lui, in un momento di assenza del rappresentante ufficiale).
Nel settembre del 1559 era di ritorno a Genova dove, intrecciando la sua attività di finanziere con la partecipazione alla vita politica cittadina, rimase praticamente fino alla morte, tranne qualche missione diplomatica e un ritorno, in età avanzata, nella penisola iberica, di cui lasciò una viva testimonianza in uno dei suoi componimenti poetici.
Il successo economico e le vicende patrimoniali del D. sono state ormai in gran parte ricostruite: facendo centro su una accorta politica di investimenti nel campo finanziario e immobiliare, il D. riuscì a decuplicare il patrimonio nell'arco di circa un cinquantennio (93.000 lire circa nel 1554; più di un milione nel 1601, anno della morte). Se privilegiato resta il rapporto con la Spagna, sia attraverso la partecipazione ad asientos, sia con investimenti in titoli, si denota per altro, soprattutto nella seconda metà del Cinquecento, l'emergere di un forte interesse per il mercato italiano, con prestiti al duca di Firenze o a quello di Mantova (che ripianerà una parte del suo debito cedendo nel 1620 il feudo di Mombaruzzo alla nipote del D., Lelia Di Negro). Il D. diventò così uno dei più ricchi cittadini genovesi del suo tempo (era al ventiduesimo posto nella graduatoria dei tassati nel 1593).
Ma col ritorno a Genova nel 1559 si apre anche la stagione della sua carriera politica, carriera che presenta per altro caratteristiche abbastanza peculiari, nel senso che non seguì il cursus honorum tipico di molti patrizi genovesi, fatto cioè di molti e differenti incarichi in uffici centrali o nel governo del Dominio.
Nel settembre ritornò in città e nel dicembre entrò subito a far parte delle commissioni elettorali per la nomina dei senatori (di cui farà parte anche negli anni 1560, 1562-1565, 1567), cosi come in quelle per l'elezione del doge (1563, 1565, 1567) e in quelle per il conferimento degli uffici (1567, 1569): incarichi di brevissima durata (un giorno o due al massimo), ma che qualificano una presenza politica all'intemo del patriziato. Contemporaneamente ricoprì anche altri incarichi, non particolarmente onerosi, ma senz'altro di prestigio: nel 1560 fu chiamato a far parte degli Straordinari (nuovamente nel 1563 surrogando per breve tempo il fratello Giovan Francesco). Nel 1567 entrò nell'ufficio di Misericordia e nel marzo del 1569, sempre in qualità di membro di questo ufficio, partecipò alla rifondazione dei Monte di pietà.
Il terreno era ormai pronto per la sua nomina a governatore, che avvenne il 15 giugno del 1569: era ormai al vertice della Repubblica ed era cosciente della posizione di sue.;esse ormai raggiunta; in un raro appunto lasciato in uno dei suoi libri contabili troviamo, il 31 dic. 1569: "laudetur Dominus qui dignatus est ab annis citra in melius mea negotia vertere".
Segno tangibile della nuova collocazione sociale è un'accorta politica immobiliare: nel 1568 acquistò palazzo e botteghe nella zona tradizionale di insediamento dei Di Negro, piazza Banchi, e come egli stesso annotò "multuni sublimavi et sub unico novo tecto reduxi".
Se è difficile attribuire ad un personaggio unico la progettazione del palazzo, che ancora nel Seicento suscitava l'ammirazione del Rubens (questi ne pubblicò infatti la facciata nella raccolta dei palazzi genovesi), da alcuni riscontri in atti notarili e governativi si possono però ipotizzare come nomi di possibili architetti quelli di Bernardo Cantone e di Domenico Ponzello (attivi in quegli stessi anni anche per i palazzi di strada Nuova).
Contemporaneamente il D. si dedicò all'ampliamento e alla sistemazione della villa a Fassolo, subito fuori le mura cittadine (zona anch'essa di tradizionale insediamento dei Di Negro), villa che sarà nota per la ricca sistemazione del parco, con grotte, statue, peschiera, e per una Kunstkammer di cui è difficile dire quanto spetti al D. e quanto al figlio Orazio (illegittimo, nato nel 1566, e legittimato nel 1584).
