TRIVULZIO, Ambrogio
– Figlio di Antonio e di Bianca Visconti, fratello di Erasmo (v. la voce in questo Dizionario), Giovanni e Giacomo, nacque a Milano verso la fine del Trecento.
Apparteneva a una importante famiglia milanese impegnata negli uffici pubblici e nei servizi ai signori di Milano, facoltosa nel patrimonio e dotata di feudi. Ebbe verosimilmente un’educazione distinta, coerente con il rango della famiglia. Ebbe un omonimo, coinvolto nell’assassinio del duca Giovanni Maria Visconti, ma non sappiamo se si trattasse di lui o di un parente.
Fu presto impiegato alla corte di Filippo Maria Visconti, mentre Erasmo era a capo dei corpi di esercito ducali. Non ebbe ruoli rilevanti in questi primi anni, se non come proprietario fondiario, nobile e cortigiano. Gli anni cruciali furono quelli seguiti alla morte di Filippo Maria Visconti. Molti dei Trivulzio si segnalarono tra i leader della Repubblica ambrosiana istituita nel 1447: in particolare il nipote Antonio del fu Giovanni fu uno dei principali fondatori del nuovo governo della ‘libertà’ milanese. Il ruolo di Trivulzio invece emerse soprattutto nelle fasi finali delle vicende ambrosiane, dal 1449, quando la configurazione politica del governo repubblicano subì un diverso orientamento, con l’ascesa di leader ‘popolari’.
Secondo lo storico sforzesco Giovanni Simonetta (ma anche secondo l’ambasciatore veneto Caroldo, che lo indica come ‘suprema autorità’), dietro il notaio Giovanni Appiani e il mercante Giovanni Ossona, i veri registi della convulsa fase popolare della repubblica furono – con il nuovo governatore Carlo Gonzaga – alcuni esponenti del ceto nobile, in particolare Trivulzio e Innocenzo Cotta. Il partito ‘guelfo’ da loro capeggiato fu assai condizionato dalle spregiudicate scelte di Gonzaga e di Francesco e Jacopo Piccinino, pronti a cambiare schieramento a seconda delle convenienze. Il nome di Trivulzio fu associato alle esecuzioni di illustri oppositori come Giorgio Lampugnani, Giovanni Caimi, Ambrogio Crivelli, Marco Stampa.
Nella successiva età sforzesca Cotta, ormai in esilio e poi assassinato da sicari, e Trivulzio (sottoposto a custodia nei castelli ducali) furono considerati i più irriducibili avversari del nuovo principe, mentre libertà diventava un termine vituperato e impronunciabile.
Nell’aprile del 1449 Trivulzio fu tra i Dodici di balìa della pace e guerra, un comitato di nuova istituzione; in maggio fu eletto priore e in luglio fece parte dei sindacatori dei leader ‘popolari’ di pochi mesi prima, ovvero Ossona, Appiani e Gabriele Taverna (accusati di indebite confische, malversazioni e persecuzioni). Il nome di Trivulzio compare poi più volte nei febbrili editti del settembre del 1449, quando la città era assediata dalle milizie sforzesche e si trovava in condizioni di grave emergenza.
I decreti riguardano materie primarie, come il divieto di vendere pane ai non cittadini, il ripristino di mulini dismessi, l’obbligo di portare lo strame dentro la città, nonché le misure di ordine pubblico per reprimere le dissidenze, vietare unioni e porto d’armi, punire i disobbedienti.
Trivulzio era parte di un triumvirato di ‘conservatori della città’, insieme al podestà Biagio Assereto e a Giorgio d’Annone, mentre era ancora governatore Gonzaga. Le nuove elezioni dell’autunno del 1449 segnarono il ritorno dei guelfi più estremisti: Ossona e Appiani, tumultuosamente liberati dal carcere, tornarono a comandare dentro la corte dell’Arengo. Si inasprirono le misure contro i dissidenti e si cercò di far pace con Venezia. Ma Francesco Sforza assediava la città e si avvicinava al suo traguardo, la conquista del ducato. L’episodio che segnò l’ultima parte della vita di Trivulzio ebbe luogo nel febbraio del 1450.