Il D. infatti non era solo uomo d'affari e uomo politico: già il contemporaneo Gabriele Salvago ne parla come uomo di "ingegno e lettere"; l'unica testimonianza certa e diretta rimasta dell'interesse per le "lettere" sono un certo numero di componimenti poetici, che possono essere in gran parte ascritti al periodo giovanile, pur essendo un genere che continuò a coltivare anche in età avanzata.
Nel periodo della sua presenza nei Collegi (1569-1573) ebbe particolare cura dei problemi annonari, tanto che a questo ufficio venne successivamente rieletto alla fine del 1574, ma riuscì ad evitare l'incarico essendo stato precedentemente chiamato a far parte di quello dei poveri. Nel frattempo il dissidio all'interno del patriziato era venuto completamente alla luce, evidenziando la divisione tra nobili "vecchi" e "nuovi". Il D., pur appartenendo ad una prestigiosa famiglia della nobiltà "vecchia", prese una posizione di sostanziale neutralità nel conflitto, che gli fu aspramente rinfacciata da altri membri del patriziato come il Salvago o Marco Gentile ("volendo esser neutrale, presumendo per esser richo d'esser venerato da tutti"). E così se nel 1574 non gli riuscì di essere eletto sindacatore supremo, ciò avvenne invece nel gennaio 1575.
Con l'esplodere del conflitto nobiliare il D. si differenziò sempre più dagli altri nobili "vecchi": non solo non lasciò la città, ma, anzi, ricevette incarichi dal governo monopolizzato dai "nuovi". Nel maggio fece parte dell'ambasceria che doveva incontrare don Giovanni d'Austria (e ottenere che la flotta spagnola stesse lontana dal porto); nel luglio era tra coloro che imponevano i prezzi ai cambi. Partecipò poi personalmente (e discretamente) alle trattative per la riforma delle leggi; dalla corrispondenza di Giovan Francesco Mazza di Canobio con il cardinal G. Morone risulta evidente come il suo parere fosse particolarmente ricercato e apprezzato, anche perché rappresentava il parere di un personaggio eminente, ricco, legato alla Spagna, pur mantenendo una posizione indipendente e non faziosa. Non a caso fu posto nel primo bussolo del "Seminario", stabilito durante le trattative internazionali di Casale, da cui fu sorteggiato con la qualifica di procuratore nel 1579 (e nel 1582 venne nuovamente rimbussolato).
Nel 1584 fu nominato sindacatore supremo per la seconda volta; ma ormai, evidentemente, mirava più in alto. Se già nel 1575 si mormoraya sulle sue aspirazioni al dogato, si era raggiunta ora una situazione di tranquillità politica in cui l'operazione poteva essere portata a compimento. E l'8 nov. 1585, non senza contrasti, fu eletto doge.
Elezione "bonissima, essendo huomo di gran valore et esperienza", commentava Giulio Pallavicino. Ma se dobbiamo dar credito alle memorie di Antonio Roccatagliata, qualcosa mutò nel carattere del personaggio: "altiero e superbo", mentre prima era noto per la "domestichezza e la piacevolezza". Certo è che il suo fu un dogato difficile e in tempi difficili (mentre non fu certo un'"età neghittosa"): i problemi dell'ordine interno e della criminalità nobiliare spinsero il governo a coraggiosi coinvolgimenti del patriziato in tentativi di riforma della giustizia penale (anche se poi i risultati pratici non furono particolarmente significativi).
D'altro canto l'allineamento di buona parte dell'establishtnent (ivi compreso il D.) su posizioni apertamente e (spesso) piattamente filospagnole creò l'esca per screzi con Giovanni Andrea Doria, che spalleggiava il D., ma che era in conflitto con altri nobili "vecchi" come Stefano De Mari o Giovan Battista Spinola "Masone", i quali approfittarono del sindacato del D. alla fine del dogato, per cercare di metterlo in cattiva luce, come subalterno ai Doria e alla Spagna.
Il sindacato fu lungo e tormentato (e di esso il D. ci ha lasciato un'interessante testimonianza in una lettera latina indirizzata al prediletto figlio Orazio). Tra le accuse che gli furono rivolte ve ne è una particolarmente interessante, perché offre un ritratto verisimile del personaggio: "ha detto più volte anco in Senato che questo era Statto da opulenti et che conveneva haver rispetto a ricchi, e che li poveri cittadini doveano haver pacienza". Il che non si discosta molto da quanto scriverà lui stesso in un codicillo testamentario, laddove annota: "cum animadvertat Rempublicam parvifacere homines nobilissimos ob paupertateni et cos abiectos esse".
Ritornato a vita privata (ma pur sempre procuratore perpetuo, e come tale nel 1593 fu incaricato di sovrintendere alla costruzione di palazzo ducale), ebbe ancora qualche incombenza ma di carattere più che altro di rappresentanza, mentre continuò affari e attività per abbellire il palazzo di Banchi e la villa di Fassolo. Morì nell'agosto del 1601 e, come annotava G. Pallavicino con una punta di ammirazione, "lascia ad un suo figlio naturale più di scuti 300.000".
Opere: delle rime del D. è rimasto un codice manoscritto (Genova, Biblioteca civica Berio, ms. II.1.22) in cui sono stati raccolti versi composti in vari periodi, e di cui l'anonimo raccoglitore sottolineò "l'osservatione della toscana lingua". Alcuni sonetti furono stampati in Scelta di rime di diversi moderni autori. Parte prima, Genova, appresso gli Heredi di Gieronimo Bartoli, 1591, pp. 150-152. Versi latini, scritti in occasione dell'edizione di opere di U. Foglietta (Historiae Genuensium libri XII, Genuae, apud Hieronymum Bartolum, 1585, c. [5]r e De sacro jóedere in Selimum, Genuae, ex officina Hieronymi Bartoli, 1587, c. [A4]v), testimoniano un interesse per le lettere duraturo ben oltre le esperienze giovanili.
Fonti e Bibl.: Arch. di Stato Genova, Arch. segreto 817; Notai: Tommaso Vivaldi Costa, sc. 191, f. 2; Leonardo Chiavari, sc. 288, ff. 28, 29, 30; Niccolò Albara, sc. 235, f. 1; Sebastiano Ceronio, sc. 306, f. 1; Francesco Carexeto, sc. 319, f. 86; Gio. Andrea Monaco, sc. 331, f. 6; Domenico Tinello, sc. 385, ff. 19, 20, 26, 27; Gio. Agostino Morinello, sc. 436, ff. 3, 4, 5; Senato, Sala Senarega 1278, 1384, 1392; Senato, Sala Gallo 704; Manoscritti 63 (cc. 24v-25v, 44v-45r), 455, 494 (c. 218), 653 (pp. 1996-1997, 2213-2216); Genova Università, Fac. di Economia e Commercio, Arch. Doria, registri nn. 341, 342, 343, 344, 429, 567, e sc. 203, n. 1469, sc. 235, n. 1501; Ibid., Arch. stor. del Comune, Manoscritti 22, 237, 284, 299, 301, 312; Manoscritti Brignole Sale 109.D.4; Arch. segr. Vaticano, Segreteria di Stato, Genova, 4; Archivo general de Simancas, Estado, Genova, 1418; Genova, Biblioteca giuridica "P. E. Bensa" ms. 92.4.10: M. Gentile, Diario, pp. 79, 107, 377; Ibid., Bibl. Durazzo, ms. 46 (A.IV.2), cc. 7-10, Modena, Bibl. Estense, Fondo Campori γ.Y.4.14; Decisiones Rotae Genuae de mercatura, Genuae 1582, cc. 202v-203r; J. Furttenbach, Newes Itinerarium Italiae, Ulm 1627, pp. 217-218; R. Soprani, Li scrittori della Liguria, Genova 1667, p. 15; M. Giustiniani, Gli