Nella città assediata dagli sforzeschi (cui si era alleato Gonzaga) e affamata, scoppiarono fra notabili e popolo tumulti e discordie (alimentate dagli emissari sforzeschi, che con trame segrete tentavano di convincere i cittadini ad accettare l’ascesa di Sforza al trono ducale, in quanto marito di Bianca Maria Visconti e abile capitano). Il 24 febbraio gli insorti, sottilmente sollecitati dagli agenti sforzeschi, riuscirono a penetrare nel palazzo. Fu trucidato l’ambasciatore veneziano Leonardo Venier, i capitani furono costretti alla fuga e il governo repubblicano si dissolse.
Appoggiandosi ai suoi sostenitori del quartiere di Porta Romana, Trivulzio si oppose dapprima alle offerte di negoziato con Sforza (mentre Antonio Trivulzio e Melchion Marliani, suoi nipoti, tentavano di indurlo a un atteggiamento più conciliante). Successivamente (26 febbraio), quando Sforza dopo aver ricevuto gli inviati milanesi diede un assenso di massima alle loro richieste e da Vimercate venne a Milano (dove contava di entrare pacificamente con l’assenso della maggior parte di nobili, notabili e popolo), Trivulzio organizzò barricate a Porta Nuova, radunò molte persone e gli sbarrò la strada. Con toni concitati, Trivulzio presentò poi un testo di un capitolato (probabilmente quello stesso che era stato discusso a Vimercate), dichiarando che avrebbe impedito a Sforza di entrare finché non l’avesse firmato. Alla fine la porta fu sgomberata e il condottiero fece il suo ingresso in città, trattenendosi per breve tempo in duomo e a casa Marliani. L’entrata solenne e il definitivo insediamento avvennero alcune settimane dopo (11 e 24 marzo).
Trivulzio fu punito, anche se con il solo obbligo di residenza in una sua ‘villa’ nei pressi di Lodi, grazie all’intercessione dei nipoti (come spiega il cronista Giovanni Simonetta). Ma già nel settembre del 1450 fu oggetto di una nuova inchiesta del duca (timoroso della riscossa dei guelfi e dei bracceschi), con l’accusa di aver ordito delle pericolose trame per far sollevare il popolo milanese.
Secondo i testimoni interrogati, Ambrogio e alcuni Trivulzio non meglio identificati avevano arruolato cinquecento «di soy vilani» per assaltare il duca mentre transitava tra Lodi e Milano, per catturarlo e dare lo Stato ai veneziani (Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, Potenze sovrane, 1585: interrogatori del capitano di Monza, 25 settembre 1450). Erano accuse generiche e anche gli accusatori non erano molto attendibili: probabilmente si voleva togliere di mezzo Trivulzio e impedirgli di prendere contatti con altri dissidenti, in particolare con Cotta che era fuggito in terra veneziana e con gli irriducibili seguaci di Piccinino.
Il 2 settembre 1450 Trivulzio fu condotto nel castello di Cremona e il castellano fu avvisato di tenerlo sotto buona custodia dato che si trattava di «homo molto sagace e astuto e che sa dire et fare» (Pisati - Visioli, 2016, p. 30). Poteva muoversi liberamente nella fortezza durante il giorno, ma doveva essere ben custodito di notte. In marzo e in luglio del 1451 ricevette la visita del nipote Marliani, che transitava per Cremona accompagnando il marchese di Mantova. Grazie alle sue preghiere e alle condizioni di salute non buone, nell’agosto del 1451 ebbe il permesso di muoversi più liberamente nel castello. Intanto il duca sollecitava la moglie di Trivulzio e i parenti a radunare una somma esorbitante, 15.000 ducati, a titolo di cauzione. Il regime di detenzione non era duro e talvolta gli fu concesso di ricevere degli ospiti: nel febbraio del 1452 era visitato dal genero Carlo Terzago. Alla fine dell’estate, però, venne formulata contro di lui un’accusa ben più grave, quella di aver cercato di prendere la città e il castello di Cremona per darli ai veneziani.
Erano accuse generiche e non ben documentate, né risulta che fosse istruito un regolare processo. Sembra improbabile che, detenuto a Cremona, Trivulzio avesse la possibilità di ordire trame pericolose. Bisogna dunque riportare la vicenda alle preoccupazioni di Sforza, impegnato negli accampamenti di guerra contro Venezia, per i tentativi di riscossa guelfa che si stavano scoprendo. Resta comunque una dettagliata confessione di Trivulzio, nella quale pare esprimesse tutta la sua ostilità verso il regime sforzesco. Nel settembre del 1452 Ossona e Appiani erano riusciti a liberarsi dalla prigionia nel castello di Monza, e per un momento sembrò che potessero minacciare lo Stato: ma furono presto catturati, Ossona fu ucciso, Appiani mandato in esilio. I Trivulzio continuavano a rappresentare comunque un punto di riferimento per i guelfi. Corse voce che i ghibellini volessero uccidere Antonio Trivulzio, capo della parte: ma fu probabilmente solo il pretesto per ordire una congiura di nobili e mercanti guelfi, che fu scoperta e duramente punita.