scrittori liguri, Roma 1667, p. 47; R. Soprani-G. Ratti, Vite de' pittori scultori ed architetti genovesi, Genova 1768, I, pp. 456-457; G. Ratti, Istruzione di quanto può vedersi di più bello in Genova, Genova 1780, pp. 365-366; F. Alizeri, Guida artistica per la città di Genova, Genova 1846, II, 2, pp. 1233-1234; N. Giuliani, Notizie sulla tipografia ligure sino a tutto il secolo XVI, in Atti della Società ligure di storia patria, IX (1869) pp. 169, 176, 193, 228; A. Roccatagliata, Annali della Repubblica di Genova, Genova 1873, pp. 66-73, 116-117, 162; F. Alizeri, Guida illustrativa... per la città di Genova, Genova 1875, pp. 561-562; G. Salvago, Lettere, in Atti della Soc. lig. di storia patria, XIII, 4 (1880), p. 892; A. Neri, Il duca di Mantova a Genova nel 1592, in Giorn. ligustico di archeol. storia e lett., XIV (1887), pp. 385-398; M. Bruzzone, Il monte di pietà di Genova, in Atti della Soc. lig. di storia patria, XLI (1908), p. 65; F. Poggi, Le guerre civili di Genova in relazione con un documento economico-finanziario dell'anno 1576, ibid., LIV, 3 (1930), p. 120; L. M. Levati, Dogi biennali di Genova dal 1528 al 1699, Genova 1930, I, pp. 189-202; R. Carande, Carlos V y sus banqueros, II, Madrid 1949, p. 173; III, ibid. 1967, pp. 342, 344, 346, 480, 494; O. Grosso, Dimore genovesi, Milano 1956, pp. 133-137; R. Pike, Enterprise and Adventure. The Genoese in Seville and the Opening of the New World, Ithaca 1966, p. 78; E. De Negri, Dei palazzi "mercantili" genovesi. A proposito del palazzo di A. de Negro a Banchi, in Boll. ligustico per la storia e la cultura regionale, XVIII (1966), pp. 47-63; E. Poleggi, Descrizione della città di Genova da un anonimo del 1818, Genova 1969, p. 183; M. Labò, I palazzi di Genova di Pietro Paolo Rubens, Genova 1970, pp. 224-227; Inventione di Giulio Pallavicino di scriver tutte le cose accadute alli tempi suoi (1583-1589), a cura di E. Grendi, Genova 1975, pp. 27, 66, 72, 79, 102-105, 161, 171, 184; G. Doria, Un pittore fiammingo nel secolo dei Genovesi, in Rubens e Genova, Genova 1977, pp. 18-27; E. Poleggi, Un documento di cultura abitativa, in Rubens e Genova, pp. 94, 112; G. Doria, Mezzo secolo di attività finanziaria di un doge di Genova, in Wirtschaftskräfte und Wirtschafiswege, I, Mittelmeer und Kontinent (Festschrift für Hermann Kellenbenz), Bamberg 1978, pp. 731-744; I manoscritti della raccolta Durazzo, a cura di D. Punculi, Genova 1979, p. 111; L. Magnani, Villa Rosazza (Lo Scoglietto), Genova 1978; C. Costantini, La Repubblica di Genova nell'età moderna, Torino 1978, pp. 136-143; L. Magnani, Uno "spazio privato" nella cultura genovese tra XVI e XVII sec., in Studi di storia delle arti, 1978-1979, pp. 120, 128, 352, 354-357, 360; L. Grossi Bianchi-E. Poleggi, Una città portuale delMedioevo. Genova nei secc. X-XVI, Genova 1980, pp. 181, 283, 291, 297, 309; Le ville genovesi, Genova s.d. (ma 19812), pp. 64-71; Gentia picta. Proposta per la scoperta e il recupero delle facciate dipinte, Genova 1982, pp. 176-177; L. Magnani, Tra magia scienza e "meraviglia". Le grotte artificiali dei giardini genovesi nei secoli X VI e X VII, Genova 1984, pp. 39, 49, 50.