L’accusa di crimine contro lo Stato consentì al duca di sequestrare legalmente i beni di Trivulzio senza risarcimenti ai parenti e il relativo atto fu promulgato il 16 settembre 1452 dal campo di Quinzano. Trivulzio fu trasferito dalle comode stanze del castello di Cremona alla marza prisone del medesimo, con i ferri ai piedi, e ordini analoghi furono dati per altri nove prigionieri. Solo nell’ottobre del 1453, dopo una visita a Cremona del nipote Giacomello, che andava a Roma per un’ambasciata, il duca revocò il duro regime e all’inizio di gennaio del 1454, su viva istanza dei Trivulzio e del nipote Marliani, ordinò il trasferimento del prigioniero da Cremona a Pavia. Due anni prima erano intervenuti a suo favore, ma inutilmente, anche i parenti della moglie, i marchesi di Ceva e gli Scarampi.
I beni confiscati gli furono restituiti nell’aprile del 1453, ma restò custodito a Pavia con obbligo di pagare 2000 ducati d’oro, mentre altri 800 ducati gli furono abbuonati.
Solo nel 1455 Trivulzio fu assolto dall’accusa di tradimento e nel 1456 fu liberato dall’obbligo di risiedere nel castello di Pavia: dopo la Pace di Lodi era iniziato un periodo di maggiore stabilità per il nuovo Stato ducale e i timori di dissidenze si attenuarono. Morì nel 1461 verosimilmente a Milano o nella sua terra di Locate, dove aveva avuto il permesso di risiedere.
Trivulzio ebbe vari figli e figlie dalla moglie Eleonora dei marchesi di Ceva. Sappiamo poco di Giovanni, mentre Carlo e Gaspare furono cortigiani, feudatari ducali e poi maestri delle entrate del ducato. I matrimoni delle figlie furono orientati a nobili famiglie, Casati, Dugnani, Terzago (di area guelfa) e Vimercati.
Fonti e Bibl.: Archivio di Stato di Milano, Sforzesco, Potenze sovrane, 1585: interrogatori del capitano di Monza, 25 settembre 1450; Famiglie, 109; Reg. Ducali, 51, c. 129; Reg. Missive, 5, c. 104r, 10, cc. 74v, 115v (agosto-settembre 1452), 15, c. 165v (5 maggio 1453). Relazioni degli ambasciatori veneti al Senato, a cura di A. Segarizzi, II, Bari 1913, p. 20; Atti cancellereschi viscontei, II, 1, Milano 1920, ad ind., II, 2, 1929, ad ind.; G. Simonetta, Rerum gestarum Francisci Sfortiae commentarii, a cura di G. Soranzo, in RIS, XXI, 2, Bologna 1932, pp. 309, 338 s., 341, 343; B. Corio, Storia di Milano, a cura di A. Morisi Guerra, Torino 1978, pp. 1301, 1331, 1333; Acta libertatis Mediolani, a cura di A.R. Natale, Milano 1987, ad indicem.
P. Litta, Trivulzio, in Famiglie celebri italiane, IV, Milano 1820, tav. I; A. Colombo, L’ingresso di Francesco Sforza in Milano, in Archivio storico lombardo, XXXII (1905), 3, pp. 297-344 (in partic. pp. 326-342), 4, pp. 33-101 (in partic. p. 57); F. Cusin, Le aspirazioni straniere sul ducato di Milano, ibid., LXIII (1936), pp. 277-369 (in partic. pp. 284-289); S. Ferente, Gli ultimi guelfi. Linguaggi e identità politiche in Italia nella seconda metà del Quattrocento, Roma 2013, ad ind.; G. Pisati - M. Visioli, Il castello di Santa Croce di Cremona nei documenti di età sforzesca, Cremona 2016, ad ind.; M.N. Covini, Pro impetrandis pecuniis. Nove liste di prestatori milanesi del 1451, in Studi di storia medioevale e di diplomatica, n.s., I (2017), pp. 147-232 (in partic. pp. 148, 182, 224 s.).